Skip to main content

ECOLOGICAMENTE
Acqua e innovazione

Il settore dell’acqua continua ad essere di grande interesse industriale e soprattutto di grande importanza ambientale, però le contraddizioni continuano a produrre gravi criticità strutturali e la situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua rimane fortemente penalizzata. Negli ultimi anni molti risultati positivi e un segnale decisivo di cambiamento sono stati prodotti da una forte regolazione con cui l’Autorità ha saputo realizzare e coordinare, dopo i primi anni di avvio, il settore con grande credibilità e autorevolezza, non solo autorità. Anche le Istituzioni stanno rafforzando le loro politiche ambientali per mezzo di progetti di crescita, e non più solo programmi di speranza, così come alcune aziende dei servizi pubblici ambientali hanno prodotto una forza e una capacità tecnologica molto superiore rispetto al passato. Molti investimenti si stanno facendo e cresce la capacità di reazione e innovazione nel ciclo dell’acqua (soprattutto grazie al nuovo metodo tariffario) e le aziende di prodotti e di servizi hanno mantenuto alto il presidio di offerta qualificata. Ma non basta.

Serve un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità verso una sostenibilità economica circolare che deve fare riferimento alla qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi; bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate. Di recente si rilevano tendenze nel settore innovazione di grande importanza e si registra un crescente interesse, sia a livello istituzionale che a livello produttivo, verso tecnologie di trattamento appropriate e sistemi/ tecniche volti ad una riduzione dei consumi, alla razionalizzazione (contemplando anche le opzioni di recupero e riutilizzo) dei flussi idrici e al recupero di materia nell’ambito dei processi produttivi. Però serve di più: dalla digitalizzazione del settore, allo smart metering, ai nuovi contatori (di cui scontiamo ancora una carenza normativa), al monitoraggio del microbiologico, alla riduzione dei consumi energetici e alla risoluzione del problema fanghi. L’innovazione sarà di grande aiuto. Serve però lo sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici ambientali, una maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe. Serve un percorso di civiltà, ma anche il necessario sviluppo di una cultura economica del settore.
Se ne parlerà dal 17 al 19 ottobre a Bologna ad Accadueo (www.accadueo.com).

Amaro lucano

Veniamo a sapere da stampa e tv che il sindaco di Riace, Domenico Lucano, è messo agli arresti domiciliari, il 2 ottobre scorso, perché la magistratura gli contesta alcuni reati, fra i quali l’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti, invece di una gara d’appalto, e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Immediatamente interviene sulla vicenda lo scrittore Roberto Saviano in difesa del sindaco e di un modello di accoglienza e integrazione dei migranti, indicato come esemplare per il suo alto valore umano.
Alla voce di Saviano si aggiungono quelle di autorevoli firme e di parte della sinistra, del mondo ecclesiale, associazioni, persone. Si moltiplicano le manifestazioni a sostegno del sindaco e in difesa di quel modello d’integrazione sociale, posto sotto attacco da un clima ormai irrespirabile di intolleranza, la cui fonte è riconducibile alle politiche del governo del cambiamento e, in primo luogo, al ministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Il cartello con la scritta: “Il mondo lo adora, l’Italia lo arresta”, issato durante la manifestazione a Riace sotto casa del sindaco, il 6 ottobre, esprime bene la sintesi di questa ondata di protesta.
Un attacco, questo è uno dei punti, cui presterebbe il fianco anche la magistratura, con il provvedimento emesso nei confronti di Lucano.
Qui si apre un primo punto della questione: se, come si legge ovunque, fra il giudice per le indagini preliminari e la procura di Locri non c’è accordo su quali reati siano effettivamente da contestare a Domenico Lucano, tanto che lo stesso gip avrebbe scritto che l’indagine condotta da procura e Guardia di Finanza presenterebbe “congetture, errori procedurali, inesattezze”, questo significa in effetti che un problema c’è.
Allo stesso modo, sono sbalorditive le dichiarazioni rilasciate a caldo da un ministro dell’Interno che, senza alcuna sentenza, apostrofa il comportamento di un rappresentante delle istituzioni, sulla base di un’indagine giudiziaria in corso e su cui gli stessi livelli della magistratura devono chiarirsi su quanti e quali reati sarebbero stati commessi.
Il problema numero due è che lo stesso ministro sovrappone continuamente il livello istituzionale con quello di leader politico, per cui non è più chiaro quale sia l’azione di governo e quale la campagna elettorale.
E se questo comportamento è per molti normale, significa che decenni di analfabetismo istituzionale di chi si è ritenuto classe dirigente stanno purtroppo presentando un conto salatissimo.
Desta tuttavia non meno stupore il moltiplicarsi di manifestazioni a sostegno del sindaco calabrese. Non tanto per l’espressione di solidarietà e affetto nei confronti di una persona che è il simbolo di un modello civico da togliersi il cappello, in una terra, la Locride, infestata dalla piaga della criminalità organizzata, quanto perché – così si è sentito da più parti – quel modo di agire va difeso senza se e senza ma perché a fin di bene.
Perché, in ogni caso, è un esempio di convivenza, come ha detto Saviano, studiato in tutto il mondo.
Ci può essere tutto il consenso che si vuole su quel “a fin di bene”, ma siamo sicuri che un rappresentante delle istituzioni possa non rispettare le leggi, sia pure per uno scopo sacrosanto?
Perché se il sindaco di Riace non rispetta le leggi, per quanto contestabili esse siano, è un attacco a un esempio di civiltà, mentre se il sindaco di Verona decide di non rispettare la legge che riconosce il diritto di aborto è un oscurantista?
Se si esce dallo stato di diritto, al quale tutti i cittadini decidono di sottostare compresi tutti i livelli istituzionali (nonostante i pessimi esempi, proprio istituzionali, ai quali abbiamo assistito negli anni), chi può ergersi a giudicare se il mancato rispetto della legge è “a fin di bene”?
E’ forse la volonté générale di Jean Jacques Rousseau che, molto prima della Piattaforma dei Cinquestelle, gli studiosi hanno additato come l’anticamera dei poteri assoluti, perché, prima o poi, qualcuno pretende di parlare e agire in nome e per conto del popolo?
Se poi si ammette che per governare le regioni del Mezzogiorno o si forza la mano oppure è impossibile raggiungere risultati di buona amministrazione, non si finisce per esprimere la condanna che il Sud Italia sia un irrimediabile Far West?
E tutti gli altri sindaci calabresi, siciliani, campani e pugliesi, che ogni giorno, tra milioni di difficoltà, cercano di fare del loro meglio, facendo i salti mortali pur di rispettare un quadro normativo che, in più di un caso, pare scritto da chi ha problemi con l’alcol?
Per non dire di chi, in tanti, hanno dato la loro vita perché, come direbbe il commissario Montalbano, chi di dovere sapesse che anche in Italia “tanticchia di legge c’è; tanticchia, ma c’è”.
Ognuno è libero di intonare la canzone che vuole, ci mancherebbe, ma cantare “O bella ciao” sotto le finestre di Lucano si rischia un’operazione di assuefazione rispetto a un contesto su cui occorrerebbe fare dei distinguo.
Se Resistenza e partigiani giustamente si ribellarono, lo fecero nei confronti di un regime che era totalmente altro rispetto a un sistema di garanzie democratiche. Qui, grazie al cielo, le garanzie democratiche, per quanto minacciate, esistono ancora e ogni sforzo andrebbe fatto per conservarle e, se possibile, rafforzarle.
Nella sala dei Nove di Palazzo Pubblico a Siena (cioè la sala di chi governava la città) c’è il grande, stupendo, affresco di Ambrogio Lorenzetti del Cattivo e del Buon Governo.
Nella parte del Cattivo Governo il tiranno è seduto in trono e sotto di lui c’è la Giustizia, legata e costretta ai piedi del potente.
La tirannide – questo l’eterno e geniale monito – avviene quando il governante si pone sopra la giustizia, la legge.
La conseguenza è che tutto cade in rovina.
Sulla parete di fronte, chi governa è raffigurato sullo stesso piano delle virtù, fra le quali c’è la giustizia, e il simbolo del suo comando è portato con una corda da una schiera di cittadini.
Così, nella città e nei campi del Buon Governo regna su tutti la securitas.
Il capolavoro di Lorenzetti è un insuperato avvertimento rivolto a chi aveva in mano le redini di Siena. Una sorta di Cappella Sistina laica, se si pensa all’analogo monito che Michelangelo osò lanciare col suo strabiliante Giudizio Universale ai cardinali nell’aula in cui, ancora oggi, eleggono il papa della Chiesa cattolica.
Bisognerebbe organizzare delle visite guidate al meraviglioso affresco senese (altro che i secoli bui del Medioevo), per chi avesse ambizioni di classe dirigente.
Dunque, occorrerebbe decidersi se si vuole stare dentro lo stato di diritto, se cioè si preferisce la forza della legge – per quanto imperfetta e riformabile – alla legge della forza.
Indipendentemente dalle migliori intenzioni.
Dopodiché l’auspicio di tutti è che, nel caso concreto, il sindaco Domenico Lucano possa dimostrare di avere operato per il bene comune e nel rispetto della legge, perché se si inizia a scindere le due cose la storia dimostra che sono guai.
D’accordo che Ennio Flaiano definì la situazione italiana “grave ma non seria”, ma non sarebbe male astenersi dall’inseguire chi in questi anni ha dato il pessimo esempio di agitare le tifoserie per contestare un potere dello Stato – la magistratura – perché non eletto dal popolo.
Se è interesse di tutti che il modello di Riace possa continuare a essere un punto di riferimento, lo è altrettanto il rispetto della legge.

La libertà di stampa non è una fake news

“Per fortuna ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali […] nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. Parole del vice-premier Di Maio in una diretta facebook del 6 ottobre 2018.
Verrebbe istintivo ricontrollare la data, perché argomentazioni di tale contenuto rappresentano rigurgiti di un passato tristemente noto, che evoca controllo, limitazione, censura nei confronti delle voci fuori regime. Ci si sta avviando verso una china che preoccupa e si intravvede un atteggiamento ossessivo verso il mondo dell’informazione e della stampa che squalifica i giornali e suggerisce di imbavagliare coloro che dell’informazione e della comunicazione hanno fatto una seria professione. Il Governo sta già pensando a provvedimenti penalizzanti come la prospettiva di aumentare l’iva per la stampa e la pubblicità viene passata per immorale, suggerendo velatamente che non è altro che un escamotage delle aziende per comprare i giornalisti, chiaro monito a quelle aziende a partecipazione statale che potrebbero trovarsi a fare i conti con tutto questo. Una forma di nuovo oscurantismo che rifiuta le linee di pensiero delle opposizioni e nega la possibilità di dialogare a più voci.

Ma si può cominciare a parlare di limitazione della libertà di stampa già ai tempi di Johannes Gutemberg (1394-1468), quando si assiste a un eccezionale aumento delle pubblicazioni e della loro circolazione, sottoposte a controllo da parte delle autorità. Nel 1501 papa Alessandro VI (1431-1503) introduce con bolla la ‘censura preventiva’, decretando il divieto di stampare senza autorizzazione delle autorità religiose e nel 1564 il provvedimento viene completato con un Indice dei Libri proibiti. In Inghilterra la censura preventiva è istituita nel 1531 da Enrico VIII e superata solo nel 1644, con la Seconda Rivoluzione, rendendo giustizia alla libertà di pensiero e alla sua divulgazione. Il primo quotidiano della storia viene pubblicato a Lipsia nel 1660, epoca in cui i periodici esistenti erano semplici strumenti in mano ai potenti, che attraverso essi esaltavano la propria immagine. Cronaca e politica erano del tutto assenti e gli argomenti a contenuto culturale erano appannaggio di un pubblico elitario. Occorrerà arrivare alla Rivoluzione francese per riservare al diritto di stampa il posto che merita e riconoscerlo nell’art. 11 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino (1789). Due anni più tardi, la stessa dichiarazione verrà pronunciata nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, dove la stampa libera viene identificata dai leader rivoluzionari come uno degli elementi prioritari di lotta.

In Italia la libertà di stampa viene riconosciuta nell’art. 28 dello Statuto Albertino del 1848 e le lotte per il pieno diritto a questa libertà continuano per tutto il diciannovesimo secolo, mentre il numero dei quotidiano e dei lettori cresce. Questo percorso si interrompe nel ventesimo secolo con i regimi totalitari di triste memoria. Il rapporto tra stampa, informazione e potere conserva in questi regimi un carattere ambivalente: se da un lato la stampa rappresenta un utile strumento di raggiungimento e conquista delle masse, dall’altro può essere fonte di critiche e quindi va controllata e manovrata. Mussolini mette fuori legge i giornali di opposizione e irregimenta le principali testate. Nel 1930, per ordine di Hitler, in Germania vengono messi al rogo i libri definiti ‘culturalmente distruttivi’ e si assiste all’esilio di molti autori. Anche nell’Unione Sovietica viene istituita una censura ferrea che mira al controllo da parte del regime e all’eliminazione di ogni traccia di dissidenza. Nel 1929 viene creata una lista nera delle pubblicazioni e degli autori nemici del popolo e nel 1935 si contano più di 24 milioni di libri distrutti e dati alle fiamme.

Al termine della Seconda guerra mondiale la libertà di stampa è solennemente sancita dall’Onu nell’art. 19 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo (1948): “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, questo diritto include la libertà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini”. Una descrizione chiara, precisa e inequivocabile, frutto di tante lotte e conquiste, presente anche nell’art. 21 della nostra Costituzione Italiana. Attualmente, le ombre gettate sull’informazione ripropongono il dibattito sulla libera circolazione delle idee e delle manifestazioni di pensiero, fondamento dello Stato di Diritto e di una società democratica. “Dove la stampa è libera e tutti sanno leggere, non ci sono pericoli” affermava Thomas Jefferson. Preferisco condividere senza esitazione quest’affermazione che trovare accettabile quanto Benito Mussolini espresse sul ruolo della stampa: “ La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il quotidiano italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime; è libero perché nell’ambito delle leggi del Regime può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione.”

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal terzo giorno di Festival

Anche per il terzo e ultimo giorno di questa edizione 2018 del Festival di Internazionale a Ferrara il nostro Valerio Pazzi si è aggirato nelle varie location, fra le file e ha documentato volti e situazioni.
Ecco di seguito il suo reportage di questa domenica di giornalisti e non solo a Ferrara.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Legalità, femminile singolare. Dall’Italia al Messico, l’impegno delle donne contro il crimine organizzato
Con Valentina Fiore, Consorzio Libera Terra Mediterraneo, Anabel Hernández, giornalista investigativa messicana, Federico Varese, criminologo esperto di mafie

E poi…

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Prima gli italiani brava gente

Un video che mette tutti insieme, tutti in fila, gli episodi di aggressioni ai danni di stranieri avvenuti negli ultimi mesi in Italia, da Macerata a Firenze, dagli spari di Napoli alle uova di Daisy nel torinese: una serie che mette i brividi in un paese che sta ricordando quest’anno gli ottant’anni delle leggi razziali, o meglio razziste come dovrebbero essere definite.
Non ci hanno pensato i media mainstream, ma i ragazzi ferraresi di Occhio ai media: “E’ una sequenza che i media italiani esitano a mettere insieme perché potrebbe ledere l’immagine del paese. Guai a dire che in Italia esiste il razzismo”. A dirlo è Gad Lerner, domenica mattina sul palco del Teatro Comunale – dal quale quel video è stato proiettato poco prima – durante uno degli incontri conclusivi della tre giorni di Internazionale a Ferrara 2018: ‘Italiani brava gente’. L’anno in cui ricorre l’anniversario del vergognoso atto di razzismo istituzionale nell’Italia del 1938 “è anche l’anno in cui ricorderemo che si è rotto l’argine, che si è passati dalle parole ai fatti”, continua Lerner, che non a caso sabato 6 è stato intervistato dai ragazzi di Occhio ai Media in un appuntamento intitolato ‘Così comincia la persecuzione’.

“La differenza fra ieri e oggi è che allora il razzismo istituzionale arrivò a freddo, aveva ideologi e radici, ma fu una scelta improvvisa del nascente impero; oggi, invece, la strada è stata preparata, i decreti sono stati preceduti da una lunga politica di razzismo culturale”. Tuttavia “l’indulgenza è la stessa – ci risponde quando chiediamo le analogie fra la situazione di allora e quella odierna – prosegue la bugia storica che i ‘cattivoni’ sono gli altri; eppure gli ebrei sono stati cacciati dai loro posti di lavoro e dalle scuole e poi arrestati e deportati grazie a zelanti delazioni di italiani. Italiani che poi si è voluto presentare come persone che avevano commesso uno sbaglio”, così come ora gli episodi di razzismo sono definiti “provocazioni simboliche, goliardate, atti di pazzi isolati”. Ecco dove sta “la continuità con l’Italia razzista di ottant’anni fa”. Lerner ci parla addirittura di “sudditanza ideologica” nel discorso pubblico: per esempio “i conduttori dei talk show televisivi si sono contesi gli ospiti più prelibati, da Salvini a Di Maio, quando palavano dei ‘taxi del mare’, del ‘business dell’immigrazione’, oppure quando dicevano che gli italiani sono vittime di questi palestrati, di questi finti profughi. Gli occhi dei conduttori luccicavano di soddisfazione perché l’audience saliva e perché era l’onda che dovevano cavalcare. In questo modo però, almeno io la penso così, gli si è spalancata la strada a un’egemonia culturale che ha intimidito le forze alternative”.

Sul palco con Lerner c’era anche il sindacalista Usb italoivoriano Aboubakar Soumahoro arrivato direttamente da Riace, dalla manifestazione di solidarietà a Mimmo Palladino. Anche lui ha insistito su un’interpretazione che non si fermi allo sgomento, all’indignazione del momento, ma che legga la realtà nella sua complessità, che alzi lo sguardo e consideri il contesto nel suo insieme e si ricordi la storia, ciò che è stato in Italia e nel mondo: “L’indifferenza – dice Aboubakar citando Gramsci – che opera nella storia e nel nostro quotidiano ci riporta alle leggi razziali e all’apartheid”. È già accaduto: la separazione della popolazione fra bianchi da una parte e dall’altra neri, indiani, tutti coloro che erano diversi, allora come ora “la diversità non è stata valorizzata, ma è divenuta la base della discriminazione, della separazione, della segregazione spaziale, politica, economica”. Allora come ora è accaduto “in un contesto di crisi e di smarrimento dei valori”. “La deriva non si fermerà alle persone di colore e ai migranti, ma arriverà agli italiani emarginati, in condizioni di difficoltà” che verranno trattati come ora si trattano gli stranieri, verranno lasciati fuori dallo steccato degli aventi diritti.

Nessuno dei due è stato tenero con le forze di sinistra. Aboubakar, da sindacalista, afferma con forza che “i lavoratori prima di essere tali sono esseri umani e il sindacato si deve interrogare su quale sia il proprio ruolo oggi nel mondo dei dannati della globalizzazione”. Mentre Lerner parla di “timidezza” e di abdicazione “ai principi e valori fondamentali” nel contrasto ai “cattivi sentimenti, che nelle società ci sono sempre stati, ma che oggi vengono legittimati e dichiarati orgogliosamente da chi sta ai vertici”.
Che la sinistra usi l’antirazzismo e l’intercultura in modo “folkloristico” l’aveva sostenuto poco prima anche Pape Diaw, rappresentante della comunità senegalese fiorentina, che insieme ai famigliari di Idy Diene è venuto a portare la testimonianza di una comunità colpita due volte da aggressioni razziste nel 2011 e nel 2018. “La sinistra – ha detto Pape – non ha capito che l’intercultura non è cous cous e tamburi, ma una pratica quotidiana, non ha capito che l’antirazzismo non si pratica a parole, ma con i fatti”. Diaw è “molto deluso dalla politica e dal Comune. Io, l’omicidio di Firenze, lo ricorderò per una città che piange le fioriere”.

Un teatro Claudio Abbado gremito fino al loggione ha ascoltato in un silenzio reso attonito dal senso di impotenza le parole di Aliou Diene, fratello di Idy, e della cognata Marema. È lei a rispondere alla domanda di Annalisa Camilli di Internazionale “Che cos’è il razzismo?”. “Io ho partorito tre figli qui in Italia, vanno a scuola e all’asilo a Pontedera insieme agli altri bambini. Il razzismo è quando porto i miei bimbi a scuola e i compagni corrono verso di noi, mentre le mamme li tirano indietro. Loro hanno paura di noi e noi ora abbiamo paura di loro”. Diversa è la risposta di Bouyagui Konaté, vittima di un’aggressione razzista a Napoli: nel giugno scorso mentre usciva dal suo ristorante multietnico e si avviava a piedi verso casa due persone gli hanno sparato da un’auto con un fucile a piombini. “Sono qui da circa quattro anni, mi sono integrato, ma sono una di quelle persone che vedete tutti i giorni arrivare con i barconi. Io penso che il razzismo si possa definire in molti modi: c’è chi commette le aggressioni e chi convince gli altri a commettere questi atti”.
Che fare quindi, chiede in conclusione Camilli, per contrastare la cultura razzista ormai dilagante nel nostro Paese?
Per Gad Lerner il fronte antirazzista si deve ricostruire come “nuova resistenza” dal basso unendo le varie istanze, dal sindacalismo di base al volontariato dell’accoglienza, al movimento cooperativo. Aboubakar ha aggiunto che “l’antirazzismo oggi non può essere praticato senza interagire con il tema della giustizia sociale” per disarmare chi usa disoccupazione giovanile e povertà diffusa nelle famiglie italiane come armi del razzismo.

Guarda il video ‘Occhio all’odio’ realizzato da Occhio ai media

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
La ricerca della felicità

Di storie personali e professionali deve averne sentite tante Pietro Del Soldà, filosofo e conduttore della trasmissione ‘Tutta la città ne parla’, in onda su Rai Radio 3. Le telefonate di chi lo segue lo riempiono di racconti di vita e di sfoghi sinceri; qualcuno ha voluto riportarlo domenica 7 ottobre a Palazzo Roverella, durante l’incontro ‘Non solo di cose d’amore’, dal titolo della sua nuova fatica letteraria. A intervistare e intrattenere l’autore, con efficaci sketch teatrali, le ragazze e i ragazzi del Liceo Ariosto di Ferrara, applauditi dal folto pubblico del Festival di Internazionale.

La ricerca della felicità. Una fatica atavica dell’essere umano, che nel libro viene indagata seguendo tre filoni: l’io interiore, l’io nella società e la felicità stessa. Guida in questa indagine: il grande Socrate. “La figura di Socrate, pur appartenendo a 2500 anni fa, epoca in cui la scrittura era ancora per pochi, è capace di risvegliare chiunque la approcci, in qualsiasi contesto, dunque anche noi che viviamo nell’oggi”. Contrariamente ai sofisti, “venditori del sapere”, Socrate personalizzava l’insegnamento che forniva ai suoi discepoli, valorizzando l’individualità di ciascuno, poiché ciò che si apprende ha a che fare con le peculiarità del singolo. Vedeva nella maggior parte delle persone una sorta di muro interiore, cioè una separazione tra ciò che si è realmente e ciò che si mostra all’esterno.
Diversamente predicavano i sofisti, suoi nemici: il loro sapere era nozionistico, uguale per tutti, perché tutti potessero raggiungere l’obiettivo della vita, la felicità. Una felicità particolare, però, poiché non differenziata, considerata come superiorità sugli altri, rimasti ancora indietro nella gara della vita, una gara a chi apprende prima il maggior numero possibile di nozioni. Ma Socrate andava oltre, nei dialoghi di Platone. “Non solo le persone possono avere una scissione interiore che impedisce loro di riuscire a realizzarsi ed esprimersi totalmente, ma ogni qualvolta degli individui infelici si mettono insieme per formare una comunità, questa necessariamente presenterà una scissione al suo interno, visibile nella separazione tra chi ha il potere di governare e chi no”.

Viviamo oggi il “paradosso della solitudine”: la piaga di una realtà dominata dalla possibilità di relazionarsi con chiunque è proprio la solitudine, definita dal Governo britannico perfino “piaga nazionale”, probabilmente dovuta alla disgregazione di tessuti connettivi molto forti in passato, come la famiglia, e alla non capacità o volontà di relazionarci con il prossimo interamente, in maniera trasparente, non scissa appunto. Individui infelici costruiscono una comunità infelice, ma non nel senso che intendiamo noi. Socrate chiamava felicità la pienezza di sé in ogni gesto: basta essere sé stessi per conquistarla . E qualsiasi azione, che mai avviene nell’isolamento e prescinde dalle differenze tra le persone, è sempre condizionata da una tensione verso di essa, ovvero da Eros, Amore. Tutto è Amore.
“Ritenere che la filosofia antica contenga le soluzioni per il mondo contemporaneo è una moda editoriale degli ultimi tempi, ma in realtà quello che può fare è attivare dentro di noi delle riflessioni che altrimenti ci sarebbero sfuggite”. Socrate lo dimostra: nel suo pensiero sembra prendere forma la società attuale, molto diversa e neppure ipotizzabile ai tempi dell’antica Grecia.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal secondo giorno di Festival

Ecco la foto-cronaca del secondo giorno del Festival di Internazionale a Ferrara.
La pioggia non ha fermato il nostro fotografo Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Così comincia la persecuzione. Ottant’anni fa in Italia venivano approvate le leggi razziali contro gli ebrei. Perché è importante ricordarlo oggi
Gad Lerner intervistato dai ragazzi di Occhio ai media a Palazzo Roverella

Con voce di donna. Perché certe persone si innamorano proprio di chi le fa soffrire? Cosa ci fa avvicinare agli altri e cosa ce ne allontana?
Con Daria Bignardi, Hanne Ørstavik, Rosella Postorino

E tanto altro ancora…

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Marco Morosini: “Stiamo andando verso una Chernobyl diffusa senza rendercene conto”

Ecco di seguito le dieci tesi di Marco Morosini, scienziato ambientale italiano e docente del Politecnico federale di Zurigo/Eth, sul Pd.

1. Il digitale è struttura: è il core, l’ideologia unica del partito.
2. Il partito è elitario, perché possono votare solo gli users.
3. Il partito è tecnofatalista: sarà la tecnologia a rendere necessario e inevitabile che il popolo si governi da solo.
4. Si arriverà a una concentrazione di potere come mai è esistita nella storia.
5. Il potere non è nei soldati ma nei dati.
6. La rete rende possibile la manipolazione dei dati.
7. Il partito è autocratico.
8. Quello della rete non è un potere liberatorio ma un martello per martellare.
9. Il partito è maschio, come si era già capito da tutto quanto detto fin qui.
10. Il digitale è il nuovo atomico.

Ma cosa avevate capito? Il Pd cui si riferisce Morosini non è certo il partito democratico di Renzi&co., ma il partito digitale come si è venuto a strutturare nella realtà italiana: il Movimento 5 stelle. E lui ne sa qualcosa dato che, per sua stessa ammissione, può essere considerato l’alter ego politico di Beppe Grillo: per 26 anni “io ho tentato di insegnare a lui la serietà e la pesantezza, mentre lui cercava di insegnarmi la leggerezza”. Se il partito digitale, o meglio la sua versione italiana, “è un auto con il motore ecologista di sinistra e la carrozzeria e il volante di destra, populista”, Morosini si assume la paternità solo del motore, dell’occasione di “avviare per la prima volta in un paese del G7 una transizione ecologica e sociale”. Non certo “del cavallo di Troia per dare un colpo all’Europa dall’interno”. “Dove le devo inchiodare secondo voi le mie dieci tesi?”, scherza Morosini con il pubblico.

Lo scienziato e giornalista parla all’incontro di Internazionale ‘Il digitalismo politico’, che sabato pomeriggio nonostante la pioggia ha riempito più di un’aula del dipartimento di economia e management di Unife, tante erano le persone in fila in via Voltapaletto. Insieme a lui c’è un altro esperto del Movimento 5 stelle: il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni, autore di ‘L’esperimento’ (Laterza), nel quale le origini del partito digitale italiano vengono rintracciate in un esperimento di ingegneria sociale iniziato da Casaleggio padre molti anni prima di diventare una realtà, pubblica, votabile, addirittura in lizza per il governo del Paese.

A detta di Morosini, Casaleggio e Grillo in realtà non hanno inventato nulla di nuovo: il digitalismo politico è nato nella Silicon Valley, “quando i valori libertari della cultura hippie californiana si sono intrecciati con gli yuppie dell’industria hi-tech, che avevano avuto successo ed erano usciti dai loro garage”.
Tornando alle sue tesi: il partito è elitario, perché possono votare solo gli users, considerando che “solo in Italia abbiamo il 47% di analfabetismo digitale, torniamo indietro di almeno cent’anni”; “il potere non è nei soldati ma nei dati, o meglio nei big data”; “il partito è autocratico, ci sono pochi colonelli e tutti sono informatici, nessuno è stato eletto”.
La sua profezia, non molto ottimista, è che “ci dobbiamo preoccupare di quello che ancora ci aspetta”: “Il digitale è il nuovo atomico stiamo andando verso una Chernobyl diffusa e nessuno se ne sta accorgendo”, “il digitale sta cambiando sì la specie, ma in peggio”.

Da sinistra Marco Morosini e Jacopo Iacoboni

Iacoponi, dal canto suo, è meno oracolare e più materiale, ma certo non meno pessimista, tanto da esordire con la notizia che “Tim Berners Lee, inventore del world wide web, sta mettendo in piedi una nuova start-up perché secondo lui bisogna rifare Internet da capo”.
Secondo lui la grande intuizione di Casaleggio è “aver applicato alla politica il detto che se qualcosa è gratis è perché la merce sei tu”. Dato che “il partito è gemmato direttamente dall’azienda Casaleggio e dalla piattaforma Rousseau”, ci sono infatti molte domande riguardo l’utilizzo dei dati e la profilazione e la targetizzazione degli utenti alle quali non è mai stata data risposta. E poi c’è un problema di conflitto di interessi 3.0: “a quale titolo per statuto tutti i parlamentari eletti devono versare 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau, che è un’associazione privata? Come vengono usati questi fondi”. Insomma il Movimento sarebbe “un animale pericoloso perché è concepito come strumento neutro, come strumento di costruzione del consenso, che può essere indirizzato verso diversi obiettivi”, non a caso ultimamente ha virato molto a destra, perché “si regola con gli strumenti del web marketing, i sondaggi e i social media, e quindi va dove va il consenso”. Eppure, sottolinea Iacoponi, “non cadete nell’equivoco di considerarlo una cosa effimera e cialtrona”: ci sono le personalità di facciata “selezionati per recitare ruoli, dal belloccio Dibba al moderato di Maio, mentre Fico è quello più a sinistra”, ma dietro ci sono quelli che furono “i collaboratori di Casaleggio, molto intelligenti e competenti, se dovessi costruire un partito mi rivolgerei proprio a loro”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Il valore sociale dell’arte

Dai futuristi, al Neorealismo di Vancini e Antonioni, fino ai fumetti di Gipi e Zero Calcare, lo sguardo degli artisti è sempre stato fondamentale per interpretare e raccontare la realtà attraverso uno sguardo che unisce etica ed estetica; in particolare a partire dal Secolo Breve, quando le masse e la cultura pop hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nell’orizzonte di chi lavora nel campo dell’arte. In più con la rivoluzione digitale il lavoro dell’artista è radicalmente mutato e si è ampliata la gamma dei pubblici, dei linguaggi, dei soggetti, dei materiali con cui lavorare, tanto che si parla sempre più di creatività e mestieri creativi in senso lato.
La domanda però è sempre la stessa: può l’arte dare una mano per cambiare il mondo? L’artista come può essere agente di un cambiamento sociale attraverso il proprio lavoro? Come, in una società sopraffatta e anestetizzata dall’abbondanza delle immagini, si può trovare uno sguardo artistico efficace per risvegliare e, perché no, provocare il pubblico?

Come ritrovare il valore sociale dell’arte e trasmettere attraverso di essa i valori di legalità, giustizia sociale, solidarietà, raccontando e interpretando il mondo che ci circonda è stato il punto di partenza della call europea ‘Artists@Work’, progetto promosso da Fondazione Unipolis, Atelier Varan, Cinemovel Foundation, Libera Associazioni, nomi, numeri contro le mafie, Udruzenje Tuzlanska Amica e cofinanziato dal Programma Europa Creativa dell’Ue.
Una call europea con tre paesi partner – Italia, Francia e Bosnia ed Erzegovina – e tre linguaggi, cinema, fotografia e fumetto, per un progetto formativo a metà fra passato e presente: se da una parte l’obiettivo è stato la multidisciplinarietà e la crossmedialità, sempre più necessari nel contesto artistico contemporaneo, dall’altra il metodo di insegnamento “è stato l’imparare facendo tipico delle botteghe rinascimentali”, come ha spiegato Roberta Franceschinelli di Fondazione Unipolis.
Dalla corruzione alla violenza di genere, dal degrado urbano alle politiche di rigenerazione, criminalità organizzata, immigrazione, tratta degli esseri umani, politiche di integrazione e interculturalità, sono solo alcuni dei contenuti delle 64 opere realizzate da 85 giovani artisti con l’aiuto di sei maestri di bottega, due per ciascuna arte. Tre di loro, oltre ad alcuni dei loro allievi, erano presenti come ospiti all’ incontro ‘Arte di valore’ sabato mattina alla Sala Estense nell’ambito di Internazionale a Ferrara 2018.
Renaud Personnaz, direttore della fotografia e maestro di bottega insieme al regista Bruno Oliviero per venti giovani filmmakers, ha spiegato che il lavoro è stato sulla dinamica io/noi: “abbiamo dato loro la possibilità di esprimere il proprio sguardo singolare, ma al plurale perché i film sono stati realizzati da gruppi di due o tre ragazzi”. “Quello che ne è venuto fuori è uno sguardo molto acuto sul mondo di oggi” e “un vero atto politico” perché la creazione di un’opera d’arte collettiva “nel mondo che viviamo oggi in fondo è un atto necessario, ma anche ribelle”.
L’approccio collaborativo e partecipativo, il sentirsi coinvolti in un progetto comunitario, nel racconto di una storia comune, anche quando si parte da posizioni lontane od opposte, è anche quello del fotografo Patrick Willocq: quando lavora alla realizzazione di uno scatto o di una serie di immagini “ognuno si deve rispettato nella propria posizione in una piattaforma creativa neutra”, in questo modo anche chi guarda “si può ritrovare in un’opinione espressa nell’immagine”.
Per Pietro Scarnera, maestro di bottega per il mondo del fumetto e dell’illustrazione – che ha esordito nel 2009 con il graphic novel ‘Diario di un addio’, sulla sua esperienza personale di figlio di un genitore in stato vegetativo, e nel 2014 ha pubblicato ‘Una stella tranquilla – Ritratto sentimentale di Primo Levi’ – il bello dei fumetti è “la possibilità della delicatezza”. I fumettisti non raccontano la realtà aggredendo il lettore, piuttosto “circondandolo con tutta una serie di emozioni”; ma “affrontare temi così complicati con l’illustrazione è possibile solo essendo profondamente onesti con sé stessi, raccontando qualcosa che sta veramente a cuore usando un punto di vista personale”.

Le opere di ‘Artists@Work’ sono in esposizione in anteprima assoluta a ‘Just/Art’ fino a domenica 7 ottobre nei locali di Factory Grisù in viale Cavour.
Clicca sulle immagini per ingrandirle

Tutte le info su ‘Artists@Work’ sono disponibili al sito www.artists-work.eu

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
I briganti si uccidono, i mafiosi si usano

Sono parole molto dure quelle pronunciate da Enzo Ciconte, studioso, scrittore e docente, autore del monumentale volume ‘La grande mattanza: Storia della guerra al brigantaggio’, edito da Laterza. Intervistato da Giuseppe Rizzo sabato 6 ottobre alla Biblioteca Ariostea, lo storico controcorrente ha approfittato del Festival di Internazionale per porre le basi di una questione imponente che non si potrà ignorare ancora per molto.
Il fenomeno del brigantaggio sembra una semplice querelle storiografica, poco più di una curiosità intellettualistica, in ogni caso ormai superata. Ma nonostante il banditismo identificabile come brigantaggio risalga almeno al Rinascimento, e non sia solamente ascrivibile alle vicende risorgimentali, in realtà molti nodi che ha intrecciato nella sua lunga esistenza sono riscontrabili e ben visibili ancora oggi, se non addirittura fin troppo presenti e troppo potenti.
Il lavoro di Ciconte, a cavallo tra inchiesta giornalistica e storiografia, ricostruisce una sorta di controstoria, perché molto spesso di quegli anni si è parlato poco e a volte anche male. “Non erano comuni criminali, né militanti politici pronti a difendere il proprio governo e la propria patria: il brigantaggio vero, infatti, era un fenomeno sociale, legato alla terra occupata dagli invasori, chiunque essi fossero”. I francesi a inizio Ottocento, i Borbone dopo il Congresso di Vienna, la borghesia a metà secolo, i piemontesi durante il Risorgimento: il bisogno della povera gente è stato sempre quello di sfamarsi, tanto è vero che solo nell’entroterra e lungo i fiumi il fenomeno veniva registrato, mentre sulle coste, dove non c’erano problemi legati a possedimenti terrieri, mai nulla.

Ciò che si visse nel diciannovesimo secolo era “una vera e propria lotta di classe”, tra contadini da una parte e proprietari invasori dall’altra, con in mezzo la borghesia che reclamava un proprio posto nella società, possibilmente in alternativa alla vecchia aristocrazia, che invece le classi povere rispettavano, in quanto secolare e riconosciuta. Né tantomeno il brigantaggio fu una manifestazione soltanto italiana; la nostra peculiarità, rispetto al resto del continente, fu semmai “la tarda unificazione”, che di conseguenza fece slittare in avanti il problema e la sua soluzione. I libri di scuola ci indicano come termine il 1870, ma la questione è più complicata. Difatti, dopo innumerevoli tentativi di risolvere la difficoltà con il terrore e le armi, fu “solamente con la legge di riforma agraria del 1950” che si riuscì infine a eliminare il gravoso problema. La sconfitta fu efficace perché avvenne sul piano politico: in pratica, venne data finalmente la terra ai contadini. Fino ad allora, tuttavia, quanta violenza fu utilizzata per contrastare il brigantaggio. E non si trattava di settentrionali contro meridionali, poiché la borghesia del regno siciliano era complice. “L’esercito scendeva in campo solo contro i briganti, però. L’altra faccia della medaglia, le organizzazioni criminali quali la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, venivano lasciate tranquille, dato che proteggevano le proprietà terriere e venivano usate dal potere in caso di bisogno. Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze”.
Non erano eroi romantici o criminali feroci, ma uomini derubati in cerca di lavoro per non patire la fame. Furono vittime di contesti sociali difficili e precari. Da noi non può che scaturire rispetto e desiderio di verità per un passato ancora presente.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Volti e incontri dal primo giorno di Festival

Il primo giorno di questa edizione di Internazionale a Ferrara è trascorso.
Il nostro fotografo Valerio Pazzi ha immortalato per voi sguardi, volti, momenti: dall’inaugurazione, con il conferimento del premio giornalistico Anna Politkovskaja al giornalista curdo iraniano Behrouz Boochani, alla lettura dei nomi delle 30.000 persone morte dal 1993 a oggi nel viaggio verso l’Europa da parte del fumettista Gipi. L’elenco, in continuo aggiornamento, è stato redatto dall’ong olandese United for intercultural action sulla base dei dati raccolti da ong, stampa e altre fonti: è la lista più completa finora esistente delle vittime accertate durante il viaggio in mare ma anche nella traversata via terra, nei centri di detenzione e nelle comunità per richiedenti asilo.
E tanto altro ancora…

Clicca sulle immagini per ingrandirle.

‘Fino a quando resisto’. Gipi legge i nomi delle 30.000 persone morte dal 1993 a oggi nel viaggio verso l’Europa

L’inaugurazione del Festival al Cinema Apollo

‘Chi sono io? Autoritratti e selfie, identità e reputazione. Quando le donne fotografano se stesse per trovare il loro posto nel mondo’. Con Concita De Gregorio, la fotografa Silvia Camporesi, Chiara Baratelli e con gli studenti del Liceo Roiti di Ferrara

‘Ti racconto una storia’
Voci e volti dal Cortile del Castello Estense

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Per un nuovo welfare europeo

Dalla culla alla tomba: era lo slogan del welfare socialdemocratico del Dopoguerra che ha reso l’Europa un modello e un punto di riferimento nella seconda metà del ventesimo secolo. Ormai solo un lontano ricordo: eroso a partire dagli anni Ottanta dal turbocapitalismo e dalla finanziarizzazione dell’economia e, negli ultimi anni, anche dalla crisi, che ha creato ancora più diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e sempre più ridotto le risorse degli Stati. Quelle politiche di austerity riassunte così spesso dalla frase “Ce lo chiede l’Europa”.
Un’Europa costruita – nonostante le utopie dei suoi fondatori, a partire dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – a partire dai mercati e dalle politiche economiche, piuttosto che dai diritti dei cittadini, soprattutto quelli sociali. Eppure sembra che dall’impasse che l’Europa sta vivendo, se proprio non vogliamo parlare di vera e propria crisi, non si possa uscire se non capovolgendo la situazione: ripartendo cioè dai diritti e costruendo un vero e proprio welfare europeo sempre più condiviso e integrato fra i vari Paesi, che esca dalle mere dichiarazioni di principio e che unifichi l’attuale disomogeneità di politiche negli Stati dell’Ue. Da soli i Paesi e le loro classi politiche non possono farcela contro aziende e mercati globali, che possono spostarsi da una realtà all’altra con un click in cerca di situazioni e condizioni più favorevoli, giocando continuamente una partita al ribasso.
È quanto emerso venerdì pomeriggio dall’incontro ‘L’Europa a misura di cittadino’, svoltosi all’interno del programma di Internazionale a Ferrara nell’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza. Ospiti: Michael Braun di Die Tageszeitung, Antonia Carparelli della Commissione Europea, il docente di Unife Alessandro Somma e, come moderatore, Dino Pesole de Il Sole 24 Ore.

Una discussione quella su sussidi, salario minimo, reddito di cittadinanza, di stretta attualità, dato che proprio in questi giorni si sta svolgendo il braccio di ferro fra Italia e Ue su manovra economica, documento di aggiornamento al Def e finanziamento del reddito di cittadinanza così come concepito dai Cinque Stelle: 6,5 milioni di italiani destinatari di circa 680 euro al mese, per un totale di 10 miliardi di euro.
Antonia Carparelli è partita dalle cifre Eurostat del 2016 sulla povertà: “118 milioni di persone a rischio di povertà in Europa, cioè con un reddito inferiore del 60% al reddito mediano della popolazione, inoltre 12 milioni di persone in una situazione di deprivazione materiale. Per quanto riguarda l’Italia, c’è un 30% di persone a rischio povertà, mentre il 10% delle persone più ricche ha aumentato la percentuale di ricchezza totale del Paese detenuta dal 40% al 50%”. Per la funzionaria della Commissione Europea “bisogna prima di tutto chiedersi quali sono le cause di queste povertà, altrimenti il rischio è che gli interventi siano una goccia nel mare e soprattutto che vengano allocate male le risorse. Per esempio sarebbe un grosso errore dirottare le risorse sul reddito di cittadinanza, lasciando indietro il sistema scolastico”.
Per Michael Braun “l’Europa tornerà a misura di cittadino quando si realizzeranno politiche per far tornare le persone, soprattutto della classe media, a credere nella scommessa, nella promessa del futuro”. Per il giornalista tedesco il successo di populismi e sovranismi deriva dal fatto che “la classe media si preoccupa per il suo futuro e pensa che i suoi figli staranno peggio”. A suo parere il reddito minimo o di inclusione, come dovrebbe essere definito il sussidio concepito dai pentastellati, dato che è una misura condizionale e non universalistica, “è una misura di civiltà. Non credo che sia criticabile l’approccio di dare a ciascuno per garantire un minimo di dignità”. Il rischio però è che accada quello che è avvenuto in Germania, dove questa misura già esiste: “che l’integrazione al reddito diventi un incentivo per i datori di lavoro per pagare di meno”. Per questo Braun insiste sul fatto che non si può prescindere dal “salario minimo garantito”.

Somma, invece, riporta l’attenzione sulle politiche attive del lavoro: i veri problemi sono la mancanza di lavoro e “il lavoro povero” perché così “si rompe il patto sociale” sul quale il welfare è sempre stato concepito. Per nulla tenero sia con l’Ue sia con il Movimento cinque stelle, Somma prefigura addirittura “il lavoro coatto” e di conseguenza “l’ulteriore abbassamento dei salari”, dato che le condizioni per avere il reddito di cittadinanza sono: dimostrare di aver cercato attivamente lavoro, non rifiutare più di due offerte di lavoro in un anno e divieto di licenziarsi più di due volte nell’arco di un anno. “Siamo addirittura giunti al consumo coatto – conclude Somma – dato che uno dei due vicepremier ha affermato che con il reddito di cittadinanza non si potranno fare spese immorali. Chi deciderà quali sono queste spese? È molto preoccupante perché i soldi saranno erogati tramite microchip, con la possibilità quindi di essere controllati e chi sgarra rischia almeno sei anni di galera”.
Ecco allora che sui social già fioccano gruppi sugli acquisti immorali, come per esempio… la pizza all’ananas. Si ride per non piangere!

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Donne di tutto il mondo unitevi!


‘Tremate, tremate’, questo il titolo di uno degli ultimi incontri della prima giornata di Internazionale a Ferrara 2018. Un titolo che richiama uno degli slogan delle femministe italiane negli anni delle lotte per la sessualità consapevole, la maternità responsabile e la riforma del diritto di famiglia; e sul palco del Teatro Comunale Claudio Abbado sono appunto salite cinque donne rappresentanti di diversi femminismi in diverse parti del mondo: le giornaliste Ida Dominijanni e Katha Pollit, Marta Dillon del movimento argentino Ni una menos, ispiratore dell’italiano Non una di meno, la polacca Marta Lempart e la pakistana Rafia Zakaria. Già questa è una testimonianza di quanto le lotte femministe stiano vivendo una stagione di nuovo internazionalismo e di reciproca influenza, quando non collaborazione. E qualche volta le cose cambiano, come dimostra per esempio l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2018 al ginecologo Denis Mukwege e a Nadia Murad, ex schiava del sesso dei miliziani dell’Isis, per il loro impegno contro l’uso della violenza sessuale come arma di guerra.
Tutto questo ha portato Dominijanni a dire che “il nuovo filo rosso fra i femminismi non è più solo la lotta contro la violenza di genere, sulla sessualità, sulla procreazione, ma anche quella su tematiche più strettamente politiche”: insomma se da una parte ci sono “la crisi del patriarcato e i rigurgiti dei nazionalismi” dall’altra “il fiume carsico delle lotte femministe riemerge in tutto il mondo”.

Anche la femminista e attivista lesbica argentina Marta Dillon ha affermato con forza e orgoglio che “il femminismo è l’internazionalismo che dobbiamo costruire oggi e per il futuro”, mettendo nel centro del bersaglio il sistema maschilista, patriarcale e capitalista nel suo insieme come si è venuto a costruire dal Medioevo. Non si può contrastare la violenza di genere senza combattere e decostruire “la violenza politica ed economica” creata dal contesto in generale; “dobbiamo cambiare la distribuzione della ricchezza, il modello di costruzione della famiglia”. Come farlo? Dillon usa un’espressione di una potenza e di una poeticità assolute: “trarre forza dalla vulnerabilità, trasformare la sofferenza in potenza, questi sono da sempre gli strumenti di lotta di tutti gli emarginati da chi detiene il potere”.
Ecco allora che anche il corpo da oggetto di violenza diventa strumento di lotta: lo si porta in strada per manifestare, per scioperare. Lo hanno fatto le argentine, come prima di loro, un anno fa, lo avevano fatto le polacche: uno sciopero femminista e classista. Il messaggio è “se siamo inferiori e inutili provate a far andare avanti il mondo senza di noi”. Per un giorno intero non sono andate al lavoro o a lezione all’università, hanno lasciato i bambini alla cura di qualcun altro e non si sono occupate delle faccende di cui di solito di occupano, hanno manifestato vestite di nero in segno di lutto per la possibile perdita dei loro diritti e della loro libertà, per protestare contro un disegno di legge che vieterebbe praticamente ogni forma di aborto, in un paese dove la pratica dell’interruzione di gravidanza è già ristretta a pochissimi casi. E da allora le cose sono cambiate, ha spiegato Marta Lempart: “prima solo il 37% della popolazione era favorevole all’aborto, ora siamo saliti al 69%”, ora lei, femminista e lesbica, può candidarsi per la prima volta alle elezioni comunali della sua città. E allora si va avanti e si combatte contro i neonazisti ai quali il governo permette di sfilare nelle strade delle città: “a Varsavia 14 donne si sono messe di traverso a 61.000 neonazisti. Sono state insultate e picchiate e ora sono addirittura sotto processo, accusate di aver tentato di fermare la marcia”. “Il nostro programma si chiama ‘Polonia per tutti’, per una Polonia nella quale i diritti siano garantiti per tutti: siamo in tante e anche se qualcuna di noi viene messa a tacere le altre sono pronte a prenderne il posto”.

E chi incarna il modello capitalista e machista meglio del Presidente Usa Donald Trump? “Negli Stati Uniti ci sono sempre più donne che si candidano proprio come reazione all’elezione di Trump: sono infuriate perché non è solo un reazionario, ma è anche una persona che ha compiuto atti terribili verso le donne e ne è contento”, ha spiegato Katha Pollit, che ha poi aggiunto “Me too, finora associato solo al mondo dei media statunitense e hollywoodiano, in realtà associa la lotta alla violenza contro le donne e quella alle discriminazioni sul lavoro”. (Leggi l’articolo di Ferraraitalia sulle femministe americane e le ultime elezioni americane)

Rafia Zakaria ha portato la prospettiva delle femministe dei paesi islamici che devono combattere una doppia battaglia: contro gli estremisti islamici e contro gli occidentali che le vogliono emancipare con le bombe. “Dobbiamo scontrarci con le interpretazioni misogine dell’Islam e con chi dice che quello è l’unico modo per essere musulmano e poi con il neoimperialismo. Gli islamisti ci dicono che il femminismo è un’invenzione occidentale e quindi non possiamo essere femministe, mentre gli occidentali ci vogliono insegnare cosa significa essere femministe ed emancipate, mentre invece c’è un femminismo autonomo nei paesi musulmani. Spesso abbiamo l’impressione che le alleanze femministe siano per così dire condizionate dall’ammissione da parte nostra che tutti gli uomini musulmani sono cattivi”.

Tanto, tantissimo è stato fatto e tanto, tantissimo potrebbe offrire la visione femminile e femminista del mondo in un momento di crisi e trasformazione come quello che stiamo attraversando. Ma c’è ancora tanto, tantissimo da fare: sono ancora le donne a dover tremare purtroppo, anche qui in Italia, se giovedì notte anche grazie al voto di una donna, capogruppo del Pd in Consiglio Comunale, Verona è diventata ufficialmente “città a favore della vita” grazie a una mozione con la quale fra l’altro saranno finanziate associazioni cattoliche che portano avanti iniziative contro le interruzioni volontarie di gravidanza.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Scienza diviso umanesimo, uguale: fanatismo

Rispettavano la natura, la amavano, quasi la idolatravano, come fine a se stessa, come massimo valore. Poi una nuova ideologia, un nuovo desiderio prendono il sopravvento: il bisogno di avere un figlio. E tutto cambia.
Non è stato facile avere Paolo Giordano quest’anno per la prima volta al Festival di Internazionale a Ferrara, visti i suoi numerosi impegni a seguito dell’uscita in libreria di ‘Divorare il cielo’, romanzo best-seller dalla primavera scorsa. ‘Gli scienziati raccontano’, incontro organizzato dal Master di primo livello dell’Università di Ferrara ‘Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza’, si è svolto venerdì 5 ottobre presso il Dipartimento di Economia e Management. A incontrare lo scrittore, nonché fisico teorico di formazione, il giornalista scientifico Michele Fabbri, fiero di esser parte del master Unife che – ha ricordato alla platea – esiste da ben diciotto anni e ha prodotto ormai più di 800 persone esperte, italiane e non.

La posizione di Fabbri è chiara. Intervistato da Ferraraitalia, ha confermato come sia questa la via maestra per perseguire una vera comunicazione scientifica: “non una semplice divulgazione che cerca di spiegare il difficile con parole semplici, ma una comunicazione in grado di far comprendere come la tecnoscienza si articola nella vita quotidiana; la nostra sfida è formare coloro che formeranno, coloro che si porranno come interfaccia tra chi fa scienza e chi no”. Eh sì, perché il momento storico che stiamo vivendo è, a detta dello scienziato divenuto autore letterario, peculiare: “il divorzio tra racconto e scienza, in tutti i sensi, è sofferenza per la cultura”. Una spaccatura, quella tra sapere umanistico e sapere scientifico, che si realizza molto presto nella vita delle persone, addirittura già alle scuole elementari, quando una parte fondamentale del sapere viene presentata come oscura e violenta, provocando di fatto un istintivo disamoramento che mai potrà venir meno. Giordano, invece, non ha abbandonato un mestiere per intraprenderne un altro. Le opere della sua seconda vita sono profondamente intrise di temi scientifici, estremamente attuali e prorompenti.

Non ci è permessa, oggi, la non comprensione della scienza: se ciò poteva anche essere sopportabile nel passato, oramai è impensabile. Molte sono le sfide etiche che i sempre incessanti progressi della tecnoscienza ci presentano, ma il tempo per metabolizzare tutto questo non è mai sufficiente. E se non si afferrano i termini delle questioni, il rischio è quello di affidarsi all’istinto, all’intuito, se non all’indole o al momento contingente. Amos Oz lo chiamava “gene del fanatismo”: un gene presente in ciascuno di noi, ma attivabile dal contesto che si vive. E, forse, il nostro tempo sta collaborando all’attivazione di molto fanatismo, da una parte e dall’altra, senza vie di mezzo. “C’è ancora molto da fare nella comunicazione scientifica attraverso la letteratura”, ci confessa ancora Giordano dopo l’incontro. “Basti pensare che molti libri narrativi con temi scientifici partono da un livello di complessità medio-alto, perché è difficile partire da più in basso”.
Avevano amato la natura, così com’era, ma ora volevano un figlio, ed essa non glielo concedeva. Eppure la soluzione era là, una via contraria alla precedente. La fecondazione assistita.

LA VIGNETTA
Equivoci

Illustrazione di Carlo Tassi

C’è l’Internazionale a Ferrara… ma stavolta non parliamo di calcio!

5, 6, 7 ottobre 2018. Un weekend con i giornalisti di tutto il mondo. Incontri, dibattiti, laboratori e proiezioni. Tre giorni di interviste, spettacoli e iniziative sociali.

Festival Internazionale 2018:
Programma

Ferrara al voto, prove tecniche di democrazia

Democrazia, come tutti ben sappiamo, significa potere del popolo. E ieri sera allo spazio Grisù si è svolto un inedito esperimento che ha coinvolto oltre 100 persone di ogni età e differente condizione sociale che si sono presentate rispondendo a un appello circolato su Facebook nei giorni scorsi dal titolo “La città che vogliamo”: un appuntamento per il quale sul social network in 718 avevano manifestato virtualmente interesse.
Spazio Grisù si trova nell’ex caserma dei pompieri. Alimentare – attraverso l’ascolto e il confronto – il fuoco della politica e spegnere le fiamme che stanno rendendo incandescente il conflitto sociale è l’obiettivo degli autoconvocati. Il numero dei partecipanti alla serata, che si è svolta in “sala macchine” (altra significativa allusione), è importante e indicativo di un bisogno reale, non sopito. Le modalità che hanno orientato la svolgimento dei lavori sono quelle che tipicamente si definiscono espressione della democrazia ‘dal basso’: tavoli tematici attorno ai quali far circolare idee e proposte, senza gerarchie, secondo il principio che ogni testa e ogni parola conta, è preziosa e merita attenzione. A pronunciare la breve introduzione è il giovane avvocato Federico Battistini. “Un ‘cittadino’, serio, onesto, integro” lo definiscono gli organizzatori, una ventina, appartenenti a vari mondi riconducibili principalmente agli ambiti del volontariato e dell’associazionismo. Segue una spiegazione tecnica di Elena Bertelli (che opera nel campo della comunicazione) circa le modalità di lavoro e interlocuzione. E poi si procede con la formazione di tre gruppi di discussione tematica: su educazione, cultura e integrazione; su sanità e servizi al cittadino; e su territorio, ambiente e agricoltura.
Il confronto è fluito serrato ed è stato vivacemente e rispettosamente partecipato. Allo scadere del tempo assegnato ogni circolo, attraverso un proprio portavoce, ha riferito agli altri il senso della discussione e le proposte emerse. Obiettivo implicito, ma non apertamente dichiarato: definire i prodromi di un programma di governo per quel che il manifesto della convocazione definisce “la città che vogliamo”.
Insomma, ci siamo: prove tecniche di democrazia che si sviluppa dal basso attraverso la costruzione di un programma che scaturisce dai bisogni che i cittadini avvertono e che tiene conto dei loro orientamenti e delle soluzioni condivise.
Non è la prima volta in assoluto che qualcosa del genere succede, ma con queste modalità, negli anni recenti, è forse la prima volta per Ferrara; ed è particolarmente significativo che questo accada oggi, in vista di un appuntamento elettorale il cui esito appare quantomai incerto, a fronte della virulenta avanzata del fronte populista che, anche in città, alle ultime consultazioni, ha marcato una forte crescita e ha visto il contemporaneo declino del partito, il Pd, formalmente erede della tradizione di coloro che da sempre hanno governato.
E’ un seme, quello piantato ieri nel cuore del Gad, il quartiere simbolo della frizione civica; forse un germoglio. Lo spirito positivo e propositivo e la voglia di mettersi in gioco non mancano. Qualcuno, certo, oggi sorriderà per questa impresa naïf, ma domani potrebbe cambiare espressione.
Il grande Bernard Russel ci ricorda che “gli innocenti non sapevano che la cosa fosse impossibile, dunque la fecero”.

La pagina Facebook del gruppo “La città che vogliamo”

Fisiognomica e filologia: ‘Me ne frego’

Riguardo con stupore le foto del balcone che scatenano l’applauso della folla sotto raccolta, e mentre Di Maio alza la mano nel gesto di vittoria, ecco che la memoria involontaria scatta non tanto perché, è ovvio, di trionfi annunciati sotto il balcone è assai prodigo il Novecento ma perché scenografia, luci, impostazioni rimandano a certi attori e tecniche del cinema espressionista con impressionante coincidenza. Così il vice-ministro è la copia perfetta di un grande attore cinematografico la cui carriera è indissolubilmente legata alla nascita del filone dei film horror: Bela Lugosi la cui vita scopro ha molti punti di contatto con quella del vice-ministro. Ecco alcune informazioni:

“Bela Lugosi, pseudonimo di Béla Ferenc Dezső Blaskó (Lugoj, 20 ottobre 1882 – Los Angeles, 16 agosto 1956), è stato un attore ungherese, inizialmente attivo anche come sindacalista. È rimasto celebre per le sue interpretazioni nei film horror, prima fra tutte quella del personaggio di Dracula. Ha recitato in piccole parti teatrali in patria prima di prendere parte al suo primo film nel 1917, ma dovette lasciare il suo paese a seguito della fallita rivoluzione sovietica ungherese del 1919”.

Sappiamo, sappiamo: la Storia non si ripete ma crea impressionanti contatti tra il passato e il presente. Vedere dunque il ghigno di Lugosi e l’inquadratura del politico sul balcone fa una certa impressione, così come sapere che la carriera dell’attore comincia come sindacalista. In più, la sua fama venne presto offuscata da Boris Karloff, insuperato attore inglese che gli contese e alla fine vinse il ruolo di Frankenstein (ogni riferimento alla realtà attuale NON è casuale ma voluto).

D’altra parte le preoccupate note del presidente Mattarella sulla tenuta dei conti e sul rapporto con l’UE provocano in Matteo Salvini una vibrata reazione che si esprime in questa frase: “La Carta non impedisce un cambio di rotta. Mattarella stia tranquillo. Dell’Europa me ne frego“. E nel contesto della giornata mondiale del sordo, così il ministro dell’Interno replica al rischio di una bocciatura della manovra: “Abbiamo fatto una manovra che investe soldi per chi di soldi non ne vede da molti anni: giovani, pensionati, le pensioni di invalidità. E se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso”.

Ma una parola evidentemente imbarazzante (non per lui) le cui origini sono di natura dannunzian-mussoliniana e che Berlusconi che se ne servì nel 2018 per replicare a chi gli domandava se fosse in ambasce per la decisione di Strasburgo sul suo ricorso (poi ritirato), vale una piccola indagine filologica che s’accoppia per me alla lettura di un libro fondamentale che sta avendo, per fortuna, un successo di pubblico impressionante: M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani 2018) che, uscito agli inizi di settembre, sta già esaurendo la seconda edizione. Sappiamo quanto l’innovazione linguistica in età mussoliniana andasse di pari passo con il rifiuto dell’altro, dello straniero, e quindi fosse ineluttabilmente legato all’ignobile giornale che diffuse nel tempo il concetto della difesa della razza (encomiabile da questo punto di vista, specie nel corredo iconografico, il numero dell’Espresso uscito il 30 settembre che ripercorre il terribile tema nella propaganda mussoliniana). Che si sia poco attenti alle traduzioni e quindi nel recepire una fake news è ormai consuetudine; come quella che riguarda la frase del presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker che, in polemica con l’allora premier Matteo Renzi, usò le parole “je m’en fous”: “La traduzione che andò per la maggiore fu “me ne frego”, con inevitabile coda di polemiche, anche se in francese il senso è tra “non m’importa” e il triviale “me ne fotto”.

Nella volontà di “nazionalizzare” il linguaggio voluta dal Duce e di quanti impressionanti neologismi la lingua italiana si appropriò che oggi suscitano ilarità se non perplessità, il me ne frego ha illustri radici. Fu coniato da d’Annunzio che (come riporta la Treccani): “Un motto “crudo” come lo definì lo stesso poeta, […]. Il motto apparve per la prima volta nei manifesti lanciati dagli aviatori del Carnaro su Trieste. Il motto era ricamato in oro al centro del gagliardetto azzurro fiumani (un gagliardetto che riporta “me ne frego” è presente al Vittoriale degli italiani di Gardone, nella dei legionari sezione “schifamondo. […]Trae origine dalla scritta che un soldato ferito si fece apporre sulle bende, come segno di abnegazione totale alla Patria”.

Accertate dunque le origini dannunziane del motto, quest’ultimo si diffuse presto tra gli squadristi e tra gli Arditi che nell’immediato dopo guerra sembravano divenire una mina vagante e che Mussolini usò per crearsi quel seguito di elettori che la defezione dei socialisti gli aveva fatto mancare, come spiega in modo straordinario il libro di Scurati. Il motto dunque si ripete nell’inno che accompagna le imprese dei fascista di cui diamo qui una strofe:

“Questa nostra bella Italia
non sia usbergo al traditore
e soltanto il tricolore
arra sia di civiltà
Per d’Annunzio e Mussolini
eia, eia, eia
alalà! …

Me ne frego,
me ne frego,
me ne frego è il nostro motto,
me ne frego di morire
per la santa libertà!…”

Con questo intendo dire che Salvini è un fascista? No certo ma che non sappia misurare le parole e non ne conosca l’origine è sicuramente accertato.

Per riprendere a proposito di impressionanti contatti il tema affrontato da Bassani e riproposto da Vancini nel film La lunga notte del ’43 leggo il rapporto esibito da Scurati dell’ispettore di pubblica sicurezza Gasti che nel 1919 scrive: “Benito Mussolini è di forte costituzione fisica sebbene sia affetto da sifilide. Questa malattia particolarmente vergognosa secondo il senso comune ma che il Duce riscatta con le sue avventure amorose è quella che affligge il farmacista Barillari nel racconto bassaniano. Una malattia procuratagli dall’imposizione di Sciagura a frequentare le case di tolleranza tra un’impresa squadristica e l’altra e che procurerà l’atteggiamento di Barillari a non più giudicare ma ad osservare. La sifilide per lui non sarà più segno di virilità.

Come concludere? Mi sembra ovvio. L’attenzione della ‘ggente’ alle imprese dei due dioscuri giallo-verdi andrebbe ‘monitorata’ con un poco di Storia ma purtroppo sembra che questa fondamentale capacità dell’uomo di stabilire una connessione tra passato e futuro e leggerla nel presente sia la grande assente nell’impresa politica non solo italiana ma mondiale.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La mente collettiva

Non ho rapporti con l’Australia, non conosco nessuno in quel continente, ma ricevo regolarmente le newsletter dall’Amministrazione di Melbourne, perché Melbourne è una knowledge city e di questo mi occupo, così ho potuto leggere il piano della città da qui al 2021.
C’è una bella affermazione a introduzione del loro programma, che voglio condividere. La convinzione che in una città della conoscenza il potere collettivo della mente e dell’esperienza guida la prosperità della città, la sua capacità di competere a livello globale e la qualità della vita di cui godono le persone.
La città come mente collettiva, come somma di esperienze tutte necessarie a far respirare i suoi polmoni. Il tutto supportato da una rete di risorse che va dal sistema di istruzione e ricerca, alla collaborazione con le imprese per produrre una forza lavoro di talento, altamente qualificata e una cultura dell’innovazione. Una città vivace e collaborativa basata sulla cultura dell’apprendimento permanente, sulla conoscenza come impresa sociale.
La conoscenza come risorsa indispensabile all’oggi per impastare il domani.
Temo che da questo punto di vista a noi manchi sempre più la materia prima per costruire il futuro. Intendiamoci, conoscenza significa studio continuo e ricerca continua per scuola, università, istituzioni culturali, persone e imprese, questa è una necessità da cui non si sfugge, per questo dovremmo davvero essere allarmati e non solo per le cifre degli abbandoni scolastici che abbiamo, per la fuga dei nostri giovani laureati all’estero, per cui investiamo in istruzione in perdita.
Se il mondo cambia è ovvio che dobbiamo cambiare anche noi e per cambiare servono come prima risorsa idee nuove, nuove visioni, nuovi cammini da percorrere, e questi possono formarsi solo se le nostre menti vengono alimentate da pensieri inediti che possono nascere solo dallo studio e dalla ricerca. Fortunatamente, contrariamente al passato, le opportunità di studio e di accedere ai saperi si sono moltiplicate, ma dello studio bisogna fare un dato costante per tutti, combattere approssimazioni e superficialità, venditori di favole e del tempo passato.
Quando non si sa più affrontare il presente significa che si è ignoranti, si ignorano cioè gli strumenti per reggere le novità e le nuove sfide, non vengono né le idee né si intuiscono le strade per ricercare soluzioni e, quindi, non resta che studiare, ricercare, se non ci si vuole far spappolare i cervelli dalla propaganda e dalla demagogia del primo venuto, dal fai da te risolutore e salvifico della rete digitale, dagli affabulatori di narrazioni semplificate spesso false.
Che la conoscenza sia oggi divenuto il primo ingrediente delle nostre vite è un dato di fatto, c’è un analfabetismo funzionale che non è incapacità a leggere, scrivere e far di conto, ma incapacità ad accedere ai saperi, a passare dal sapere alla competenza, in un epoca in cui le conoscenze sono sempre più accessibili a tutti, ma è l’uso da farsi delle conoscenze che non si è appreso dalla stragrande maggioranza dei nostri connazionali.
Da qui a dieci, vent’anni il 40% dei lavori attuali con ogni probabilità sarà superato dall’automazione, ci saranno altri mestieri, come è possibile che l’uomo si liberi sempre più dalla schiavitù del lavoro, recuperi il suo tempo di vita.
Non è la dannazione neppure la disoccupazione. Liberarsi dal lavoro significa avere più tempo da dedicare alla mente, a coltivare lo studio e la ricerca, consentire a masse di persone tagliate fuori dallo studio di accedere alla cultura, di acquisire dignità contribuendo con la propria intelligenza alla crescita del patrimonio culturale e di conoscenze del proprio paese, della propria città, dell’umanità intera. Perché l’umanità cresce se cresce il suo sapere, se si incrementa il numero delle persone che indagano quei terreni dello scibile umano che ancora ci nascondono le loro rivelazioni.
Il lavoro di domani sarà sempre più lo studio e la ricerca, pagati con il denaro pubblico, chi perde il lavoro deve riconvertirsi allo studio, recuperare i percorsi scolastici e universitari non compiuti, per poi dedicarsi ad un campo di studio e di ricerca, è questo che è necessario al futuro delle nostre esistenze su questo pianeta. La moltiplicazione degli istituti di formazione e di cultura, il bando ad ogni numero chiuso e l’apertura di campus internazionali, una tassazione generale per finanziare lo studio, la formazione e la ricerca permanenti, per moltiplicare il numero dei lavoratori della conoscenza e pagarne il salario. Da tutto ciò potranno scaturire nuove attività, nuove produttività e nuove opportunità fino ad ora impensabili. È questa la mente collettiva vivace di cui avremo sempre più necessità, è questa la risorsa di cittadinanza che può essere la prospettiva di un futuro che vale la pena costruire, vivere e far prosperare.

La leggenda dei piranha nei prati in fiore

I’m Not in Love (10cc, 1975)

Un cofanetto di latta trovato nell’armadio, una vecchia scatola di biscotti. Guardo dentro e ritorno di colpo al passato.
È pieno zeppo di foto, molte in bianco e nero, alcune a colori…

Anno 1975: un’altra vita, un altro mondo, un altro me stesso. Il mangiadischi di mia sorella suonava ‘rock the boat’, ‘rock your baby’, ‘Love theme’ e tutta la musica luccicante d’allora che portava l’estate ogni giorno dell’anno.
Io e mio cugino, bambini sul lago, persi tra sogni e ricordi, quando voglia d’avventura e meraviglia coloravano le nostre giornate.

Magliette a righe come quelle dei marinai, pantaloncini bianchi e corti alle ginocchia, sandali di gomma per camminare sui sassi immersi nel lago. Due monelli a zonzo per le vie di Garda. Io sono il piccoletto, poi quello spilungone di mio cugino, magro come un’acciuga e più grande di me di quasi tre anni.
Le giornate sono lunghe ma mai noiose perché una storia da inventare la si trova sempre. Ce ne andiamo in giro a cercare qualcosa da fare, concentrati e determinati come due piccoli agenti in missione segreta. Ogni luogo è una terra sconosciuta da esplorare, ogni oggetto trovato è un mistero da risolvere, ogni ostacolo una sfida da vincere. E alla fine di corsa al quartier generale, la grande casa presa in affitto per le vacanze, sicura e confortevole coi nostri genitori sempre ad aspettarci e a far domande.

L’eterna estate degli anni settanta quando luglio e agosto valevano un anno intero. La scuola finiva e iniziava l’avventura. Posti lontani a due passi da casa. I giri con le bici, interminabili viaggi senza tempo… Com’era bella la vita senza i telefoni in tasca!

Dalla spiaggia della Cavalla fino a Punta San Vigilio. Eccolo: è questo il nostro mondo tutto per noi e pronto da conquistare!
Quella volta partiamo a caccia di cagnette armati di secchiello, retino, lenze e mollica di pane. Ci caliamo nei cunicoli semisommersi tra gli scogli e aspettiamo pazienti le nostre prede. Mostri voraci dalle bocche irte di denti, vivono nascosti nel buio di fessure di roccia sommersa: le nostre murene in miniatura.
Per niente buone da mangiare, con una pelle grigia e priva di squame, fredda e sgusciante come quella delle anguille. Sono piccole ma forti e muscolose, munite di dentini aguzzi e dolorosi come aghi…
Per un po’ le cagnette sono il nostro principale passatempo. Una volta catturate finiscono nel secchiello giallo pieno d’acqua e restano lì per tutto il tempo della “missione”, ovvero finché non decidiamo di ributtarle nel lago. Così quella mattina ne pesco una così grossa che ho paura a prenderla in mano. Tiene la bocca spalancata quasi a voler dire “se ti avvicini ti mordo”. Mi ricorda la bocca dei piranha che ho visto tante volte nell’acquario del negozio di animali di via Armari a Ferrara. Quante volte mi son fermato a fissare quella vetrina… ricordo che i piranha erano due e se ne stavano precauzionalmente da soli, mentre al sicuro nell’acquario di fianco c’erano pesci combattenti blu e pesci spazzino sempre indaffarati a dragare la ghiaia ammucchiata sul fondale.
Ma torniamo al lago. Alla fine catturiamo circa una trentina di cagnette. Alquanto soddisfatti decidiamo di raggiungere lo stagno che si trova nel bel mezzo dei giardini pubblici, a poca distanza da noi. Arrivati ai margini dell’acqua liberiamo le cagnette una ad una, come in un rito solenne. Le guardiamo scomparire con guizzi fulminei nelle acque grigie e immobili dello stagno. Siamo fermamente convinti della bontà dell’operazione: una colonizzazione in piena regola, con l’idea che in breve tempo lo stagno si sarebbe popolato di cagnette. E tutto questo grazie a noi.
La delusione è cocente quando l’indomani il signor Romeo, il nostro padrone di casa, ci spiega che le cagnette non sono pesci in grado di sopravvivere in uno stagno. Che al contrario hanno bisogno di acque ricche d’ossigeno come quelle del lago. Senza saperlo le avevamo condannate a morte.
La sera stessa, tormentati dal senso di colpa, torniamo allo stagno nuovamente muniti di lenza, retino e secchiello con la speranza di salvarne almeno qualcuna. Vorremmo catturarle di nuovo per riportarle al lago ma sappiamo che l’impresa è disperata: le acque dello stagno sono torbide, la superficie è ricoperta di piante acquatiche, è impossibile vedere il fondale.
Siamo ormai sul bordo dello stagno. La luce del tramonto dipinge di sfumature arancioni l’ambiente tutt’attorno, le ombre s’allungano rapidamente sui cespugli, sui prati fioriti. Ma è proprio tra l’erba che intravedo qualcosa muoversi. M’avvicino per vedere meglio e chiamo subito Gianfranco. Restiamo a bocca aperta, increduli.
Sotto di noi una processione di cagnette che si trascinano sull’erba non senza difficoltà. Usano le minuscole pinne come delle zampette primitive. In pratica camminano.
Non sappiamo affatto come facciano a respirare fuori dall’acqua ma ci riescono.
Ci guardiamo attorno e alla fine capiamo cosa sta succedendo: a una ventina di metri da noi, proprio nella direzione presa dai pesciolini, passa il torrente che taglia in due il paese segnando il confine orientale dei giardini pubblici. Le sue acque scorrono limpide e veloci finendo nel lago a poca distanza.

Ecco qua: le cagnette non avevano certo bisogno del nostro aiuto, per loro avevamo già fatto anche troppo.
Siamo rimasti ad osservarle nel loro lento e inesorabile cammino verso la salvezza. Ritornavano a casa spinte da un istinto di sopravvivenza a noi sconosciuto, guidate da una bussola misteriosa nascosta nel loro dna.
È già buio pesto quando l’ultima cagnetta, la più grossa, quella che il giorno prima mi aveva ricordato i piranha dell’acquario, raggiunge a fatica il bordo del torrente. Senza pensarci un attimo la prendo in mano per lanciarla in acqua, lo faccio per aiutarla anche se non ne ha bisogno. Prima di cadere nel torrente lei mi ringrazia mordendomi il pollice.
Mai morso fu più doloroso e meritato di quello!

Love’s Theme (The Love Unlimited Orchestra, 1973)

Rock Your Baby (George McCrae, 1974)

Rock the Boat (Hues Corporation, 1973)

Un convegno a Ferrara:
Voci sottili, chiusure identitarie e la macchina della paura

Un vento impetuoso soffia ormai ovunque, sospettoso verso ogni diversità, di fronte alla quale non c’è azione di governo che non sia in difficoltà a fare sintesi.
Crisi che percorre da dentro le democrazie, in difficoltà a conciliare voci, culture, sensibilità, interessi, opinioni e fedi (sempre più al plurale), con il momento della decisione. Controcorrente si pone, a Ferrara, “Una voce di silenzio sottile”, XXIII convegno di teologia della pace, ospitato martedì nella parrocchia di Santa Francesca Romana. Il titolo cita il versetto 12 del capitolo 19 del primo libro dei Re, nella Bibbia.
L’incontro si è aperto con la presentazione del libro “Il folle sogno di Neve Shalom Wahat as-Salam”, curato da Brunetto Salvarani (Milano 2017). Tra gli autori del libro il giornalista Giorgio Bernardelli, che ha raccontato l’esperienza dell’Oasi di pace (traduzione di Neve Shalom Wahat as-Salam nella duplice espressione ebraica e araba), fondata da padre Bruno Hussar nel 1974 in Israele.
Prete cattolico, domenicano, nato in Egitto nel 1911, ebreo e cittadino israeliano. Quattro identità destinate a segnare per sempre la sua vita, che proprio nella terra delle grandi speranze e di permanenti conflitti fonda un luogo d’incontro tra ebrei e palestinesi e poi aperto anche per chi, come direbbe Woody Allen, “credere in Dio è una parola grossa, diciamo che lo stimo molto”.
Persone, famiglie e scuole, per mettere insieme ciò che ovunque è visto come il diavolo e l’acqua santa, o i poli della calamita che si respingono.
Eppure quello che in Israele, e non solo, pare impossibile, diventa realtà a Neve Shalom Wahat as-Salam.
Itinerario di un uomo destinato dalla nascita ad abbattere barriere e pregiudizi, quello di Bruno Hussar. Tanto che arriverà a lavorare a fianco del cardinale Augustin Bea durante il concilio Vaticano II nella scrittura della dichiarazione Nostra Aetate, ossia la svolta conciliare che ha lasciato definitivamente alle spalle la convinzione del popolo deicida e dei perfidi ebrei, ossia i principi ripetuti per secoli nella teologia e nella liturgia cattolica.
Fra le ultime realizzazioni del prete domenicano, la Dumia (in ebraico “silenzio”), una cupola bianca, uno spazio del silenzio. Una stanza vuota, vicino alla sua tomba (morì nel febbraio 1996), in cui, proprio come nel libro dei Re, l’incontro con il mistero divino non avviene nel fragore dei terremoti o nelle tempeste, ma in “una voce di silenzio sottile”.
Come ha detto bene Bernardelli, se si vince l’iniziale perplessità di uno spazio disadorno si riesce a comprendere il significato di un luogo privo di simboli. È, innanzitutto, la volontà di disintossicarsi dalla bulimia di simboli che, in ambito religioso, oggi tornano a essere forti richiami identitari, spesso in senso nostalgico. Rosari e vangeli branditi nelle piazze, le ampolle di sangue omaggiate pubblicamente e le immaginette di santi esibite con recitata ritrosia davanti alle telecamere, non sono che gli esempi più recenti.
Riedizioni di perimetri simbolici e dottrinali (per stabilire nuovi dentro e fuori), che se in ambito religioso motivano fondamentalismi e zelanti purismi, su quello laico-politico finiscono per trovare terreno di sutura nelle rinnovate spinte nazionaliste nel segno del popolo, della stirpe, dell’ethnos e in un concetto marmoreo di tradizione.
Glorioso passato idealizzato, frantumato da una contemporaneità che ha declassato le evidenze etiche da universali a regionali e contaminato da un’inarrestabile complessità che genera timori e insicurezze, e che per questo va restaurato per ripristinare l’ordine perduto.
Perciò riemergono le chiusure identitarie sapientemente cavalcate dalle macchine della paura dell’altro e laddove ci sono varchi aperti, rinascono confini, dazi, fili spinati, muri.
E così le pulsioni sovraniste e nazionaliste sono gonfiate da consensi, che all’ombra di quei vessilli trovano riparo (illusorio) da un clima di caos e da un globalizzazione lontana dall’avere varcato le colonne d’Ercole di una definitiva prosperità generalizzata.
Soffrono invece le ragioni della solidarietà e della fraternità, che stentano a trovare anche solamente un vocabolario in grado di spiegare che la diversità è anche ricchezza e opportunità, non solo motivo di paure e sospetti.
Del resto, la stessa Europa dei popoli finalmente amici e non più in guerra tra loro, in perenne, incompiuto e precario equilibrio fra un assetto intergovernativo, prigioniero degli egoismi nazionali, e il suo approdo federale, ben oltre lo spazio riduttivamente economico di mercato, è sempre più un’immagine al limite dell’inguardabile.
I giovani e talentuosi musicisti dell’ Orchestra Euyo, provenienti dai 28 paesi del vecchio continente, che al termine di ogni stupendo concerto si abbracciano tra loro, cammina nel solco dell’Europa che vorremmo, ma è forte il rischio che tutto si fermi alla retorica di un gesto, per quanto bello a vedersi, dentro un teatro.
Eppure, l’aver parlato dell’esperienza di Neve Shalom Wahat as-Salam, ha richiamato l’attenzione su un’Oasi in cui la convivenza delle diverse identità è stato il principio di vita del suo fondatore ed è tuttora un faticoso sentiero di pace in una terra che tuttora non conosce soluzione al conflitto.
Averlo fatto nella parrocchia di Santa Francesca Romana, significa che anche a Ferrara esiste un avamposto nel quale da 23 anni si cercano le ragioni profonde della pace, a partire da quelle religiose, non importa in quale direzione stia tirando il vento.
Un convegno arrivato all’edizione numero 23, lo stesso numero di papa Giovanni XXIII che aprì il concilio nell’ottobre 1962 esortando a dissentire dai profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi sovrasti la fine del mondo”.
Una voce che per quanto di “silenzio sottile”, è un applauso a un uomo che ha saputo vivere la diversità incisa nella propria carne non come una disgrazia, ma come un sentiero di speranza.

La politica del caos

Adesso andate con la memoria al passato, soprattutto a quello della Prima Repubblica.
Pensate ai vari Andreotti, La Malfa, Fanfani, De Mita, Spadolini, Natta, Iotti, Intini, Amato…
Pensate a quelle interminabili tribune politiche sulla Rai, grigie, pallose e incomprensibili. Vecchi tempi: c’era la Dc eternamente al governo, i suoi alleati, il Pci eternamente all’opposizione, i sindacati incazzati come pantere nelle assemblee di fabbrica, gli scioperi, la lira, l’inflazione, la scala mobile, il compromesso storico, il politichese…

Poi, fuori dai nostri confini, c’era l’America e l’Unione Sovietica, punto. L’Europa era solo una comparsa importante, divisa dal famoso ‘muro’: da una parte le democrazie occidentali e dall’altra i regimi filosovietici, da una parte i capitalisti e dall’altra i comunisti. Il resto del mondo era ancora terreno di conquista degli uni e degli altri, anche dopo tanti decenni dalla fine del colonialismo. Pensate, in fondo, a com’era tutto prevedibile, preordinato, addomesticato dal deterrente di una possibile guerra nucleare tra le due superpotenze d’allora. L’incubo della guerra atomica, un suicidio globale che nessuno sano di mente ha mai voluto, ha di fatto inibito la naturale entropia politica del mondo intero per cinquant’anni.
Pensate ai vecchi film di 007, il super agente segreto britannico eternamente in competizione con l’inseparabile – sempre nemico e a volte alleato – agente sovietico, oppure alle prese col bieco miliardario di turno, tanto folle e megalomane quanto improbabile e grottesco. Film dalle trame semplici e lineari con finale scontato. Confrontateli coi film di spionaggio attuali: verosimili, caotici e ingarbugliati come teoremi di fisica quantistica.
Ebbene, oggi la realtà ha superato la fantasia!

Ormai lo stiamo avvertendo in tanti: la politica ha cominciato a rivelare il suo fascino perverso soprattutto da quando s’è fatta caotica. Da quando cioè sono saltati i vecchi schemi strategici, tutti quegli assetti geopolitici e quelle stesse ideologie che in qualche modo l’avevano resa prevedibile (e forse pure noiosa) per troppi anni.
L’ho appena ricordato: il mondo diviso in due blocchi, comunismo contro capitalismo, e tutti gli altri, che stavano fuori da questi due sistemi, costretti a ubbidire all’uno o all’altro.
Ora, dopo l’implosione e il disfacimento di uno dei due blocchi, l’illusione di quello vincente (?) che tutto il mondo ne seguisse l’esempio s’è dovuta scontrare con una inaspettata e sconcertante realtà che, come accennerò tra breve, semplicemente segue un’unica regola: quella del caos.
La verità è che siamo fatalmente e masochisticamente attratti dalle complicazioni… e cosa c’è di più complicato e masochistico di una politica caotica come quella odierna?
La gente è scontenta, esasperata da una crisi epocale di cui non vede una fine semplicemente perché non si tratta di una crisi ciclica ma sistemica, strutturale. Una crisi cioè che non avrà soluzione se non cambierà tutto il sistema
Ma voi ce le vedete le lobby economico-finanziarie mondiali che accettano di farsi da parte per salvare il salvabile? Per dare maggiore equità al mondo? Per rendere giustizia a tutti coloro che stanno pagando gli effetti delle disparità e delle disuguaglianze generate dal neoliberismo dilagante? A breve aspettiamoci delle sorprese gente… e non piacevoli!
Il modello neoliberista che dagli anni novanta in poi ha goduto di una diffusione senza precedenti sta scricchiolando, sta mostrando al mondo le sue prime crepe.
E ora, l’intera classe politica che ne ha fatto l’unico modello di riferimento – tutta la classe politica – dalla destra, da sempre allineata ai poteri forti e alle élite finanziarie, alla (fu) sinistra, che ha deciso di rinnovarsi sposando senza riserve (dovranno prima o poi spiegarci il perché) la stessa dottrina neoliberista, sta scontando questa scelta attraverso un calo di credibilità epocale. La gente non crede più nelle promesse, nelle dichiarazioni d’intenti, nei proclami. La gente è stanca della formula politica basata sulla rappresentanza, semplicemente perché la classe politica non rappresenta più la gente ma il potere economico.
Ma attenzione, l’attuale spettacolo della politica è desolante solo in apparenza. Soprattutto per chi fa informazione, questo spettacolo non è mai stato così attraente e stimolante.

Preambolo: cominciamo col dire che la politica, come ogni altra disciplina complessa, è composta di due aspetti, uno teorico (in cui, più o meno, siamo tutti bravi, quasi dei geni), e uno pratico (e qui la musica cambia). Nel secondo non basta fare due più due, perché nella realtà della politica due più due non fa mai quattro. C’è sempre una variabile di troppo, un segno invisibile, un’incognita imprevista che scombina i piani, stravolgendo un risultato che sovente (e a torto) si dà per scontato.
È un po’ come nelle teorie del caos. Una di esse, dell’illustre chimico premio Nobel Ilya Prigogine, sostiene, per esempio, che la realtà non segue strettamente il modello dell’orologio, prevedibile e determinato, ma ha aspetti caotici entro i quali instabilità e imprevedibilità sono la norma…
Pertanto, tutti gli elementi che abbiamo considerato, ordinato e che crediamo di avere sotto controllo, sperando di mantenerli in un equilibrio costante nel tempo, sono al contrario esposti a forze che vanno al di là della nostra capacità di comprensione. Questi elementi, spinti da simili energie, finiranno col tempo per attrarsi o respingersi fino a sovvertire l’ordine che avevamo con tanta fatica raggiunto (oppure soltanto auspicato), per sostituirlo con un altro non previsto, poi un altro, e un altro ancora. Ininterrottamente e in eterno.
Il fatto è che il caos trae origine da un fenomeno da cui nessuno di noi può prescindere, qualcosa che è un tutt’uno col concetto stesso di esistenza: il movimento.
Ma proviamo a capirne di più facendo qualche esempio pratico: cosa c’è di più dinamico, movimentato, ribollente, instabile, tellurico, di questo nostro tanto auspicato mondo globalizzato? Reso ancor più traballante da un neoliberismo ormai fuori controllo, responsabile di disequilibri e tensioni destinati solo ad aumentare?
Quando si elimina il controllo di un sistema, il disordine prende fisiologicamente il sopravvento: le forze che agiscono nello spazio si moltiplicano entrando prima in contatto e poi in conflitto. Le forze sono per definizione dinamiche e, una volta liberate, si attraggono e si respingono in un moto perpetuo dai meccanismi imprevedibili. In altre parole, il caos.

Questa è la situazione che l’attuale classe politica di tutto il mondo è chiamata a gestire e a risolvere. E il paradosso è che questa situazione è l’esatto risultato delle scelte fatte dalla classe politica tutta, indistintamente.
In un tale quadro non proprio esaltante, l’informazione è chiamata a svolgere un superlavoro! Ogni giorno vengono divulgate notizie vere e false, o notizie vere che racchiudono falsità e notizie false che sottintendono verità. Un fiume di notizie, di informazioni e disinformazioni, che sfruttano tutti i canali possibili: radio, televisione, internet. Si tratta di una vera e propria proliferazione monstre di dati nel quale è sempre più arduo distinguere il vero dal falso. Il caos porta anche a questo.
Tutto ciò per quanto riguarda la visione d’insieme del problema.

Poniamo adesso il discorso a una dimensione più vicina al nostro quotidiano. Anche se può apparire banale, consideriamo che la politica si rivela risolutiva soprattutto quando la si attiva per raggiungere risultati parziali, cioè per risolvere problemi limitati nello spazio e nel tempo. Sistemare le seccature di un condominio è probabilmente meno arduo che risolvere i problemi di un intero quartiere con la pretesa di rendere felici tutti i suoi abitanti.
Perciò, più l’azione politica è limitata nello spazio e nel tempo, meno saranno le variabili e le incognite in grado di mandare all’aria il buon esito di detta azione. Al contrario, più i problemi sono complessi e allargati nello spazio, più servirà tempo per affrontarli e risolverli, e sappiamo che il tempo, prima o poi, porta imprevisti.
Spesso non è neppure lontanamente sufficiente la durata di una legislatura (cinque anni, se si fa riferimento all’ordinamento italiano). Ed è per questo che quasi sempre la fine di una legislatura coincide col malcontento della gente che l’ha vissuta e subita. Se ci aggiungiamo che in Italia, per la cronica debolezza dei nostri equilibri politici, le legislature non arrivano quasi mai alla fine naturale del loro mandato, la probabilità che un governo mantenga tutte le promesse fatte in campagna elettorale si rivela un’autentica chimera (oggi ancor più che in passato).
E questo non tanto e non solo in ragione di una sua conclamata inefficienza (sarebbe bene che ognuno di noi lo capisse quando viene il momento di tirare le somme), ma soprattutto a causa degli intralci generati proprio da chi è governato, cioè dalla gente. Quella stessa gente che poi sarà chiamata a giudicare i risultati ottenuti o i risultati disattesi e i fallimenti. Gente costituita da un insieme eterogeneo di persone con interessi contrapposti, persone spesso non in grado di comprendere fino in fondo quanto e in che modo le proprie scelte e le proprie azioni individuali possano influire nel bilancio della collettività d’appartenenza.
Un governo non solo ha il compito e il potere di eseguire le decisioni politiche di uno stato, non è solo l’espressione della maggioranza di un popolo, ma diventa anche, suo malgrado, la principale speranza del cittadino nella ricerca di una soluzione ai suoi problemi individuali che non sempre coincidono coi problemi del paese nel suo insieme. È per questa ragione che i governi sono fatalmente soggetti a essere il capro espiatorio preferito dai cittadini quando le cose vanno male.

È così: La politica deve fare i conti con forze centripete (gli interessi individuali dei cittadini) e forze centrifughe (gli interessi strategici degli enti sovranazionali). Forze tra loro antitetiche che di fatto intralciano o addirittura compromettono l’azione politica di uno stato, generando risultati destinati a scontentare tutti con effetti collaterali imprevedibili.
La schizofrenia dell’attuale politica la porta a voler sedurre gli individui e al contempo a farsi sedurre dagli enti sovranazionali. Un atteggiamento contraddittorio che ha provocato una spaccatura coi cittadini sempre più profonda e destinata a peggiorare.
Per questo motivo servirebbe un radicale cambio di rotta della politica, una svolta epocale come epocale è l’entità dell’attuale crisi.
Il caos non è alle porte, il caos è ormai entrato nel nostro quotidiano. E sta già travolgendo tutto quanto, non soltanto il mondo della politica. Dal mondo del lavoro a quello più ampio della comunicazione, dal credo religioso alla sfera più intima dei rapporti umani. La sensazione è quella di una progressiva deregolamentazione imposta da un sistema globale che tuttavia sta rafforzando il proprio controllo su tutto. Una formula non nuova che si regge sull’enunciato che la progressiva debolezza dei controllati rafforza ulteriormente i controllori.

Una destra che parla di uguaglianza, che va nei quartieri poveri e nelle periferie a parlare con la gente. Una sinistra che si siede a fianco di industriali e banchieri. Un nuovo razzismo di pancia, emergente certo, ma fortunatamente orfano delle ideologie aberranti del passato. Una classe operaia che vota Lega, perché abbandonata a se stessa e incazzata più che mai con una classe politica di sinistra considerata (a ragione) traditrice e voltagabbana. Una élite intellettuale di sinistra, appunto, con maglioncini di cashmere e Tod’s che abita gli attici nei quartieri bene e che considera gli operai… anzi non li considera proprio più!
Dicevo, un’Europa falsamente unita che predica l’accoglienza e la pace, ma vende armi ai paesi in guerra e svuota l’Africa delle sue risorse. Un terrorismo non più soltanto circoscritto a un territorio o a un’ideologia, ma motivato da ragioni esistenziali, religiose ed economiche, e con una diffusione più che mai internazionale e capillare.
Infine la favola della globalizzazione, la cui propaganda parla di mescolanza tra i popoli, di interscambio senza più barriere, di fratellanza e di abbattimento delle distanze… mentre la realtà è fatta di povertà e di disuguaglianze in aumento.
Ma la vera notizia sta nella trasversalità. E già… una volta la povertà era appannaggio esclusivo del proletariato e del sottoproletariato, ora si è aggiunta anche la piccola/media borghesia. Quella impiegatizia, dei piccoli imprenditori che non ce la fanno, degli statali senza carriera, dei nuovi disoccupati, dei pensionati con pensioni da fame…
Come si dice: mal comune mezzo gaudio!
Sappiamo però che la realtà è cosa ben diversa di un semplice proverbio, perché questo mal comune ha invece partorito un implacabile comune denominatore: la paura.
Una paura folle di perdere tutto quello che ci è rimasto, quello che ancora non ci è stato tolto.
Adesso, il sistema che ha provocato la crisi, invece di mettersi in discussione, esige ulteriori sacrifici dalla gente, lo fa instillando paura, insicurezza e sensi di colpa. Lo fa con la complicità dell’informazione, quella istituzionale, quella collegata alle lobby finanziarie che, attraverso il sistema del debito, controllano risorse e servizi. Centri di potere che non potrebbero mai concepire un sistema diverso da quello in cui si sono generati. Un sistema folle, fondato su quel colossale gioco d’azzardo sulla pelle dei popoli, chiamato economia finanziaria.
Il caos è il suo habitat, solo nel caos questo sistema è in grado di ordire le sue trame per sopravvivere e continuare ad arricchire quel solito uno per cento della popolazione…
Questa politica del caos non ci riguarda. Questi revisori dei conti, queste guardie giurate in completo grigio con un occhio alle borse e un altro alle poltrone non ci rappresentano.
La politica, quella vera, si dia una mossa!

DIARIO IN PUBBLICO
La città e le sue necessità

“ Aiutiamoli al loro paese!” La perentoria frase del governo giallo-verde risuona lugubremente mentre Zoro alias Diego Bianchi mostra le condizioni della popolazione nel Congo o dei paesi che una volta così si chiamavano nel suo reportage “Propaganda Live” e della funzione svolta da Medecins sans frontieres in quei paesi o città che pretendono di avere questo nome. E’ difficile scordare gli occhi di quei bambini negli ospedali da loro gestiti ma è difficile soprattutto trattare da quasi farabutti (vero Salvini?) chi opera in quel contesto.

La città dunque e chi se ne deve fare responsabile.

Leggo sull’Espresso del 18 settembre la testimonianza di uno scrittore Christian Raimo che è diventato assessore alla cultura nel terzo municipio di Roma dove abitano 210 mila persone, quasi privo di servizi culturali e dove si erge un << centro commerciale ciclopico, Porta di Roma, un cubo enorme, un asteroide, una cattedrale nel deserto, in cui ogni anno entrano 14 milioni di persone>> mentre una fabbrica l’impianto Tmb per il trattamento meccanico biologico dei rifiuti appesta l’aria del luogo.

E’ questo il destino delle città quando si calcola che nel prossimo futuro la struttura della città attirerà la metà e più della popolazione mondiale?

Come riportare alla sua funzione reale la città?

Negando negli editti emanati ieri dal governo la possibilità di intervenire sulla riqualificazione delle periferie? O continuare a ignorare un miglioramento che per la sindaca Raggi di fronte ai miasmi della TMB sostiene sia un disagio temporaneo? Bene ha fatto il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani a citare in giudizio il governo e l’architetto Roberta Fusari assessore all’urbanistica della città a spiegare tra il dolente e l’indignato il rifiuto del governo a finanziare il bellissimo progetto che avrebbe riqualificato un’ intera area di Ferrara tra l’ex Mof, il Museo dell’Ebraismo e il corso d’acqua del canale. Ma siamo poi sicuri che le decisioni della ‘sinistra’ si siano rivelate abbastanza coraggiose o lungimiranti o semplicemente politiche per ostacolare la trionfante ascesa della Lega?

Questa puntata del mio ‘Diario in pubblico’ doveva trattare di uno degli episodi culturalmente ed eticamente importanti che si sono svolti nella città estense in questo periodo: la proiezione in strada tra le spallette del Castello dove furono fucilati nel 1943 importanti personaggi ferraresi come ritorsione all’attentato che uccise il federale Ghisellini senza dubbio provocato dagli stessi fascisti e la farmacia ‘Barillari’ che si affaccia su quel muretto. Quel luogo ha prodotto un racconto edito nel 1956 nelle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, Una notte del’43 che diventa il soggetto del film di Vancini: La lunga notte del ’43. In questo luogo, Corso Roma al tempo degli avvenimenti, ora Corso Martiri della libertà il film di Vancini è stato proiettato con grande affluenza di pubblico, oltre un migliaio, che ha assistito con un silenzio partecipato all’evento.

Avrei quindi dovuto rifarmi allo splendido saggio di Guido Fink, Le tre notti del ’43 che introduce il volume edito per l’occasione e che riproduce la sceneggiatura originale del film fatta da Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini , Florestano Vancini ( La Carmelina, Ferrara 2018) con i contributi di Paolo Micalizzi, Anna Maria Quarzi e dello stesso Vancini. L’edizione è stata patrocinata ed effettuata dall’Istituto di Storia Contemporanea, dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara con il contributo del Comitato Nazionale Celebrazioni del centenario della nascita di Giorgio Bassani che ha messo in rilievo l’eccezionalità dell’avvenimento che si pone tra i migliori risultati dell’attività triennale del Comitato delle Celebrazioni bassaniane.

Avrei dovuto dunque ripercorrere con Fink quei momenti che mi videro inconsapevole testimone qualche anno dopo quella terribile notte quando, come ho raccontato in altre occasioni, fui testimone e partecipe di una delle prime produzioni letterarie di Guido e del riflesso che s’irradiava dalla difesa consapevole dell’amico che raccontava di un padre in viaggio che gli mandava tanti regali mentre il suo nome era scritto in quella lapide in via Mazzini dove si leggono i nomi delle vittime dell’Olocausto proprio fuori dalla porta in cui abitava, tra cui quella del padre e di parte della sua famiglia.

Avrei dovuto ricordare l’ospitalità romana negli anni Settanta offertami da Fabio ed Elvira Pittorru affinché potessi sostenere agiatamente il concorso per le scuole che si teneva a Roma. E le serate in pizzeria da ‘Piscia piano gioia mia’ e gli incontri con la colonia ferrarese a Roma tra cui Massimo Felisatti in primis ma anche talvolta Vancini e il seriosissimo e silenzioso Antonioni; poi ancora le vacanze a Lussinpiccolo con Gianni Buzzoni sposo di una sorella Vancini e gli incontri con i nipoti che imparai ben presto a conoscere nelle mie trasferte ferraresi.

Tutto si riconduceva alla protagonista principale delle storie ovvero quella F. che poi divenne Ferrara e al suo romanzo opera omnia del magistero letterario di Giorgio Bassani le cui frequentazioni fiorentine in quel decennio formarono noi giovani intellettuali raccolti attorno all’insegnamento di due ferraresi: Lanfranco Caretti e Claudio Varese.

Una città dunque da cui parte e si sviluppa un episodio che Bassani sigla con l’indeterminativo ‘una’ e che per il regista diventa ‘la’ lunga notte del barbaro eccidio.

Non sarà poi un caso che lo scandalo prodotto nasca non tanto dal racconto di Bassani ma dal film che osava mettere per la prima volta sulla scena quella che si configurerà poi come la guerra civile tra un popolo non più combattente contro lo straniero ma tra di loro come ricorda la testimonianza di Anna Quarzi. Una visione che costò parecchie difficoltà al regista e alla produzione, addirittura la negazione dei contributi ministeriali, come racconta lo stesso Vancini che parlò del film come un episodio di non resistenza <>. Quell’atteggiamento che lo stesso Bassani denunciò nella più bella delle Cinque storie ferraresi, Una lapide in via Mazzini cioè la volontà di dimenticare dei ferraresi come esemplificazione di tutti gli italiani, al ritorno di Geo Josz dall’inferno dei campi di concentramento.

Tutto questo era implicito come il silenzio davvero commosso che è sceso tra gli astanti nel momento in cui il film mostra quei poveri corpi caduti l’un sull’altro e che ci si rendeva conto della barbarie di quel gesto fratricida mentre dall’alto Barillari osserva e si ritrae.

La città dunque centro della Storia che dimostra la realtà e anticipa il futuro.

Quel futuro che ora si fa presente negli ospedali del Congo o nella scelta della realtà virtuale del terzo municipio romano.

A Ferrara il Festival Giardini Estensi in versione autunnale

Da: Ufficio Stampa Giardini Estensi

Dopo il successo dell’edizione primaverile torna, sabato 29 e domenica 30 settembre nella splendida cornice del parco di Palazzo Massari, la rassegna Giardini Estensi, mostra mercato di piante rare e insolite organizzata dall’associazione Ferrara ProArt.

Un appuntamento “green” in salsa autunnale, dedicato agli amanti del verde o a semplici curiosi e turisti, con oltre cento bancarelle dense di fiori e profumi, frutto del lavoro di veri e propri produttori di essenze
vegetali.

Nel ricco carnet di eventi in programma conferenze, workshop, esposizioni, intermezzi danzanti e promenade su musiche dell’800

Fantasia e creatività, colori e profumi per salutare l’estate: Ferrara, città Patrimonio dell’Umanità UNESCO, apre nuovamente uno dei suoi scrigni per l’edizione autunnale del festival Giardini Estensi, giunta alla sua 8a edizione. Lo splendido Parco di Palazzo Massari ospiterà la rassegna del florovivaismo e dell’artigianato d’alta gamma, nelle giornate di sabato 29 e domenica 30 settembre.
Un contesto ideale per gli affezionati della biodiversità e della sostenibilità ambientale: non vi è infatti sede più prestigiosa di quella del grande Parco Massari che, all’ingresso, accoglie il visitatore con due secolari Cedri del Libano ed è un prezioso contenitore di numerose essenze arboree.
L’evento, organizzato come a maggio dall’associazione culturale Ferrara ProArt, propone eccellenze florovivaistiche frutto della collaborazione con oltre cento aziende agricole provenienti da varie parti d’Italia. Gli stand d’artigianato a tema faranno da complemento alla fiera proponendo sorprendenti novità.

Un ricco carnet di eventi e workshop sulla sostenibilità ambientale farà da sfondo alla mostra-mercato, con tante originali iniziative (laboratori didattici, corsi di fotografia e di realizzazione, incontri) a fare da corollario alla manifestazione.

Sabato 29 alle ore 10.30 aprirà il ciclo di conferenze (tutte in programma presso lo Spazio Incontri al centro del Parco) Francesco Scafuri, responsabile dell’Ufficio Ricerche Storiche del Comune di Ferrara, con la conferenza “I giardini a Ferrara nei secoli e l’apoteosi del meraviglioso”.
Nel pomeriggio (ore 15.30) si terrà l’incontro con Carlo Pagani, dal titolo “Il Maestro Giardinie-re Risponde”. Pagani, Garden Designer fra i più famosi esperti botanici d’Italia, conduttore televisivo e titolare di Flora 2000, azienda che propone collezioni di vecchie varietà frutticole, rose, lillà e altri arbusti e che progetta e realizza giardini, sarà a disposizione del pubblico per ogni domanda sulla cura delle piante per l’orto e per il giardino.

Domenica 30 settembre aprirà la giornata un focus sulle orchidee, definite una medicina per l’anima. “Come coltivare le orchidee” è il titolo dell’incontro condotto da Francesco Locatelli (ore 10), un mini corso dedicato a quanti volessero iniziarne la coltivazione.
Alle 11.30 la conferenza “Utilizzo dei microrganismi effettivi EM per la salute dei bambini”, a cura di Carlo Bertoncello, cui seguirà un aperitivo a base di microrganismi effettivi a cura di Marco Dalboni biobarman.
Nel pomeriggio (ore 15) “L’orto creativo con bacche e semi di patata”a cura di Fabrizio Bottari del Consorzio della Quarantina, conferenza accompagnata da una mostra di oltre duecento va-rietà di patate provenienti da varie parti del mondo; chiuderà il ciclo di incontri, alle ore 16.30, il dibattito “Gli alberi in città: delizie e tormenti” con l’agronomo Giovanni Poletti, titolare dello studio Doc Green, esperto di alberi piantati nelle città, sulla cura e manutenzione di parchi e giardini.

Al festival ci sarà spazio anche per dimostrazioni e laboratori didattici.

In entrambe le giornate, presso lo stand dell’artista Teresa Miotti, è in programma una dimostrazione e insegnamento delle tecniche di base per realizzare cappelli in paglia di Firenze.
Sul principio etico del riuso ispirandosi alla natura è incentrato il workshop di ecotessitura creativa tenuto da Monica Zunelli (sabato e domenica 10-12.30 e 14-16.30), textile artist e artcounselor che, dopo l’esperienza accademica e vari percorsi di sperimentazione e progettazione nell’ambito dell’arte tessile e dell’arte visiva, ha sviluppato nella tessitura a mano un modo di comunicare tridimensionale (iscrizioni zunellimonica@gmail.com, 338/7356999). L’obiettivo è quello di raggiungere uno stato di benessere mentale e di rilassamento attraverso il processo creativo.
Sabato alle 15.30 corso di fotografia istantanea per bambini per disegnare foglie e fiori sulla carta con utilizzo di antica tecnica (grazie al sole), a cura della fotografa Annalisa Chierici.
Domenica 30 settembre (ore 15.30 presso lo stand Just Event) ci sarà un corso per realizzare (con fil di ferro, fiori ed erbe aromatiche) splendide ghirlande per decorare la vostra casa, a cura della flower designer Patricia Goedertier.

Assoluta novità di questa 8a edizione il Giardino Verticale Indoor: superfici coltivate in verticale, da un semplice quadro domestico, a intere facciate di abitazioni. Tutta la bellezza e i benefici della natura in casa nelle dimensioni di un quadro vegetale vivente.

Ma un parco è anche luogo ludico. A Giardini Estensi spazio quindi anche ai giochi: presso lo stand di Ferrara Progea aps ci si diletta con “Rinvasa e porta a casa”, attività didattica per i bambini; “Giocare con niente (Il vero giocattolo didattico è il gioco che non c’e’)”, presso lo stand dell’Associazione culturale Erbe Palustri di Villanova di Bagnacavallo, è un laboratorio didattico, rivolto ai bambini da 0 a 99 anni, nel quale vengono presentati e provati alcuni giochi e giocattoli di una volta, che testimoniano le condizioni e le modalità di gioco dei bambini d’inizio ‘900 e degli anni ’50, evidenziando come l’autonomia e la povertà di mezzi portassero a sviluppare grande creatività e abilità manuale, impiegando semplici materiali naturali e di recupero.
Altro laboratorio dimostrativo è “Intreccio delle erbe di valle” (a cura dell’Ecomuseo delle erbe palustri di Villanova di Bagnacavallo), un’originale forma di artigianato sviluppatasi fino a divenire, tra Otto e Novecento, una delle principali imprese economiche della zona. L’Ecomuseo delle Erbe Palustri conserva memoria di quel saper-fare e di quella stagione produttiva e documenta il contesto ambientale ed economico in cui il paese viveva. E ancora, l’artista Roberto Bottaini, con i suoi cesti tipici di Pescia (Toscana), intrecciati con salice e non solo.
Ad arricchire il programma una selezione musicale in tema con il concept del festival: sabato alle ore 18, nel prato a nord del Parco, speciale Bagno di Suoni con Matteo Gelatti (musicista olistico e ricercatore nell’ambito del benessere), mentre in entrambi i giorni del festival le danze di società dell’Ottocento, eseguite su musiche ottocentesche della famiglia Strauss e dei grandi Maestri italiani come Verdi, Rossini e Paganini, faranno da sottofondo a impeccabili cavalieri in frac nero accompagnati da dame in abito da Gran Ballo, che danzeranno, in abiti d’epoca, lungo i viali di Parco Massari. Un modo per esplorare il mondo e l’atmosfera dell’epoca, dal romantico valzer viennese, alla quadriglia, alle contraddanze dalle suggestive mazurke figurate, alle marce (sabato e domenica, per info: Società di danza Circolo Ferrarese, ferrara@societadidanza.it, 366/8293700).

Per tutta la durata della rassegna verrà inoltre allestito, per chi volesse pranzare o cenare, un punto ristoro in stile country-chic in mezzo al verde.
L’ingresso al festival è gratuito ed è visitabile nelle due giornate dalle ore 9.00 alle ore 23.30

SESTANTE
Margot, l’assaggiatrice del Reich

Non c’è stata competizione al premio Campiello 2018: senza alcun margine di indecisione o dubbio, ha vinto meritatamente il romanzo “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino, 167 voti su 278, tra i pareri entusiasti di lettori e critici. Un libro che va a riesumare un piccolo capitolo di storia minore sconosciuta della Germania del 1943, che solo un’unica testimone sopravvissuta poteva consegnarci negli ultimi anni della sua vita, Margot Wȍlk, attraverso uno speciale dedicatole dal canale televisivo berlinese RBB nel 2010, all’età di 96 anni. L’autrice Postorino ha tratto ispirazione partendo proprio dal racconto della donna, mancata nel 2014, prima che potesse incontrarla personalmente, romanzando personaggi, fatti e circostanze ma rispettando l’essenza della narrazione e lo spirito della storia inquietante, affascinante e così maledettamente umana da crearne un caso letterario singolare . Era una giovane donna di 24 anni, Margot Wȍlk, figlia di un dipendente delle ferrovie tedesche, segretaria, sposata a Berlino, quando scoppiò la guerra e il marito fu chiamato al fronte. E questo è l’incipit del romanzo ma è anche il punto di partenza della reale confessione della donna, dopo anni di drammatico silenzio, sensi di colpa e vergogna, perché non è facile raccontare violenze, drammi, sentimenti ed emozioni umane straordinarie ed estreme. Margot si trasferì dalla suocera a Gross-Partsch, un paese nella Prussia Orientale – oggi Parcz in Polonia -, dove sarebbe vissuta più tranquilla che nella Berlino bombardata e dove Hitler aveva stabilito uno dei suoi quartieri generali a Rastenburg, a soli 3 km, la tristemente famosa ‘Wolfsschanze’, la ‘Tana del Lupo’. La Wȍlk racconta, nell’intervista televisiva, come il sindaco, vecchio nazista, abbia bussato alla porta e l’abbia costretta a seguirlo per raggiungere altre 15 donne del posto e diventare un’assaggiatrice alla mensa del Führer, sotto il comando diretto delle SS. Esattamente come nel Medioevo, quando il ruolo dell’assaggiatore presso le corti dei Grandi era fondamentale non solo per evitare l’avvelenamento del signore di turno ma anche per una consuetudine ormai radicata. Hitler temeva che gli inglesi potessero avvelenarlo, una delle paure e delle nevrosi che lo portavano anche ad avere la fobia dei dentisti, dei fiocchi di neve e degli ambienti chiusi. Ed ecco che le donne dovevano rendere sicura la somministrazione degli alimenti a lui destinati, mangiando il suo cibo ed attendendo un’ora per verificarne gli effetti. Una convivenza con il terrore e il rischio di morire che è durata due anni e mezzo. La donna racconta: “ Non ho mai visto Hitler di persona ma solo il suo cane Blondi. Il Führer era vegetariano e ogni giorno il cuoco serviva frutta esotica, piselli, asparagi, verdure freschissime, accompagnate da salse squisite.” Dopo l’attentato fallito ad Adolf Hitler del 20 luglio 1944, nella Tana del Lupo, quando alcuni ufficiali tedeschi fecero scoppiare una bomba, i controlli si rafforzarono e le assaggiatrici furono costrette a sottoporsi a un ulteriore regime forzato sotto lo sguardo costante dei soldati. Era una vita di perenne tensione e terrore di morire improvvisamente, che non lasciava respiro nemmeno tra un pasto e l’altro. Giorno dopo giorno le donne erano preda delle emozioni più contrastanti: la gioia di poter raggiungere cibi negati a tutti sentendosi quasi delle privilegiate e al contempo la morsa dell’alto rischio cui andavano incontro. Il pianto liberatorio e le manifestazioni che seguivano ogni pasto danno la misura della tensione elettrizzante, dell’angoscia e della condizione estrema del momento. E se il cibo era sinonimo di vita e sopravvivenza da un lato, dall’altro diventava il simbolo stesso della morte. Nelle ultime fasi della guerra, quando il terrore si sposta sull’avanzata dell’esercito russo, Margot Wȍlk riesce a fuggire, con l’aiuto di un soldato tedesco, su un treno speciale di Goebbles e raggiungere Berlino, dove trova solo devastazione e macerie. Le sue compagne assaggiatrici rimarranno al paese trovando la morte per mano dei militari russi. La Wȍlk racconta di come a Berlino fu portata insieme ad altre 14 giovani donne nell’appartamento di un medico e là, costrette a subire violenza da parte dei soldati russi per 14 giorni consecutivi, ininterrottamente. Non erano serviti nemmeno i travestimenti che utilizzavano spesso le giovani donne per non attirare l’attenzione, che consistevano in camuffamenti da anziana ammalata di tifo. Nella sua testimonianza, la donna racconta tutta la desolante sofferenza: “Dopo stetti molto male, non potei più avere figli. Hanno distrutto tutto, ho avuto incubi terribili. E’ qualcosa che non si può dimenticare.” “Avrei tanto voluto una bambina…” confessa, consapevole delle conseguenze fisiche e psichiche di quel vergognoso stupro di massa. E la sofferenza che interiorizza e deposita negli angoli più nascosti della sua anima non le permetterà neanche di ricostituire un rapporto col marito tornato successivamente e inaspettatamente dalla guerra. Rimarrà vedova negli anni che seguono, inferma e chiusa in casa per 8 anni della sua vita. Ma, racconta Margot come in un inno alla vita, nella sua unica, lunga testimonianza: “Ogni giorno mi vesto, mi metto i miei gioielli e mi trucco, non sono una donna sconfitta, malgrado quello che mi è capitato ho sempre cercato di essere felice, non ho mai perso il mio sense of humor. Sono solo diventata più sarcastica. Ho deciso di non prendere le cose in maniera drammatica, è stato questo il mio modo di sopravvivere.” Margot Wȍlk è morta nel 2014 a 100 anni e ci ha lasciato questo spicchio di storia sconosciuta che Rosella Postorino ha valorizzato, annoverandolo tra gli eventi di storia minore che meritano conoscenza e riconoscimento.

FEsta in pace
La due giorni per la convivenza pacifica e l’accoglienza

Si è svolto nei giorni del 21 e 22 settembre il ‘FEsta in pace’, il festival promosso da ‘Ferrara che accoglie’, che ha visto protagoniste svariate associazioni tutte unite dall’obiettivo comune dell’accoglienza e dell’integrazione. Ben 8 i gazebo di altrettante associazioni allestiti in piazzetta municipale nei quali si sono tenuti dibattiti, raccolte firme ed attività per i più piccoli, affiancati dal palco sul quale si sono avvicendate personalità, associazioni, spettacoli e film. Accanto a tutto ciò anche la mostra fotografica ‘Noidentity’ di Luciana Passaro dedicata agli esseri umani privati della loro libertà.

Il pubblico non è mancato e sono state molte anche le personalità politiche presenti all’occasione, dal vicesindaco Maisto fino all’arcivescovo Perego, che nel suo intervento ha tenuto a sottolineare come la gente in piazza sia stata “ una provocazione verso chi legittima una legge più permissiva sulle armi” – riferimento non tanto velato verso la Lega – e sul come i cittadini stranieri debbano essere visti come una “risorsa” per la città.

Le preoccupazioni verso la deriva “autoritaria” e “razzista” dell’attuale governo non sono mancate anche nelle dichiarazioni di chi, come Adam Atik di “Occhio ai media”, il quale ha aperto la kermesse, ha detto che “bisogna smettere di parlare alla pancia delle persone, siamo tutti sulla stessa barca e una città di pace si costruisce soltanto con persone che vogliono una città di cultura e non di ignoranza.”

Le parole d’ordine di tutta la manifestazione sono state “integrazione”, “no al razzismo” e si alla convivenza pacifica, ottenuta attraverso la reciproca conoscenza e alla multiculturalità vista come la marcia in più per affrontare le sfide del futuro, come hanno cercato di dimostrare tutte le associazioni presenti provenienti da svariati ambiti e collocazioni ideologiche, ma tutte concordi su un aspetto: queste iniziative devono diventare sempre più frequenti per far capire come un futuro di convivenza e tolleranza sia necessario oltre che possibile.

Ferrara città della bellezza e una politica chiusa alla partecipazione

Immagino che le discussioni sulle prossime elezioni amministrative siano già cominciate in altre sedi, nei ristretti cerchi della politica, e immagino che l’attenzione primaria di questa discussione, per i partiti del centrosinistra – Pd in primo luogo – sia centrata sulla preoccupazione di sopravvivere all’onda montante del populismo e della destra. Obiettivo non facile perché la politica vive una crisi di reputazione che va ben oltre i contenuti dei programmi.
Il centrosinistra vive una crisi di credibilità che per essere recuperata richiederebbe alcune condizioni. La prima è quella di mettere in campo figure non identificate con gli interessi “di casta” e che sappiano parlare – con competenza – dei temi e delle preoccupazioni delle persone. La seconda è quella di esprimere idee, configurare obiettivi e traguardi, dare il senso di avere capito la domanda di “nuovo” che viene dai cittadini. E questa condizione è già più difficile. Occorre uno sguardo sulle emergenze del presente che sia nel contempo capace di cogliere le traiettorie future.
La comunicazione è importante, ma non è tutto. Ascoltare non basta, bisogna proporre: questo è uno dei tratti distintivi di una politica seria capace di assumersi la responsabilità di indicare una strada. L’incontro svolto lunedì alla sala dell’Arengo, su iniziativa di Mario Zamorani (Radicali Ferrara), aveva questo obiettivo: offrire alla politica e soprattutto al Pd (riferimento cardine del centrosinistra) alcune riflessioni sulle questioni che riguardano la città. Tutto ciò per cominciare a discutere delle elezioni amministrative, lontani da qualunque intenzione di negoziare posti. Ma un’offerta (di competenze) senza una domanda (di politica) cade nel vuoto.
Provo, comunque, a riassumere alcune riflessioni che ritengo utile proporre all’attenzione. Due parole mi sembrano imprescindibili per costruire programmi per il futuro della città: sicurezza e innovazione.
La sicurezza è una condizione di base della vita delle persone, dobbiamo smettere di pensare che è una parola di destra. La sicurezza travalica la questione dell’ordine pubblico e riguarda la qualità della vita di ogni giorno. La sicurezza è la condizione che fa di una città un luogo senza confini interni mentre la paura alimenta la domanda di recinti ed enfatizza le distanze sociali. Garantire sicurezza è l’unico modo per evitare che si producano luoghi di vita separati per i ricchi e per i poveri: giardini separati, quartieri separati, scuole separate. La sicurezza migliora la qualità dei luoghi pubblici e la qualità della vita. La vivibilità di una città è fatta di tante cose: la qualità dei negozi, gli arredi urbani che comprendono i luoghi di sosta, l’estetica diffusa, i parchetti attrezzati per i bambini e gli attrezzi per la ginnastica degli adulti, le sedi in cui si fa cultura.
Il secondo punto riguarda l’innovazione. Ferrara ha coltivato il mito di città d’arte e su questa cifra ha costruito la sua identità. Ma non ha saputo giocare su questa carta le sue opportunità di crescita. Ha gestito il tema con un approccio intellettualistico, organizzando per lo più eventi di prestigio culturale, importanti, ma che non hanno inciso nelle rotte del turismo. La qualità delle iniziative artistiche del Palazzo dei Diamanti non basta a produrre vantaggi per l’economia della città, per migliorare la vita per i residenti, né per attrarre visitatori.
Per attrarre turisti e migliorare la vita dei cittadini Ferrara deve proporre un’immagine nuova. Può fare questo a tre condizioni: offrire esperienze diversificate, puntare ad una città bella e ricca di opportunità per chi la abita, comunicare meglio. “Ferrara città della bellezza” è un concetto molto più ampio di quello di città d’arte. La bellezza può essere fruita quotidianamente, ha a che fare con la qualità della vita di tutti, riguarda anche spazi pubblici adatti a fare incontrare le persone. Innovare vuol dire guardare fuori dalle mura, ma anche sollecitare il dialogo tra diversi attori pubblici e privati, ma soprattutto presuppone che alla pigrizia (carattere spesso attribuito a Ferrara) si sostituisca una tensione diffusa verso il miglioramento continuo.
Credo che sia necessario innescare un processo di imitazione creativa, fatto della capacità di guardare cosa hanno fatto gli altri, di adattare esperienze che hanno introdotto piccole o grandi innovazioni. Studiare cosa hanno fatto gli altri fa risparmiare tempo e denaro ed evita sprechi di denaro e figuracce, come è accaduto per la raccolta differenziata, una pagina non brillante che poteva essere evitata guardando oltre il cortile.
Non si possono imbalsamare le idee con la scusa che non ci sono soldi per fare progetti. Occorre creare un clima in grado di sviluppare energie diffuse. Le idee non costano, ma vanno coltivate, messe in circolo, anche copiate se serve. Molte idee potrebbero essere raccolte. Ma la condizione perché ciò accada è che la politica colga la domanda e non si limiti ad accordi interni per costruire la lista di candidati.

Che paghi il Comune

“Che paghi il Comune!”, un ben noto refrain. Eppure il Comune siamo noi. E se paga il Comune lo fa pure coi soldi nostri… Che c’è, allora, alla base di questa sindrome dissociativa che rende la casa pubblica un’entità estranea, talvolta nemica? Diffusa – e spesso fondata – è la percezione di un potere autoreferenziale, che risponde alle proprie logiche, incurante dei reali bisogni dei cittadini, e che piega le istituzioni a proprio vantaggio.

Riappropriarsi dei luoghi della democrazia – governo del popolo esercitato tramite i propri rappresentanti – significa scacciare i mercanti dal tempio e ripristinare il corretto ordine delle cose. Per riuscire nell’impresa bisogna saper scegliere e designare persone oneste, affidabili, capaci.

Il politico deve essere onesto, certo. Ma essere onesti non basta, il politico deve essere onesto e capace insieme. Il problema invece è che abbiamo molti politici disonesti e qualcuno, perdipiù, anche incapace.

L’onestà è un requisito imprescindibile, ma di per sé insufficiente a garantire il buon governo; per questo servono anche altre doti: competenza e lungimiranza, per esempio. Unite al sapere e magari al saper fare.

Ma non si può prescindere neppure dalla capacità di mediazione. Sì, perché mediare fa parte delle arti del governo (e della vita)… Su questo punto scivoloso, però, bisogna intendersi, perché il cosiddetto compromesso ha una faccia nobile e una ignobile – spesso prevalente in politica e in affari – che comprensibilmente genera un moto di ribrezzo. Troppe volte, anche in sede pubblica, gli accordi si stipulano al ribasso, in forma biecamente compromissoria, e sono finalizzati alla tutela di interessi opachi delle parti coinvolte che prescindono – quando non ostacolano addirittura – il compiersi del reale bene comune. Ma questa evidenza non può cancellare la considerazione del valore del nobile e imprescindibile compromesso, quello che ricerca un punto di equilibrio a salvaguardia di bisogni e legittime aspettative che, laddove non possono essere soddisfatti appieno, devono essere con saggezza contemperati nell’interesse di tutti e a tutela dei diritti di ciascuno. Ma dei diritti, non degli appetiti!

Compromesso è un termine degradato. Ma, respinto l’ignobile compromesso che ben ci è noto, va praticato il suo opposto: il compromesso virtuoso, spesso indispensabile per conciliare, nel limite del possibile, bisogni e aspettative differenti, limitando le ragioni di conflitto nell’ambito comunitario.

Non sempre però il compromesso è possibile, e talvolta non è neppure auspicabile. E’ lecito e opportuno solo laddove sia coerente con i valori che ispirano il patto di cittadinanza stipulato fra i membri della comunità.

Compromesso è mediazione, a tutela di ragioni, ideali e interessi diversi. Con questo spirito i padri costituenti scrissero la Carta che designa le norme fondanti del vivere comune, nel segno del rispetto e della reciproca tolleranza. Rispetto e tolleranza: concetti oggi estranei al lessico di molte forze partitiche.

La classe politica deve invece recuperare questa capacità di mediare al rialzo, non al ribasso. E deve potersi mostrare senza imbarazzi, senza necessità di maschere e belletti utili solo a celare un’immagine appannata. La politica deve tornare a risplendere nella propria limpida onestà. Valore – questo dell’onestà – imprescindibile ma, ripeto, di per sé insufficiente: tale pre-requisito politico deve infatti accompagnarsi alla visione, quindi alla lungimiranza, e insieme alla concreta arte ‘del fare’, attuata rigorosamente con modalità lecite e azioni limpide e trasparenti.

E’ stucchevole dover ribadire questi concetti e a qualcuno potrà apparire banale. Ma se oggi si rende di nuovo necessario enunciarli – e occorre farlo con forza – è perché evidentemente di queste condizioni basilari – e dei valori da cui promanano gli imperativi a cui il politico dovrebbe ispirare il proprio operato – non vi è più certezza, dacché in molti li hanno calpestati e infangati.

Da qui, dunque, si riparte, dalle basi. E solo su ‘queste basi’ è possibile riedificare un progetto politico, qualunque esso sia, degno di essere considerato. Parliamo, quindi, di una condizione pre-politica imprescindibile per chiunque, al di sopra degli specifici orientamenti: una condizione che precede la formulazione del progetto e del programma di governo, un dovere etico imprescindibile, che chiunque deve necessariamente rispettare. Su queste fondamenta nasce la politica, la bella politica, e germogliano la visione, il disegno programmatico, le linee operative e l’individuazione degli interventi concreti: il fare. L’operoso fare, che personalmente auspico a vantaggio del bene comune e a salvaguardia dei più deboli.

 

(Nella foto un’installazione della mostra “Inganni arcimboldeschi” allestita al museo Bertozzi & Casoni di Sassuolo)