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LA RECENSIONE
Waiting for Jan Fabre
sospesi fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti

di Monica Pavani

Avete presente quella scena di ‘Amleto’ in cui il Principe di Danimarca, trepidante e impaurito, aspetta che gli appaia il fantasma del padre per ascoltarne l’anima inquieta? O quando Dante discende nell’oltretomba, e deve affrontare il buio e l’orrore dello Stige, e le creature mostruose come Cerbero, il rabbioso cane a tre teste che si trova a guardia del terzo girone dell’‘Inferno’, se vuole incontrare i peccatori che gli stanno più a cuore? O ancora, le scene di tanti telegiornali in cui qualche creatura umana – munita di spirito eroico – si aggira per trarre in salvo chi è rimasto vittima di un disastro, di un incidente, di un tracollo o di un attentato?

Lo stesso brivido che coglie di fronte a quel proliferare di immagini a cavallo fra il mondo dei vivi e dei morti, non abbandona un istante chi assiste al meraviglioso spettacolo – presentato ieri e in replica questa sera, 14 dicembre, al Comunale nell’ambito della Stagione di Danza – ‘Attends, attends, attends… (pour mon père)’ di Jan Fabre, artista belga poliedrico e geniale. Il traghettatore Caronte, che nella Commedia dantesca trasporta le anime dannate, è il magnifico Cédric Charron (Charron è Caronte in francese), performer nato in Bretagna, che collabora con Fabre dal 2000, e per il quale questo imponente poema visivo è stato concepito.
Su una scena spoglia, volute di fumo si addensano e si diradano come i confini labili di un oltremondo, mentre il gondoliere – più che traghettatore – Charron, tutto vestito di rosso sangue, ma anche rosso amore, afferra brandelli di luce e ombra nel suo lunghissimo viaggio attraverso il tempo, più che attraverso lo spazio. La sua figura leggerissima e vorticosa è dominata da un impeto che spesso caratterizza gli interpreti degli spettacoli di Fabre: la disponibilità alla metamorfosi. Ogni istante sul palco è una rivelazione, un vissuto, un impulso, che Charron asseconda o contrasta. Diventa cane che latra, lupo che guaisce, amante lascivo, figlio addolorato, addirittura compagno di viaggio del padre: “Ti vedo, in piedi, in lontananza. Di spalle” – ripete più volte. L’infaticabile attesa e ricerca di un contatto con il la figura paterna (o patriarcale, o divina) va di pari passo con la scoperta di un tempo che trascende il quotidiano, dove gli istanti sono scanditi dal perpetuo ‘canto del desiderio’.

La consistenza fisica di Charron è data dalle parole, dal bellissimo testo che muove letteralmente gli agili arti del danzatore – intriso di rimandi a Shakespeare, a Beckett, e amplificato dagli echi di tanta poesia francese (pare di sentire anche Yves Bonnefoy che trapela tra i vapori bianchi che agitano la scena). Il performer è avventuroso, provocatorio e a tratti diabolico, ma contemporaneamente aleggia come un angelo estatico su cui si consuma e viene agito il mistero della creazione.
Fra il Padre spirituale (Fabre) e il Figlio (Charron) si tesse un dialogo intimo e vastissimo incentrato sull’intensità della vocazione artistica portata fino in fondo, come emerge anche dall’incontro con Charron che segue lo spettacolo. ‘Attends, attends, attends… (pour mon père)’ in sostanza mette in scena l’indugio necessario di chi si sente chiamato alla guerra pacifica per la conquista della bellezza. E dunque è disposto a spogliarsi di sé, a sprofondare negli abissi distruttivi e creativi del proprio animo, inoltrandosi al cospetto di forze immense, sulfuree e impercettibili, ma così dirompenti.
Un’ora (di spettacolo) passa come un’era, e ci si ritrova – immobili e rapiti – a provare nostalgia per quel restare in attesa – in attesa, in attesa… – dello svelarsi del mondo di Jan Fabre.

La foto di copertina e di Marco Caselli Nirmal

Stranezze dal Giappone: c’è una bicicletta Bianchi in strada

Tutte le cose hanno una memoria. Noi la riconosciamo e l’interpretiamo. Così Remo Bodei si affianca all’idea giapponese del valore delle cose. Non è un valore puramente economico, ma principalmente personale. La scelta di una cosa è dettata dalla nostra memoria culturale, da significati estetici e tecnici. Considerando che la scelta delle cose è riflesso della nostra personalità, le cose acquisiscono valore personale. Se c’è rispetto per la persona, c’è anche rispetto per le sue cose.
Fuori dalla vetrina di una pasticceria giapponese a Tokyo vedo una straordinaria bicicletta Bianchi. Alta tecnologia su due ruote, telaio speciale, di un bel mite azzurro tradizionale. C’è anche la borraccia, forse la stessa che nel 1952 si stavano scambiano Coppi e Bartali nella famosa tappa Losanna-Alpe d’Huez, sul passo del Galibier, del Tour de France.
Tutti le passano davanti, tutti forse l’ammirano, ma nessuno la tocca.
Perché mi deve sembrare strano?

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Stranezze del Giappone: antica tradizione e moda occidentale a braccetto

PER CERTI VERSI
La mostruosa contorsione dell’identità padana a tutto tondo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

I BAMBOLOTTI NERI

il profondo Nord
è così profondo
da andare in asfissia
facendosi scudo
con una gretta ideologia
che sottointende
l’esistenza di una sola etnia
quella bianca autoctona
e così i suoi figli
devono rispecchiarsi
fin dall’asilo
nel Tagliamento
o nel Timavo
con le bambole di pelle chiara
e così ogni figliolo bravo
che sia ospite
del Nord profondo
e del suo rude vento
a Codroipo la tara
dell’ignavo consiglio comunale
ha deliberato in maggioranza
questa mostruosa contorsione
dell’identità padana a tutto tondo

 

 

MANCA POCO A QUESTO MONDO

Tu sei l’arpa delle mie costole
Come le pizzichi
Cantano le arie
Nella sala del cielo
E mi sollevi
Come fossi una rondine
E le tue dita
Di asfodelo
Sono lievi
Sul torace
Che vibra
Allora
Una musica
Soave
Mi ricordo tutto
Persino il Piave
Che con un filo di voce
Mormora che resta poco
A questo mondo
Tu mi raggiungi
E noi voliamo
A me
Con un bacio
Ti congiungi

Verso le elezioni. Bernabei apre il confronto: “Voglio una città forte e gentile, nel rispetto dei diritti e dei doveri di tutti”

“Ci sono. E mi pongo prima di tutto in ascolto: aperto al confronto e attento a ogni voce”. Così Fulvio Bernabei scioglie le riserve, dopo un tam tam alimentato in questi mesi dalla stampa cittadina, e dichiara la disponibilità a candidarsi a sindaco di Ferrara, con una lista civica al momento ancora da costruire.
“Prima bisogna incontrarsi, parlare, discutere e insieme definire le priorità, i problemi e le appropriate soluzioni”. L’ascolto e la riflessione, però, sono già da tempo avviati. E la cornice valoriale c’è ed è imprescindibile. “La Costituzione è il primo riferimento, meravigliosa sintesi di tutti i valori in cui credo e che vorrei portare al centro dell’agire pubblico. I principi che mi guidano impongono uno stop alle rendite di posizione, ai favoritismi, alle raccomandazioni. La mia testa resta sempre solidale e rivolta agli ultimi della fila”. E, non a caso, Bernabei cita papa Francesco come la personalità più importante e influente dei nostri tempi.

Di sé, dice: “Non sono uno a cui la vita ha riservato il posto in prima fila, né in seconda, né in terza: solo posti in piedi… So bene, dunque, cosa significhino il sacrificio e il duro lavoro perché ciò che ho me lo sono guadagnato. Mi candido con spirito di servizio, forte di questo mio vissuto. Ferrara l’ho scelta – aggiunge – sono arrivato qua nel 2004, dopo avere girato 13 città, e me ne sono innamorato”. Per otto anni è stato comandante della Guardia di Finanza, nel 2012 è stato trasferito a Pordenone e successivamente a Roma, ma ha continuato a vivere a Ferrara, “in zona Gad” – sottolinea – con la famiglia. “La nostra città deve ritrovare l’orgoglio di sé stessa. Voglio confrontarmi e capire le speranze, i sogni, le paure della gente in carne ed ossa, voglio ragionare di cose pratiche, concrete, della vita reale, non di quello che ci viene mostrato attraverso i monitor della tv”.

“In questi ultimi tempi – racconta – mi è capitato di assistere alle riunioni dei ragazzi della ‘Città che vogliamo’: mi è parsa una preziosa finestra da cui entra aria nuova. E’ stato presentato un manifesto bellissimo che individua obiettivi e criticità e indica soluzioni concrete prendendo spunto dagli esempi migliori realizzati nelle città europee. È l’atteggiamento giusto di chi vuole reagire alle difficoltà in maniera positiva, per cambiare in meglio. Assistiamo invece, a livello politico generale, a mille strumentalizzazioni e vediamo tanti, anche ai vertici delle istituzioni, che calpestano i valori della democrazia. La politica deve ritrovare la gentilezza e la mitezza – aggiunge – che non significa debolezza, tutt’altro: chi è mite è tale perché è forte e consapevole delle proprie capacità”.

Bernabei mostra insofferenza per la mancanza di rigore e di serietà nel dibattito pubblico. “E’ un’epoca, la nostra, in cui verità e menzogne si mescolano facilmente. Dobbiamo avere chiaro che il rispetto della verità dei fatti è il presupposto e la premessa logica a ogni ragionamento. Poi sulle soluzioni si possono legittimamente nutrire opinioni diverse, ma non si può prescindere da una seria analisi della realtà”.

Sulla incandescente questione dei migranti – che orienterà il voto anche di tanti ferraresi – mostra di avere le idee chiare: “C’è un dovere di accoglienza, ma c’è anche una corrispettiva responsabilità di chi è accolto, ed è il rispetto delle leggi: su questo non si può transigere!”. Il criterio dirimente è quello indicato da Don Milani: “Amici sono le persone perbene, nemici coloro che perbene non sono”. Vincoli di legge, vincoli etici, vincoli di bilancio sono i punti cardinali che condizioneranno i progetti e scelte: “Sono i riferimenti con cui ogni serio amministratore dovrebbe sempre fare i conti”.

“Entro in punta di piedi – aggiunge – non voglio insegnare nulla a nessuno: ho le mie idee ma sono pronto a rivederle: il confronto serve a questo. Voglio anche essere chiaro su un altro aspetto: non posso assicurare che ogni volta in cui mi troverò sul dischetto del rigore riuscirò a fare gol, ma posso garantire che ci metterò sempre il massimo dell’impegno. L’importante è saper imparare, anche dagli errori, e chiedere scusa per poi correggere il tiro”.

I temi scottanti? “Sicurezza, lavoro, ambiente, investimenti. Bisogna anche ricostruire le reti sociali che la paura ha infranto, per contrastare la solitudine che oggi condiziona la vita di tanti individui”. Sul tema della sicurezza, molto caldo “serve un impegno concreto, senza tentennamenti, un controllo adeguato, il rigoroso rispetto della legge e un maggiore coordinamento fra tutti i soggetti coinvolti nel contrasto alla criminalità”.

Lo sguardo su Ferrara prende spunto “dalla tragedia Carife, che ha significato per migliaia di risparmiatori la perdita dei risparmi di una vita. La città ha vissuto e sta vivendo tuttora le conseguenze. Si doveva fare di più per evitare questo dramma e si deve alzare la voce quando la crisi economica morde le imprese, piega i lavoratori e sbanca il commercio”.

Sarà necessario anche “continuare l’opera di recupero dei monumenti, delle piazze, delle vie e del patrimonio urbano di questa magnifica città. Favorirne la vocazione turistica. Bisogna rafforzare i servizi pubblici e intervenire nelle periferie. Fondamentale poi è porre al centro l’Università, perché è la fucina del sapere nella quale si forgiano i nostri giovani e dalla quale escono gli artefici del futuro”.

Nell’incontro con la stampa sono emerse, ovviamente solo alcune idee dalle quali questo non convenzionale candidato sindaco intende partire e avviare il confronto. “Apertura” è il suo mantra: “La nostra civica deve superare gli steccati ideologici e favorire l’incontro anche fra chi ha idee e posizioni diverse. Penso a una città bene organizzata che guardi avanti e non al passato, che coinvolga, ascolti e renda protagonisti i giovani; una città che vogliamo consegnare ai nostri figli ricca di potenzialità e non di macerie”.

“Io ho scelto di vivere a Ferrara e di restare qua: questa è la ragione e la radice del mio impegno. Vedo che la città che ho conosciuto 15 anni fa ha perso progressivamente considerazione di sé. E’ tempo di ritrovare l’orgoglio e l’entusiasmo. Oggi bisogna rilanciare la qualità della vita urbana senza snaturare l’identità cittadina: Ferrara deve tornare ad essere la città gentile, forte, accogliente e rispettosa che mi ha conquistato”.

Si riparte dai valori, dunque. “I programmi vengono dopo, in un secondo momento: saranno definiti coerentemente con quelli che sono i principi e gli obiettivi che dovranno orientarli. Le soluzioni si troveranno insieme, ora cerchiamo di individuare i problemi, le opportunità e definire le priorità”.

Infine, una riflessione personale: “Io non ho padroni né padrini: mi rendo conto che questo può rappresentare una debolezza nel momento in cui si va ad affrontare una campagna elettorale che certamente avrà dei costi non trascurabili. Per farvi fronte penso a forme di autofinanziamento trasparente, come per esempio il crowdfunding. Ma questa mia condizione rappresenta anche una grande forza: significa poter agire davvero liberi, senza il peso e il condizionamento di alcuna lobby e di alcun potentato”.

Un ferrarese fra le stelle

L’atterraggio su Marte del lander sonda InSight della Nasa, che dovrà studiare l’interno del Pianeta Rosso, è avvenuto con successo tra il plauso in diretta del mondo intero, dopo il fallimento di numerose missioni e con costi finanziari considerevoli. Un’impresa che va a confermare l’umana brama di scoperta, la necessità di spaziare oltre il conosciuto, il bisogno di risposte su forme di vita extraterrestri o universi paralleli o, in termini molto più speculativi, nuovi spazi da colonizzare.

Tra i nomi di coloro che si dedicarono allo studio dell’ignoto, sfidando nei tempi passati l’ostracismo dei contemporanei, l’indifferenza e lo scetticismo dell’opinione pubblica e l’ostilità del mondo scientifico, c’è anche quello di un ferrarese, Alberto Perego, il Console che negli anni Cinquanta, quando iniziò a occuparsi di questi studi, svelò ciò che aveva appreso sull’esistenza e la presenza degli Ufo, in un’epoca di pregiudizio e chiusura su un fenomeno neonato agli albori. Un antesignano nell’osservazione dei fatti e nello studio di questa materia; il ritratto, a modo suo, dell’indagatore tenace e coraggioso nel periodo storico controverso del Dopoguerra e della Guerra fredda, dove sospetti, ombre e giochi di potere dominavano la scena. Non è un caso che in uno dei suoi libri, Perego manifestasse la sua convinzione che dovesse esserci una relazione tra le date in cui si verificavano gli avvistamenti misteriosi e gli eventi politici mondiali, in quel contesto storico di grande tensione militare tra Usa e Urss.

Alberto Perego nasce a Ferrara nel 1903, si laurea in giurisprudenza e intraprende la carriera diplomatica in piena riforma mussoliniana, che potenziava gli incarichi del corpo diplomatico, lasciando però svincolata la diplomazia dall’apparato politico e amministrativo nazionale. Si susseguono i viaggi e soggiorni di rappresentanza all’estero: Brasile, Urss, Cecoslovacchia, Santa Sede, Ungheria, Tunisia, Romania. Riceve direttamente da Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, la nomina di console generale a Singapore, dove Perego prende parte a una vera e propria operazione di intelligence nella sottrazione dei documenti riservati dalla base inglese di Singapore, a beneficio dei giapponesi. Una vita avventurosa, quindi, in tempo di guerra, non priva di vicende a tinte noir, come il coinvolgimento di Perego e sua moglie nel caso di Ettore Grandi, suo amico diplomatico, accusato nel 1938 di aver assassinato la sua giovane compagna Vincenzina Virando, sposata da appena da cinque mesi. Il Console continuerà a difendere l’amico in un percorso penale che durerà tredici anni.
La carica diplomatica termina con la fine della guerra, con i processi e le epurazioni, istituiti dalle commissioni antifasciste, in un quadro politico nazionale ormai mutato. Nel cambiamento generale, la vita di Perego trova altri risvolti e l’ormai ex console assumerà le mansioni e i ruoli professionali più disparati.

E’ proprio qui che comincia la sua inconsueta avventura umana che lo condurrà alla scoperta di tematiche mai considerate prima. Quando si ritrova a essere testimone diretto di una serie di esperienze riguardanti gli Ufo, racconta la sua biografia, tutto il suo scetticismo e le sue certezze pragmatiche di uomo realista vengono sradicati, lasciando il posto a curiosità e voglia di approfondimento. Nel suo libro-inchiesta ‘Gli extraterrestri sono tornati’ egli afferma di aver assistito all’aviazione elettromagnetica da altri pianeti per ben 56 volte in Italia, 8 in Sardegna, 5 in Corsica, 3 nello stretto di Suez, 1 a Panama, 1 Australia, 2 Brasile. Il 1954 è un’annata eccezionale senza precedenti in fatto di avvistamenti nel nostro Paese e Perego ricorda in particolare il verificarsi di uno di questi a Roma, quando si trovò in presenza di “una macchina volante della forma insolita e dal comportamento rivoluzionario”. Un avvistamento straordinario a cui assistette molta gente, un gioco di movimenti nel cielo sopra il Vaticano, che confluì nella figura di una grande croce greca in soli 3 minuti, per poi sparire. “Da dove vengono? Cosa vogliono? Mi propongo di rispondere a questi interrogativi. A me interessa relativamente conoscere la struttura di questi apparecchi. Non compete a me questa indagine. Mi interessano però le ripercussioni politiche della presenza di questa aviazione intorno alla terra”, scriveva.

Alberto Perego raccoglie e studia in quegli anni tutto il materiale disponibile sull’argomento degli oggetti volanti non identificati, confrontandosi con studiosi stranieri, pubblicando anche ricerche, rapporti, dossier, rivolgendosi e facendo pressione in Parlamento, affinchè questo tipo di studi venga preso seriamente in considerazione. Nessuna forza politica, di fatto, se l’è sentita di assumersi l’onere di affrontare istituzionalmente e fattivamente il problema. “Tra circa trent’anni la popolazione della terra sarà raddoppiata. Come è possibile pianificare, prevedere, decidere se non si ‘vuole’ considerare che non siamo ‘soli’ nell’Universo? Come si può parlare di disarmo atomico se non si ‘vuole’ sapere che un’aviazione esterna ci controlla?”, scriveva come replica Perego. Lo studioso fonda a Roma nel 1958 il Cisaer, Centro Italiano per gli Studi dell’Aviazione Elettromagnetica, con lo scopo di studio e divulgazione delle scoperte e del materiale prodotto; un progetto che lo tenne impegnato per oltre tredici anni, tra enormi sacrifici economici e personali e contò sull’adesione di un centinaio di corrispondenti in tutto il mondo, e sulla collaborazione di studiosi, ufficiali delle forze armate, giornalisti e semplici cittadini. Alberto Perego si dedica in solitudine ai suoi studi anche negli ultimi anni prima della sua morte nel 1981, esasperato e incompreso per le sue teorie forse troppo avveniristiche. Un pioniere che anticipa e precorre i tempi, un animo libero che ha saputo guardare oltre l’attualità e che non ha raccolto tutto ciò che si aspettava; un esempio, nel suo modo di pensare ed agire, di modernità e libertà intellettuale.

Possiamo aderire o meno alle ipotesi o convinzioni di Perego e numerosi altri studiosi, accogliendo o respingendo interpretazioni ed elaborazioni sul tema, ma accanto alle definizioni di ‘idealista’ e ‘utopista’ che gli sono state attribuite nel corso della sua vita, rimane il fatto che fu un uomo coerente che seppe mettere in discussione certezze andando controcorrente in tempi storici di staticità e supponenza.

Elezioni a Ferrara. Candidato Sindaco: il carro davanti ai buoi

L’assessore spallino Modonesi o il colonnello della Guardia di Finanza Bernabei? La novella ex pd Fusari o l’avvocato Giubelli? Uno di partito (leggi sempre Pd) o uno che con il partito non c’entra per niente? L’appuntamento elettorale è ancora lontano ma la Ferrara non-leghista sembra totalmente assorbita dalla ricerca di un capolista ideale. Il nome dovrà essere molte cose assieme: uno (o una) conosciuto, credibile, inclusivo, competente. Possibilmente simpatico e attrattivo. Sperabilmente vincente. Di settimana in settimana, la stampa locale registra le nuove candidature, o mezze candidature, o quasi-candidature: ‘Se proprio insistete… potrei candidarmi io…’. E assieme al totonomi, arrivano puntualmente i veti incrociati, i siluri per affondare questa o quell’aspirante sindaco. Non è propriamente una novità, anzi, era una legge aurea che vigeva nella vecchia Democrazia Cristiana: se ti esponi troppo presto, verrai prontamente impallinato.
Certo, il problema del candidato esiste. Anche un uomo fuori da ogni logica di partito come Daniele Lugli, un grande amico e che, come tanti, reputo carico di esperienza e di saggezza, sembra convinto della necessità e soprattutto dell’urgenza di individuare un nome unico su cui far convergere il voto di una unica – o di più liste – che si opporranno alla nuova Destra. Capisco bene questa preoccupazione ma credo sia lecito chiedersi se sia questo il modo giusto per approcciarsi alla scadenza elettorale.
Ma lasciamo perdere il giusto o il non giusto (sembra che in politica sia un concetto molto relativo); riformulo la domanda: è proprio vero che la possibilità di contendere alla Destra il governo di Ferrara dipende – totalmente o in massima parte – dal trovare un super-capolista? Che per vincere l’unica vera cosa che conta è azzeccare il numero (il nome) giusto al lotto?
La risposta, almeno in questo caso, è no. Avere in testa come prima preoccupazione il candidato salvatore della patria non solo è ingiusto (e le idee, e i programmi?) ma è anche sbagliato. Una strategia perdente: con questa idea fissa, è il mio modesto parere, la Sinistra rischia di perdere subito, al primo turno. Provo a spiegare il perché.
1. La prima ragione è lapalissiana. Se la Ferrara democratica e progressista non ha ancora trovato nessun “candidato forte”, nessun “nome noto”, nessun super-aspirante-sindaco con tutte le caratteristiche di cui sopra, sorge un legittimo sospetto: magari una figura del genere non esiste proprio. Ma allora perché la caccia a questo rarissimo (o forse estinto) “animale” continua ad essere al centro dei pensieri di tutta la nostra classe politica? Non sprechiamo così tempo prezioso? Non sarebbe meglio occuparsi d’altro?
2. Visto che Ferrara non sta in un’altra galassia ma è una città del Belpaese e del continente Europa, visto che le amministrative di maggio si terranno in assoluta coincidenza con le elezioni europee, visto che i legami di appartenenza degli elettori si sono allentati (la chiamano volatilità del voto), visto lo strapotere dell’informazione/disinformazione e dei social in particolare. Visto tutto questo, l’esito del voto a Ferrara sarà condizionato per il 70 o 80% dal clima politico nazionale. L’Emilia rossa è morta da un pezzo, lo zoccolo duro è diventato poco più che una pantofola, quindi la maggioranza dei ferraresi voteranno all’incirca come votano tutti gli altri italiani del Centro Nord. Ma allora, non sarebbe il caso di mettere al centro del dibattito cittadino, e quindi anche della campagna elettorale, i grandi temi che dividono oggi l’opinione pubblica? Cittadinanza, Diritti, Lavoro dignitoso, Uguaglianza, Accoglienza…
3. Ma i cittadini di Ferrara, almeno una parte di loro (il 20, il 30%, io spero di più), non voteranno solo seguendo la grande onda mediatica, ma guardando alla Ferrara concreta, quella che vivono ogni giorno. E aspettano idee, obiettivi, proposte per la Ferrara futura. Una parte non trascurabile dei ferraresi – se almeno abbiamo un minimo di fiducia nelle capacità e nella ragionevolezza dei nostri concittadini – non guarderà a questo o quel candidato ma aderirà con il voto a un programma e a una speranza di una Ferrara migliore.
Per buona sorte, sono davvero tanti i ferraresi che stanno cercando di “invertire la piramide”: invece di partire dalla cima (il candidato sindaco) stanno costruendo dal basso, dalla base, mattone dopo mattone. Censendo i bisogni inevasi, rispondendo alle attese, elaborando idee guida ed obiettivi concreti per una Ferrara coraggiosa, moderna, democratica, accogliente. Da questo “laboratorio diffuso” – questo è almeno il mio auspicio – emergerà un programma coerente e convincente, quindi una grande lista civica democratica e di sinistra. Verrà allora il tempo di pensare al candidato sindaco e alla squadra di competenze che dovrà supportarlo. Ma questo dopo, non prima; per non mettere come sempre il carro davanti ai buoi.

Strike back, il ritorno sul palco della band ferrarese

E’ partito il 3 dicembre il crowdfunding per sostenere “Tutto da rifare” il nuovo album degli Strike, storico gruppo musicale ferrarese, divenuto celebre in Italia e all’estero.
Nati nel 1986 come ska band, gli Strike hanno attraversato diverse mutazioni musicali, che oggi hanno dato vita ad una miscela meticcia incrocio di infinite culture, sonorità e ritmi.
Il loro ultimo – doppio – album “Havana- Kingston-Ferrara-NewYork” risale al 2015, ed è stato finanziato attraverso “MusicRiser” la stessa piattaforma di raccolta fondi on line che ospita l’attuale sottoscrizione.
Il percorso che ha portato qui gli Strike, ha origini in quella che ormai è un’altra epoca, gli anni ’80. Dopo un primo e primitivo 45 giri (1987) sono seguiti i due ep “Scacco al re” (1988) e “Croci&Cuori” (1990) che, con l’album “La Grande Anima” (1992), fanno del combo ferrarese una delle realtà di riferimento della scena alternativa nazionale ed oltre. Hanno condiviso il palco con un’enciclopedia vivente della musica contemporanea tra cui Wailers, Elmer Food Beat, Babylon Fighters, Les Casse Pieds, Vinicio Capossela, Mau Mau, Africa Unite, Sergio Messina e 99 Posse, Aereoplani Italiani, Fratelli di Soledad , Persiana Jones, Ritmo Tribale, Isola Posse, Vallanzaska, Giuliano Palma, Ustmamò, Statuto, Afterhours, Modena City Ramblers, Roy Paci, ai tempi dirompente tromba dei Persiana Jones, per arrivare a Manu Chao e tutta la Mano Negra.

Oggi del gruppo originario sono rimasti Antonio Dondi, voce, Marci “Lee Valdez”, chitarre, e Roby Renesto, tastiere, che si definiscono un collettivo aperto, che collabora con diversi musicisti e artisti. Abbiamo chiesto loro di cosa parla questo ultimo lavoro.
“La Vita, l’Arte, l’Amore. Si affronta la complessità dell’attuale crisi sociale e culturale. L’amicizia e i sogni di persone ‘felici tristi’, a tratti smarrite, sembrano essere l’antidoto in un momento complicato dell’esistenza dove la consapevolezza della propria inadeguatezza porta con sé la gioia di ogni nuovo giorno. Dieci tracce mentalmente libere dove i testi, intimi e visionari, si abbracciano con tenui sfumature anni ’80, atmosfere ‘spy-story’ stile 007, lontani echi tra l’Havana e New York, accenti ska, jazz, soul e disco-funky, sempre nel segno della influente tradizione della musica d’autore italiana”.

Come mai la scelta del finanziamento partecipato?
Crediamo che l’inossidabile amore che le persone continuano a dimostrarci, renderà possibile la realizzazione del nuovo album. Il disco non sarà distribuito nei negozi, non sarà disponibile in alcun punto vendita: sarà possibile averlo solo partecipando al crowdfunding e lo riceveranno a casa, come ricompensa, soltanto quanti parteciperanno alla produzione del progetto con le loro donazioni. La raccolta si concluderà il 3 febbraio 2019: abbiamo 60 giorni per raggiungere l’obiettivo. Chi sosterrà i costi di produzione dell’intero progetto, condividerà con noi un’avventura davvero indipendente che consente a chi ama la musica di parteciparvi: un importante fenomeno sociale oltre che musicale. Un ‘Mantra Pop’ che ci aiuti a farvi arrivare la nostra infinita riconoscenza per essere vivi, qui ed ora, realizzando insieme questo nuovo progetto discografico, che dedichiamo a Simone Andreani e Stefano ‘Massa’ Massarenti.

La stagione dei concerti di “Tutto da rifare” partirà dal New Ideal di Magenta, Milano, a marzo 2019, ed altre date sono in arrivo.
“Il tour – racconta Antonio Dondi – vedrà il classico live elettrico completamente rinnovato in funzione del nuovo album e gli innesti in formazione di Iarin Munari alla batteria e Andrea Marke al basso, ma anche due set semi acustici con reading e vinyl set di cui uno dedicato all’anniversario di “Scacco al re” ed al suo contesto poetico anni ottanta”.

Per un album che deve nascere, ce n’è infatti uno che compie 30 anni, “Scacco al re” del 1988 sta per tornare in un’edizione speciale in vinile e cd, in collaborazione con “Anfibio records” con la copertina a colori e la versione integrale dei brani.

Lunga vita agli Strike.

Questo il video di lancio del crowdfunding

Incredibile Sgarbi

Vittorio Sgarbi si candida a sindaco di Ferrara. Ovviamente, niente da eccepire: è nel suo diritto. Leggo la sua dichiarazione riportata tra virgolette dai quotidiani locali: “Una pseudosinistra opportunista ha rimosso tutti i ferraresi illustri per non riconoscerne la superiorità morale e culturale. Così, oltre a non aver nessun dipinto metafisico di de Chirico, Ferrara ha respinto e umiliato Italo Balbo, Giorgio Bassani ecc.”. Rileggo perché non credo ai miei occhi vedere affiancati nel riconoscimento morale un gerarca fascista tra i più violenti negli anni dell’affermazione del Fascismo, a capo di imprese squadriste con seguito di morti nelle campagne ferraresi, Ravenna, Parma ecc., oltre che essere stato il mandante dell’assassinio di don Giovanni Minzoni e l’autore del racconto “Una notte del ‘43”. No, neanche la tradizionale ‘esuberanza’ del critico o il continuo sconto che si fa alla sua maniera ‘colorita’ di esprimersi può consentire di passare sotto silenzio una tale scandalosa e vergognosa dichiarazione. Per non essere frainteso voglio essere chiaro su un punto fondamentale. Non è accettabile che si superi il confine che separa la libera ricerca storica su tutto ciò che ha riguardato il dramma della dittatura fascista e una strisciante e ‘normale’ riabilitazione di uno tra i capi più importanti e responsabili della dittatura fascista.

*Fiorenzo Baratelli è presidente dell’Istituto Gramsci di Ferrara

I bilanci non misurano la felicità dei cittadini

Il grafico che segue contiene i dati a consuntivo del bilancio dello Stato fino al 2017 e prosegue poi con le previsioni fino al 2021. Cosa ci dice?

Intanto riportiamo il tutto in percentuale del Pil, il che aiuta a fare le proporzioni di quanto si spende in un dato anno rispetto a quanto si ha a disposizione e aiuta a fare un confronto più agevole con gli anni precedenti

Si osserva dunque che l’indebitamento dello Stato si sta assottigliando sempre di più e che, quindi, stiamo andando verso un sostanziale pareggio di bilancio.

Il dato inquietante però è che, come si vede in termini assoluti dai saldi del primo grafico e dalle percentuali del secondo grafico, l’indebitamento si abbassa al crescere del saldo primario, che rappresenta in sostanza la spesa primaria dello Stato, cioè i costi sostenuti dallo Stato nell’assicurare i bisogni primari dei cittadini: istruzione, sanità, welfare, assistenza. In sostanza già adesso sappiamo che per ottenere quei risultati di bilancio avremo sempre meno risultati nel sociale. Avremo insomma: meno istruzione, meno sanità, meno welfare, meno assistenza.

Andiamo al dettaglio.
Dal lato delle spese (uscite), possiamo apprezzare che dal 2015 al 2021 sono previste diminuzioni in termini percentuali praticamente in tutto. 2,3 punti nella spesa corrente al netto degli interessi e 1,2 punti nella spesa in conto capitale. Gli interessi passivi, invece, continueranno a essere una spesa sostanziosa sul totale, caleranno solo dello 0,3%. In termini assoluti cresceranno da 68 miliardi e 61 milioni del 2015 a 72 miliardi e 297 milioni del 2017, in termini sociali continuerà semplicemente a rappresentare la terza spesa dello Stato dopo previdenza e sanità.

Dal lato delle entrate. Un calo delle entrate tributarie dello 0,8% e dello 0,2% dei contributi sociali. Il resto della diminuzione viene dalla voce “Altre entrate correnti”, in pratica da entrate eventuali e non certe, dello 0.5%.

Dunque lo Stato si prefigge di arrivare a un sostanziale pareggio di bilancio che dovrà essere ottenuto attraverso il contenimento della spesa. Si manterranno sostanzialmente stabili le spese per il sociale e non si faranno investimenti, il che rende la crescita solo eventuale e legata a fattori esterni, cioè si dà per certo un costante aumento delle esportazioni, niente shock valutari e materie prime sostanzialmente a buon mercato.
Dovendo rispettare i parametri imposti dai trattati europei lo Stato potrà quindi solo incassare e non spendere, dovrà in pratica finanziare tutte le sue spese con le tasse dei cittadini, i quali dovranno anche finanziare l’indebitamento sui mercati, cioè mantenere costante la spesa per interessi che, nonostante si arrivi al pareggio di bilancio, ci continuerà a costare mediamente 70 miliardi all’anno.
Il tutto nella speranza che non cambino le condizioni internazionali sopra descritte, perché se uno dei fattori variasse allora tutto il costrutto crollerebbe, il pil smetterebbe di crescere e quindi dovrebbero necessariamente aumentare le entrate (tasse) per restare nei parametri di Bruxelles.

Parametri fissi in un mondo in continuo mutamento, un po’ come programmare la nostra vita immaginando una temperatura costante di 20° in tutta Europa per i prossimi 3 anni. In realtà non possiamo sapere se domani il prezzo del petrolio aumenterà o se l’euro si apprezzerà nei confronti del dollaro, quindi non possiamo sapere se dovremo spendere di più in importazioni o se incasseremo di meno con le esportazioni. L’unico modo per non bagnarsi quando ci sono nuvole all’orizzonte in mezzo a tuoni e lampi è uscire con l’ombrello e l’impermeabile, avere insomma degli strumenti da poter utilizzare al bisogno.
Le regole europee impongono invece di lasciare ombrelli e impermeabili a casa per non rischiare di consumarli e contemporaneamente prevedono sanzioni nel caso ci si bagni. Uno Stato ha i mezzi per controllare mercati, interessi, cambi, debito e moneta, ma decide di affidarsi a una Commissione che provveda a sanzionarlo se dovesse decidere di usarli.
In sostanza si creano previsioni che servono solo ad aggiustare i conti, senza tener conto dei bisogni dei cittadini, stando bene attenti a che questi ultimi paghino costantemente gli interessi a banche, finanza e speculatori occasionali o di professione. Interessi che vengono immaginati costanti anche quando lo Stato smettesse di indebitarsi, a pareggio di bilancio raggiunto.

E che i bisogni dei cittadini non siano al centro degli interessi lo si vede dalle previsioni contenute nel Def (documento di economia e finanza) del passato Governo.

Il che vuol dire che ancora nel 2020 più del 10% della popolazione non usufruirà dei vantaggi dell’approssimarsi della messa in sicurezza dei conti, che il cittadino va da una parte e le previsioni economiche dall’altra. E allora non si gridi allo scandalo se qualcuno continuerà ad avere dubbi sulla costruzione dell’impianto europeista basato sulla stabilità dei conti e sul benessere competitivo e concorrenziale alla portata di pochi scaltri o fortunati.

Come se ne esce dal lato del cittadino? Semplicemente imparando a considerare uno Stato diverso dalla bottega del barbiere: ridandogli gli strumenti per proteggersi dalla pioggia ovvero una Banca Centrale di proprietà dei cittadini, ripristinando il controllo sui capitali, mettendo limiti alla globalizzazione e dando più attenzione ai territori, con piccole banche locali che diano credito agli imprenditori locali, sul modello tedesco per esempio, supportando la produzione e l’industria italiana, la piccola e micro impresa, cioè il 95% delle aziende italiane. Aggiungerei un freno all’idea che tutto ciò che è grande è anche bello, quindi un limite alle multinazionali che poco hanno a che fare con la tradizione e la realtà italiana e per finire un deciso stop alle privatizzazioni che limitano la possibilità di poter operare un controllo dello Stato a favore della comunità.

La nostra vita non è rappresentabile in un foglio di bilancio esattamente come il pil non rappresenta la felicità. Inoltre bisognerebbe considerare l’oggetto dei bilanci, cioè i soldi, come il mezzo per scambiare i beni e i servizi e non il mezzo per produrli e, per finire, comprendere non c’è bisogno di tenere realmente il tasso di disoccupazione all’11% perché il lavoro non manca, ci sono tante cose da fare. Quello che oggi manca non è il lavoro, ma solo i soldi per pagarlo e questo in un mondo dove i soldi… non possono finire!

FOTONOTIZIA
Le fontane d’acqua danzano sulla musica della Banda filarmonica comunale Ludovico Ariosto

Dalla musica sinfonica, al rock al pop, al musical. La marcia di Radetzky, ‘Mamma mia’, ‘Eye ofthe tiger’ e ‘Thriller’, fino a ‘New York New York’. E’ stata la colonna sonora, sabato nel tardo pomeriggio, dello spettacolo delle Fontane Danzanti, ormai consueto appuntamento del Natale ferrarese.
Quest’anno però la danza delle fontane è stata accompagnata da un ensemble dal vivo: la Banda Filarmonica comunale Ludovico Ariosto – città di Ferrara, composta da un organico di circa 45 musicisti di tutte le età e diretta dal maestro Stefano Caleffi.

Ecco gli scatti del nostro Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Dall’alterità fra i generi alla qualità delle relazioni fra i generi

di Roberta Trucco

Quando ho letto la risposta di Umberto Galimberti alla lettera di Giuliano Faggiani dal titolo ‘Che differenza c’è tra l’uomo e la donna?’, su D di Repubblica sabato scorso, sono saltata dalla sedia e ho pensato: “finché questo sarà l’approccio alla differenza tra donna e uomo sarà necessario essere femministe, anche un po’ arrabbiate”. Poi mi è capitato di leggere un articolo di Carlo Revelli sul Corriere della Sera dal titolo ‘Dissentire aiuta, inutile scrivere per i già convinti’ e così mi sono decisa a scrivere per cercare un confronto creativo e per dire garbatamente perché secondo me è un errore cercare di definire uomini e donne a partire da modelli binari.

Cercare una definizione che crei formule applicabili ai generi, sacrificando la complessità dell’essere umano maschio o femmina, è l’errore. Non vorrei essere fraintesa, io sono convinta della grande differenza che segna l’essere umano incarnato in un corpo femminile o in un corpo maschile, la differenza ontologica c’è, è indubbio, ma poi c’è quella unica e irripetibile di ogni individuo, “granello” come lo definisce Revelli, che ha il grande potere, se capace di diventare pensiero collettivo, di segnare la storia e la nostra evoluzione.
Ed ecco arrivo al punto della mia rabbia. Se si continua a relegare la “donna vicina alla natura perché generativa e l’uomo alla cultura perché libero dal vincolo della natura”, si continuerà a non riconoscere quanto la cultura femminile abbia segnato e segni l’evoluzione dell’umanità. Si continuerà a relegare la donna alla maternità come sua unica competenza, una competenza solo naturale, quando invece è assai culturale. E si continuerà, forse involontariamente, a riservare al maschio lo spazio del pensiero (logos) e a negarlo alle donne. Maria Van Shurman, una delle donne più colte del suo tempo, contemporanea di Cartesio (naturalmente quasi mai citata dalla storia della filosofia) contrapponeva al “cogito ergo sum”, il suo “sum ergo cogito”. Ecco, forse questo definisce bene una delle possibili differenze dell’essere incarnati in un corpo maschile o in uno femminile: il punto di partenza del viaggio psichico che ogni bambino/a deve intraprendere per diventare adulto/a, “per rinascere in acqua e spirito” come dice il Vangelo, ma sono convinta che la distanza dal sé autodeterminato del maschio e della femmina non è così facilmente tracciabile nel percorso natura o cultura. Noi tutti siamo animali naturali (da natus): nasciamo e in quella esperienza c’è tutta la forza della vita, in quella prima relazione con la madre certo, ma vista da figli (tutti siamo figli, non tutti forse saremo madri o padri). E siamo animali culturali (da colere, coltivare), in pari modo. Cioè coltiviamo pensiero, generiamo con le mani e con la mente, generiamo ogni giorno attraverso il lavoro intellettuale e materiale, e questo lo facciamo fin dai tempi antichi, maschi e femmine.

E la cosa divertente in tutto questo mio parlare è che sono una femminista atipica: la mia professione primaria è la maternità, sono madre di quattro figli e sono casalinga (scrivo di tanto in tanto). Sono dunque una convinta sostenitrice della maternità come competenza, anche di quella in potenza, convinta che oggi quel sapere ancestrale è necessario al mondo per non collassare, ma non sopporto di vedere ridotta la donna e la sua differenza alla – pur immensa – potenza della prima relazione che segna l’essere umano. Le relazioni sono necessarie all’essere umano, lo definiscono. Senza l’altro non sappiamo chi siamo. Ecco perché gli uomini/maschi, invece di continuare a interrogarsi sulla differenza tra donne e uomini, dovrebbero incominciare a crescere, a mettersi in gioco nella relazione senza timori, senza continuare a giustificarsi dietro l’impossibilità di farlo totalmente perché mancanti dell’esperienza della gestazione. Anche perché, va detto, questa narrazione di alterità donna/natura e uomo/cultura, quando riguarda la sessualità, viene capovolta dagli stessi maschi a giustificazione della loro violenza inaudita contro le donne.

Mettere in Comune, proposta sovversiva per un’economia di scambio

Lo zio di Bruno faceva il panettiere e per il trasporto aveva un carretto che utilizzava solo un paio d’ore al giorno. Per tutto il resto del tempo il carretto restava in sosta davanti al negozio e in paese chi ne aveva bisogno poteva usarlo liberamente: il bene di uno, dunque, era reso disponibile anche agli altri, secondo necessità, senza che il proprietario ne avesse alcun danno e senza pretesa di alcun diretto tornaconto. Il carretto era lì, e anziché starsene fermo tutto il resto della giornata era disponibile e veniva impiegato da chiunque, in base alla necessità, secondo un principio di mutuo soccorso. Lo zio di Bruno non ci guadagnava né ci perdeva nulla. Però maturava un credito di gratitudine, che in qualche modo fruttava benevolenza e favori perché, in genere, quando le persone sono aiutate tendono ad essere riconoscenti. Altri membri della comunità facevano altrettanto, comportandosi in maniera simile allo zio di Bruno: rendevano disponibili i loro beni quando non li impiegavano direttamente. Questo semplice sistema mutualistico, fondato su un’idea solidale della comunità e dunque sulla disponibilità alla reciproca assistenza (che talvolta magari si realizzava nelle forme del baratto), consentiva di massimizzare i benefici dei beni strumentali, rendendo concreto un valore che spesso resta solo potenziale, e dava così beneficio a tanti anziché a uno solo.

E’ quel che accade quando si esce dalla logica dell’egoismo proprietario di cui siamo vittime e si considera la possibilità di socializzare l’uso di ciò che è nella nostra disponibilità. Anche con semplici gesti quotidiani, che possiamo considerare di altruismo, ma che costituiscono potenzialmente un ribaltamento delle modalità padronali e predatorie con cui gestiamo i beni materiali (e talvolta purtroppo anche i rapporti con gli individui), si può – pure nella quotidianità – contrastare la china di una società che, anche nell’esaltazione del mito del possesso, scivola pericolosamente verso il baratro.
Peraltro, il possesso presuppone l’acquisizione; e la brama di avere ci spinge all’acquisto compulsivo, fomentando l’appetito che appaga il mostro del consumismo sul quale si reggono i cardini del nostro sistema economico. Ridurre i consumi e commisurarli alle nostre reali necessità è l’obiettivo da perseguire. Per dirla coerentemente con la ben nota massima profusa dalla saggezza di Erich Fromm, bisogna sfuggire le spire dell’opulenza fortificate dal possesso e ritrovare il senso autentico e realmente appagante dell’essere.

Fuor di metafora, cercando di inquadrare il fenomeno dello squilibrio distributivo, possiamo osservare che da una parte c’è sottoutilizzo, dunque spreco; dall’altra c’è invece carenza, quindi bisogno: razionalizzando l’uso dei beni colmiamo (o attenuiamo) il bisogno, semplicemente eliminando lo spreco.

È un po’ quel che in parte avviene con la sharing economy (e – in forme però pericolosamente deviate – con la gig economy). L’economia collaborativa induce le persone a scambiare beni e servizi attraverso differenti modalità che tendenzialmente implicano un corrispettivo, in termini di compartecipazione alla spesa o di temporaneo baratto di beni: così, come ben sappiamo, ci sono persone che rendono disponibile un passaggio in auto, la propria casa, un posto letto, o un qualsiasi altro genere di beni o servizi…
Il meccanismo di scambio è attualmente intermediato da piattaforme private, che fungono da nodo di incontro e smistamento fra domanda e offerta, ponendo in corrispondenza richieste e disponibilità. I nomi delle più affermate sono ben noti a tutti: Uber, AirBnb, Gnammo, BlaBlaCar… Molti le utilizzando, altri diffidano. Tanti sollevano il dubbio che, dietro l’etichetta di sharing economy, ci stia una nuova conformazione del modello capitalistico che, operando in un terreno ancora ampiamente deregolamentato, aggira così vincoli e imposizioni, attua forme di sfruttamento del lavoro e spesso elude le spire del fisco. Molti, anche per questo, diffidano. Il meccanismo, peraltro, genera a livello mondiale un enorme giro d’affari, stimato in 300 miliardi di dollari.

Il municipio intermediario pubblico fra bisogni e disponibilità

Immaginiamo, però, che la funzione di piattaforma – punto di incontro fra domanda e offerta, nodo degli scambi e fulcro del sistema – sia svolta da un ente istituzionale, il Comune per esempio; e che il conferimento delle disponibilità corrisponda dunque – letteralmente – a una messa ‘in comune’ di beni e servizi, con la tutela e la garanzia offerta dalla pubblica amministrazione.
In questo modo, potenzialmente, tutti i beni resi disponibili (a partire da quelli inutilizzati o sottoutilizzati), come pure la disponibilità individuale a svolgere servizi, verrebbero facilmente posti in corrispondenza con le corrispettive necessità, cioè con carenze e bisogni. E lo scambio sarebbe garantito dall’autorevolezza del mediatore, il Comune appunto, che in tal modo esalterebbe la propria funzione statutaria, quella di essere spazio di incontro e luogo comunitario di condivisione.

In fondo, già ora, il Comune preleva forzosamente dai singoli membri della comunità le risorse necessarie per garantire i servizi; e lo fa attraverso le leve fiscali e i relativi meccanismi di tassazione. Ma in tempi di crisi le risorse scarseggiano e così pure i trasferimenti dallo Stato, sicché molti servizi vengono drasticamente ridotti o tagliati.
Ecco, allora, che un sistema integrativo e complementare di erogazione di beni e servizi, fondato sullo scambio mutualistico volontario fra cittadini, ma favorito, garantito e supervisionato dall’ente pubblico, potrebbe in parte sopperire concretamente alle carenze, dando risposta anche a bisogni ai quali, attualmente, l’ente pubblico non è in grado di fare fronte.
I beni messi in comune dai cittadini e le potenziali prestazioni di servizio rese a titolo volontario sarebbero censite e raccolte in un’unica banca dati pubblica, preposta a porre in corrispondenza disponibilità e necessità, dunque con virtuali funzioni di luogo di incontro fra domanda e offerta. Non ci sarebbero, in tal modo, speculazioni né rischi, poiché i fruitori avrebbero la garanzia offerta dal Comune, cui spetterebbe il compito di censire gli utilizzatori del servizio e vigliare sulla correttezza di tutto il processo.

Non vale la pena, qui, addentrarsi nei dettagli organizzativi di un simile servizio. Sarebbe una rivoluzione, certo. E d’altra parte la situazione attuale impone a tutti, istituzioni comprese, rivoluzioni culturali e organizzative indispensabili per risollevarci dalla crisi e creare nuovi equilibri.
Una rivisitazione delle attualità modalità su cui si fonda l’economia di scambio, che ponesse al centro il municipio come perno e intermediario pubblico, potrebbe utilmente concorrere allo scopo.

#VocidalGad – Massimo Morini: “Fare le regole non basta, bisogna anche farle rispettare”

La quinta puntata di #VocidalGad ha come protagonista Massimo Morini, presidente dell’associazione “Comitato Zona Stadio” di Ferrara.

“L’associazione Comitato Zona Stadio – ricorda Morini – è nata nel 2013 e l’obbiettivo che si pone è quello della salvaguardia del quartiere in termini di riqualificazione, ampliamento delle relazioni interpersonali tra gli abitanti e quindi aumento della socialità. L’esigenza deriva dal fatto che l’associazione è nata in relazione a problematiche di quartiere molto rilevanti, sentite come tali dalla maggior parte dei cittadini, ma che in precedenza non avevano trovato una voce adeguata per portarle nelle sedi giuste”.

Quali sono queste problematiche?
Fondamentalmente sono lo spaccio, la prostituzione e il degrado che ne consegue. Tutto ciò è espressione di forme di microcriminalità nella zona Giardino, che proprio per questo oggi risulta diversa rispetto al passato.

In cosa è diversa?
Pure in passato c’erano fenomeni di microcriminalità, ma prettamente autoctoni e di dimensioni abbastanza gestibili dalle forze dell’ordine. La criminalità che si è sviluppata negli ultimi 10 anni, legata ai processi migratori, in termini quantitativi è molto più solida e organizzata. Questo rende la gestione difficoltosa. Noi come cittadini ci siamo resi conto del peso che ha questa microcriminalità nelle strade, nel senso che c’è un continuo via vai di spacciatori nell’area dello stadio oltre che nella zona del grattacielo, che propongono in maniera diffusa le loro droghe, creando ovviamente fastidio, paura, problematiche di sicurezza.

Anche il prezzo degli appartamenti è sceso drasticamente.
Questa è una conseguenza. Ovviamente nell’arco degli anni c’è stata una grande concentrazione di microcriminalità in quest’area più che nelle altre. Questo problema è sfuggito di mano, non per inerzia dell’amministrazione, ma proprio per la portata elevata.

Magari non ci si è resi subito conto dell’ampiezza del problema?
Diciamo che è stata sottovalutata e quindi l’ondata che ne è conseguita è stata dirompente anche per le normative stesse perché essendo una problematica di microcriminalità ha in sé molte pericolose implicazioni.

massimo-morini
Massimo Morini

Qualcuno però afferma che ci sia stato un abbandono del quartiere da parte dell’Amministrazione.
Dal mio punto di vista non c’è stata la necessaria attenzione, questo non è mai stato considerato un quartiere da sviluppare. La vicinanza alla stazione e la presenza dei grattacieli ha favorito la creazione di un’area di delinquenza e l’amministrazione, almeno fino al 2013, è stata poco attenta. Uno dei punti di forza della nostra associazione, in modo anche dirompente e innovativo, è stato quello di porsi in maniera critica ma collaborativa nei confronti degli amministratori, facendo presente, al di là della mera protesta e dell’evidenziare una problematica, il fatto che questo quartiere aveva bisogno di un intervento non solo delle forze dell’ordine ma anche dell’amministrazione stessa. Un intervento che fosse basato su una vera riqualificazione.

C’è stata una risposta positiva?
Posso dire che dal 2013 il quartiere Giardino è stato molto più ‘attenzionato’ dall’amministrazione, ci sono state tutta una serie di iniziative che sono state fatte, che hanno avuto una finalità di riqualificazione del quartiere in termini di partecipazione e di attività, perché se un quartiere muore da questo punto di vista viene ‘preso in carico’ dalla microcriminalità.

Però è dovuto venire anche l’esercito.
Una delle nostre proposte, essendoci confrontati con le forze dell’ordine, era quella di aumentare il presidio anche in termini numerici e l’esercito ha un significativo ruolo di aiuto. Le cose sono migliorate, ma i problemi non sono risolti. Però c’è un occhio in più.

Quindi in questi ultimi cinque anni è migliorata la situazione?
C’è stata una maggiore presa di coscienza del problema, Ma occorre fare di più, ad esempio dare maggior attenzione alle attività commerciali, e controllare al contempo quelle che sono al limite della legalità e che possono fingere da luoghi di spaccio. Occorre secondo noi anche dare più forza alla polizia municipale. Un’altra cosa che potrebbe fare l’amministrazione con maggiore sistematicità è verificare il rispetto delle normative. Porre per esempio termini restrittivi per la vendita degli alcolici non basta, bisogna vigilare sul rispetto.

Ti riferisci al “Regolamento di Polizia Urbana della città di Ferrara“?
Assolutamente si. Secondo il nostro punto di vista, non viene attuato in questo momento. Sarà per la mancanza di forze, per la mancanza di impegno, ma manca qualcosa. Si può e si deve fare assolutamente di più. Anche nel controllo degli appartamenti, poiché molti di questi affittati da italiani si sono scoperti essere luogo di spaccio e di deposito di droga, quindi capire le persone che ci stanno, in quanti ci stanno, tutta una serie di indagini approfondite che dovrebbero essere fatte partendo dal grattacielo fino a tutta l’area del quartiere Giardino.

Avete cercato un’integrazione, una possibile convivenza con le persone di altre etnie che abitano questo quartiere?
Abbiamo cercato di far si che il problema non fosse quello dell’italiano verso lo straniero o la persona di colore, ma di concentrare l’attenzione sui fenomeni dello spaccio e della criminalità, anche se chi lo fa ora per strada è nigeriano, ma ci sono altre etnie che gestiscono la droga in altre zone di Ferrara. Ci sono anche altre problematiche legate ai furti in casa e alle biciclette che sono gestiti da altre etnie.
Il problema dello spaccio è che l’offerta è legata alla domanda e a domandare sono i ferraresi… In ogni caso un punto è chiaro: chi sta qua deve rispettare le regole. Non ha importanza che sia di etnia nigeriana, scuro o chiaro, l’importante è che rispetti le regole,se no non può stare in questa città. Noi abbiamo cercato anche di collaborare con le associazioni straniere perché riteniamo che sia importante anche capirsi. Cito un esempio particolare che è emblematico: il primo incontro con l’associazione nigeriana è stato fatto nel quartiere Giardino, sotto casa mia, ed è andato male, perché c’era molta diffidenza da parte loro, su chi fossimo, su cosa volessimo, del perché facessimo certe cose. Successivamente gli incontri hanno fatto capire a queste persone che di fronte avevano altre persone che avevano voglia di costruire qualcosa di positivo.

Avevano paura in pratica?
Sì. C’era a suo tempo un sentimento di paura perché si sentivano, giustamente, aggrediti in quanto etnia, poiché una parte di loro delinqueva. Dico una parte perché ci sono nigeriani che sono persone assolutamente integrate, perbene. Per dire come c’è una diffidenza reciproca, noi verso loro e loro verso noi. Abbiamo cercato anche di comunicare con loro perché riteniamo importante far presente a loro il problema, perché se ne rendessero conto in maniera importante, in modo che anche loro isolassero, come facciamo noi con gli italiani, chi sbaglia, perché questo va contro anche a loro stessi, altrimenti ogni volta che si vede passare una persona di colore si dice ”ecco, è passato lo spaccino”, e non è così. Per questo dico che c’è bisogno di socializzazione, e noi con le nostre iniziative abbiamo cercato proprio di coinvolgere, comunicare, capire e conoscere tutti per affrontare i problemi a 360 gradi.
Siccome, però, è un problema grosso, da una parte ci sono le problematiche che devono essere gestite dalle forze dell’ordine e che sono di loro competenze, dall’altra parte un cittadino può anche lui fare qualcosa in qualche modo. È vero anche che ultimamente la situazione è molto difficile, c’è molta tensione ed i cittadini sono stanchi.

Aumenterà secondo te questa tensione con l’avvicinarsi delle elezioni?
Ma al di là delle elezioni, che è uno scontro politico e sicuramente ci saranno delle strumentalizzazioni di destra e di sinistra, come ci sono sempre state, è proprio il cittadino che è stanco di questa situazione.

Secondo te i media esagerano nel riportare il quartiere giardino o la zona Gad come un territorio conosciuta solo per la criminalità?
Diciamo che, come in tutte le cose, forse fa più notizia un fatto negativo che uno positivo. Il tentativo di indurre l’amministrazione a fare dei progetti, partendo dal riconoscimento dei problemi che i media denunciano puntualmente, è per riscattare la nomea del quartier che, avendo in sé la parola ‘giardino’, porta intrinseco il significato di un quartiere bello, residenziale, un quartiere che ha delle potenzialità, e che non può essere schiacciato dalla negatività dello spaccio, deve essere valorizzato nell’ottica della positività che ha. È ovvio che in questi anni il non-interessamento, lo spegnere le luci, le zone buie, hanno fatto avere un vantaggio a chi nel buio si trova bene rispetto a chi sta nella luce.
Un altro esempio  l’aiuola in ‘Giordano Bruno’: abbiamo cercato di appropriarci di una soluzione che aveva proposto il Comune, quella di gestire attraverso l’associazione, il verde e abbiamo pensato di fare un’aiuola di fiori, curata assieme ai bambini, quindi in collaborazione con la scuola, e con dei richiedenti asilo politico, dei ragazzi validi e in gamba, volenterosi, proprio perché riteniamo che sia importante anche far vedere il bello, perché il bello richiama il bello. Se tu in un giardino ci metti dei fiori, lo vivi,  magari le famiglie ci vanno, anziché andarci altre persone. Ma è un percorso duro e lungo.

I prossimi obbiettivi?
Il nostro prossimo obbiettivo è quello di mantenere sempre alto il livello di attenzione da parte dell’Amministrazione, perché comunque non deve terminare il percorso di iniziative che sono state fatte, ma riproporlo anche in maniera standardizzata. Ci è dispiaciuto perdere l’appuntamento del mercatino europeo perché era un’iniziativa importante, adesso abbiamo lo stadio, che speriamo sia fonte di riqualificazione positiva. Poi collaboriamo con le forze dell’ordine per favore un puntuale presidio nel quartiere.

LA RECENSIONE
‘Last work’ di Ohad Naharin al Teatro Claudio Abbado: tempo di comprendere e liberare

di Monica Pavani

Un paio di giorni prima di vedere al Teatro Comunale lo spettacolo ‘Last Work’ (andato in scena domenica 25 novembre) di Ohad Naharin, il coreografo israeliano che guida la Batsheva Dance Company dal 1990, mi è capitato di leggere il discorso tenuto dallo scrittore israeliano David Grossman in occasione del Premio per la tolleranza e la comprensione che gli è stato conferito in questi giorni al Museo ebraico di Berlino. In particolare, mi hanno colpita due affermazioni di Grossman: l’impossibilità di distinguere “fra il me politico e il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo”; e che la tolleranza – per lo scrittore – “nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile”.
Ho ritrovato questi due moti – più che pensieri – in ‘Last Work’ di Naharin, del quale avevo già visto, sempre al Comunale, alcuni lavori, fra cui DecaDance. Ricordavo l’energia dirompente dei suoi danzatori, i movimenti quasi esplosivi, e una specie di esaltante poesia che scaturisce dalla liberazione di una forza sopita o forse soffocata. Naharin ha canonizzato questo suo approccio in un vero e proprio metodo, chiamato Gaga, basato sul “piacere fisico dell’attività fisica”, che potenzialmente può essere sperimentato da ogni persona di qualsiasi età, e non solo da chi danza.
Eppure, in questo ‘Last Work’ ho trovato che il coreografo si spinga ancora più oltre nella sua ricerca, esplorando, appunto, quell’altro “dentro di sé” che è mosso da una forza più contemplativa, fatta di gesti anche minimi, movenze flessuose e lente che sembrano provenire dal mondo arcano di felini che si aggirano silenziosi su un pianeta un po’ disabitato, un po’ ignoto, o forse solo in fase di mutamento.

Viene da chiedersi se questo titolo, ‘Last Work’, che allude a una fine, possa riferirsi all’affacciarsi di una nuova esigenza espressiva del coreografo, che non si limita più a scatenare (letteralmente: togliere le catene) ai suoi danzatori, ma li accompagna in un nuovo viaggio che passa anche per i vuoti, le soste, e gli arresti. Gli spettatori sono chiamati ad assistere a una serie di movimenti d’insieme (e spesso a duetti) dal ritmo ipnotico che può ricordare lo sboccio di un fiore, petalo dopo petalo, o il dispiegarsi di una farfalla dal bozzolo. E la mente è partecipe, chiamata com’è a interpretare, ma soprattutto a leggere e a lasciarsi leggere da ciò che accade. I magnifici danzatori diventano sacrificali, non in senso religioso, bensì artistico: fanno dono di sé senza risparmiarsi e per di più con straordinaria grazia. Durante tutto lo spettacolo una danzatrice corre instancabilmente, ma con compostezza, su un tapis roulant. Allude al tempo che passa? Al movimento imperterrito che trascina l’universo nella sua corsa verso il dissolvimento? O solo all’impossibilità di fermare le lancette e di costringere la vita in una singola forma?

Naharin libera le immagini, non le costringe. A fine spettacolo, dopo uno strepitio di proiettili, e grida ferine sparate a tutta gola da un microfono, i danzatori si fermano e vengono legati con lunghi fili di nastro adesivo che forse li unisce o forse li paralizza per sempre; mentre una grande bandiera bianca sventola dietro di loro, decisa e affaticata.

Ecco perché il debito pubblico italiano continua a crescere

Il fatto che il debito pubblico italiano continui a crescere è dovuto esclusivamente all’impossibilità di controllare gli interessi. Nel sistema attuale, del resto, l’unica entità che potrebbe farlo è la Banca Centrale Europea acquistando i Titoli in ultima istanza, ovvero autorizzando le banche centrali dei 19 Paesi dell’eurozona a farlo.

Operazione del resto effettivamente autorizzata per quasi tre anni attraverso il programma denominato Quantitative Easing (alleggerimento quantitativo), un programma lanciato in Europa dopo che anni prima anche altri Stati come gli U.S.A. e il Giappone avevano fatto altrettanto. In eurozona siamo partiti tardi e questo ha prodotto effetti incerti soprattutto sulla disoccupazione che mentre negli altri Paesi è scesa anche sotto il 5% in Italia si è tenuta ben al di sopra del 10%.

Quando una banca centrale fa da “pompiere”, raffredda le tensioni sui mercati intervenendo per comprare Titoli del debito pubblico, toglie alla speculazione parte del ricatto nei confronti degli Stati, tiene gli interessi bassi ed evita ai telegiornali di dover aprire tutte le loro edizioni gridando all’innalzamento dello spread e al prossimo e sicuro default.

Nel 2011, in pieno governo Berlusconi, lo spread arrivò a 552 e, nonostante l’arrivo di Monti, lo stesso altalenò fino a quando Draghi, Governatore della Banca Centrale Europea, pronunciò la famosa frase “Watever it takes…”. Disse, in pratica, che la BCE avrebbe difeso l’euro, cioè avrebbe acquistato Titoli di Stato. Non lo fece, ma la sola “minaccia” fece calare definitivamente lo spread, cioè i tassi di interesse che si pagano sul debito pubblico. Da notare, infatti, che il programma di acquisto iniziò solo nel marzo del 2015, ben due anni dopo, ma la sola frase bastò ai mercati perché smettessero le loro azioni speculative e a riportare la pace nei telegiornali.

Durante i governi successivi e quindi di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni però al debito pubblico successe questo

Grafico dal def 2017 fonte MEF

Una crescita esponenziale, un regalo per le “generazioni future”, volendo imitare Cottarelli, nonostante l’aiutino di Draghi.

In ogni caso, e grazie alle operazioni di acquisto della BCE, lo spread si è tenuto basso fino ad oggi che siamo in zona tapering, ovvero in dirittura d’arrivo. E’ stato infatti stabilito che tali acquisti si dovranno interrompere alla data del 31 dicembre 2018 e che in questi ultimi tre mesi le banche centrali potranno acquistare solamente 15 miliardi di titoli di stato al mese.

Bisogna, insomma, far riabituare il mercato ai suoi ritmi normali e, considerando che si era arrivati a comprare Titoli fino a 80 miliardi al mese, si comprenderà che siamo prossimi alla riapertura delle autostrade della speculazione. Già lo spread comincia a lanciare i suoi segnali di ripresa, nascosto però nelle sue ragione dalle urla di Salvini e Moscovici.

Purtroppo i Governi che si sono succeduti nonostante l’ombrello di protezione offerto dalla BCE non hanno saputo approfittarne per “manifesta incapacità gestionale”, né sul piano dello sviluppo, né per la riduzione della disoccupazione, né tantomeno per la riduzione del tanto temuto debito pubblico. La cattiva gestione della cosa pubblica degli ultimi anni, nonostante le ottimi condizioni generali relative ai tassi di interesse e al credito a buon mercato, lascia oggi una situazione difficile.

Alto debito, visto come la peste nera dagli euro burocrati, e in crescita per il rialzo degli spread, alta disoccupazione con poca capacità strutturale di poterla assorbire, condizioni internazionali sempre più critiche sul piano delle esportazioni per le crescenti tensioni tra USA, Germania e Cina (cioè tra chi compra – USA – e chi vende – Germania e Cina) che potrebbero portare a guerre commerciali e veti incrociati, non fanno ben sperare per il futuro. Soprattutto in virtù del fatto che dall’ultimo Marzo in Italia stiamo ancora attendendo operazioni politiche degne di questo nome.

DIARIO IN PUBBLICO
Notizie dalla città murata

“Sous le ciel de Ferrare… L’espoir fleurit au ciel de Ferrare” per imitare la celebre canzone “Sous le ciel de Paris”.

Basta sostituire Paris con Ferrare e… les jeux sont faits. Poi se invece di cantarla Yves Montand la canta Roberta Fusari allora veramente ci siamo. Che la sua candidatura sia un fatto a mio parere positivo è indubitabile nonostante le riserve Dem; che la sua lista civica abbia un rapporto con i radicali a cui guardo non tanto per i rappresentanti cittadini quanto per la grande Emma che continuo a considerare tra le persone più oneste della nostra politica allora qualche speranza si apre per una ripresa della sinistra sprofondata nell’umiliazione di un baratro da cui spero voglia sollevarsi come appare anche dalla determinazione della pugnace Ilaria Baraldi. Spero solo che altri nomi, altri rappresentanti di un rinnovamento (e il pensiero corre a Fulvio Bernabei) sentano il richiamo di un dovere che la politica impone come primario.

Frattanto son trascinato in avventure culturali sempre più complesse e affascinanti che in ordine alfabetico suonano A B C e che risultano Ariosto, Bassani, Canova.

Si sta preparando la serata conclusiva del centenario ariostesco che coinvolge poesia musica e filmati di spessore davvero straordinario. Il 10 dicembre dalle 20.30 al Teatro comunale Abbado si celebrerà “l’evento”( e con le lacrime agli occhi uso la tremenda parola che impazza sia quando è usata per mangiare un panino innaffiato da vino scadente o per partecipare a questo spettacolo davvero imponente) che ovviamente sarà gratuito.

Il nome, la voce, la scrittura di Bassani richiamano nella sua città poeti e traduttori, attori e intellettuali. Il primo dicembre in Castello gli eredi Ravenna doneranno al Comune di Ferrara documenti e lettere. E anche questo è un segno che ormai Ferrara, la città dello scrittore, si è impegnata a custodirne le memorie .

Frattanto in équipe si lavora per comporre uno straordinario libro visivo dove le fotografie commenteranno la vita e le opere di Giorgio Bassani.

Continuo con l’autore il tour per presentare lo straordinario libro di Andrea Emiliani “Opere d’arte prese in Italia” che racconta attraverso documenti originali la missione di Canova di riportare in Italia i capolavori strappati da Napoleone alle città italiane. Questa volta è toccato a Faenza dove nella cornice unica del neoclassico Palazzo Milzetti diretto con garbo, intelligenza e passione dalla nostra concittadina Enrica Domenicali si è parlato anche dell’amicizia Cicognara-Canova. Il libro sarà presentato a Ferrara in Marzo alla Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti all’interno dei cicli di conferenze organizzati da Francesca Cappelletti.

Direte: “Ma allora perché ti lamenti?”
Perché il troppo stroppia, perché la volontà di non fare l’“umarel” che commenta in piazza i fatti del giorno alla fine poi ti atterra per troppo lavoro.

Guardo e spero che i giovani o i maturi (lontani dal ‘de senectute’ che sto vivendo) accolgano un’eredità culturale senza la quale Ferrara diventando ‘Ferara’ rischia di perdere le sue qualità che l’hanno fatta unica. Quella Ferrara che nella indimenticabile mostra di Bruxelles sotto l’egida della comunità europea organizzò una mostra esemplare il cui titolo era “ Ferrare. Une Renaissance singulière” che si potrebbe tradurre anche come “Ferrara. Un Rinascimento speciale”.

Altro che i “me ne frego” che qualcuno potrebbe pronunciare! La cultura deve essere gestita con la consapevolezza di quel che si vuol fare e si deve fare. Anni tristi ci aspettano causa i danni del terremoto che hanno lesionato tanti palazzi e chiese così che la depisissiana “citta delle 100 meraviglie” si trova in fase di restauro. Non so se riuscirò a vedere lo splendore dei suoi monumenti rimessi in sesto. Ma lavoro per quello, per una speranza che va trasmessa ai più giovani a cui ci si si affida per trasmettere il testimone.

Ci riusciremo? Chissà! Comunque è la Speranza l’ultima dea.

In un cinema d’estate

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Si erano incontrati casualmente una sera d’estate nel cinema all’aperto del parco Pareschi di Corso della Giovecca. Il film ‘Assassinio sull’Orient Express’ era iniziato da non più di mezz’ora quando all’improvviso, preceduto da lampi e tuoni, si scatenò un forte temporale che provocò un fuggi fuggi generale. Molta gente trovò un riparo provvisorio in attesa che si placasse la furia della pioggia e del vento.

All’interno del parco, tutt’attorno allo spazio allestito per le proiezioni, si stagliavano alcuni grossi alberi frondosi presso i quali ci si poteva comodamente riparare. Paolo decise di mettersi proprio sotto uno di questi. S’era messo sulla testa il maglioncino di cotone che portava sempre con sé per non patire l’umidità della sera, e questo gli conferiva un aspetto alquanto buffo.
L’albero si trovava in fondo verso l’uscita, distante dallo schermo. Le immagini del film continuavano a scorrere, ma la visibilità era scarsa e l’audio era coperto dal rumore della pioggia. Tutto questo stava convincendo Paolo ad andarsene quando una ragazza accanto, anche lei col capo coperto da un giubbino, gli disse che di solito i temporali sono di breve durata e forse conveniva attendere qualche altro minuto prima d’arrendersi.
Paolo, un distinto sessantenne che si vantava di dimostrare meno anni di quelli che aveva – anche se una volta chiese a una ragazza: “quanti anni mi dai?” e questa gli rispose: “L’ergastolo!” – si voltò e replicò che non era una cosa saggia rimanere sotto gli alberi durante i temporali, dato che i fulmini li prendono spesso di mira.
Poi guardò meglio la ragazza che rimaneva in silenzio senza commentare, quindi decise di presentarsi: “Piacere, Paolo”
“Piacere, Francesca” rispose la ragazza.
Scoppiarono entrambi a ridere, pensando al dramma dei due amanti tragicamente inseriti nell’Inferno Dantesco.
La pioggia invece di calare, aumentava d’intensità e Paolo decise di tornarsene alla macchina posteggiata poco lontano e andare a casa.
“Io debbo per forza aspettare che smetta di piovere perché sono venuta in bicicletta” disse Francesca.
Paolo rispose dicendole di lasciare la bicicletta e permettergli d’accompagnarla a casa in macchina. Il giorno dopo lei sarebbe tornata a riprenderla.
Lei non volle accettare e lui fece per salutarla, non prima di un’ultima battuta: le disse che quella sera avrebbe scritto un racconto e lo avrebbe iniziato con la frase ‘S’erano incontrati casualmente una sera d’estate…’
La ragazza sorrise e gli augurò una buona serata. Paolo s’allontanò sotto la pioggia bagnandosi completamente, ma non ci fece caso: il pensiero di quel breve incontro lo distraeva piacevolmente.

Paolo, scapolone per scelta, aveva trascorso la sua vita lavorativa in giro per l’Italia, era stato ispettore per una compagnia di assicurazioni. Si fermava per qualche periodo in un posto poi ripartiva, finendo per fare come i marinai che si diceva avessero una donna in ogni porto. Così era stato per lui.
Ora, in pensione da pochi mesi, trascorreva le sue giornate dedicandole finalmente ai passatempi che prima, quando lavorava, aveva sempre trascurato: scrivere, fotografare, andare al cinema.

Il remake di ‘Assassinio sull’Orient Express’, a causa del temporale, venne riproposto qualche sera dopo e Paolo, col biglietto già pagato, tornò al parco e si mise a sedere nella solita fila quasi in fondo, impiegando il tempo in attesa dell’inizio del film a scorrere le mail del suo smartphone.
“Questa sera speriamo non arrivi il temporale.”
Una voce femminile arrivava dal posto accanto a lui, occupato con sua sorpresa da Francesca. Con un sorriso luminoso rispose che aveva portato un ombrellino d’emergenza ed era contento di vederla. Al riaccendersi delle luci, durante l’intervallo, si trovarono entrambi rivolti uno di fronte all’altra, a guardarsi, parlandosi solo con lo sguardo.
Francesca non era bellissima ma aveva un viso molto interessante ed espressivo, e a Paolo le tipe come lei piacevano parecchio. La osservava cercando d’indovinare quanti anni avesse. Non più di 30, pensò.

Durante la seconda parte del film giocarono a indovinare chi fosse l’assassino. Paolo, che aveva visto la versione originale, si divertiva a depistare Francesca su quale fosse il finale.
La serata era molto calda, il cielo sereno e una luna piena a schiarire il buio del parco. Paolo pensava che quella sarebbe stata la serata ideale per due innamorati, magari seduti vicini che si tenevano la mano e guardavano il loro film preferito. Non era affatto il suo caso: Francesca la vedeva per la seconda volta e lui poteva benissimo essere suo padre.
“Questa sera sono venuta con l’autobus, se vuoi mi puoi accompagnare a casa con la tua macchina.”
“Certamente Francesca, con molto piacere.”
Arrivati a destinazione, accompagnando alla porta la ragazza, avrebbe voluto fare come nella scena di molti film americani, dove l’attore, guardando negli occhi l’attrice, accennava ad una canzone, le prendeva la mano e finiva per darle un timido bacio. Non lo fece, sarebbe stato ridicolo. Si lasciarono con un arrivederci.
Era molto tempo che non provava quella strana sensazione di serenità. Avere incontrato una persona
che gli piaceva lo rallegrava. Dentro di sé si diceva di non fare i soliti voli pindarici, che molte volte lo avevano portato a forti delusioni; alla fine era soltanto una giovane ragazza educata, spigliata, che aveva accettato la sua momentanea compagnia. Niente di più.
Aveva avuto il numero di telefono di Francesca, segnandolo sul biglietto del cinema. Fortunatamente non lo aveva buttato.
“Posso invitarti a mangiare un gelato? Vuoi che una prossima sera andiamo al cinema? Andiamo a fare un giro in bicicletta?” si ripeteva. Come un ragazzino, era indeciso quale scusa usare telefonando a Francesca. Questa ragazza gli era rimasta nella mente. Desiderava rivederla, per conoscerla meglio, sapere di lei, della sua vita, della sua famiglia.
“Ho ancora tre giorni di ferie – gli rispose – possiamo uscire quando vuoi.”
Andarono un giorno a fare fotografie sul Po, lei con una Canon, lui con la Nikon, lei foto al paesaggio, lui a riprendere il suo viso. Scherzavano, sulla loro bravura di fotografi e si criticavano simpaticamente sulla marca delle loro macchine fotografiche. Si scattarono anche un selfie con il telefono giudicandolo, ridendo, una pessima immagine.
Il giorno successivo, lo trascorsero il mattino alla mostra del Palazzo dei Diamanti e il pomeriggio a passeggiare sulle mura della città.
Paolo notava sempre di più, delle affinità caratteriali e di comportamento, con il suo carattere, le sue preferenze, il suo modo di interagire. Insomma le piaceva moltissimo.
Durante quella passeggiata Francesca parlò della sua vita. Era figlia unica, aveva trentadue anni, non aveva conosciuto il padre perché la madre, appena saputo di essere in stato interessante, era stata obbligata dai suoi genitori ad abbandonare quello che era definito uno scansafatiche, non adatto a lei. Era nata lontano da Ferrara, dove era tornata solo dopo la morte dei nonni materni.
Paolo, mentre sentiva questa storia, si rendeva conto del perché questa giovane donna uscisse volentieri con lui. Ne vedeva una figura paterna. Cercò quindi di frenare un principio di passione che lo aveva coinvolto. Sentiva le famose farfalle nello stomaco
“E tu perché non sei sposato?” gli chiese improvvisamente, mentre si erano fermati vicino alla Casa del Boia.
Era imbarazzato, ma rispose di essere stato innamorato una sola volta più di trent’anni fa. Un amore finito male. Dopo, aveva fatto un po’ il farfallone e quindi ora, da anziano, cupido si era dimenticato di lui.
“Non esiste età per l’amore. Sai ho fatto vedere a mia madre il selfie che abbiamo fatto. Non ha gradito, anzi mi ha invitato a non rivederti più… Non uscire con uno così vecchio che potrebbe essere tuo padre” m’ha detto!
Nel pronunciare queste parole scoppiò in una fragorosa risata.
“Dai, prendila anche tu in ridere, vecchio signore! Adesso portami a casa, domani sera andiamo al cinema. Danno il film di Luciano Ligabue.”

Non riusciva a prendere sonno, le parole di quella ragazza lo avevano turbato. Era stato costretto a ricordare e raccontare di quello che era stato il suo grande amore.
Una ragazza, con la quale condivideva la bellezza della gioventù, spensierati ed allegri. Un amore però contrastato dalla famiglia di lei, tanto che un giorno la giovane non si fece più trovare. Mai una lettera, un contatto che lui aveva cercato invano.
Cercò di togliersi quei ricordi dalla mente, pensando che il giorno dopo avrebbe incontrato Francesca, nella quale aveva trovato la stessa gioventù, spensieratezza e allegria.
“Ho letto la recensione – disse – vedrai questo film ti piacerà.”
Entrarono cercando quelli che erano ormai diventati i posti consueti.
Mentre iniziava il film, gli sussurrò: “Ricordati che dopo debbo dirti una cosa importante.”
“Dimmela ora” rispose Paolo.
“No! Silenzio e guarda il film, pa…” non terminò la parola.

Non si erano fisicamente sfiorati nemmeno con un dito, tranne il casto bacio sulla guancia, quando si lasciavano a fine giornata, trascorsa insieme.
Paolo, mentre sullo schermo passava una scena d’amore, ruppe gli indugi e dolcemente prese la mano della ragazza, che guardandolo negli occhi, non negò l’atto, ma evitò l’incrociarsi delle dita.
Era un bellissimo momento e il cuore di Paolo iniziò a battere sempre più forte.

Erano appena passati dieci minuti, che improvvisamente si alzò un forte vento, in lontananza il rumore del tuono, le prime gocce che cadevano sempre più copiose.
Sorridendo Paolo e Francesca si guardarono negli occhi e ricordando il giorno del loro primo incontro, nello stesso cinema all’aperto, nella stessa situazione, corsero a ripararsi sotto le fronde del grande albero.
“Vado a prendere l’ombrello in macchina” disse Paolo.
“Va bene ti aspetto, ma ricordati che debbo dirti una cosa importante” rispose la ragazza.
A passo svelto uscì dal parco che ospitava il cinema e si diresse alla macchina, riparandosi sotto i cornicioni dei palazzi . Improvvisamente, un bagliore molto forte rischiarò la via, seguito dal boato del tuono, che somigliava allo scoppio di una bomba.
“Questa volta ha colpito vicino” pensò mentre si avvicinava alla macchina. Tornò camminando più lentamente, per riprendersi dalla precedente corsa. Arrivato al parco, si diresse verso il grande albero, dove un piccolo gruppo di persone si era riparato dalla pioggia ma avvicinandosi vide alcune di queste chine sul corpo di una donna. Il pensiero andò subito a Francesca. Infatti era così: la ragazza era distesa a terra con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Il fulmine, è stato il fulmine” diceva la gente. “Sta arrivando l’ambulanza” esclamò una signora.
Paolo si mise in ginocchio e prendendole la mano la chiamò con dolcezza: “Francesca, sono qui”
“Non mi lasciare – sussurrò la ragazza – e ricordati che debbo dirti una cosa importante.”
Una sirena annunciava l’arrivo dell’ambulanza. Mentre caricavano la barella, la voce flebile di Francesca arrivò a Paolo.
“Debbo dirti una cosa importante… papà.”

Intanto sullo schermo appariva la parola ‘Fine’

Inverno

Non possono esistere mezze misure per parlare, scrivere, dipingere l’inverno, perché questa stagione è radicale, senza compromessi, così profondamente delineata e riconoscibile nei suoi tratti che si fatica ad attribuirle risvolti diversi da ciò che ci offre. L’inverno gioca la sua partita in una dualità che alterna il calore della casa al gelo circostante, le luci delle ore centrali delle giornate più corte alle lunghe ombre che dominano gran parte della nostra quotidianità, le albe siderali ai tramonti di fuoco, la vita vivace sulle nevi al bisogno di introspezione.
I mesi invernali trovano le loro forme più movimentate e festose nei dipinti fiamminghi e olandesi di Hendrich Avercamp, Jan Griffer, Isaack van Ostade, popolati di pattinatori sui canali, bambini su rudimentali slitte, barche a vela trascinate sulla superficie cristallina cariche di legna, carbone e altra mercanzia, carri incagliati nel ghiaccio e ruote di mulini coperte di ghiaccioli, ricchi signori impellicciati che passeggiano sulla lastra sdrucciolevole e improvvisati giocatori di curling che colpiscono i sassi con bastoni. E ancora, quei cacciatori circondati da una muta chiassosa, che al ritorno a casa osservano dall’alto la folla vivace sul ghiaccio, come li ha voluti dipingere Pieter Bruegel il Vecchio.
Inverno aspro, invece, quello con cui i romantici tedeschi e inglesi identificavano lo spirito nordico. Nel dipinto dell’inglese William Turner ‘Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi’ (1812), viene rappresentata la potenza distruttiva della natura invernale che domina la scena, eclissando gli uomini. Un inverno a volte desolante e straniante, altre impetuoso e aggressivo, compare nei dipinti del tedesco Caspar Friedrich. ‘Il mare di ghiaccio’, conosciuto anche come ‘Il naufragio della speranza’ (1811), infonde un immediato senso di sopraffazione davanti a un ammasso irregolare, incontenibile e pericoloso di acuminate lastre di ghiaccio in movimento; mentre in altre opere, come ‘Paesaggio invernale con chiesa’ e ‘Paesaggio d’inverno’ (1811), le ombre scure rimangono sullo sfondo e l’atmosfera cupa viene attutita dal candore della neve in primo piano.

Un inverno eccezionale viene magistralmente descritto in letteratura, nell’affascinante romanzo di Virginia Woolf ‘Orlando’ (1928), nelle pagine in cui si parla del Grande Gelo, una piccola era glaciale a tutti gli effetti. Tra il 1608 e il 1695 il Tamigi gelò completamente bel dodici volte e il pack ghiacciato raggiunse i 30 cm di spessore. Era talmente resistente da permettere la creazione di grandi ‘Fiere sul ghiaccio’, con percorsi, luoghi di commercio e divertimento. In quel secolo l’ondata di gelo si fece sentire in tutta Europa e sulle Alpi i ghiacciai raggiunsero il massimo della loro estensione. Molte popolazioni della Savoia e del Tirolo dovettero spostarsi dai loro villaggi. A Londra, l’eccezionalità dell’evento diede vita ad attività di ogni genere sul fiume gelato: si aprirono negozi di barbieri, si crearono barche a slitta, si arrivò ad organizzare le tradizionali caccia alla volpe lanciando sul ghiaccio le prede, ci si dilettava al gioco delle bocce e del pallone, ci si ubriacava con bevande alcoliche calde, oltre che pattinare e passeggiare. Scrive la Woolf: “Il Gran Gelo fu, secondo quello che tramandarono gli storici, il più rigido che mai avesse colpito le nostre isole. Gli uccelli gelavano a mezz’aria e cadevano a terra come sassi. A Norwich, una giovane villana, la quale si era accinta ad attraversare la strada in ottima salute, fu vista dagli astanti andar in polvere e volare in un angolo al di sopra dei tetti, all’urto del vento gelido. Immane era la moria negli ovili e nelle stalle. I cadaveri gelavano e non potevano essere rimossi. Non era raro imbattersi in interi branchi di porci che il freddo aveva colto e solidificato in mezzo alle strade, una specie di pietrificazione”. Le cronache dell’epoca aggiungono ancora che il fiume luccicava alla luce dei falò che non riuscivano a sciogliere il ghiaccio che aveva la durezza dell’acciaio ed era talmente trasparente che si poteva scorgere sul fondo qualche imbarcazione affossata e imprigionata.
Lunghi inverni rigidi, dai contorni tragici, difficili ma familiari sono i protagonisti dei romanzi russi. ‘La tempesta di neve’ (1831) di Alexander Pushkin descrive la tormenta, ambientazione del racconto: “Il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano, tutto pareva minaccia e triste presagio”. E infatti la bufera interviene nei destini dei protagonisti e cambia le loro vite. Mur’ja non riuscirà a sposare il fidanzato perché il giovane, bloccato dalla neve alla vigilia delle nozze, non trova la via della chiesa. E ancora di inverno russo si parla nel romanzo ‘Il dottor Zhivago’ (1957) di Boris Pasternak, dove la tundra coperta di neve scintilla al sole e ci fa sognare. Troike che corrono veloci sulla superficie innevata, l’ululato dei lupi, i colbacchi di folta pelliccia e il silenzio che solo l’inverno sa reggere sono quasi vivi e palpabili, mentre il freddo e il gelo sono in contrasto con il calore delle relazioni umane.

L’inverno è amato da pochi, è una stagione solitaria, senza fronzoli e attrattiva immediata, quasi incolore, zitto e sfuggente da ogni percezione di movimento e vitalità ma il suo fascino discreto e pudico ha dato origine a molte pagine di letteratura, dipinti, brani musicali che ne hanno colto i segreti trasformandoli in emotività pura. Marcela Serrano scriveva: “Mi sono affezionata all’inverno perché sento che è vero, non come l’estate che vola via e sembra così divertente e allegra ma non lo è, perché il sole è sempre di corsa e lascia tutti con l’amaro in bocca. L’inverno non pretende di confortare, ma in fin dei conti sento che è consolante, perché una si raggomitola su se stessa e si protegge e osserva e riflette, e credo che soltanto in questa stagione si possa pensare per davvero”.

PER CERTI VERSI – D’alberi e magia

A partire da oggi, ogni domenica Ferraraitalia ospiterà “Per certi versi”, angolo di poesia curato dal professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

Roberto Dall’Olio

Roberto Dall’Olio insegna Storia e Filosofia al liceo classico “Ariosto” di Ferrara. Nativo di Medicina, è attualmente anche assessore all’Intercultura, valorizzazione dei beni culturali e sport del Comune di Bentivoglio, ove risiede, nel cuore della pianura bolognese.
Poeta e autore dal forte impegno civile, ha vinto il concorso nazionale di poesia va pensiero a Soragna (Parma).Tra le sue pubblicazioni: Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000); Per questo sono rinato (Pendragon, 2005, con una nota di Roberto Roversi); La storia insegna (Pendragon, 2007); Il minuto di silenzio (Edizioni del Leone, 2008), La morte vita (Edizioni del Leone, 2010);  La notte sul mondo. Auschwitz dopo Auschwitz (MobyDick, 2011); Viole d’inverno. Canzoniere d’amore (Edizioni Kolibris, 2013, con note di Giampiero Neri e Umberto Piersanti). Sue poesie sono apparse su riviste e in antologie. Ha pubblicato il saggio Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000). E’, inoltre, redattore della rivista “Inchiesta” diretta da Vittorio Capecchi e membro del Direttivo bolognese dell’Anpi.

Ecco, dunque, le prime tre composizioni liriche che l’autore ha riservato ai nostri lettori.

 

Alle nostre foreste

Cadono gli alberi
sradicati
dal vento
un crudo barbiere
taglia la gola
ai tronchi
come peli oziosi
dei monti
delle valli
sconvolte
sembra fuoco
che rade
è sangue
di fango
la memoria
atterrita
mai accaduto
non chiediamo
aiuto
cambiamo la vita

 

***

Tutto è magico intorno a noi

Tutto è magico
Intorno a noi
La fumana dalla terra
Avvolge in una pellicola
il cielo
E si srotola il film
della nostra vita
Un abbraccio
Nell’abbraccio
Quel grigio
Sfumato di bianco
Che pittura e sfiamma i mondi
Che abbiamo attraversato
È tenero ricordare coi passeri
Che l’amore è tutto
La sorgente
La foce
La pioggia
Valliva
La saliva che dipinge
Il tuo corpo
Nella mia tela
Tu la sfiori
Io accorro
E trovo
La melagrana aperta
La lingua
Dei baci
Solo noi
Ne siamo capaci

 

***

Mi dai lezioni

Ci amiamo tanto
e da così tanto
che abbraccciarci è
Già fare l’amore
Che baciarci le mani
Accarezzarle
È già fare l’amore
Che parlarci
Rilascia un lieve profumo
di una vita
Di due vite
Avvitate
Come dei filari
Diseguali
Che a te piacciono
Per la geometria
Nodosa
Tu mia Yin
Amorosa
Mi emozioni
sempre
E sempre la nostra pianta
Si disseta
Rimane umida
La terra
Tutte le volte
Che sto con te
Che ti penso

Mi dai lezioni

 

***

L’Emilia crocevia della droga, anche Ferrara nella rete del narcotraffico

“Rimanendo invariato l’attuale trend ci porterà a mercati nei quali, progressivamente, i beni ed i servizi che acquisteremo ed il lavoro che avremo, ci saranno, in larga parte, forniti dalla emanazione di associazioni criminali. Dunque, il rischio è che la nostra democrazia liberale si trasformi in democrazia criminale, nella quale, le persone oneste che vogliono mettersi sul mercato ed iniziare una qualsiasi attività economica parteciperanno ad una gara truccata”.
Democrazia criminale: dovrebbe essere un ossimoro. Eppure è l’allarme lanciato nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia a inizio 2018. Basta riflettere solo un momento sulla capacità corruttiva che una liquidità “quasi illimitata” può garantire. Una liquidità assicurata dal narcotraffico, come sostiene l’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia (febbraio 2018): “l’economia illecita delle mafie si alimenta in primo luogo dei lucrosi proventi del narcotraffico”. Secondo i dati 2016 di Unodc – United Nations Office on Drugs and Crime – il giro di affari del narcotraffico supera i 560 miliardi di euro a livello globale e in Italia i 30 miliardi di euro, circa il 2% del Pil nazionale.

Ma cosa c’entra la ridente, benestante Emilia Romagna con questi loschi scenari del crimine internazionale? C’entra perché, come ha dimostrato il processo Aemilia conclusosi lo scorso ottobre, i nostri territori ormai sono ‘fortini’ conquistati alle organizzazioni mafiose e Bologna è “crocevia dei traffici di droga”.
‘Bologna crocevia dei traffici di droga’ è il titolo di un dossier, a cura di Libera Bologna e Libera Informazione, uscito nello scorso maggio, che evidenzia alcuni dei maggiori cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Il settore del narcotraffico, insieme a quello dei giochi e delle scommesse illegali, è una delle attività economico-criminali ad alta complessità organizzativa. Inoltre la portata degli interessi in gioco è tale da far prevalere, tra camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra, la convenienza di una spartizione concordata dei profitti illeciti piuttosto che puntare a posizioni monopolistiche che potrebbero determinare situazioni di contrasto” (fonte: relazione della Direzione investigativa antimafia al 1° semestre del 2016). Infine si è creata una sinergia tra diverse organizzazioni criminali con ramificazioni internazionali per la gestione delle fasi di approvvigionamento delle droghe che rende ancora più complesse le attività investigative. Per esempio, la ‘ndrangheta vive di rendita, non organizza neanche più i trasporti: è un broker. Le poche volte in cui sono direttamente gli ‘ndranghetisti a comprare, le condizioni sono di assoluto favore: possono pagare dopo oppure non pagare il carico se viene sequestrato, due privilegi enormi per il narcotraffico, perché si azzera il rischio d’impresa. È accertato poi che la ‘ndrangheta, per ridurre i rischi di sequestro della merce nei porti calabresi, sottoposti a pressanti controlli delle forze di polizia giudiziaria, si avvale sempre più di gruppi criminali stranieri che controllano le aree portuali di altre regioni italiane. Quali sono? Per esempio l’Emilia Romagna, dove c’è una nuova rotta marina tracciata dalla criminalità organizzata albanese: tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre 2017, in due distinte operazioni antidroga effettuate dai Carabinieri, sono state sequestrate complessivamente oltre 5 tonnellate di marijuana trasportate su gommoni e scaricate lungo il litorale di Ferrara e di Ravenna. Insomma, la costa adriatica romagnola, dopo quella pugliese e marchigiana, sta diventando di particolare interesse.

Premettendo che i sequestri operati dalle forze di polizia territoriali rappresentano, mediamente, una percentuale di circa il 15-20% del totale delle droghe immesse sul mercato nazionale, questi sono i dati dei sequestri di stupefacenti (sia pure provvisori) effettuati nella prospera Emilia Romagna nel 2017: 15.334,09 kg. Un dato decuplicato rispetto solo all’anno prima. E nel 2018, stando ai primi dati ‘in lavorazione’ alla Direzione Centrale per i servizi antidroga, “la situazione in regione sul narcotraffico è destinata a peggiorare e non si vede, allo stato attuale, nessuna ragionevole iniziativa per arginare un fenomeno criminale così devastante”. A scriverlo, nel dossier di Libera Bologna, è Piero Innocenti, ex dirigente della Polizia di Stato, direttore del Servizio Affari Internazionali e Servizio Operazioni Antidroga della Dcsa.
A Bologna nel 2017 alla data del 1 ottobre sono 1.281,835 i kg sequestrati, di cui circa 30 kg di cocaina, 12 kg di eroina e la parte restante di hashish (oltre 900 kg) e di marijuana. Sul dato del 2017 incidono però notevolmente i sequestri avvenuti sulle coste di Ravenna, di Ferrara e nel territorio di Parma: tre ingenti quantitativi di marijuana in buona parte di provenienza albanese per complessive 12,5 tonnellate circa destinate ai ‘rifornimenti’ di altre piazze.
E, infatti, se il primato 2017 spetta alla provincia di Parma con 8.323,390 kg di merce sequestrata, di cui 8.153 kg di marijuana, intercettati a febbraio, e la seconda posizione va a Ravenna con 2.561,541 kg – in prevalenza di marijuana (2,4 ton) ma anche 5,5 kg di eroina, 4,5 kg di cocaina e 236 piante di cannabis – la ‘nostra’ Ferrara si colloca al terzo posto con 2.243,621 kg di cui circa 1 kg di eroina, poco più di mezzo chilogrammo di cocaina, 912 piante e 147 persone denunciate all’autorità giudiziaria, di cui 71 stranieri (il 48%).

Cosa fare poi di questa enorma quantità di denaro a disposizione? Una volta soddisfatte le esigenze di finanziamento delle attività criminali tout court, le mafie hanno la necessità di ripulire i fondi illeciti per ricollocarli nell’economia legale, e parallelamente, quella di occultarne la provenienza delittuosa. L’ammontare delle segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio trasmesse alla Unità di Informazione Finanziaria (UIF) da parte di intermediari, professionisti ed altri soggetti obbligati nelle sole province dell’Emilia Romagna per l’anno 2017 è stato il seguente: Bologna 1.502; Modena 991; Reggio Emilia 830; Parma 804; Rimini 622; Ravenna 470; Forlì Cesena 482; Piacenza 382. Ferrara, questa volta, è fanalino di coda con 255 segnalazioni.
Le modalità di infiltrazione nell’economia legale sono diversificate. Accanto alle imprese mafiose, sorte ab origine da fondi illeciti, esistono e hanno ormai un ruolo di canale di riciclaggio privilegiato, soprattutto al Centro-nord, le imprese a partecipazione mafiosa, cioè quelle che pur essendo nate nel rispetto della legalità hanno visto in seguito una compartecipazione criminosa oppure hanno acconsentito all’entrata nella compagine sociale di ‘soci occulti’. C’è poi il settore degli appalti pubblici: l’organizzazione non si serve della forza intimidatoria di uomini armati, ma ricorre all’enorme quantità di denaro accumulato per foraggiare funzionari compiacenti e per pagare l’assistenza di soggetti che non appartengono direttamente al sodalizio criminale, ma che rivestono ruoli chiave nelle società, nella finanza e nel commercio. Aemilia docet.
Oggi inoltre la criminalità organizzata può giovarsi di opportunità e tecniche di riciclaggio mai sperimentate nel passato, favorite soprattutto dall’integrazione dei mercati, dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali e dalle potenzialità offerte dal web: le valute virtuali, come per esempio bitcoin, forniscono un nuovo strumento di riciclaggio per i criminali, consentendo loro di far circolare e conservare fondi illeciti, nell’assoluto anonimato. Urge una regolamentazione legislativa del settore, possibilmente a livello internazionale, anche e soprattutto penale.

Ecco che dall’economia si passa alla democrazia. Dalla democrazia liberale alla democrazia criminale. E allora la domanda diventa: quanto il narcotraffico incide non solo a livello economico, ma anche a livello di democrazia?
E la risposta la si può leggere ancora nella relazione della Dna: “la partita del contrasto al narcotraffico rimane decisiva. Non solo perché è indispensabile frenare e contenere un fenomeno, quello della diffusione degli stupefacenti, che ha riflessi assai rilevanti su beni di primario rilievo costituzionale quali la salute e l’ordine pubblico”, ma perché “contrastando il narcotraffico, in modo adeguato, si prosciuga la principale risorsa finanziaria delle grandi organizzazioni criminali e, fra queste, di tutte le mafie e di vari sodalizi terroristici […] si diminuisce la forza, l’efficienza, la capacità criminale, la capacità corruttiva, in una parola, la ricchezza, di tali organizzazioni e di tutta la complessa filiera che vi gira intorno”.

Per leggere il dossier ‘Bologna crocevia dei traffici di droga’ clicca QUI

Di narcotraffico in Emilia Romagna si parlerà lunedì 26 novembre alle ore 21 a Factory Grisù nell’incontro “Droghe: tra narcotraffico e spaccio in Emilia-Romagna” organizzato da Libera Ferrara.
Clicca QUI per visualizzare la locandina dell’iniziativa e QUI per la pagina fb dell’evento

Dal bagno alla stanza da letto la strada non sempre è breve

Il water-closet così come lo conosciamo oggi è stato inventato intorno al 1885, quando Thomas Crapper aggiunse alla tazza lo sciacquone. Un’invenzione rivoluzionaria in quanto l’acqua permetteva di pulire il gabinetto consentendo di liberarsi in modo efficiente di materiali ad alto contenuto batterico che altrimenti avrebbero potuto favorire l’insorgenza e la diffusione di malattie e infezioni. Come non ricordare che tutto questo, nell’indimenticato film ambientato nel medioevo “Non ci resta che piangere”, terrorizzava il compianto attore napoletano Massimo Troisi.

Per noi occidentali, europei e nord americani, rappresenta una realtà scontata e i più giovani, e più abituati alle comodità della nostra vita moderna, faranno molta fatica ad immaginare che circa 4,5 miliardi di persone non hanno ancora accesso alla toilette. In realtà, fuori dal cerchio magico, l’accesso all’acqua è una realtà fatta di file e di lunghe passeggiate e il problema è particolarmente acuto nel continente africano. Più della metà della popolazione di Eritrea (76%), Niger (71%), Ciad (68%) e Sud Sudan (61%), ad esempio, non ha accesso a servizi igienici di base. In altre parole defecano all’aperto.

Anche in India si vive lo stesso dramma, rappresentato tra l’altro in un film bolliwoodiano dal titolo “Toilet: a love story”. In questo caso un dramma dovuto più a scelte legate alla tradizione che alle possibilità economiche. Costume indiano vuole, infatti, che gli escrementi in casa ne deturpino la purezza per cui meglio andare per campi e magari di notte.

In Africa il problema è un po’ più variegato e sotto certi aspetti ci interessa anche di più dovendo convivere con i suoi flussi migratori. Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha classificato il Ghana come settimo paese più sporco del mondo, e questo dovuto proprio alla pratica della defecazione all’aperto. Secondo David Duncan, responsabile di Wash (Water, Sanitation and Hygiene) nell’ufficio dell’Unicef in Ghana, la maggior parte delle persone nelle tre regioni del Nord del paese non vede un bagno come una necessità perché la defecazione all’aperto è una pratica diffusa da generazioni.

In ogni caso, al di là di tradizioni o sentimenti, l’accesso all’acqua e alla toilette vanno di pari passo con il dramma della mortalità per malattie dovute alla carenza di igiene. Secondo i dati dell’Unicef e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’accesso all’acqua in questo continente avviene come da tabella di seguito:

Regione Da fonte: gestita in modo sicuro di base limitata Non controllata Da acque di superfice
Middle East and North Africa 77% 16% 4% 2% 1%
Eastern and Southern Africa 26% 28% 18% 16% 12%
West and Central Africa 23% 40% 10% 20% 7%

che rapportato a quanto succede dalle nostre parti dà l’idea del dramma

Regione Da fonte: gestita in modo sicuro di base limitata Non controllata Da acque di superfice
North America 99% 1%
Western Europe 96% 3% 1%

Secondo il World Economic Forum, l’acqua rappresenta un rischio globale tra i più importanti a livello mondiale anche dal punto di vista economico. Infatti stima che ogni anno si perdono 260 miliardi di dollari a causa della mancanza di acqua di base e di servizi igienico-sanitari. Per il Ghana, che abbiamo citato sopra, il costo fu stimato nel 2012 dalla Banca Mondiale in 79 milioni di euro l’anno. Un accesso universale a questi servizi porterebbe invece benefici per quasi 18,5 miliardi di dollari.

Garantire l’accesso all’acqua, scrive il W.e.f, ha profonde conseguenze. Per ogni dollaro investito in acqua e servizi igienico-sanitari, c’è un ritorno di 4 dollari dovuti a costi sanitari più bassi, maggiore produttività e meno decessi.

Ma passiamo alla buona notizia.

Bill Gates, l’inventore del Dos prima e del Windows dopo, ha presentato a Pechino il water del futuro, che funziona senza acqua né fognature. La ‘Reinvented toilet’ grazie a una reazione chimica trasforma i rifiuti umani in acqua pulita, elettricità e fertilizzante. Per il progetto la Fondazione Bill e Melinda Gates ha stanziato 200 milioni di dollari in sette anni, meno di 30 milioni l’anno.

L’idea della fondazione è di destinare questo water in particolare ai paesi poveri dove le scarse condizioni igienico-sanitarie uccidono ogni anno quasi mezzo milione di bambini di età sotto i cinque anni, dice la pubblicità.

Certo sapere che meno di 30 milioni l’anno in ricerca potrebbero salvare la vita a milioni di bambini africani e creare migliori condizioni igieniche e di vivibilità in un intero continente dovrebbe far venire i brividi. Pensare a quanto la tecnologia stia andando avanti, a quanto il futuro sia già alle porte, al fatto che forse siamo già noi il futuro dovrebbe porci domande molto intriganti, sollevare dubbi riguardo al nostro modello di sviluppo e persino avanzare accuse rivolte ai padroni del progresso.

Mentre milioni di bambini, donne e uomini soffrono e muoiono per malattie legate alle condizioni igieniche scopriamo che modesti investimenti potrebbero risollevare le loro sorti. Abbiamo la tecnologia per andare avanti ma rimaniamo ancorati a concetti vecchi come l’attesa dell’iniziativa privata, della carità e dei tempi del ricco uomo d’affari.

Discutiamo su che tipo di politica dobbiamo applicare nei confronti dei migranti ma non ci chiediamo come aiutarli davvero e questo perché la risposta passa sempre dagli interessi economici nonostante sia anche provato che a far stare bene l’Africa ci si potrebbe anche guadagnare. Si guadagnerebbe di più portando sviluppo e donando condizioni migliori di vita attraverso il progresso tecnologico piuttosto che essere costretti ad inviare aiuti, cibo e medicine.

Ma se il dibattito fosse approfondito si rischierebbe di scoprire che le spese degli aiuti sono a carico della collettività mentre i guadagni dello sfruttamento a beneficio di azionisti di multinazionali, petrolieri, finanzieri e grandi società (mi permetto di consigliare la lettura di “Confessioni di un sicario dell’economia. La costruzione dell’impero americano nel racconto di un insider” di John Perkins).

Il punto, come sempre, è che noi (gente comune con molto cuore e pochi soldi) ci guadagneremmo mentre tutti gli azionisti che operano, a volte inconsapevolmente, in questi Paesi e in compagnia dei Paesi occidentali che trovano più comodo sfruttare (vedi Francia) che cooperare, ci perderebbero.

Che sforzo sarebbe stato per uno Stato investire 30 milioni all’anno per creare un oggetto salva vite del genere? E forse ci sarebbero voluti anche meno di 7 anni se avessero partecipato tutti insieme i paesi europei. Avrebbero creato ricchezza anche da noi, pagando ricercatori e dando contributi alle università e si sarebbero meritati quel premio Nobel 2012 per la pace che ad oggi risulta un po’ “rubato”, viste le troppe partecipazioni ad interventi armati e la continua vendita di armi all’estero.

Da una parte gli stati africani non possono spendere perché hanno debiti da ripagare, non hanno personale specializzato né un sistema per poter arrivare ad invenzioni di tale portata. Dall’altra la ricca Europa dell’euro non può spendere per le regole di Maastricht e di Lisbona che impongono austerità, anche questa per ripagare i debiti. L’Africa accomunata all’Europa, entrambe carenti di sovranità, entrambe avviluppate nell’incubo del debito mentre aspettano l’autorizzazione alla sopravvivenza, allo sviluppo, al progresso.

Sempre di più il nostro futuro dipenderà da un ricco privato, da una multinazionale o da qualche lobby. Questo è il mondo senza sovranità, ovvero senza la possibilità di decidere in autonomo la propria evoluzione oppure attraverso libere istituzioni, rappresentate da persone liberamente elette dai popoli. Un mondo privato dello spazio dove poter esercitare la democrazia, globalizzato d’imperio, finanziarizzato per legge, povero e senza futuro per scelta.

Giuliano Gallini presenta il libro “Il secondo ritorno”

Da: Organizzatori

Mercoledì 21 novembre incontro con l’autore alla libreria Feltrinelli

Mercoledì 21 novembre alle ore 18 Giuliano Gallini presenterà alla libreria Feltrinelli il suo ultimo libro “Il secondo ritorno” (Edizioni Nutrimenti). Modera l’evento Sergio Gessi.

Giuliano Gallini è nato a Ferrara e vive a Padova. È sposato e ha una figlia. È direttore marketing strategico e comunicazione di Cir food dalla fondazione del gruppo (1992). Precedentemente ha lavorato a Conad. Tra i suoi maggiori interessi, la lettura e la scrittura. Nel 2017 è stato pubblicato il suo primo romanzo, Il confine di Giulia, che ha avuto un grande successo di critica.

BORDO PAGINA
Wall Street 2019, intervista al Maestro d’Arte Daniele Carletti da Ferrara

Protagonista sempre raffinatissimo tecnicamente (una neometafisica o neopop anche molto molto Personal…) di lunga data a Ferrara e non solo, il Maestro d’arte Daniele Carletti ha appena pubblicato Wall Street 2019, Asino Rosso ebook, sorta di microcatalogo web, tra opere e rassegna stampa fin dagli anni novanta, impreziosita dalla cover con il grande Pavarotti (con dedica) conosciuto a suo tempo per la sua partecipazione a ‘Pavarotti International’.
Carletti vanta mostre anche in Usa, Francia e in Italia (Artisti in Fiera, Torino 2002) e numerose altre città (ai tempi di Don Patruno, Casa Cini a Ferrara).
Una presenza ancora recente e costante nella Galleria d’Arte Il Rivellino, curata dal ben noto Emidio De Stefano, e diverse iniziative, stage per giovani artisti e anche diverse mostre collettive.
Soprattutto in questo 2018, dopo una certa assenza per questioni extra artistiche, è ritornato alla ribalta su scala nazionale partecipando a Lucca (Villa Bottini) a un importante edizione del Festival del Nuovo Rinascimento a cura del fondatore e curatore Davide Foschi, gruppo in cui è coinvolto attualmente e in forte progress nella cultura italiana nuova e creativa (non solo Arte, una visione neorinascimentale 2.0 di speciale effervescenza).

Maestro, un suo nuovo percorso artistico di ampiezza nazionale, neorinascimentale come focus del festival, un approfondimento?
Lucca è stata una grande opportunità. Ringrazio innanzitutto il curatore Davide Foschi e tutto il suo staff che mi hanno permesso di poter esporre e confrontarmi con gli altri artisti del nuovo rinascimento. Esperienza questa importante che allarga il mio percorso artistico.

Daniele, una ormai lunga e nota carriera come artista, uno zoom autobiografico?
Il mio percorso artistico parte nel 1992, dopo avere svolto esposizioni importanti in buona parte del territorio nazionale e non. Ad oggi con l’esplosione di Lucca mi ha ulteriormente stimolato alla ricerca di nuovi orizzonti.

Daniele Carletti, l’arte contemporanea oggi, come la vedi?
Molte sono le espressioni artistiche oggi, facilitate da supporti tecnici infiniti. In questa società apparentemente libera ma appannata da falsi valori ,l’artista contemporaneo, ha il dovere di rilanciare con il proprio lavoro, un messaggio forte e di scuotere gli stati d’animo dell’osservatore, è ribadire con forza il suo valore sociale.

Daniele… Lucca neorinascimentale… e Ferrara?
Due città apparentemente uguali, ma con qualche differenza. Lucca città aperta alle opportunità e preparata con occhi di riguardo verso artisti, poeti e scrittori che hanno accolto il nuovo rinascimento. Ferrara purtroppo ancora no.

Info
Ferrara Italia Festival del Nuovo Rinascimento, Lucca, 2018
Ferrara Italia eBook Asino Rosso – Wall Street 2019 (2018)
Mondadori eBook

Circolo Unione Ferrara – Film “Il Crollo di un Impero” di Massimo Sani, 1968

Da: Circolo Unione Ferrara

Venerdì 23 novembre alle ore 17,30 -Circolo UnioneVia Lollio 15, Ferrara

Nel centesimo anniversario della caduta dell’impero austro ungarico il Circolo Unione di Ferrara invita la città ad assistere alla proiezione del film inchiesta “Il crollo di un impero” realizzato nel 1968 per la RAI dal regista ferrarese Massimo Sani, recentemente scomparso.
Il film, di proprietà della Fondazione Sani, dura 70 minuti. La proiezione sarà preceduta da una presentazione della Prof. Anna Maria Quarzi, presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, con la partecipazione del Prof. Andrea Baravelli, professore di Storia Contemporanea presso Unife.
La proiezione si terrà venerdì 23 novembre alle ore 17,30 presso la sede del Circolo Unione in via Lollio 15, Ferrara. Gli interessati possono accedere liberamente al Circolo, fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Il film
Il crollo di un Impero è un docudramma realizzato nel 1968 da Massimo Sani in collaborazione con il regista tedesco Pierre Hoffmann per la rubrica «Almanacco» della RAI-TV, in occasione delcinquantesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale. Il lavoro, della durata di 70minuti, esplora le cause della caduta della monarchia austro-ungarica al termine del conflittoconcentrandosi in gran parte sulla ricostruzione dell’ultima seduta della Camera dei Deputati (Abgeordnetenhaus) del Parlamento austriaco ( Reichsrat), apertasi a Vienna l’1 ottobre 1918 etrasformatasi ben presto in un accesissimo terreno di scontro tra la cancelleria asburgica e ideputati appartenenti ai vari territori dell’Impero sulla questione dell’autonomia delle nazionalitàdal governo centrale, che di lì a poco avrebbe condotto alla dissoluzione di quella articolatacompagine statale. A distanza di cinquant’anni da quei fatti Massimo Sani è tornato all’interno delParlamento di Vienna servendosi di una serie di attori professionisti, ai quali ha affidato il compito difar rivivere, attenendosi fedelmente ai verbali originali delle sedute, la rovente atmosfera diquello storico dibattito dando così vita ad un vero e proprio lavoro di teatro-inchiesta televisivoin bianco e nero di rara efficacia.
In allegatoalcune foto dello storico edificio del Parlamento di Vienna al cui interno Massimo Sani ha girato le sedute del Crollo di un Impero nel 1968 per la RAI-TV.

Congresso nazionale Arcigay Macario nella segreteria nazionale

Da: Argigay Ferrara

Si è svolto a Torino il 16-17-18 Novembre, il XVI Congresso Nazionale di Arcigay che ha proclamato Gabriele Piazzoni Segretario Generale e Luciano Lopopolo neo Presidente al posto dell’uscente Flavio Romani, ferrarese di adozione e al suo secondo e ultimo mandato.
Ma Ferrara rimane protagonista della scena nazionale di Arcigay, giocando un ruolo impotante nella governance dei futuri quattro anni di mandato dell’associazione. Manuela Macario, attuale Presidente di Arcigay Ferrara è stata eletta componente della Segreteria nazionale con la delega al Lavoro e Marginalità. Un compito che la vedrà impegnata sul fronte dei diritti sociali e civili. nella lotta alle discriminazioni nei contesti lavorativi, nel contrasto alla marginalità ancora troppo spesso conseguenza del proprio orientamento sessuale e identità di genere. Anche Eva Croce, attuale Vice Presidente di Arcigay Ferrara rivestirà un ruolo nazionale come componente del Collegio dei Revisori dei Conti, mentre Simone Buriani, attuale responsabile del tesseramento del comitato ferrarese, è stato eletto Consigliere nazionale di Arcigay.
Un successo per il comitato di Arcigay Ferrara che è il risultato di tre anni di intensa attività, di crescità dell’associazione che conta oggi più di duecento tesserati e una cinquantina di attivisti che sono il cuore, l’anima e il motore di un’associazione giovane e dinamica.
Ora si apre per Ferrara una nuova fase congressuale locale che sì concuderà il 12 Gennaio 2019 con il Congresso Provinciale per il rinnovo delle cariche sociali.Dopo tre anni di presidenza Manuela Macario passerà il testimone anche a fronte di questo nuovo incarico nazionale e si avvicenderà alla guida del comitato ferrarese Eva Croce, attuale vice presidente e coofondatrice del Gruppo TransFer.

Asino Rosso Ferrara – Ebook, Wall Street 2019 di Daniele Carletti, Maestro d’Arte ferrarese

Da: Asino Rosso Ferrara

On line per la ferrarese Asino Rosso eBook, Wall Street 2019 di Daniele Carletti, Maestro d’Arte e storico Pittore ferrarese contemporaneo.
” Protagonista sempre raffinatissimo tecnicamente (una neometafisica o neopop anche molto “molto Personal…” di lunga data a Ferrara citta d’arte e non solo, il Maestro d’arte Daniele Carletti nasce a Porotto (Ferrara) nel 1952. Attratto fin da piccolo dalle arti plastiche e figurative, dopo la scuola dell’obbligo si iscrive Bologna, dove si diploma brillantemente in pittura nel 1975, sotto la guida del maestro Walter Lazzaro. Numerosi i suoi quadri acquistati da collezionisti e amatori, Tra le mostre più importanti, ricordiamo: Jacob Javits Centre di New York (Artexpo 1994), Sala Zanolini di Ferrara (1994,1995 e 1997), Sala Marta del Comune di Ivrea (1995); Pavarotti International (1996), Galleria Oreste Marchesi di Copparo (Ferrara, 1997), Saturnia, Comune di Manciano (Grosseto, 1997 e 1998), Torre Matildea di Viareggio (Lucca, 1998), Castello di Capalbio, (Grosseto, 1998) , Bnl di Ferrara per Téléthon 1998, Trofeo “Art & Golf’ a Franciacorta (Brescia, 1999), Chiesa di Santa Lucia a Macerata Feltria (Pesaro 1999), Sala “Loggia Amblingh” di Vasto (Chieti, 1999), Galleria “Préau des arts” a Nyons (Francia, 1999), Saturnia(1999), Biblioteca comunale di Peschiera del Garda, Galleria “Marchesi” di Rovigo, Circolo culturale “Vincenzo Civerchio” (Crema, 2001), Art Gallery di Pienza (Siena, 2001 e 2002), Villa Pomini in Città di Castellanza (Varese, 2001), Artisti a Torino (2002), Galleria Via Maestra di Poggibonsi (Siena, 2002), Castello di Lerici (La Spezia, 2003), Casa Ariosto (Ferrara, 2004), Villa Bottini con il movimento Nuovo Rinascimento (Lucca, 2018, a cura di Davide Foschi). Questo microcatalogo web cristallizza per la prima volta il suo percorso artistico, tra mostre, opere in “versione digitale” e puntuali note critiche.

“Sulla Mia Pelle”… e sulla nostra: l’inadeguatezza del ministro Salvini

da: Alessandra Tuffanelli

Alla presenza della famiglia Cucchi, ieri pomeriggio a Roma, c’è stata una proiezione del film “Sulla Mia Pelle”, organizzata e fortemente voluta dal Presidente della Camera Roberto Fico. Un evento ufficiale, pubblico e aperto a cui erano stati invitati in primis tutti i membri del governo, i responsabili istituzionali, i parlamentari, e tutti i cittadini che avessero sentito il desiderio di presenziare.
Clamoroso assente Salvini, che ha liquidato la questione con un: “Sono troppo impegnato per andare al cinema”. Gesto gravissimo, che denota tutta la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo di vicepremier, ma soprattutto di Ministro degli Interni, che avrebbe dovuto presenziare, attento e rispettoso, in prima fila.
Mostra tutto lo spregio e la mancanza di rispetto verso la vittima di uno dei più gravi fatti italiani degli ultimi decenni, e verso la sua famiglia, che dopo 10 anni ancora attende verità e giustizia, risposte che proprio lui, in virtù del suo ruolo, dovrebbe garantire venissero date.
Dimostra il totale disinteresse e la mancanza di condivisione, da parte del Ministro, dei principi fondanti della nostra Costituzione e che stanno alla base della nostra idea di civiltà e di comunità.
Atteggiamento gravissimo, dunque.
92 minuti, invece, di (simbolici) applausi per il Presidente della Camera Fico, che nonostante le evoluzioni funamboliche del governo, tira dritto, perfettamente consapevole del suo ruolo, rispettoso dei principi costituzionali e di quel bagaglio di valori e di idee che ha promosso e promesso per tutta la campagna elettorale e a cui ora continua a restare saldamente legato, a differenza di tanti dei suoi. Sinceramente non capisco come possa ancora riconoscersi e rimanere all’interno di quel carrozzone dai mille e opposti volti che alcuni ancora si ostinano a chiamarsi movimento politico.