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DIARIO IN PUBBLICO
Sull’onda delle canzoni

Che noia le feste! Che noia ascoltare i sapientini che discettano per ore su tutti i talkshow, chi per promuovere i propri libri, chi per dar man forte al governo o combatterlo, chi per ‘esserci’. Poi una specie di illuminazione: perché non ascoltare e vedere il programma dedicato a Celentano nell’anniversario della nostra comune età? Così dismetto i panni di colui che ha ammesso Chopin solo da poco tra gli immortali, di colui che adora Muti, Pollini, Argerich, la divina Maria e in tal modo, miracolosamente, sul filo del ricordo, si ricompone la vita spiegata sull’onda di canzoni dimenticate, di gambe impazzite, di un bel viso che si è macchiato di cuperose, di denti ingialliti un tempo forti e bianchi. E con quelle canzoni si dipana il filo dei ricordi e le tappe della nostra gioventù.

Si sa. Il ritorno al passato non sempre è produttivo. Balzano e si evidenziano nello specchio della memoria le scelte fatte, i condizionamenti, i compromessi, ma anche gli atti di una responsabilità che ti rende uomo, che finalmente ti fa capire chi sei e cosa ti ha prodotto tale in un certo momento, specie se la tua gioventù si è svolta nel momento più acuto delle ideologie novecentesche. Così una canzone da strada come quella che Celentano cantava e il cui ritornello era “Chi non lavora, non fa l’amore” ci piaceva perché in essa si realizzava quella parola oggi ormai desueta: “impegno”, che oggi sembra sparita. Anzi abborrita.
Certe situazioni poi prospettavano l’uso dell’ironia, che nel vocabolario salviniano è priva di senso tanto da rendere ancora più greve la “pesanteur” della sua retorica e della sua didattica. Una di queste mi rimane impressa.
Arrivo finalmente all’Università e Claudio Varese mi conduce al colloquio, fondamentale, con colui che lo sostituirà come Maestro, Walter Binni. Impietrito dal timore che potessero venire evocate le scelte fasciste della mia famiglia, non ancora a 17 anni consapevole di cosa volessero dire ‘destra’ e ‘sinistra’ nonostante i tre anni passati alle secondarie con Varese, ingozzato di libri di cui ancora non distinguevo il fondo politico, mi ero inventato se non una fede almeno, secondo le mie confuse idee, una risposta che mi avrebbe salvato dall’interrogatorio di Binni, uomo della Costituente. Così alla domanda per quale scelta politica avessi optato, serenamente risposi: “monarchica”. Vidi il bel viso del Binni abbuiarsi, vidi che guardava incredulo Varese e che mestamente scuoteva la testa. Poi col tempo, con la frequentazione nelle lezioni e lo schiarimento delle idee imboccai quella strada che solo ora mi accorgo mi ha reso eticamente consapevole delle scelte che ho fatto d’allora in poi. I miei compagni di corso ridevano perché Binni, che il primo anno arrivava tutto affannato da Genova, se non mi vedeva in aula (eravamo in trenta giovani e forti) domandava curioso: “Il monarchico non viene”?

Ora di fronte a scelte gravi, quasi inaspettate per chi sta concludendo il proprio percorso, ascolto incredulo i contorcimenti politici tesi a risposte che non facciano male a nessuno o che lascino lo spazio necessario per accodarsi al carro del vincitore se non rimane altra strada. Sento, con orrore che si traduce in una nausea fisica, un ministro che rifiuta l’attracco dei migranti sballottati nel gelo del mare su una nave che non può attraccare a cui si rifiuta l’ingresso. Ascolto incredulo un altro politico che suggerisce di far sbarcare donne e bambini e non gli uomini forse considerati una specie minore e i commenti di un’autorità religiosa che mi stringe lo stomaco. A me laico, figurarsi ai cristiani! Non tutti però, come si evince dal seguito nutrito che il prelato può vantare.
Così a vedere Celentano che canta a Bologna davanti al Papa Woitila la sua canzone di fede mi vien la malinconia.

Svegliatevi bambini – per parafrasare una vecchia canzone qui riprodotta al maschile – fra poco è primavera. E bisognerà votare.

Indossare un’opera d’arte: con Rdress si può

di Altilia Mascalese

Quando pensiamo alla moda, a ognuno di noi viene in mente un’immagine diversa: una modella in posa su una rivista, la Fashion Week, le ultime tendenze… In ogni caso l’immaginazione ci figura davanti agli occhi un bellissimo capo finito e pronto da indossare; il pensiero difficilmente ci trasporta in una fabbrica fatiscente in Cina, India, Bangladesh o Nord Africa piena di sfruttamento e pratiche vietate.

Rovine del palazzo Rana Plaza

Il servizio di Report andato in onda su Rai3 il 3 dicembre scorso ha messo invece a nudo le pratiche attuate dai fornitori di brand fast fashion come Zara e H&M, che al consumatore offrono un prezzo quasi irrilevante e allettanti saldi che non mancano mai. Dal servizio però si evince la partecipazione a queste pratiche di alcuni grandi brand, che nel periodo di crisi cercano di rimanere competitivi e salvaguardare la marginalità economica, producendo gli articoli altrove, tradendo consapevolmente i loro sostenitori che si fidano da sempre del made in Italy di qualità, garantito dalle aziende altamente specializzate presenti nel nostro paese. Lo sfruttamento, la disponibilità di servizi vietati in altri paesi come la sabbiatura, per citarne uno, e l’avvelenamento delle falde acquifere del nostro pianeta con sostanze tossiche pericolose per i lavoratori, quasi sempre non protetti, sono solo alcuni degli aspetti del rovescio della medaglia dell’apparente prezzo basso. Del resto se non lo paghiamo noi, probabilmente lo paga qualcun altro, come le 1.129 persone morte e i 2.515 feriti del palazzo Rana Plaza crollato a Dacca in Bangladesh.

È importante però specificare che non tutti i brand ricorrono a delocalizzazioni o materie prime scadenti. Tra i big per esempio è noto l’impegno ecologico di Stella McCartney; tra i piccoli artigiani fortunatamente trovare prodotti etici e sostenibili è più facile e si possono trovare articoli per tutti i gusti: borse e scarpe in sughero, abiti o borse in fibra vegetale (bambù, arancia, ananas), prodotti con materiali di riciclo come borse realizzate con cinture di sicurezza delle auto rottamate. Inoltre la certezza dei prodotti artigianali è che non ci sono sfruttamenti, perché sono quasi sempre realizzati direttamente dal creatore del brand.

Abito Cerimonia “Kromika” di Rdress (www.rdresscouture.com)

Parlando del nostro territorio, possiamo conoscere un brand molto particolare che mette insieme arte, sartorialità e innovazione tecnologica. “Perché le opere d’arte devono restare appese al muro? Perché non indossarle?” – sono queste le domande da cui ha avuto inizio Rdress couture, il brand fondato ufficialmente nel 2015 in Svizzera, ma ideato nel 2013 durante la mostra d’arte alla Galleria Wikiarte di Bologna. Il primo elemento fondamentale infatti è l’arte, reso possibile dall’artista Raffaela Quaiotti, maestra d’arte ma anche ex docente di sostegno ai ragazzi con disabilità più o meno gravi per 38 anni nella regione Veneto. Per lei la pittura non è solo un’espressione dell’anima, ma soprattutto dei sentimenti, uno sfogo mediato da carboncino, cartoncino e colori più o meno sgargianti, soprattutto nell’ultimo periodo della sua carriera. Attualmente la collezione è di oltre 100 opere d’arte, ormai quasi un museo personale.
Ma torniamo all’abbigliamento, il secondo punto fondante del brand è la sartoria: curata nei minimi dettagli come una volta, con gli abiti, per lo più di seta, cuciti da sartorie esperte in Italia e in Svizzera esclusivamente su ordinazione. La seta è stata una scelta obbligata secondo il General Manager: “Il nostro cliente deve avere il meglio. Un abito Rdress couture non è solo particolare perché raffigura un’opera d’arte, è anche prezioso, confortevole e avvolgente grazie alla seta elasticizzata ed è totalmente anallergico grazie ai pigmenti innovativi a base d’acqua”. Spesso altri artigiani come Rdress producono su ordinazione, certamente non è lo shopping immediato a cui siamo abituati, ma indubbiamente è utile al pianeta in quanto si evita di inquinare con la realizzazione di prodotti non necessari che rimangono invenduti; in fondo è indubbiamente un ottimo motivo per aspettare un prodotto che qualcuno realizzerà esclusivamente e appositamente per noi.

Per approfondire
Report 3 dicembre 2018
www.fashionrevolution.org
www.agoefiloshop.com
Altraqualità
The true cost – (documentario che mostra il funzionamento e le conseguenze del fast fashion)

Leggi anche
Alla fiera della vanità con la fast fashion: 52 stagioni all’anno e uno sfruttamento intensivo della manodopera

PER CERTI VERSI
Un’altra radura possibile

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

 

AUGURIO DEL PETTIROSSO

È tornato il pettirosso
Non il bosso
Cerca
Ma la vite americana
È puntuale
Come una campana
Si appoggia
Da manuale
Allo stipite degli scuri
E tocchetta con misura
Le dolci uve
Vietate alla razza umana
È il nostro piccolo tesoro
Offre ristoro
Alla mente
È un toccasana
Lampeggia isolato
Nella fumana

 

NUOVE UTOPIE

In questa radura
Di intellettuali distopici
Oh le mode le mode
Di romanzieri della catastrofe
Da ammirare
Come scrittori
E venditori
E gli acquirenti
Si alza la voce calma
Ferma e sicura
Di un uomo
Di manna
Pura manna bianca
Che invita all’utopia
Ne invoca lo spirito e la prassi
Richiama la pace con la natura
Tra gli uomini
Le mani tese
Semplice colto
Con rare pretese
Ci parla di una altra radura…
Possibile

Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti

Sarà forse perché ci ha lasciato giusto vent’anni fa (e chissà oggi che Italia avrebbe cantato), ma la prima cosa che mi è venuta in mente è un verso di Fabrizio De Andrè: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.” E’ una frase scomoda. Scomodissima. Da usare solo in casi eccezionali, quando tutti i ragionamenti intelligenti non funzionano più, quando le armi dell’ironia e della satira risultano inutilizzabili.
Ecco, l’impressione che mi sono fatto è che questa volta non siamo di fronte a un “caso come tanti altri”, uno scontro politico tra un super ministro e qualche sindaco “disubbidiente” da aggiustare con una mediazione di rito. No, la situazione è molto diversa e molto più grave: quasi un punto di non ritorno. A forza di tirare la corda, la corda si è spezzata. Da una parte c’è la Costituzione Italiana e il suo primo custode (il presidente Mattarella), i trattati internazionali, la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Dall’altro un leader politico (in gran spolvero nei sondaggi) che ha deciso scientemente di rompere il quadro delle istituzioni e della democrazia italiana. E’ Stato Salvini ad accendere la miccia, a porre le premesse dello scontro istituzionale a cui stiamo assistendo: Il Decreto Sicurezza, l’attacco al Sistema di Accoglienza e integrazione realizzato a Riace, ora la “disobbedienza politica” in nome della Costituzione dei Sindaci di Napoli e Palermo ne è la diretta conseguenza. Gli esiti di questo braccio di ferro sono ad oggi inconoscibili. Siamo cioè di fronte a un quadro che potrà evolvere o in senso democratico o in senso autoritario.
Per capire la gravità del momento, basta spostarci un poco a Est e guardare l’Ungheria del dittatore Orban che, dopo aver chiuso le frontiere, riesuma il lavoro forzato (50 ore settimanali) per i propri sudditi. Le piazze ungheresi sono a ferro e fuoco e si temono conseguenze incalcolabili. L’Ungheria ha bisogno di lavoratori stranieri per far funzionare le sue fabbriche e alimentare il suo sviluppo economico, ma Viktor Orbàn ha scelto una misura demagogica e totalitaria. Vuole il potere, sempre più potere, e per raggiungere il suo obbiettivo ha deciso di andare anche contro le leggi dell’economia.
L’impressione è che la strategia di Matteo Salvini sia molto simile. I Porti chiusi, gli atteggiamenti muscolari, lo smontaggio e la vanificazione del sistema dell’accoglienza, la trasformazione (di fatto) di tutti gli stranieri in clandestini, non sono solo norme antiumanitarie ma assolutamente controproducenti. Anche l’Italia, come l’Ungheria, ha bisogno di lavoratori stranieri regolari per far funzionare le proprie fabbriche. Abbandonare i canali dell’immigrazione legale e brandire l’arma (spuntata) delle espulsioni di massa, ci consegna l’Italia di oggi e di domattina, dove centinaia di migliaia di immigrati senza diritti non possono né lavorare nè procurarsi pane e companatico.
Ho l’impressione che Salvini lo sappia benissimo. Sa che dietro lo slogan “prima gli italiani” non c’è un’idea di economia e di società che possa in qualche modo funzionare. Salvini ha semplicemente continuato a tirare la corda – esattamente come Orban in Ungheria – per portare l’Italia nel caos e nella ingovernabilità. Non vuole cioè un’altra Italia: vuole un’Italia ingovernabile. Non assomiglia a uno statista, ma a un capopopolo deciso a giocarsi il tutto per tutto in uno scontro frontale. Magari, dio non voglia, attraverso una battaglia civile.
Fino a ieri, In molti abbiamo pensato che la strategia del leader leghista  fosse solo quella di accaparrarsi qualche punto in più nei sondaggi elettorali. Ma se la sua strategia fosse invece quella di prendersi il Paese, l’Italia tutta intera?
Magari mi sbaglio, ma se siamo davvero a questo punto, se la strategia di Salvini sta finalmente scoprendo la sua vera natura: eversiva, antistatalista, antidemocratica, allora siamo davvero alla frase di Faber: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.
In tutti i casi, d’ora in poi è vietato distrarsi. Occorre capire e prendere una posizione precisa: da una parte o dall’altra. Tutti, compreso questo piccolo giornale.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

La Befana a Ferrara non brucerà: l’aria ringrazia (e anche i fan della ‘vecchia’)

Il giorno della Befana quest’anno a Ferrara la ‘vecchia’ non brucerà nel mezzo di piazza Trento Trieste, a fianco del Duomo. Per una volta niente rogo, ma solo canti, balli e calze piene di caramelle, cioccolata e dolcetti.
La scelta di non fare il falò e di non bruciare la strega che porta doni è stata dettata da motivi ambientali. I ripetuti sforamenti dei valori di polveri sottili nell’aria di Ferrara (come in quella di Cento e di diverse altre città dell’Emilia-Romagna) hanno reso necessario prolungare le misure di emergenza fin dopo l’Epifania. Ciò ha comportato che in questi giorni si siano rese necessarie le limitazioni al traffico per le macchine più inquinanti, la riduzione delle temperature negli edifici e – appunto – anche il divieto di accendere fuochi all’aperto. Nel Ferrarese il provvedimento del sindaco, che prevede queste restrizioni basate sulle indicazioni regionali, è entrato in vigore il 31 dicembre 2018 con validità fino a lunedì 7 gennaio 2019, andando così a scontrarsi con la tradizione di accendere i falò per bruciare la ‘vecchia’.

Befana in volo a Vigarano Mainarda (Ferrara), 3 gennaio 2019 – foto Valerio Pazzi

Per questo, a pochi giorni dall’Epifania, a Ferrara è scattato il dilemma: fare o non fare il rogo, chiedere una deroga o cercare di cambiare qualcosa? Finalmente ieri (venerdì 4 gennaio) è arrivata la decisione. Il presidente della contrada Rione di San Paolo, a cui è affidata l’organizzazione della giornata di festa per i più piccoli, ha deciso in accordo con il Comune di Ferrara che il rogo si poteva evitare. L’idea che ha prevalso è stata quella di festeggiare la Befana e basta, senza bisogno di andare a tirare in ballo fuochi, roghi e falò.

Rogo della Befana a Casumaro (Ferrara)
Il falò documentato dal fotografo Valerio Pazzi

“La decisione – si legge sulla pagina del quotidiano online del Comune di Ferrara Cronacacomune [cliccare sul nome della testata per leggere l’articolo] – è stata presa per dare un segnale di attenzione alle problematiche dell’aria e della salute dei cittadini, rispettando anche i sacrifici già richiesti ai cittadini attraverso i provvedimenti di limitazione messi in campo a livello regionale e recepiti dai Comuni aderenti al protocollo Liberiamolaria”.

L’allestimento di una Befana qualche anno fa a Casumaro (Ferrara) – foto Valerio Pazzi

Le stesse direttive coinvolgono, ad esempio, il territorio di Cento (sempre in provincia di Ferrara) dove invece è stato deciso di mantenere il rogo della Befana, spostandolo però in quel caso fuori dalla zona sottoposta alle misure di tutela della qualità dell’aria. Grazie anche al fatto che il territorio comunale centese è più ridotto, domenica 6 gennaio 2019 la “vecchia” sarà bruciata comunque, ma non nella centralissima piazza della Rocca, bensì nel piazzale del Palasport.

Magari piano piano si potrebbe pensare a rimpiazzare anche altri roghi con le feste. La Befana ha un suo fascino magico e da bambina non ho mai trovato divertente vederla bruciare. È vero che può portare un po’ di carbone, nel caso in cui inevitabilmente non ci si sia comportati proprio bene. Ma è bello pensare di lasciarla svolazzare nell’aria, sperando magari che nel frattempo possa spazzare via anche un po’ di smog.

Le foto a documentazione dei festeggiamenti ferraresi della Befana sono tutte di Valerio Pazzi

“Dare speranza e dignità agli ultimi”: e in 284 si schierano a sostegno del volontariato

Con questa lettera intendiamo sottolineare il valore dell’impegno di coloro che, mediante le associazioni e il terzo settore, operano per dare speranza e dignità agli ultimi. Si tratta di un lavoro prezioso che si realizza in un clima sociale difficile. In questi giorni il mondo del volontariato e del terzo settore ha protestato contro l’annuncio di una tassa sulla solidarietà. La rivista dei padri francescani aveva pubblicato un editoriale con un titolo volutamente provocatorio: “Se si fa del male al bene c’è da preoccuparsi”. La pressione di una parte dell’opinione pubblica ha prodotto un primo importante risultato. Il vice presidente Di Maio ha dichiarato: “La tassa sul volontariato è sbagliata e la cambieremo dopo la manovra”. Il controllo e l’attenzione dell’opinione pubblica non devono cessare fino alla cancellazione di una misura sciagurata. C’è una lezione importante da ricavare da questa vicenda: se si reagisce in modo compatto si ottengono risultati. Intanto, i firmatari di questa lettera, manifestano gratitudine e riconoscenza per chi lavora ogni giorno per il bene comune, per una inclusione e civilizzazione dei rapporti, per chi sta dalla parte dei più deboli qualunque sia la loro condizione sociale, provenienza etnica e appartenenza religiosa. Inclusione, solidarietà, rispetto dei diritti e dei doveri, significano sicurezza e qualità della vita per tutti, oltre che attribuire un significato concreto alla parola umanità. Nei giorni scorsi si è verificato una grave episodio di intolleranza verso don Domenico Bedin. Nell’esprimergli piena solidarietà, rinnoviamo la nostra vicinanza e il nostro sostegno a tutti coloro che operano per soccorrere coloro che papa Francesco ha chiamato “gli scarti dell’umanità”. In conclusione, ci riconosciamo nelle parole pronunciate dal Presidente Sergio Mattarella: “L’accoglienza, la generosità e il confronto tra donne e uomini di culture, etnie e confessioni diverse costituiscono valori irrinunciabili, poiché solo coltivando il dialogo con l’altro siamo in grado di ampliare i nostri orizzonti, comprendere le sensibilità dei diversi popoli, riconoscere e affrontare le sfide, costruire il bene comune nelle nostre società”.

1) Accardo Paolo
2) Accorsi Emanuela
3) Albano Laura
4) Alberani Chiara
5) Alessandrini Nicola
6) Alvisi Angela
7) Andreasi Carmen
8) Andreatti Giuliana
9) Arnaldo Santoni
10) Arnoffi Sandro
11) Baio Giuliana
12) Baio Maria Beatrice
13) Baraldi Ilaria
14) Baratelli Fiorenzo
15) Barillari Antonio
16) Barone Adele
17) Bassi Beatrice
18) Bassi Valeria
19) Battista Francesca
20) Benini Eugenio
21) Berdelli Ketty
22) Boldrini Andrea
23) Bellini Anna
24) Bellini Barbara
25) Bellistracci Marco
26) Benfenati Gloria
27) Beniamino Marino
28) Benvenuti Chiara
29) Benvenuti Marinella
30) Bertocchi Andrea
31) Bertocchi Gabriele
32) Bertocchi Riccardo
33) Bertolasi Chiara
34) Bertolasi Davide
35) Bertuzzi Cassio
36) Bianchi Ilaria
37) Bianchini Patrizia
38) Bindini Giorgio
39) Bonazza Daniela
40) Bonfa’ Livia
41) Bondi Loredana
42) Bonora Fabrizio
43) Bordini Maria
44) Borelli Alessandra
45) Borgata Giovannella
46) Bosco Jean Mutamvala
47) Bosi Giuseppe
48) Bozzolan Romea
49) Bracardi Monica
50) Braglia Gabriella
51) Cacciato Manuela
52) Calanda Cristina
53) Calabrese Maria
54) Caleffi Simonetta
55) Caleffi Vittorio
56) Campi Roberta
57) Cappagli Daniela
58) Casari Andrea
59) Casaroli Rita
60) Casini Silvana
61) Cassoli Roberto
62) Castelluzzo Mario
63) Caranti Alda
64) Cariani Miriam
65) Cardinale Katia
66) Carletti Fabrizio
67) Cappellani Marco
68) Cavallini Mirko
69) Cavazzini Mauro
70) Cavicchi Claudio
71) Cavicchi Emanuela
72) Cerini Sabrina
73) Chendi Arianna
74) Chiappini Alessandra
75) Chiarioni Antonella
76) Chiarioni Fausto
77) Chiccoli Paola
78) Chieregatti Agnese
79) Chieregatti Francesca
80) Chieregatti Massimo
81) Cobianchi Biagia
82) Colaiacovo Francesco
83) Corallini Alfredo
84) Corinna Mezzetti
85) Costantini Irma
86) Cristofori Tommaso
87) Croce Eva
88) Cuoghi Tito
89) D’Aloja Maria Geltrude
90) Dal Buono Rosa
91) Da Lan Paolo
92) Del Bello Tonino
93) De Los Rios Carlo
94) De Rose Anna
95) Di Martino Agnese
96) Danieli Anna
97) Disaro’ Antonietta
98) Dugoni Gabriella
99) Faccini Anna Maria
100) Fantoni EMANUELA
101) Facchini Fausto
102) Fedeli Silvia
103) Ferraresi Chiara
104) Ferrari Annalisa
105) Ferrari Antonietta
106) Ferrari Beatriz Norma
107) Finotelli Franco
108) Fioravanti Giovanni
109) Fiorentini Leonardo
110) Fiorini Giorgio
111) Folletti Marcello
112) Folletti Nicola
113) Fornito Elisabetta
114) Francesconi Ornella
115) Gallerani Enrico
116) Gallesini Isabella
117) Gallio Rossana
118) Gallini Giuliano
119) Gallottini Riccardo
120) Gambetti Francesca
121) Gardi Gianluca
122) Garuti Susanna
123) Gasparini Marco
124) Gavioli Morena
125) Gavioli Odilia
126) Gessi Sergio
127) Ghezzo Luisa
128) Ghetti Roberto
129) Giannella Eris
130) Giorgi Dario
131) Giorgi Micol
132) Grandi Enrico
133) Grazzi Riccardo
134) Govoni Laura
135) Gualandi Cristina
136) Guarnieri Antonella
137) Guerra Guerrino
138) Guerrini Cinzia
139) Gubinelli Annamaria
140) Guidarelli Guido
141) Lavezzi Francesco
142) Libanori Daniela
143) Liguori Luca
144) Luciani Michele
145) Leonardi Gioacchino
146) Leonzi Daniela
147) Levorato Chiara
148) Lodi Fiorenza
149) Lombardi Paola
150) Lucchini Patrizia
151) Izzi Fabio
152) Kalaja Lumturi
153) Kulli Eduard
154) Maestra Katia
155) Maestri Paolo
156) Mambelli Alberto
157) Mambelli Alessandra
158) Manfredini Rodolfo
159) Mantovani Carla
160) Magagna Claudio
161) Maragna Michela
162) Marchetti Lucia
163) Marchetti Roberto
164) Marchi Massimo
165) Marchiano’ Giovanna
166) Marcolini Paolo
167) Maresca Dario
168) Martiello Noel
169) Martiello Vito
170) Marzola Luca
171) Marzola Roberto
172) Marzola Sara
173) Mascellani Mario
174) Massellani Francesca
175) Massellani Grazia
176) Massellani Marco
177) Mastrangelo Luca
178) Mazzacurati Demetrio
179) Melcesia De Michelis
180) Mencarelli Flavio
181) Mezzetti Corinna
182) Micai Laura
183) Micheli Mirco
184) Milan Claudia
185) Mingozzi Gabriella
186) Mirella Nicoletta
187) Mirolo Graziella
188) Monini Francesco
189) Montanari Ivana
190) Monti Vincenzo
191) Montosi Roberta
192) Morsucci Mascia
193) Murador Piera Francesca
194) Namari Sergio
195) Nani Davide
196) Nannini Fiorenza
197) Occhiali Mariangela
198) Oddi Corrado
199) Omuri Dora
200) Osti Alberta
201) Paganini Samuel
202) Pagnoni Beatrice
203) Paiolo Elisa
204) Palazzi Angelo
205) Paoli Paolo
206) Pardi Angela
207) Pasqualini Silvana
208) Passerini Roberto
209) Pasti Gabriella
210) Pasti Ilaria
211) Pastorello Paolo
212) Patrizi Renata
213) Patroncini Giovanni
214) Pavanelli Lina
215) Pazi Patrizia
216) Picco M.Claudia
217) Piccoli Filippo
218) Piccoli Nadia
219) Pistone Cristiano
220) Piva Giorgio
221) Piva Maria Giuditta
222) Piva Massimiliano
223) Preka Ferdinant
224) Presini Mauro
225) Pulizzi Alessio
226) Ragazzi Anna
227) Ravani Maurizio
228) Rinaldi Francesca
229) Rinaldi Raffaele
230) Rivetti Carlo
231) Rolfini Greta
232) Roncagli Laura
233) Rossi Francesco
234) Rossi Gabriella
235) Rossi Paola
236) Rotola Carmela
237) Rubele Tiziana
238) Ruzziconi Giuseppe
239) Sansoni Gabriella
240) Santolini Ennio
241) Saravalli Erica
242) Sarto Davide
243) Sammarchi Maria Teresa
244) Scanavini Roberta
245) Scaramuzza Teresa
246) Scardovi Gianfranco
247) Schlumper Laura
248) Scida Vincenzo
249) Sbarbanti Silvia
250) Siri Daniela
251) Soriani Elisabetta
252) Soriani Margherita
253) Stabellini Franca
254) Stabellini Gianna
255) Stabellini Sergio
256) Stefani Franco
257) Strozzi Velleda
258) Talassi Renata
259) TrasforiniDaniela
260) Tassinari Fabrizio
261) Tromboli Adriana
262) Tonioli Fabio
263) Tosi Ruggero
264) Turchi Marco
265) Turolla Maria Chiara
266) Turri Pietro
267) Uba Leonardo
268) Vagni Guido
269) Valenti Nazzareno
270) Vanzini Roberta
271) Venturi Gianni
272) Venturi Ivana
273) Vignolo Mauro
274) Vitali Natale
275) Vitelletti Bianca Maria
276) Zaccaria Nino
277) Zagatti Carlo
278) Zagatti Cristiano
279) Zambonati Antonella
280) Zanella Alberto
281) Zanirato Massimo
282) Zanotti Carlo
283) Zattoni Giorgio
284) Zucchini Maurizio

Ultimi bagliori degli Anni Dieci

Siamo all’ultimo passo degli anni ’10. Anni degni di storia ma non di memoria… Perlomeno, rispetto al secolo scorso, ci siamo risparmiati la tragedia della guerra. Ma in guerra, forse, siamo ugualmente: una guerra strisciante, diffusa, non dichiarata come sostiene Papa Francesco; una guerra intestina, fomentata dalla reviviscenza del terrorismo, la cui matrice – a differenza di ciò che avvenne in Europa mezzo secolo fa – non è interna ma esogena; eppure, anch’essa in un certo senso frutto di un dogmatismo ideologico. Stavolta non sono le falangi estremiste (e talora deviate) delle nuove generazioni che si battono per il ribaltamento dello Stato, ma i fanatici seguaci di un culto, quello islamico, che seminano morte e terrore per le strade delle nostre città… E forse anche loro in parte manipolati. Per contrappunto, truppe statunitensi, sovietiche e milizie di altri Paesi del nord del mondo combattono e seminano morte in Africa e in Oriente.
D’altronde, di odio questi anni 10 si sono alimentati. Sono stati gli anni della grande crisi, scoppiata – ma inizialmente non compresa come tale – già nel 2008; e poi divampata come una folgore, che tutto ha incenerito e rivoluzionato… Anni in cui l’insicurezza, che sovrasta le nostre esistenze, ha riesumato quei ferini istinti di sopravvivenza che credevamo vinti dalla civilizzazione: così, è rinato l’odio dell’uomo verso il proprio simile, sol che abbia a contrasto il colore della pelle, o il modo di pensare, o le abitudini di vita… Sono stati, questi, gli anni del rifiuto, dell’intolleranza e del razzismo, del respingimento, del “ciascuno a casa sua”… E’ sempre la diversità a spaventare (anziché incuriosire).

La comunità si è disgregata, gli ammortizzatori sociali che lo Stato del welfare aveva garantito, sulla spinta delle lotte sociali di mezzo secolo fa, sono svaporati. E oggi in tanti gridano, come pappagalli, le parole d’ordine dei regimi che ci addomesticano: fra questi, il “basta tasse” mostra la sciagurata inconsapevolezza del fatto che sono proprio le tasse che garantiscono i servizi ed è la proporzionalità dell’imposta rapportata al reddito a garantire che la leva del prelievo operi con equità: chi più ha più paga, come è giusto che sia! Altro che aliquote semplificate e flat tax (che generano esattamente il risultato opposto). Le tasse vanno pagate allo Stato secondo questo meccanismo di perequazione da Passator Cortese, in maniera che i ricchi garantiscano un po’ di benessere anche ai meno abbienti… Banale ricordarlo, ma necessario ripeterlo: perché le persone sembrano oggi ignare di ciò.
Anche questo è frutto dell’impazzimento attuale. Assistiamo, inermi, alla disgregazione del soggetto collettivo, al respingimento dal noi all’io, all’affermarsi di un individualismo sovrano che ha disintegrato la capacità di organizzazione e di resistenza della maggior parte delle persone, atomizzate e – nel frattempo – declassate da cittadini a consumatori, quindi a ingranaggi funzionali al sistema produttivo capitalistico basato – appunto – sul consumo. E addio all’idea di individui da rispettare in quanto tali, ciascuno legittimato a svolgere una propria significativa funzione all’interno del contesto sociale, politico e comunitario.
Ci siamo risparmiati l’onta della guerra, sì, ma il disfacimento è avvenuto ugualmente: del legame sociale, della consapevolezza del sé, dei diritti e dei non meno importanti doveri. Siamo ormai ridotti a esseri disgregati e perciò più facilmente controllabili e malleabili…

Il quadro è fosco e drammatico. Grandi luci all’orizzonte non si vedono, come non si vede più neppure il baluginare di un’utopia, di una significativa stella polare verso la quale abbia senso orientare il cammino e per la quale valga la pena affrontare qualche sacrificio.
Non è facile immaginare come si potrà uscire da questa situazione. Speriamo non servano trent’anni, come fu nel secolo scorso, per rinsavire e ricominciare a vivere…

 

Sarà un buon anno se ciascuno di noi si impegnerà per renderlo tale, per tutti e non solo per sé. Auguri a chi, con abnegazione, si cimenterà in questa impresa.

Solo a Capodanno

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno al botto del buon anno. Andrea sistematicamente si svegliava interrompendo un sogno che era diventato ricorrente ormai da qualche anno, tre o quattro volte e specialmente durante le feste natalizie.
La sua età s’avvicinava ai settant’anni, vissuti da single per scelta ed in particolare per l’attività che lo aveva impegnato fino a pochi anni prima. Era stato un brillante uomo di spettacolo, un intrattenitore e presentatore di manifestazioni ed aveva sempre pensato che per esercitare la professione, bisognava essere liberi da impegni familiari. E così aveva fatto: se ne andava in giro per l’Italia avendo un donna in ogni città, come i marinai in ogni porto. Erano amori fuggenti, disimpegnati.
Con gli anni che passavano si riducevano le scritture artistiche e, non avendo mai ottenuto un successo nazionale, gli impresari si erano ormai dimenticati di lui. Rimaneva appena qualche occasione di spettacolo nella sua città natale, dove aveva deciso di tornare a vivere gli anni di una vecchiaia che incombeva. Solo com’era sempre stato, non tanto materialmente quanto spiritualmente.
E questo senso di solitudine lo assaliva soprattutto nel periodo delle feste di fine anno, quando la gente, in modo più o meno sincero, cerca e trova l’unione coi propri cari, rinsalda gli affetti, si riempie di buoni propositi per l’anno che verrà. Lui no, dopo i soliti contatti coi soliti amici, rimaneva puntualmente solo, senza particolari propositi o desideri per il futuro, tranne forse quello di un po’ di salute.
Ogni fine anno Andrea scavava nella sua memoria alla ricerca di qualcuno che l’avesse amato per davvero. E finiva sempre di ricordare di quando era ragazzino e aspettava la mezzanotte con sua madre in un piccolo bar sotto casa insieme ad altre famiglie, con la musica trasmessa dalla radio e lo scandire dei secondi prima del brindisi generale e dei cori d’auguri gioiosi e spensierati.
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, BUON ANNO! E poi lo scoppiettio di tappi di spumante da due soldi che gli adulti si passavano allegramente, ma anche le spume analcoliche destinate ai ragazzini come lui.
Era il 1954. Erano momenti economicamente difficili. La mamma comprava una fetta di panettone che divideva con lui ed erano comunque felici, o forse la mamma fingeva d’esserlo, chissà.
Degli anni successivi non c’era nulla che gli ricordasse la notte di Capodanno. Notte che puntualmente lo vedeva impegnato nel suo lavoro d’intrattenitore nelle sale da ballo o nei ristoranti, dove centinaia di persone si ritrovavano per ascoltare musica, banchettare e festeggiare in allegria.
Lui in mezzo a tanta gente viveva la sua solitudine indossando la maschera del ragazzo allegro, giocoso, disponibile con tutti e in particolare con tutte. Una parte che ripeteva uguale ogni anno in ogni locale, un cliché che al pubblico piaceva, un lavoro collaudato e di successo.
Cenoni quasi sempre modesti in sale di ristoranti addobbati a festa, con più tavoli di quanti ne dovessero contenere e il lavoraccio dei camerieri nel consegnare le portate tra i commensali. I piatti passati di mano in mano tra la selva di braccia e teste che si agitavano in cerca di un po’ di spazio. Le lasagne che arrivavano ai propri affamati destinatari ormai fredde, quasi immangiabili. Ma era Capodanno e tutto andava bene, bastava divertirsi spendendo anche centocinquantamila delle vecchie lire a testa, ballo e orchestra compresi.
E nel conto c’era ovviamente Andrea, che tra una portata e l’altra raccontava le sue storielle, improvvisava scambi di battute scherzose, improbabili interviste agli ospiti, e dedicava poesie d’amore alle signore, alcune delle quali venivano letteralmente sedotte da quel suo affascinante modo di fare.
Alla mezzanotte il solito countdown e più tardi ci si scatenava col trenino musicale che coinvolgeva tutti quelli che occupavano la pista da ballo. Andrea stava in testa a dirigere l’allegro serpentone a passo di danza, lo guidava tra i tavoli a raccogliere nuovi ballerini. In testa cappellini di cartone e in bocca trombette e fischietti, la baldoria era al suo apice.
Non mancava nulla. Dalle gare di ballo, all’elezione della Lady della serata, per finire con l’immancabile lotteria che regalava le prelibatezze gastronomiche del luogo.
Alle quattro del mattino Andrea salutava tutti. Gli ultimi auguri di buon anno e se ne tornava in albergo da solo, come sempre, come ogni anno, in ogni locale con così tanta gente, eppure inesorabilmente da solo.
Da una decina d’anni non veniva più chiamato a fare serate. Un po’ per la sua età e un po’ perché erano cambiati i costumi: il proliferare di discoteche e pub, dove lavoravano scatenati dj con le loro scalette musicali a tutto volume. Nei ristoranti si proponeva menù alla carta con al massimo un sottofondo musicale al pianoforte, lasciando liberi i clienti di andarsene altrove a cercar baldoria prima della mezzanotte, soprattutto nelle piazze con musica e spettacoli pirotecnici.
Del resto, nella città di Andrea la festa in piazza era ormai diventata una tradizione, trasformata in un’attrattiva per un vasto pubblico proveniente da ogni parte, anche dall’estero. L’evento era chiamato “L’incendio del Castello”, uno spettacolo pirotecnico che simulava un vero e proprio incendio del monumento cittadino più illustre. Migliaia di persone circondavano il maestoso edificio e riempivano la piazza adiacente, mentre in un palco si alternavano orchestre e cantanti fino allo scoccare della mezzanotte, quando dalle torri e dal fossato partivano centinaia di fuochi d’artificio, mirabolanti giostre luminose e cascate incandescenti sulle pareti a strapiombo. Il tutto accompagnato da un suggestivo sottofondo musicale.
Da quando era uscito dal giro, le sere di Capodanno le passava in casa. Una casa da single, arredata in modo semplice, con l’unico vezzo di aver riempito tutte le pareti di fotografie che lo ritraevano durante i suoi spettacoli. Eppure quelle foto – aveva confessato – lo facevano sentire meno solo.
Aveva anche pensato di portarsi in casa un animale da compagnia, un gatto o un cane. Un gatto pensò di no, era un animale che non si affezionava troppo al padrone; un cane che avrebbe preferito di taglia medio grande no, perché non adatto a vivere in un mini appartamento, senza un minimo di spazio scoperto.
Quindi solo, decisamente solo. Anche quell’ultimo anno aveva garbatamente rifiutato l’invito di coppie di amici ad andare al cenone insieme a loro, con la musica, il ballo e cento euro a testa da sborsare.
Accidenti no! Aveva partecipato come mattatore almeno quaranta volte a quei cenoni con ballo annesso! Meglio soli, in casa davanti alla tv.
Quel pomeriggio del trentuno dicembre, dopo un giro nel centro storico tutto addobbato a festa dalle luminarie dorate e le vetrine multicolori dei negozi, si fermò tra le casette di legno del mercatino natalizio, quelle con le offerte gastronomiche regionali, e si comprò quello che sarebbe stato il suo cenone di Capodanno.
Nello stand ligure linguine e pesto alla genovese, in quello laziale un paio d’etti di porchetta alla brace, in quello toscano un bel pezzo di pane, dalla Sicilia invece quattro cannoli, per finire in Piemonte con una bottiglia di ottimo barbera doc.
Il piccolo tavolo del suo monolocale era apparecchiato come ogni sera con una tovaglietta americana e lo stretto necessario per la sua cena.
Quella sera, chissà come, Andrea decise di cambiare. In fondo era pur sempre una festa, un anno che se ne andava ed uno che stava per arrivare. Bisognava accoglierlo nel migliore dei modi.
Prese da un cassetto dell’armadio, una tovaglia con ricami di seta che aveva trovato e tenuto per ricordo dopo la morte della madre. Era troppo grande per il suo tavolino e la piegò in quattro parti cercando di lasciare in vista il bellissimo ricamo di seta.
Piatti, posate e bicchieri per acqua, vino e spumante, mai usati, ciò che restava di un servizio da tavola messo in palio in una delle tante lotterie che aveva organizzato in passato. Accese anche una candela che teneva in casa per le emergenze, casomai fosse mancata la luce.
Si accomodò per la cena, accese la tv e mangiò in compagnia del Presidente della Repubblica che pronunciava il consueto discorso di fine anno. Fece zapping col telecomando, passando al setaccio le varie dirette nelle tante piazze italiane gremite di gente fino ad arrivare all’emittente locale che trasmetteva le immagini intorno al Castello, pronto per lo spettacolo del finto incendio. In tv c’erano migliaia di persone, musica e allegria, mentre nella stanza c’era lui, soltanto lui, come sempre.
Mancava mezz’ora a mezzanotte e d’improvviso s’alzò da tavola, s’infilò cappotto, sciarpa e berretto, avviò la macchina e a tutto gas si diresse in centro. Non riuscì a trovare un parcheggio abbastanza vicino al centro e, con l’ansia che saliva, dovette uscire dalle mura finendo per parcheggiare in divieto di sosta. Mancava appena un quarto d’ora alla mezzanotte e si mise quasi a correre per raggiungere in tempo il castello distante dalla macchina circa un paio di chilometri. Mentre s’avvicinava udiva la musica dell’orchestra, le voci dei cantanti e dello speaker che invitava il pubblico a preparare le bottiglie per il brindisi di mezzanotte.
Mancavano ormai solo due minuti quando la sua corsa s’arrestò davanti alla muraglia umana festante che riempiva le strade nei pressi del Castello. C’erano famiglie con bambini, gruppi di giovani amici e molte coppie strette in un abbraccio affettuoso.
Chiedeva permesso per passare tra la folla, ma teneva ancora ben stretta a sé la sua solitudine.
Dagli amplificatori lo speaker cominciò il conto alla rovescia (quante volte l’aveva fatto anche lui…), la gente cominciava a scartare i colli delle bottiglie di spumante, si preparava a stapparli all’unisono, e iniziava a contare col tono della voce che cresceva numero dopo numero. Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro. Anche Andrea si unì al coro generale gridando con tutto il fiato che aveva. Tre, due, uno… BUON ANNO!
Oltre ai botti, esplose tutt’intorno un frenetico scambio di auguri, di baci e abbracci fra le persone che lui guardava con ammirazione ma anche con un misto di invidia e nostalgia. Nella confusione generale non sapeva affatto a chi augurare buon anno e finì per augurarlo a se stesso: auguri Andrea!
Dalle torri del castello iniziarono i fuochi d’artificio, accompagnati da una coinvolgente colonna sonora, il cielo s’illuminò di mille colori, le pareti del castello s’infiammarono con cascate di luci colorate di un rosso incandescente, offrendo l’effetto di un vero incendio. La gente era entusiasta e, armata di fotocamere e cellulari, riprese e immortalò quello spettacolo unico nel suo genere.
Anche Andrea apprezzò moltissimo quello che negli anni precedenti aveva visto solo in tv, ma venne assalito da un velo di tristezza perché per la prima volta avrebbe voluto condividere con qualcuno l’emozione che stava provando.
All’improvviso si sentì toccare un braccio, non ci fece caso, stretto com’era fra tanta gente. Dopo un attimo sentì una mano sulla spalla, si girò e vide una ragazza che gli sorrise e gli disse: “Buon anno!” Questa gli s’affiancò e gli baciò una guancia, poi gli porse un bicchiere di plastica riempito a mezzo di spumante e col suo bicchiere alzato sussurrò: “cin cin…”
Andrea, tanto sorpreso quanto contento di ciò che gli era appena accaduto, la guardò quasi con ammirazione e, poiché la musica era assordante, le si accostò all’orecchio e le disse: “Chi sei, come ti chiami?”
La ragazza rispose: “Sono un’amica, mi chiamo Felicità!”
Andrea lasciò per sempre la sua solitudine, le prese la mano, la strinse dolcemente ed entrambi, alzando lo sguardo verso il castello che bruciava, gridarono con forza: “Benvenuto anno nuovo! Benvenuta felicità!”

APPUNTI SUI POLSINI
Quando il Parlamento assomiglia a San Siro

Il sacco dell’eredità del Vecchio Anno è talmente grande e pesante, logoro e torbido, pieno di bruttissime sorprese e trabocchetti, che sarà davvero impossibile trasportarlo (in tutto o in grande parte) sulle spalle del Novello 2019. Tutto sommato sarebbe una gran fortuna, ed è quello che tanti italiani si augurano, oggi più che mai: “Anno nuovo, Italia nuova”.

Basterà raccontare le ultime due ultime scene indegne, diverse in apparenza ma identiche nel contenuto, che ci hanno accompagnato nel mese di dicembre. Eccole in sequenza.

Il tempio italiano del pallone, lo Stadio di San Siro, resterà chiuso per due turni di campionato: dopo gli incidenti – col morto – prima della partitissima Inter Napoli, è questa l’unica decisione di rilievo presa dalle autorità . Nessuno si è sognato di sospendere il match: ennesimo ossequio al famoso e idiotissimo imperativo categorico: the show must go on.
Ovvio, chiudere San Siro fino a febbraio non aiuterà a salvare ‘il gioco più bello del mondo’. Non ci crede nessuno. E infatti tutti invocano leggi più dure, controlli più efficaci, pene più severe. Serviranno ad arginare razzismo, violenza, guerriglia urbana? Idem come sopra: non possiamo sperarci. O, almeno io, non ci credo: nel passato più o meno recente abbiamo assistito alla stessa identica commedia (dopo ogni tragedia), e ascoltato le solite parole di inutile sdegno e le roboanti e inefficaci promesse di ‘tolleranza zero’.
Allo stadio, durante la partita, è poi successo qualcosa di non meno grave: quando dalla curva degli Ultrà sono partite urla e insulti razzisti e squadristi, tutto il resto dello stadio (parliamo di qualcosa come di 60.000 tifosi, bambini inclusi) invece di zittire le grida violente si è unito al becero coro generale.
Erano diventati tutti violenti, razzisti, pazzi, deficienti? Evidentemente no. Allora perché un manipolo di 300 solisti facinorosi e delinquenti sono riusciti a monopolizzare gli altri 60.000, un intero stadio pieno di famiglie decise a passare un tranquillo Santo Stefano guardando da vicino la squadra del cuore?
Per rispondere – e dovremo pur provare a rispondere a questo absurdum aritmetico – ho sentito due bellissimi ragionamenti general-generici. Il primo: “Bisogna andare a monte del problema”. Secondo ragionamento: “E’ un problema prima di tutto culturale”. Qualcuno – mi pare sia stato proprio il Ministro dell’Interno Matteo Salvini – ha aggiunto una terza ricetta, tanto virtuosa, quanto retorica e usurata: “Bisogna incominciare dalle scuole!”
Non credo alla sbandierata tolleranza zero e, mi spiace dirlo, non credo neppure alla efficacia delle analisi sociologiche o dei fervorini pedagogici. Di questo passo il gioco del calcio dal vivo va verso il suo funerale. Si chiuderanno gli stadi (tutti) e le partite le vedremo esclusivamente nei vari canali televisivi, intermezzate da sempre più invadenti spot pubblicitari. Da lì arrivano il 90 e più per cento degli introiti delle società, quindi gli spettatori in carne d’ossa verranno definitivamente sostituiti dal grande popolo anonimo dei telespettatori-consumatori-scommettitori.
Stavo così sprofondando nel pessimismo più nero; vedevo il triste futuro del glorioso Stadio di San Siro deserto, ridotto a una specie di Colosseo: bigliettai, ciceroni e figuranti vestiti e truccati come Maradona e Roberto Baggio invece che come gladiatori.
Ma la sera, mentre guardavo inorridito le fasi finali della votazione della finanziaria alla Camera, “ho visto la luce” (John Belushi). Forse, perché no, c’era un modo di salvare il calcio. Semplicissimo. E stava tutto in una frase, tanto banale quanto geniale: dare il buon esempio. Però darlo sul serio. E cominciando da dove? Guardando in alto, ‘andando a monte’ appunto. Partendo proprio dal Parlamento..
Fateci caso: l’immagine di San Siro urlante è esattamente speculare a quella del nostro Parlamento terremotato (urla, pugni, schiaffi, cazzotti, spintoni, fogli in aria, cariche a testa bassa, risse, cartelli di insulti) mentre discute in ‘zona Cesarini’ quest’ultima Finanziaria (inconoscibile e truffaldina: ma questa è un’altra storia). E non solo ora, non solo a fine anno: Camera e Senato, in questa e nelle scorse legislature, sono spesso un campo di battaglia (‘merda e arena’): non un confronto verbale ma un luogo di scontro fisico senza esclusione di colpi. Il presidente sbatte il martelletto. Nessuno lo ascolta. Tutti interrompono tutti. Si urla. Si Insulta. Nessuno capisce nulla. Né i ‘molto poco’ onorevoli parlamentari. Tantomeno noi cittadini soldati semplici.
‘Camera Ardente’, così qualche giorno fa una magnifica prima pagina del quotidiano ‘il manifesto” per raccontare la temperatura infernale raggiunta dal dibattito parlamentare sulla Finanziaria.
Non è così dappertutto. Ricordo Theresa May mentre difendeva la sua bruttissima Brexit nell’aula minimal del più antico parlamento del mondo e che, nonostante gli enormi contrasti e un Paese spaccato in due, riceveva dai parlamentari solo degli oh di disapprovazione e qualche sonora risata. Nessun deputato si era però mosso dal suo posto. La premier britannica (potenza dell’humor inglese) si è fermata un attimo, ha risposto con un sorrisino a fior di labbra e ha continuato tranquillamente il suo discorso.
Un bell’esempio. Chissà, magari è anche per questo che gli stadi inglesi (senza sbarre, grate e transenne) hanno vinto la battaglia contro gli Hooligans.
Immaginate ora un deputato italiano che interrompe … e viene spedito in castigo in anti-Camera per mezzora. E se urla agitando un cartello: 3 giorni di stop. Se esce dal suo posto, insulta e aggredisce un collega: un mese di sospensione. Senza stipendio ovviamente. Se poi urla frasi razziste: a casa!, dimissioni immediate. Dura lex sed lex.
Chissà, forse ho esagerato. Ricordo con simpatia un antico episodio di Giancarlo Pajetta che lanciava una seggiola in parlamento (allora però le poltrone erano molto meno imbottite!), ma alla fine rimango della mia idea. Dare il Buon Esempio, banale fin che volete, è una strada che potrebbe funzionare. Per tutti. Per i tifosi. E anche per bambini delle scuole. Portiamoli in visita in un Parlamento civile, e solo dopo portiamoli allo stadio.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Due lepri e una poiana

Favola delle due lepri bianche

Si sgela
Sugli alberi
La brina
Vedo una lepre
Bianca che cammina
No Non è stanca
Cerca tra le foglie
Nei fossi
Oltre i dossi
Le strade muglie
Il suo amore
Rintanato
Poi laggiù saltella
È così veloce
Bella
Il suo favorito
Ha scovato
E ora si rincorrono
Avidi di giochi
Sul dolce prato

Alla poiana

Spari
Flettono il silenzio
Nella trincea della fumana
Quella coperta fredda
Che accorcia il vedere
Ai quadri della recinzione
Trapezi di ragni
Gelata
E lei è lì
Impalata
Sembra finta
Mentre tutto
Lentamente si muove
È questo che
Lei emana
L’attesa del volo
Rapace
La poiana

Aspettando Capodanno

E dopo Natale arriva puntualmente il Capodanno, con l’inevitabile fardello di avvenimenti e fatti che hanno coinvolto ciascuno di noi e che riguardano 365 giorni di soddisfazioni, delusioni, gioie e sofferenze, progetti realizzati o congelati, rimpianti, aspettative e propositi, successi e insuccessi, pentimenti, azzardi, gratificazioni, inadempienze. Ma, come sosteneva lo scrittore e giornalista Giuseppe Prezzolini, “Queste divisioni di anni non contano, perché il tempo non si spezza e le persone restano le stesse. Ma servono alle volte come di sosta per guardare indietro e orientarsi”. Ciascuno, comunque, farà i conti col proprio vissuto e comporrà il bilancio di ciò che è stato, illudendosi che il giorno dopo sia improvvisamente possibile il cambiamento, un nuovo corso, una provvidenziale pagina bianca su cui scrivere un futuro migliore. Gli indifferenti ignoreranno questa scadenza, i furbi la utilizzeranno per i propri scopi, i dubbiosi tenteranno eccezionalmente un timido pensiero all’anno nuovo, gli scaramantici si affanneranno ad attivare ogni sorta di rito propiziatorio, dall’indossare rigorosamente gli slip rossi a veri e propri cerimoniali di buon auspicio.

D’altro canto, è così da sempre e me lo ricordava nonna Angelina, quando raccontava delle pratiche di fine anno fino a metà diciannovesimo secolo, nella nostra valle di montagna, ai piedi delle Dolomiti. Le anziane ricavavano una proiezione del futuro, la notte di San Silvestro, versando piombo fuso nell’acqua e interpretando l’avvenire a seconda delle forme che l’elemento assumeva. Non sono poi cambiati di molto i tempi! Uno sguardo speranzoso, fiducioso, fresco, scaramantico al futuro e uno al passato più profondo, riflessivo, a volte nostalgico, altre volte sollevato e finalmente libero dalle negatività e dei coinvolgimenti. In qualche caso ci si scopre affezionati all’anno che si sta per chiudere, con tutte le sue implicazioni, anche quelle più sofferte. Lo scrive anche Dino Buzzati in un’insolita intervista a se stesso del 1960.
“Signore, il 1960 per te è stato un anno felice?”
“No”
“Ti ha dato più pene che gioie?”
“Sì”
“Dunque una schifezza d’anno, nel complesso?”
“Esatto.”
“Sarai contento che se ne vada, immagino.”
“No”
“Tu sei un uomo assurdo, signore. Chi ti ha fatto del male se ne va, e tu non gioisci!”
“Mi ha fatto del male, è vero. Ma questo male è rimasto dentro di me, in questo preciso posto, e mi nutre.”
“Ti nutre?”
“Sì. E poi, per brutto che sia stato, per dispiaceri che mi abbia portato, il 1960 è finito per sempre, non tornerà più, passassero pure diciassette sestiquilioni di secoli, le cose di cui era fatto il 1960 non si ripeteranno mai più, con rigorosa e categorica matematica, più non si ripeteranno; erano uniche e perfette nella loro miseria e perciò sono già diventate lontanissime, piene di una loro misteriosa e romanzesca fatalità – che al momento mi sfuggiva – . Capisci?”
“Mica tanto, a dir la verità.”
“Sì, il 1960, con tutti i suoi guai, è stato bellissimo, qualcosa di storico e stupendo, che per tutta la vita ricorderò con amore.”

Atteggiamento ben diverso quello dei personaggi del romanzo di Alejandro Palomas, ‘Capodanno da mia madre‘, del 2014, ambientato a Barcellona. Un ricongiungimento familiare a casa di Amalia, nervosa e tesa per la cena canonica di fine anno. Ci saranno Fer che è appena stato lasciato dal compagno Max, la figlia maggiore Silvia che ha appena perso la bambina che stava aspettando e mastica nicotina con rabbia, una pentola a pressione pronta a scoppiare; sarà presente anche la figlia minore Emma, che ha sempre qualcosa che non va e arriverà Olga, la sua compagna, tutta arroganza, perle, tacchi alti e borsa Vuitton; li raggiungerà zio Edoardo, completamente ubriaco nel suo costume da Babbo Natale. Tutti sperano che non si ripetano gli orripilanti momenti dell’anno precedente e il cenone si rivelerà una memorabile festa di Capodanno in cui ciascuno vuole cacciare la propria pesantezza e trascorrere una serata all’insegna della leggerezza. Un appuntamento che mette in evidenza le relazioni familiari, fatte di fili che si annodano, a volte si allentano o si separano, per poi ripresentarsi in nuovi legami.
E ancora diverso è il Capodanno 2014 dell’ispettore greco Charitos nel romanzo di Petros Markaris ‘La resa dei conti‘ (2013), in cui l’autore ipotizza l’uscita dall’euro di Grecia, Spagna e Italia. Il commissario sta festeggiando la fine dell’anno e il ritorno alla dracma con l’anno nuovo, ma dovrà abbandonare ben presto i festeggiamenti perché la situazione esterna è difficile. In quella notte di disordini sociali in una Grecia con stipendi bloccati, banche in fallimento, un governo tecnico fasullo, la preoccupante disoccupazione e gli anziani affamati che frugano nei cassonetti, avvengono tre omicidi: un imprenditore, un professore universitario, un sindacalista, che hanno in comune un passato di ribellione al regime dei colonnelli. Sui loro corpi l’assassino lascia la scritta “Pane, Istruzione, Libertà”, lo stesso slogan che imperversa in un canale radiofonico del momento. Un Capodanno elettrizzante che deve fare i conti con la dura realtà, il caos sociale e un futuro che non si riesce a immaginare.

Come sarà il nostro Capodanno? Comunque si presenti, ci saranno gli auguri per tutti e per una notte metteremo da parte le negatività, le bassezze, le tensioni, le miserie, le pendenze scomode, per dedicarci con un sorriso a noi stessi e a coloro con cui trascorreremo l’attesa del nuovo anno. Una buona occasione per ricominciare al meglio.

PER CERTI VERSI
Di calcio e di altre emozioni

Calcio e morte

Si muore di calcio
di calcio si muore
ancora
attorno al calcio
si muore
nel calcio
ululano i razzisti
contro quei neri
che ci sono anche
tra i loro? beniamini

è troppo presto
per riflettere
è forse troppo tardi
per agire

a chi rimarranno le mani
con i cerini?

In fondo la relatività

In fondo la relatività
Il principio di indeterminazione
I buchi neri
L’antimateria
Sono una cosa seria
Ma stanno tutti
Nei nostri magici
Incontri
Non certo una cosa deleteria
Ma si sa l’amore…
Per anime belle evanescenti…
No cari miscredenti
Quella durata
incommensurabile tra di noi
È la vita
L’aratura
La trebbia
La vendemmia
Il polline puro
Sopra la morte
No cari è luce
Non bestemmia

Quando mi manchi

Quando mi manchi
Così come l’acqua a un delfino
Il mondo si terremota
E mi schiaccia sul capo
Una lastra di nulla
Il tempo mi opprime
Lo spazio si abissa
E io mi frastaglio
In baie di pianto
Poi rido
Come un veliero
Insabbiato
Poi le lacrime mi bagnano
Il volto
Come neve sciolta
Sulla roccia
Lo stomaco duro
Mi atrofizza
Le speranze
Illune
Poi
Poi
Ti ritrovo tra le carte
Come dune
E sento
La tua pizza
Che profuma

Mondi che non comunicano

Vincitore di tre Nastri d’Argento, tre candidature a David di Donatello, il divertente ‘Come un gatto in tangenziale‘ racconta di Giovanni (Antonio Albanese), presidente di un think tank, alle prese con la figlia Agnese (Alice Maselli) che intreccia una storia d’amore adolescenziale con Alessio (Simone de Bianchi), del difficile quartiere romano detto Bastogi. Un non luogo, fatto di storie di vita complesse e intrecci delle più disparate comunità.
Anche la madre di Alessio, Monica (Paola Cortellesi), non vede di buon occhio una storia fra due ragazzi di estrazione tanto diversa, appartenenti, a suo avviso, a mondi opposti non comunicanti. Ragionando solo con gli occhi di due innamorati, Agnese e Alessio non vedono però tutti quegli ostacoli: non lo sono il quartiere fitto di graffiti che cade a pezzi, i diversi stili di vita, la caotica coccia di morto (lido di Fiumicino) contro la tranquilla Capalbio, i padri – Giovanni, pensatore che frequenta Bruxelles, contro Sergio (Claudio Amendola) che invece entra ed esce dal carcere- o le madri, la senza lavoro Monica contro Luce (Sonia Bergamasco), trasferita in Francia, dove coltiva lavanda per profumi, sentendosi francese.

Quando Luce rientra dalla Francia, Monica invita tutta la famiglia a pranzo a casa sua. Qui irrompe Sergio, appena uscito dal carcere grazie a un indulto, che manifesta il proprio disprezzo per le rispettive professioni dei genitori di Agnese. Luce è scioccata dal contesto, il caso regna sovrano, insieme a malintesi e colpi di scena. Non si è uguali, inutile illudersi, si pensa da entrambe le parti. Un divario difficile da colmare. Un centro ricco e prospero e una periferia caotica e perduta che non comunicano, intellettuali-borghesi e storie di emarginazione che appaiono lontano anni luce. Ma Monica si informerà sui fondi europei, quelli di cui tanto parla Giovanni, alla ricerca di uno spiraglio, di una rinascita che si può sempre sperare. E che a chi sogna e sa impegnarsi apre ogni porta.

Una commedia ironica ma un po’ amara, che fa riflettere.

Come un gatto in tangenziale, di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Sonia Bergamasco, Luca Angeletti, Antonio D’Ausilio. Italia, 2018, 98 mn.

Consigli di letture sotto l’albero

Vacanze di Natale: tempo di regali, tempo di letture sotto l’albero al tepore di un camino o al calduccio di una coperta colorata. Sorseggiando magari una bella tisana calda…

Qualche consiglio di lettura, da regalare o da regalarsi.

Michelle Obama, Becoming, la mia storia, Garzanti, 2018, 498 p.

La biografia sincera e coinvolgente dell’ex-first lady Michelle Robinson Obama, dal piccolo appartamento nel South Side di Chicago circondato dall’affetto dei genitori Fraser e Marian e del fratello Craig, passando per le aule di Princeton, fino alle grandi sale della Casa Bianca. Sempre accanto a quello studente di giurisprudenza, amante dei libri e della filosofia, di nome Barack che entrando nell’ufficio legale dove lavorava le aveva sconvolto tutti i piani.

Roberto Cotroneo, Niente di personale, La nave di Teseo, 2018, 376 p.

Un inno a un tempo andato e perduto, un viaggio nella memoria, la fotografia di quello che siamo diventati, di un mondo culturale che se ne è andato e scomparso, una “grande bellezza” cha lascia spazio a macerie di grandi intellettuali che furono, di una nazione che non è più. Tra un’autobiografia che riporta alla nonna Fortunata o al padre Giuseppe e la cronaca, si risveglia la nostalgia del lettore per tante storie nella storia e molti ricordi che si perdono.

 

Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, 2018, 133 p.

Meditare è prima di tutto stare fermi, sedersi e seguire umilmente e con estrema pazienza il proprio respiro, accoglierlo in silenzio, conoscere ma non pensare. Meditare non significa vuoto ma capire il caos della nostra mente, la ristrettezza del nostro cuore, stare dentro noi stessi e connetterci con il mondo. In ogni momento, consapevolmente. Sapendo che nel dolore, ospite scomodo, irruento e tempestoso, c’è la soluzione al dolore.

Francis Halle, Ci vuole un albero per salvare la città, Ponte alle Grazie, 2018, 115 p.

Il più grande botanico francese e uno dei maggiori esperti di foreste primarie ci guida nel comprendere non esista tecnologia più complessa e perfetta di un albero, che, da solo, può salvare una città. Esso, infatti, rinfresca le estati con la sua ombra, aumenta l’umidità dell’aria abbassando la temperatura, assorbe anidride carbonica e polveri sottili. Da qui la necessità di comprenderli, amarli, rispettarli, pensarli come amici, guardiani e cittadini del mondo.

 

Riccardo Bozzi, La foresta, illustrato da Violeta Lopiz e Valerio Vidali, Terre di mezzo, 2018

Un prezioso libro rilegato, con stampe a rilievo e doppia carta che lascia intravvedere le belle illustrazioni a colori nitidi e intensi. La storia è una metafora della vita (“all’inizio non è che un boschetto di giovani pini, generalmente privo di pericoli e piuttosto divertente da percorrere”), lo si comprende sfogliando le pagine dove si alternano squarci di bosco, occhi e volti che ricordano Munari. I giovani esploratori giocano tra palme e scimmie, man mano che la foresta misteriosa si infittisce, mentre si passa dalla luce al buio. E noi ci troviamo al centro.

Pascal Fauliot, Racconti dei saggi buddhisti, L’ippocampo, 2017, 237 p.

La tradizione orale delle gesta dei saggi buddhisti, raccolta in un prezioso volumetto rilegato in tela con bellissimi e delicati motivi iconografici incisi. Il potere delle parole, la natura di Buddha, i maestri. Su tutti, un insegnamento: Tutti i fenomeni scaturiscono dallo Spirito. In sostanza, non vi è alcuna dualità, alcuna distinzione fra il puro e l’impuro, il Vuoto e le forme, se stessi e gli altri. Tutti gli esseri sono soltanto gocce d’acqua dell’Oceano originario.

 

AA.VV., Fiabe faroesi, Iperborea, 2018, 153 p.

Un viaggio nella tradizione popolare delle isole Faroe, le isole verdi del Nord Atlantico, antiche fiabe venute dal freddo tramandate, trascritte nell’Ottocento e pubblicate per la prima volta in Italia. Eccoci allora immersi in storie di orchesse che catturano i bambini, di troll che rapiscono principesse, di folletti, streghe, demoni, orfani e incompresi. Avventure funambolesche che intrecciano humour, astuzia, sangue e poesia. E un po’ di tremore.

 

I continui autogol nella partita degli interessi sul debito

La partita ItaliavsBruxelles si è conclusa con un risultato non inedito, uno -0,4% che ribadisce un trend inaugurato in precedenza da Berlusconi e Renzi. Diversi premier dall’attacco scompaginato e nessun vero Ronaldo per sfondare la difesa della Commissione europea che invece è forte, ha in mano le leve del potere e non è disposta a cedere quando si tratta di scendere in campo contro l’Italia.
Quindi perché non prendere finalmente e definitivamente le sue indicazioni come leggi costituenti? Eviterebbe oltretutto di vedere i nostri Presidenti del Consiglio andare allo sbaraglio come dei novelli Don Chisciotte che poi tornano a casa con la coda tra le gambe.
Le manovre italiane, a differenza di quelle francesi, vanno realisticamente elaborate a ‘saldi invariati’, cioè devono essere sviluppate senza creare debito, all’interno di un sostanziale pareggio di bilancio. Lo Stato italiano è stato ridotto a comportarsi come il droghiere all’angolo, l’aberrazione Stato = famiglia in eurozona (e solo qui!) è realtà.
Allora accettiamo di essere in gabbia, che non siamo capaci di uscirne qualunque sia la guida politica, e proviamo pacatamente a partire dalla contabilità, quindi dall’ultimo Def, per capire cosa si potrebbe migliorare.

Come si vede dai riquadri in rosso, paghiamo e mettiamo in bilancio una cifra spropositata in interessi sul debito pubblico che, tra le tante cose, ci privano della possibilità di attuare politiche economiche autonome. I riquadri blu ci mostrano che la spesa diminuisce ogni anno rispetto a quanto entra da tasse e balzelli vari che sono invece rappresentati nei riquadri verdi.
Dall’avanzo primario (blu) si evince che lo Stato è un ‘buon padre di famiglia’ perché spende meno di quello che incassa ma, nonostante questo, continua a indebitarsi a causa degli interessi sugli interessi (rosso). Inoltre questi interessi non tendono a calare ma anzi si alzano a ogni minimo starnuto dell’economia mondiale, come abbiamo imparato dagli avvenimenti degli ultimi dieci anni, nonostante il papà chieda sempre più soldi alla sua famiglia (riquadri in verde).

La spesa per interessi è diventata la terza spesa dello Stato, subito dopo pensioni e sanità, e questo papà, per migliorare la situazione, accetta di andare a lavorare fino a 70 anni con una pensione più bassa ed evita di spendere in medicine. Propone poi alla moglie e ai figli la sua ricetta ‘miracolosa’ dicendo che in futuro staranno tutti molto meglio lavorando di più ed evitando di disturbare il pronto soccorso.
Ma come mai non pensa di agire sul debito che, invece, è l’unica spesa improduttiva per lui e la sua famiglia in quanto si sta indebitando da quarant’anni non per comprare l’auto, le scarpe, le palline per l’albero di Natale ma solo per pagare interessi sugli interessi?
Chiaramente il ragionamento è valido solo in contesto eurozona perché basterebbe avere una Banca Pubblica oppure che la Bce avesse voglia di continuare a comprare titoli di stato e allora il resto dell’articolo non avrebbe senso. Qui si cerca solo di evidenziare l’inerzia (o l’inezia) politica degli ultimi decenni e quindi si accetta che la situazione attuale sia scritta sulle tavole di Mosè, come del resto la Commissione europea sembra volerci far credere.

Dunque, fatta la necessaria premessa, riprendendo il discorso e rimanendo sulla contabilità, quale padre di famiglia va in banca per chiedere un mutuo e accetta la prima proposta che gli viene offerta? Penso nessuno, invece è più o meno quello che fa lo Stato italiano quando vende i sui titoli di Stato. Abbiamo infatti un sistema che prevede che tali debiti vengano in primis acquisiti dagli ‘specialisti dei titoli’ (mercato primario) e solo in seconda istanza da tutto il resto del mondo, cittadini compresi (mercato secondario). Dopo aver ristretto la possibilità di partecipazione alle aste e quindi aumentato la possibilità che aumentino gli interessi da pagare per mancanza di concorrenza, si stabilisce che il metodo da utilizzare per le vendite sia quello dell’asta marginale invece di quella competitiva.
Attualmente i ‘nostri’ specialisti sono i seguenti:

Banca Imi S.p.A
Barclays Bank Plc
Bnp Paribas
Citigroup Global Markets Ltd
Crédit Agricole Corp. Inv. Bank
Deutsche Bank A.G.
Goldman Sachs Int. Bank
Hsbc France
Ing Bank
Jp Morgan Securities Plc
Merrill Lynch Int
Monte dei Paschi di Siena Capital Services Banca per le Imprese S.p.A
Morgan Stanley & Co Int. Plc
NatWest Markets Plc
Nomura Int
Société Générale Inv. Banking
UniCredit S.p.A

Queste banche, per ricavare il massimo possibile, non hanno che da mettersi d’accordo sulle offerte da presentare, infatti l’asta marginale che dovranno affrontare funziona pressappoco così: se c’è una emissione per 200 miliardi di euro di btp e vengono richiesti lotti al tasso del 3%, del 4% e del 5%, alla fine tutti i lotti vengono assegnati per il tasso offerto sull’ultimo lotto, ovvero tutto il debito produrrà interessi futuri per il 5%.
In Germania vengono invece preferite le aste competitive, il che garantisce già di poter controllare meglio gli interessi. E se non vengono venduti tutti i titoli? In Italia si rifà l’asta, e si può immaginare con quali risultati sugli interessi, mentre in Germania interviene la Bundesbank che congela l’invenduto classificandolo come “conto future vendite”, non potendolo comprare sul mercato primario per le regole dell’eurozona, per poi collocarli con comodo sul mercato secondario.
Nelle ultime aste i nostri vicini hanno invitato le seguenti banche/Istituti:

Bnp Paribas S.A.
Commerzbank Aktiengesellschaft
Nomura International plc
Hsbc France S.A.
UniCredit Bank Ag
Deutsche Bank Aktiengesellschaft
Citigroup Global Markets Limited
Goldman Sachs International Bank
Barclays Bank Plc
J.P. Morgan Securities plc
Dz Bank Ag Deutsche Zentral-Genossenschaftsbank
Morgan Stanley & Co. International plc
The Royal Bank of Scotland plc
Société Générale S.A.
Merrill Lynch International
Danske Bank A/S
Crédit Agricole Corporate and Investment Bank
Landesbank Baden-Württemberg
Bankhaus Lampe Kg
Rabobank International
Banca Imi S.p.A.
Ing Bank N.V.
Abn Amro Bank N.V.
Landesbank Hessen-Thüringen Girozentrale
DekaBank Deutsche Girozentrale
Girozentrale Natixis
Ubs Limited
Norddeutsche Landesbank Girozentrale
Bayerische Landesbank
Jefferies International Limited
Banco Santander S.A.
Mizuho International plc
Nordea Bank Ab
Banco Bilbao Vizcaya Argentaria S.A.
Scotia Bank Europe plc
Oddo Bhf Aktiengesellschaft

Se sembrano di più e perché lo sono. 36 banche, più del doppio di quelle invitate dal Ministero del Tesoro italiano. A queste si aggiungono tutte le banche dei Lander e gli istituti centrali tedeschi.
Il nostro Stato sbaglia nello scegliere il tipo di asta, preferendo il sistema che fa salire gli interessi e accumulare conseguentemente più debito, e sbaglia invitando alle aste solo pochi competitors, falsando il mercato… a suo netto svantaggio.
Insomma, come dire, non abbiamo attaccanti che riescano a segnare nella porta avversaria ma neanche buoni difensori, visto che continuiamo a farci autogol.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

Angelo, il bambino con la testa fra le nuvole

Questa storia nasce in una classe quarta dopo una discussione sui diritti che i bambini dovrebbero avere.
Secondo loro, oltre a quelli della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, tutti i bambini dovrebbero avere anche il diritto di: aiutare, avere amici, avere la testa fra le nuvole, avere del tempo libero, avere una casa, avere una famiglia, ballare, cantare, correre dalla mamma o dal papà, crescere in tranquillità, dire di no, dire la verità, dire quello che si pensa, disegnare, divertirsi, esprimersi in modi diversi, essere abbracciati, essere accolti, essere accuditi, essere aiutati, essere amati, essere ascoltati, essere coccolati, essere curati, essere felici, essere liberi, essere nutriti, essere protetti, essere rassicurati, fare cose sicure e adatte, fare sport, festeggiare, giocare, imparare tante cose nuove, imparare una lingua diversa, impegnarsi nelle cose che si fanno, innamorarsi, inventare giochi e storie, lavarsi, oziare, piangere, recitare, ricordare, ridere, riposarsi, sognare, sporcarsi, stare al caldo, stare all’aria aperta, stare bene, stare in compagnia, suonare, vedere luoghi diversi.

La Storia di Angelo, il bambino con la testa fra le nuvole

C’era una volta un bambino di nome Angelo che abitava a Quelpaese.
Era un bambino come tutti gli altri bambini: allegro, vivace, distratto, divertente e con tanta voglia di giocare. E come tutti i bambini andava a scuola e a scuola qualche volta si divertiva, qualche volta si annoiava, qualche volta si interessava e qualche volta veniva rimproverato dalla maestra perché non stava attento. Infatti quando la maestra spiegava, a lui veniva da prendere la gomma e immaginare che fosse una nave che stava salpando per i mari del sud, oppure quando c’era la prova di verifica e lui era agitato gli veniva da immaginare di essere un cameriere in una pizzeria, di portare una pizza gigante a un signore seduto al tavolo e poi di organizzare uno scherzo per farlo alzare e potergli mangiare tutta la pizza. Una volta mentre la maestra stava spiegando le catene montuose dell’Italia, Angelo cominciò a immaginare di costruire una macchina che scartasse i cioccolatini, un’altra volta uno strumento che facesse i gelati alla crema, ma così piccolo che potesse stare nella cartella della scuola.
A lui insomma piaceva sognare da sveglio.

Angelo si distraeva anche a casa: quando stava studiando, quando i suoi genitori gli facevano vedere i programmi culturali, quando lo portavano dalla zia e anche quando non riusciva a dormire.
Una volta, mentre era da sua zia e lei gli stava raccontando di come le faceva male la schiena, lui invece di ascoltarla andava con la sua “testa fra le nuvole” e immaginava per esempio di nuotare in una piscina tutta piena di pop corn. Un’altra volta, invece, mentre suo papà gli stava facendo vedere un programma in televisione sugli allevamenti di gamberi in Giappone, immaginava di diventare il protagonista di un film d’azione: ‘Angelo Jones e i pescatori della barca sperduta’, riusciva a sconfiggere i cattivi e tutti lo consideravano un eroe.
Lui si divertiva a fantasticare perché poteva immaginare quello che voleva e poi gli piaceva stare in un mondo fantastico perché era più bello che stare nel mondo vero.

Immaginare però gli creava qualche problema perché, quando non stava attento, non capiva la lezione, si confondeva, faceva confusione e alla fine si sbagliava.
Ma a distrarsi non era l’unico: quando Angelo raccontava tutte le belle cose che pensava, anche i suoi amici gli confessavano che si distraevano e che viaggiavano molto volentieri “con la testa fra le nuvole”. La cosa cominciò ad assumere un andamento preoccupante perché più la maestra era noiosa più i bambini si distraevano e più i bambini si distraevano più la maestra li sgridava.
Venne anche il momento in cui lo disse ai loro genitori e lo riferì alla direttrice della scuola.
La direttrice della scuola di Quelpaese ne fu molto preoccupata perché credeva che i bambini imparassero soltanto se stavano attenti mentre la maestra spiegava.
Pensò allora di riferire la sua preoccupazione al presidente dell’associazione “B.A.B.B.E.I.” di cui anche lei faceva parte.
B.A.B.B.E.I. era l’acronimo di: “Basta! Attenti Bambini Bisogna Essere Immobili”. L’associazione era composta da vecchi professori che volevano a tutti i costi che i bambini ubbidissero senza tante storie, che rispettassero le regole, che dicessero sempre di sì ai grandi e che stessero sempre attenti a scuola come stavano attenti loro ai loro tempi. Per risolvere il problema imposero alla scuola di Quelpaese tre regole molto ferree che tutti i bambini della scuola dovevano rispettare.
Le tre regole erano queste:
1) Bisogna stare attenti.
2) Bisogna stare sempre attenti.
3) Per stare più attenti bisogna stare sull’attenti.
I bambini però non ci riuscivano proprio a rispettare quelle regole, neanche con la minaccia delle punizioni e poi anche quando sembravano rispettarle la loro testa voleva andare per conto suo fra le nuvole a pensare, a ricordare, a immaginare, a fantasticare. Più lo facevano e più pensavano che tutte le invenzioni importanti, le grandi teorie, i bei libri, i quadri famosi, le sculture, le canzoni, le poesie dovevano essere nate proprie nei momenti in cui le persone avevano la testa fra le nuvole. I bambini si convinsero che avevano ragione, ma non sapevano come fare per far cambiare idea alla maestra.
Un giorno Angelo, che era quello che stava più “fra le nuvole” degli altri compagni, inventò una filastrocca sulla loro situazione. Faceva così:
Mi chiamo Angelo, sono un bambino
un po’ pensieroso, un po’ birichino,
ho sempre fra le nuvole la testa
così è come se fosse sempre festa.
È vero, a volte non sto attento
e di questo mica son contento.
Ma quando io ho immaginato
nella mia mente ho già creato.
Ognuno di noi usa la sua fantasia
per mettersi in testa un po’ d’allegria.
Tutti adoperiamo l’immaginazione
per dare al futuro un’accelerazione.

Piacque a tutti i suoi compagni che, durante l’intervallo in cortile, si divertivano a recitarla, a cantarla e a ballarla.

Un bel giorno passò vicino al cortile della scuola il Dj RAPpaello, un giovane musicista rap; si accorse di quella filastrocca, la ascoltò e gli piacque così tanto che la copiò, la musicò, la registrò e cominciò a diffonderla dalle antenne della radio libera di Quelpaese. In men che non si dica, il ‘Rap del bambino con la testa fra le nuvole’ (così aveva intitolato la sua canzone) diventò molto conosciuto, talmente conosciuto che la televisione di Quelpaese intervistò Dj RAPpaello chiedendogli, fra le altre cose, dove aveva trovato l’ispirazione per quella canzone
Il Dj, che in realtà si chiamava Raffaello ma gli piaceva farsi chiamare RAPpaello per infilare nel suo nome la parola RAP, confessò che l’aveva sentita dai bambini che la scandivano nel cortile della scuola. Allora il giornalista di Quelpaese andò in quel cortile e chiese a quei bambini perché avevano inventato quella filastrocca. Loro gli dissero di parlare con Angelo che gli raccontò la storia dei B.A.B.B.E.I. e nell’intervista aggiunse anche che, per avere una buona testa, era importante stare attenti, ma era altrettanto importante avere un po’ la testa fra le nuvole, una testa capace di “futurare”, cioè di immaginare il futuro in maniera originale.
Il giornalista della televisione di Quelpaese riportò la notizia in un servizio speciale ed ebbe subito un grande clamore. I genitori, che non ne sapevano niente, si arrabbiarono molto. Tante persone telefonarono alla televisione e scrissero sui giornali, lamentandosi delle brutte regole imposte a scuola. L’interesse di tutti fu talmente grande che il Ministro della Scuola di Quelpaese sciolse immediatamente l’associazione dei B.A.B.B.E.I., tolse quelle tre regole e fece una legge che diceva: “Se si vuole un mondo più bello, bisogna vedere, ascoltare, leggere, prendere e imparare dal bello che c’è già, perché le cose belle non si consumano anzi più si impara da loro più loro crescono”. Fra le altre cose, disse anche che bisognava pubblicare su tutti i giornali, almeno una volta alla settimana, le immaginazioni dei bambini, i loro testi, le loro storie, i loro disegni, le loro ‘futurazioni’.
Angelo e i suoi compagni furono molto contenti. Dj RAPpaelo fu davvero felice.
Anche la gente di Quelpaese iniziò a essere più serena perché finalmente aveva imparato che la speranza non è un’illusione ma è la realtà concreta rappresentata da tutti i bambini e le bambine che devono essere educati e istruiti nel modo giusto, anche lasciandoli viaggiare con la testa fra le nuvole.
Solo dopo aver imparato questo, tutti quanti potranno vivere felici e contenti.

Un Natale e un 2019 pieni di speranza e serenità a tutti voi dai Bambini del Cocomero e dalla redazione di Ferraraitalia

Senza freni: la democrazia cristiana illiberale e gli attacchi alla chiesa di Bergoglio

“C’è un’aria, un’aria, che manca l’aria”, cantava Giorgio Gaber. Paiono scritte per i giorni nostri quelle parole. “Bisogna bruciarli tutti gli extracomunitari insieme a chi li accoglie e si fa le budella d’oro”, è la frase che si è sentito dire don Domenico Bedin in piazza Duomo.
È solo uno dei tanti esempi, ormai a due alla volta finché non sono dispari si dice dalle nostre parti, per raccontare un tempo che pare deciso di passare alla storia sotto l’insegna del degrado e della mancanza della minima dose di buon senso. Quello stesso equilibrio che ci si aspetterebbe da una persona che al trascorrere delle primavere anziché trovare saggezza apostrofa in quel modo privo di riscontro un prete al quale tutti, credenti o no, dovremmo dire grazie.
E invece.
Maleducazione, politically scorrect, pulsioni senza freni e provocazioni, sono poi cavalcati da tempo a livello politico e persino istituzionale. Tanto che questa appare la normale grammatica sociale, mentre anormale è lo stile poco ciarliero, e men che meno social, di un capo dello Stato, che proprio nei suoi gesti al limite dell’impaccio finisce per sottolineare la natura pro-tempore del proprio mandato e ricordare che egli stesso è innanzitutto a servizio delle istituzioni, non il contrario.
Ma perché si stanno scendendo un po’ ovunque le scale della ragionevolezza e scalando con passo da bersagliere il monte del sen perduto?
Cos’è successo perché qualsiasi provocazione senza fondamento proveniente da una destra estrema trovi davanti a sé una comoda discesa, mentre qualsiasi cosa con un minimo di senso, non importa se da sponda conservatrice o progressista, è destinata a scalare un Mortirolo? Naturalmente moderati e progressisti ci hanno messo nel frattempo molto del loro per mettersi fuori gioco e in questo l’Italia può ben rivendicare il podio di laboratorio politico.
Ma questo non sposta di una virgola il quesito di fondo: perché? Tante sono le risposte possibili, ci mancherebbe, però qualche minuto non è speso male se si ferma l’attenzione su una in particolare. Questo è un tempo che, in generale, non sopporta la diversità. In tutti i campi, se ci pensiamo.
Nel nostro mondo, come l’abbiamo conosciuto finora, non esiste più la famiglia, ma le famiglie. Hanno fatto il giro dei media le immagini piene d’affetto del giovane omosessuale che ha adottato una bambina down. Non c’è più la religione, ma le religioni. Gli esperti dicono, da tempo, che i principi morali da universali sono diventati regionali e in pratica si va verso un futuro in cui ognuno ha i suoi.
Idee, opinioni, culture, modi di vita, fedi, hanno rotto i contenitori novecenteschi di partiti, sindacati, ideologie, associazioni e chiese e hanno intrapreso una rotta (postmoderna) in cui ogni orizzonte è stato cancellato, come scrisse Nietzsche ne La gaia scienza. Sotto la spinta populista la società è preda di una disintermediazione in cui i rapporti si semplificano fra il leader e il popolo, senza più alcunché in mezzo, ma non è ancora chiaro quanto i corpi intermedi stiano contribuendo a disintermediarsi da soli, spesso attardati in logiche e liturgie autoreferenziali.
Il fenomeno migratorio, per il quale nessuno ha ancora trovato una soluzione di governo, è solo la punta dell’iceberg di una diversità che, per il momento, spaventa. Il problema si complica quando la diversità irrompe in un momento in cui si dilatano le differenze. Un conto è affrontare il tema delle diversità a stomaco pieno, un conto è farlo quando redditi e reti di protezione sociale arretrano e il discorso dell’equità, storico terreno della cultura di sinistra come ha scritto Norberto Bobbio, non trova più nemmeno un vocabolario per il presente.
E così prevale la paura e dove si è creduto, ingenuamente, irreversibile l’apertura (la globalizzazione, i commerci, la rete, l’Europa), tornano i confini, i sovranismi, le chiusure, le nostalgie di un ordine perduto, non importa se fuori tempo massimo.
Dal ministro Salvini che, di fronte allo spettro dei genitori “uno e due” (rappresentazione plastica dell’incapacità anche lessicale di abitare il nuovo della diversità), rassicura rieditando nostalgicamente le figure di papà e mamma, allo slogan “Prima i nostri” col quale si vincono le campagne elettorali in mezzo Occidente, agli uomini forti additati come i soli capaci di fare sintesi di una diversità eccedente che frantuma le sicurezze della tradizione e porta le democrazie sull’orlo del caos.
Il presidente ungherese Viktor Orban, parlando quest’anno in un’università romena, si è detto fermo sostenitore di una democrazia cristiana illiberale, contro la democrazia liberale, dove l’aggettivo “cristiana” è usato come simbolo a difesa non di un modello religioso, ma culturale-identitario. Un perimetro, cioè, da difendere, per tenere il modello di famiglia al riparo dalle derive liberali, in senso plurale, e di comunità nazionale preservata dalla contaminazione migratoria.
Sicurezza e identità diventano pertanto i banchi di prova culturali e politici per un tempo che ha smarrito entrambe e che non sa resistere alla tentazione di spostare indietro le lancette della storia, pur di restaurare la quiete di un mondo passato.
Restaurare e ripristinare, perché rifugiarsi nel tepore della tradizione di un mondo perduto – artificialmente mitizzato – appare più rassicurante rispetto a un nuovo per il quale occorre essere attrezzati e che non si sa verso quale meta stia conducendo.

Qualcosa di molto simile sta succedendo dentro la chiesa cattolica e al pontificato di Bergoglio.
Non si è mai visto, almeno nella storia recente, un tale livello di contestazione del papato, tanto che diversi esperti stanno parlando del rischio scisma nella chiesa di Roma. Il motivo va probabilmente cercato nel tentativo di papa Francesco, per quanto prudente, di riformare la chiesa cattolica nel solco delineato dal concilio Vaticano II. I termini collegialità e sinodalità, oltre all’insistenza per una chiesa meno universale e verso il modello sacramentale-patriarcale di chiesa di chiese, è fumo negli occhi per chi vede il rischio di rompere con una tradizione ecclesiale e teologica a forte impronta gerarchica e centralistica in senso romano.
Da qui gli attacchi: dai Dubia dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner (2016), fino alla clamorosa contestazione dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò (2018).
Universalità-centralismo-tradizione, da un lato, e collegialità-sinodalità-comunità, accompagnati dallo stile della povertà e misericordia che pone la priorità dell’incontro con la persona in qualunque situazione rispetto alla rigidità dottrinale, dall’altro, paiono i termini di uno scontro senza precedenti, che avviene, anche in questo caso, sul crinale della diversità.
Occorre avere ben chiari i termini della questione per comprendere lo spessore della sfida. Lo fa molto bene il teologo africano Léonard Santedi Kinkupu, ponendo il quesito se la chiesa sia oggi in grado di mantenere in armonia unità e letture diverse della rivelazione, nella consapevolezza che una cattolicità aperta implica, in prospettiva, una diversità delle formulazioni delle verità di fede nell’ordine etico, religioso, teologico e dottrinale.
O la pluralità-diversità è la nuova frontiera anche per la chiesa di Roma, innescata dal concilio convocato nel 1962 da papa Roncalli, oppure prevale il timore di rompere con un ordine secolare e con una tradizione sostenuta da un corpulento pensiero dogmatico, col rischio di compromettere l’autorità di una struttura ecclesiale che nell’unità si è lungamente autocompresa come soprannaturale e consequenziale veicolo della verità rivelata.
E finché la diversità è motivo di paure, la tentazione di guardare indietro, e non avanti, giocherà fino in fondo la sua partita.

Tutto un altro Natale

Il Natale è il protagonista indiscusso in numerosi romanzi e racconti: si presenta festoso e leggero, intimistico e sentimentale, sacro e solenne, consumistico e superficiale. Le mille sfaccettature di una festa che comincia ben prima del 25 dicembre ed elargisce i suoi effetti oltre questa data. La festività più attesa dell’anno, che con il cambiare dei tempi si è adattata a nuovi canoni, mantenendo comunque sempre quel tocco di mistero. Ritorna puntuale con il suo carico di emozioni, i suoi riti, le sue luci e i suoi colori che hanno finito col perdere gran parte del loro significato. Le decorazioni in serie hanno preso il posto delle delicatissime e affascinanti sfere in vetro soffiato del passato; le luci intermittenti colorate al posto delle fiammelle delle candeline, il karaoke natalizio invece dei canti che trascinavano anche i più stonati. L’attesa a mezzanotte di Gesù Bambino con i doni – perché di questo si trattava, e non di Babbo Natale – lasciava i bambini col fiato sospeso come se proprio quella notte dovesse avvenire il miracolo dei miracoli. Non è sterile nostalgia o rimpianto per tempi diversi: è semplicemente un’immagine indelebile, che contiene tutto il calore incontaminato di una festa che ha cambiato i connotati.

In ‘Il Natale di Poirot’ di Agatha Christie (1939), tre giorni prima della festività l’anziano Simeon Lee riunisce i suoi figli che non vedeva da vent’anni. Comunica che vuole cambiare testamento, li insulta e li schernisce per divertimento. La sera di Natale si sente un grido pietrificante provenire dal piano superiore della casa e viene rinvenuto il cadavere di Simeon, in una pozza di sangue. Il mitico ispettore Poirot indaga e scopre che nessuno di familiari presenti poteva contare su un alibi credibile. Un intricato giallo come solo Agatha Christie sapeva immaginare e scrivere; una famiglia impegnata in intrighi, segreti, relazioni complesse, che a Natale scopre le sue carte tra eredità, diamanti misteriosamente comparsi, menzogne e, infine, la resa dei conti.
Ben diverso è il Natale che Giovannino Guareschi, scrittore, giornalista e umorista, descrive in ‘La favola di Natale’, nata in un campo di concentramento tedesco, nello Stalag XB di Sandbostel, nel dicembre 1944, dove lo scrittore si trovava internato. L’autore scriveva che le muse che lo avevano ispirato erano Freddo, Fame e Nostalgia. E’ la storia di Albertino, del suo papà prigioniero, della mamma e della nonna, di piccole creature buone o cattive che vivono e parlano in un bosco fantastico. Ma è anche la storia di quegli uomini affamati e sofferenti che ascoltavano il prigioniero Guareschi, in una baracca del lager e ascoltando le letture, mantenevano la speranza del ritorno. L’autore scrisse questa favola rannicchiato nella cuccetta inferiore del misero letto a castello, desideroso di dare voce ai sentimenti del momento, interpretando anche l’angoscia e allo stesso tempo la speranza degli altri. E’ la storia di Poesia, prigioniera nel campo, che tenta la fuga nascondendosi nella gerla di Babbo Natale; dei tre Re Magi illustrati come tre nanetti che sembrano usciti dal cartellone pubblicitario di qualche fabbrica di posate perché reggono come doni una forchetta, un coltello e un cucchiaio; del re della Pace e il re della Guerra; di panettoni che sanno di cielo e di bosco. Ma soprattutto di Albertino che vuole raggiungere il suo papà e gli scrive. “Posta per il nr. 6865! Da quattro mesi il nr. 6865 non riceve posta ed eccolo generosamente ricompensato della lunga, penosa attesa. Perché si tratta di una lettera d’importanza eccezionale, una lettera piena di ricami, angioletti d’oro, stelle di neve e zampette di gallina. ‘Caro papà, è natale e io penso a te…’”.
C’è poi un racconto classico della letteratura americana, ‘Ricordo di Natale’ di Truman Capote (1958), in cui l’autore trasferisce i suoi ricordi più vivi autobiografici di quel Natale in cui, scrive, vuole fissare uno dei pochi momenti felici trascorsi nella sua infanzia. Alla soglia delle festività natalizie, in un paesino dell’Alabama, Buddy, un piccolo orfano di sette anni e Sook, una lontana e anziana cugina pazzerellona creano un legame profondo, lontani dai parenti che mal tollerano la loro presenza in casa. La loro complicità fatta di amore e amicizia è quella che si stabilisce tra abbandonati, emarginati, poveri e soli, ma ricchi nella loro interiorità. Il bambino e l’anziana tagliano di nascosto un abete nella foresta per farne un albero di Natale e impiegano i loro scarsi risparmi per comprare farina, uvetta e whisky per fare il panfrutto, che verrà spedito con semplicità e desiderio di donare anche a Mrs Roosvelt, la moglie del Presidente degli Stati Uniti. Un racconto pieno di calda partecipazione e rimpianto struggente. Alla fine, ognuno di noi trova collocazione in un proprio Natale in cui riconoscersi, sentirsi e rifugiarsi; un Natale che smuova i sentimenti più belli e profondi, che restituisca ricordi sopiti, propositi dimenticati, pensieri e progetti rivitalizzanti per sé e per gli altri. Se non riusciamo a trovare tutto ciò dentro di noi, non possiamo pretendere di trovarlo sotto l’albero. Buon Natale!

Sgarbi e insulti: appello per un confronto politico senza volgarità, 145 le firme

Ancora una volta il critico d’arte e deputato Vittorio Sgarbi ha passato il segno. L’accusatorio intervento contro il Sindaco assomma un accumulo di offese che colpiscono la massima figura istituzionale della città. Non è in discussione la normale e legittima dialettica tra posizioni diverse sulla vita di una comunità, ma il rispetto per le persone che ricoprono cariche pubbliche. Per troppo tempo si è accettato e permesso che Vittorio Sgarbi usasse un linguaggio violento, offensivo, aggressivo, intollerante, intimidatorio, volgare. E’ accettabile che un uomo di cultura che scrive libri e fa discorsi sulla ‘bellezza’, sia nello stesso tempo uno dei principali responsabili del degrado etico-linguistico della nostra vita pubblica? La democrazia, il pluralismo, il confronto, la libertà richiedono una particolare responsabilità nell’uso della parola. Quale messaggio di consapevolezza della cultura e di corretta pratica della buona politica potrà arrivare ai giovani da testimonianze come quelle rappresentate dall’on. Sgarbi? E’ vero, come ha confermato l’ultimo rapporto del Censis, che la società si è incattivita. E’ vero che un diffuso sentimento di inimicizia sta compromettendo e logorando il ‘legame sociale’. Ma è anche vero che una parte di opinione pubblica è stanca di risse. Mentre esprimiamo la nostra piena solidarietà al Sindaco Tiziano Tagliani, intendiamo manifestare all’intera città e a tutte le forze politiche il nostro disagio e indisponibilità a subire come un destino ineluttabile il declino di una civiltà democratica fondata sul dialogo, sul rispetto per le persone, sulla pluralità delle idee, sulla bellezza dell’arte e della cultura, sull’autonomia e libertà di ciascuna persona. La cultura è ricerca della bellezza come decisivo segno di realtà e induce alla riflessione sul significato della verità. Il linguaggio smodato e offensivo con cui il critico formula le sue accuse conduce all’esito opposto, ovvero alla falsità del discorso e all’irrilevanza di un confronto fecondo.

1) Abruzzese Sandro insegnante e scrittore
2) Alessandrini Nicola insegnante
3) Alvisi Angela
4) Balestra Enrico
5) Baraldi Ilaria segretaria del Comitato Comunale di Ferrara del Pd
6) Baratelli Fiorenzo direttore Istituto Gramsci Ferrara
7) Barbujani Guido docente universitario e scrittore
8) Belcastro Salvatore primario chirurgo a riposo e scrittore
9) Benasciutti Nadia dirigente pubblica amministrazione a riposo
10) Bertaso Maria Grazia insegnante a riposo
11) Bertoni Laura
12) Bertozzi Marco direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali Ferrara
13) Bigoni Ilaria
14) Bolzoni Lina docente universitaria a riposo della Scuola Normale di Pisa
15) Bonazzi Fiorenza direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
16) Bondi Loredana dirigente delle scuole dell’Infanzia del Comune a riposo
17) Bonini Lidia
18) Bonora Lola
19) Bordini Maria
20) Bottoni Giorgio
21) Bottoni Silvia dipendente comunale
22) Bregola Irene insegnante
23) Buratti Marcella
24) Calabrese Maria direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
25) Cambi Ivana
26) Cambioli Sara
27) Cappellari Marco
28) Cappagli Daniela direttivo Istituto Gramsci
29) Carantoni Cinzia
30) Carli Ballola Sandra insegnante
31) Carrara Diego
32) Casazza Agnese direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
33) Cassoli Roberto direttivo Istituto Gramsci
34) Castagnotto Paola presidente Centro Donna Giustizia
35) Castelluzzo Mario
36) Cavalieri Gabriella
37) Cesari Tino dirigente Lega coop
38) Chendi Maria
39) Chiappini Alessandra dirigente Biblioteca Ariostea a riposo
40) Cirelli Andrea dirigente d’azienda a riposo
41) Civolani Daniele
42) Coghi Marco
43) Colaiacovo Francesco
44) Cristofori Tommaso capo gruppo Pd in Consiglio Comunale Ferrara
45) Cuoghi Tito
46) De Bernardi Ultimo
47) Dell’uomo Biagio Antonio
48) Dolfi Anna docente universitaria e critica letteraria
49) Dolfi Laura docente universitaria a riposo
50) Domanico Rosa dirigente pubblica amministrazione a riposo
51) Ericani Giuliana vicepresidente Edizione Nazionale delle opere di Antonio Canova
52) Falciano Annabella
53) Ferrari Annalisa
54) Fioravanti Giovanni dirigente scolastico a riposo
55) Fiorentini Leonardo consigliere comunale
56) Folletti Marcello
57) Folletti Nicola
58) Fornaro Giuseppe giornalista
59) Franchi Maura docente universitaria
60) Franesi Pietro
61) Gallo Rossana
62) Gardenghi Marco giornalista
63) Gareffi Andrea docente universitario
64) Genta Maria Luisa docente universitaria
65) Gessi Sergio giornalista
66) Ghetti Roberto
67) Giorgi Dario
68) Giubelli Paolo Niccolò radicali Ferrara
69) Grandi Enrico docente universitario a riposo
70) Grossi Alessandro ingegnere professionista
71) Guagliata Cristiano direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
72) Guelfi Nadia direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
73) Guerra Guerrino
74) Guerrini Pier Luigi
75) Gullini Sergio professore di Gastroenterologia Università Ferrara
76) Iacono Maria Rosaria dirigente nazionale Italia Nostra e membro Premio Bassani
77) Lavezzi Francesco giornalista
78) Lugli Daniele Movimento nonviolento
79) Mambriani Anna Paola direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
80) Mangolini Fabio operatore culturale
81) Mantovani Ida segretaria generale SLC-CGIL
82) Manzoli Silvia
83) Marchetti Lucia
84) Marcolini Paolo
85) Martino Antonio
86) Marzola Roberto
87) Mazza Luana giornalista
88) Mazzoni Paolo dirigente della Lega coop a riposo
89) Mezzetti Corinna archivista
90) Mosca Gil
91) Mosca Raffaele
92) Moschi Antonio insegnante
93) Mottola Molfino Alessandra direttivo nazionale Italia Nostra
94) Nanni Davide insegnante
95) Nerieri Piero dirigente pubblico a riposo
96) Pagliaro Roberta
97) Pagnoni Carla direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
98) Palara Francesca
99) Paparella Daniele
100) Pasquesi Gloria direttivo del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
101) Pasti Ilaria
102) Pavanelli Lina direttivo Istituto Gramsci
103) Pavani Elisabetta Centro Giustizia Donne
104) Pavoni Mario
105) Pavoni Sandra
106) Peverin Paola
107) Piazzi Rita
108) Potena Alfredo pneumologo, Università Ferrara
109) Raimondi Paolo
110) Ravenna Marcella docente universitario
111) Rigon Fernando Centro studi Palladiani di Vicenza
112) Rodia Giuseppe sindacalista
113) Romagnoli Cinzia
114) Roncagli Laura
115) Roncagli Maria Grazia
116) Roncagli Maria Lodovica
117) Rossi Daniele ex direttore della Biblioteca Bassani di Codigoro
118) Rossi Francesco
119) Saccomandi Antonella
120) Sani Paolo
121) Sansonetti Giuliano docente universitario a riposo
122) Scandiani Riccardo
123) Siconolfi Paolo presidente del “Comitato Ferrara per la Costituzione”
124) Simeone Rosanna
125) Stabellini Gianna
126) Stefani Franco giornalista
127) Stefani Piero direttivo Istituto Gramsci e saggista
128) Talassi Renata ex parlamentare
129) Testa Enrico giornalista
130) Trondoli Adriana dirigente del circolo culturale Il Doro
131) Tuffanelli Alessandra Articolo 1-MDP Ferrara
132) Turchi Marco
133) Vasilotta Gabriella
134) Venturi Gianni curatore del Centro Studi bassaniani
135) Venturi Ivana insegnante a riposo e dirigente del circolo culturale Il Doro
136) Veronesi Claudio
137) Vinci Antonio
138) Vinci Francesco coordinatore provinciale Articolo 1-MDP di Ferrara
139) Vitellio Luigi segretario provinciale Pd
140) Zagagnoni Gianfranco ex assessore nel Comune di Ferrara
141) Zamorani Mario gruppo “+ Europa”
142) Zanotti Carlo
143) Zucchi Luca dirigente amministrativo
144) Farnetti Monica
145) Vullo Giulia

La storia dell’albero di Natale di Ferrara

Questa è la storia dell’albero di Natale di Ferrara. L’albero, grande e molto bello, è un abete bianco nato da una pigna dischiusa in un pezzo di terra sull’Appennino tosco-emiliano, nel comune di Lizzano in Belvedere.

Già nel 2014 Comune di Lizzano in Belvedere  aveva donato albero (fonte CronacaComune)

Gli abeti lì ci stanno bene perché le temperature sono adatte e il terreno è umido senza che ci siano ristagni d’acqua, così la crescita è abbastanza rapida, sana e generosa.

Anno dopo anno l’abete cresce e lì vicino c’è un palazzetto dove le persone vanno a fare sport, ma anche a partecipare a incontri e gare, a iniziative culturali e feste. Nei comuni di montagna chi si occupa del verde sa che abeti e pini resistono abbastanza bene al vento perché hanno la loro forma affilata, ma sanno anche che hanno radici poco profonde. Questo permette loro di infilarsi nelle pareti rocciose e sui pendii, ma quando la dimensione delle piante diventa molto ampia, il rischio è che le forti raffiche di vento possano strattonarle indebolendo il loro appiglio a terra fino a farle cadere. Per questo i giardinieri montanari tengono d’occhio le conifere e le tolgono quando si accorgono che possono diventare pericolose. E questo è quello che è successo a questo abete, dopo diverse decine di anni che era cresciuto e cresciuto.

L’albero di Natale 2018 appena era stato collocato in piazza (Ferrara, 21 novembre 2018 – foto GM)

L’altezza dell’albero ha raggiunto i diciassette metri e la base oltre otto metri di diametro. Così, nell’autunno di questo anno 2018, a Lizzano in Belvedere hanno valutato che l’abete vicino al palazzetto cominciava a diventare troppo grande, un pericolo nel caso in cui si fosse scatenata una tormenta, tanto più che lì accanto c’è un continuo via vai di persone, famiglie, automobili e furgoncini.

Albero di Natale 2018 in piazza a Ferrara decorato e illuminato – 27 novembre 2018 (foto GM)

Un abete così bello, però, era un peccato rovinarlo o ridurlo a pezzetti. Ecco allora che nel Comune di Lizzano hanno deciso di farne dono al Comune di Ferrara, per il Natale in piazza. A fare da tramite sono stati gli imprenditori dell’Associazione temporanea di imprese (Ati) a cui è affidata l’organizzazione di eventi, addobbi e iniziative messi in campo dall’amministrazione comunale per il periodo natalizio della città.

Il giorno dell’accensione delle luci dell’Albero di Natale 2018 a Ferrara (24 novembre 2018 – foto Valerio Pazzi)

“Non c’è mai stato in piazza un albero così bello e così grande”, dice con orgoglio Riccardo Cavicchi che, con la sua società Delphi International, fa parte dell’Associazione imprenditoriale che già da alcuni anni organizza le iniziative natalizie ferraresi insieme con Made Eventi e Sapori d’Amare.

Albero di Natale 2018 in piazza della Cattedrale a Ferrara (foto Valerio Pazzi – 1 dicembre 2018)

Anche l’albero di Natale di Bologna è meno maestoso – fa notare Cavicchi – perché misura 15 metri, uno dei quali è interrato, e quindi svetta per 14 metri solo, rispetto ai 16 di altezza scoperta di quello ferrarese”. A rendere ancora migliore l’allestimento, quest’anno, si è aggiunta infatti l’opportunità di potere collocare l’abete nel punto in cui dovrebbe effettivamente stare: tra la piazza del Duomo e il Listone, dentro a un tombino creato apposta per poterci inserire dentro il tronco per la profondità di un metro, lasciando per il resto svettare la pianta direttamente dall’area di pavimento urbano lastricato di ciottoli.
L’Albero di Natale di Ferrara si innalza da quel punto come se fosse piantato nella piazza, senza bisogno di ingombranti manufatti a sostenerlo. Per valorizzare la sua presenza c’è la decorazione: le grandi sfere trasparenti con all’interno i manufatti realizzati con oggetti di recupero dagli studenti della sezione Ambiente del liceo Carducci. E poi c’è l’effetto delle luci. “L’illuminazione – racconta Cavicchi – è fatta con fili di piccole lampadine che emanano la luce giallo dorata che caratterizza anche lo scintillio della stella sulla cima. La punta dell’albero, però, è decorata con luci di colore bianco freddo come se la cima fosse ghiacciata, in modo da accentuare ulteriormente la sensazione di altezza”. L’effetto è riuscito e l’albero chiude in bellezza la sua carriera di abete natalizio.

Nella foto in alto l’Albero di Natale di Ferrara nello scatto scenografico di Valerio Pazzi, autore anche delle ultime due suggestive immagini notturne

APPUNTI SUI POLSINI
La partita Iva di San Giuseppe

Un’inchiesta giornalistica coraggiosa e, bisogna dirlo, ‘miracolosa’ condotta dal quotidiano ‘Il Giornale’ – l’organo di stampa fondato da Montanelli e noto in tutto il mondo per la sua imparzialità e il suo amore per la verità – ha recentemente sconvolto non solo le stanze del Vaticano, ma il miliardo e passa di fedeli della chiesa capeggiata da Papa Francesco.
Ma andiamo per ordine. Erano state proprio le reiterate dichiarazioni – a voce e per iscritto – del pontefice argentino smaccatamente a favore di esuli, profughi, immigrati e poveri in genere che a detta di Papa Francesco avrebbero la precedenza o comunque posti assicurati nel Regno dei Cieli, come pure le sue sospette citazioni evangeliche fuori contesto (“Gli ultimi saranno i primi” e via dicendo) a insospettire i giornalisti più avveduti e a convincerli di un necessario approfondimento storico ed esegetico.

In Italia, regnante Matteo Salvini, appena dopo l’approvazione del Decreto Sicurezza e con l’approssimarsi del Santo Natale, Papa Francesco era ritornato sugli argomenti a lui cari, mentre qualche parroco provocatore aveva allestito il presepe condendolo con statuette di neri, arabi, africani e migranti in genere. Come ogni anno – ma quest’anno molto di più – sono montate le polemiche fra i teologi e biblisti tradizionalisti e quelli ormai conquistati dalla strisciante ideologia comunitaria (leggi: comunista). Naturalmente lo scontro verbale si è subito trasferito anche tra gli esponenti della classe politica nazionale, invadendo poi le pagine dei media e i dibattiti televisivi.
Poco è servito osservare – e qualcuno ci ha pure provato – che il nocciolo, il senso delle parole del Papa non volevano riscrivere la storia di 2.000 anni fa ma richiamare tutta la comunità all’impegno verso la misericordia, l’accoglienza, l’amore per il nostro prossimo. Inutile insomma buttarla sul generale, ormai il vero tema del contendere era chiaro: Gesù bambino era o non era un profugo, un esule, un migrante? E se non lo era, che ci azzeccano i migranti dentro l’italico presepe?
Gesù era appena nato (o stava appunto nascendo) e, giusto una trentina d’anni prima del processo sommario davanti a Pilato, veniva già indagato: lui e la sua Sacra Famiglia. Come in tutti i processi, gli avvocati, e ancor più il giornalisti al seguito, si affannano nella ricerca di un qualsiasi indizio utile. Caso difficile assai, sia per la lontananza nel tempo della nascita in questione sia per l’esiguità delle fonti disponibili, tanto che il dibattito sul ‘Gesù storico’ prosegue da secoli senza aver raggiunto ancora una conclusione condivisa.
I santi vangeli vengono compulsati esaminati palmo a palmo e qualcosa alla fine si trova. Da una parte si ergeva la figura di Erode: niente da dire, un losco figuro persecutore di bambini. Dall’altra si sosteneva però che la Sacra Famiglia non scappava affatto dalla fame o dalla guerra, ma andava a Betlemme per un normalissimo censimento. E prima di adattarsi a una misera grotta (o a una capanna) Giuseppe e Maria avevano cercato alloggio in un albergo (non è dato sapere se a due, tre o cinque stelle) trovandoli purtroppo al completo. Ergo, se Giuseppe cercava una camera doppia in albergo, non poteva certo dirsi un disperato nullatenente: qualche tallero in tasca doveva averlo!

Già da queste semplici deduzioni, la tesi del ‘povero Cristo’ profugo errante usciva piuttosto compromessa. Ma qui – colpo di scena – è intervenuto il sensazionale scoop del giornalista Nicola Carter del ‘Il Giornale’. Dimostrando un fiuto e una costanza degni di Carl Bernstein e Bob Woodward (autori dell’inchiesta giornalista che svelò i retroscena del Watergate, n.d.r.), Nicola Carter tralascia la figura del Bambinello e si concentra su quella del capofamiglia. Chi era Giuseppe il falegname, e soprattutto, quale era il suo reddito imponibile?
Le sue ricerche lo portano in Terra Santa. Consulta gli antichi archivi di Gerusalemme, Betlemme e Gerico, interroga gli impiegati dell’anagrafe, perseguita gli archeologi, pedina rabbini e prelati cattolici e ortodossi. Si confronta a mani nude con la lingua greca, l’ebraico, l’aramaico.
Eureka! Alla fine i suoi sforzi vengono premiati. E’ storia di questi giorni di Avvento: Nicola Carter torna in Italia con un fascio di documenti (papiri, tavolette di cera, eccetera) letteralmente esplosivi. Basterà citare il documento principe (“la prova regina”) datato “anno 2 avanti Cristo”, e cioè la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore Giuseppe di Nazareth. Il reddito annuale, tradotto in valuta corrente, ammonta a 107.560,00 Euro. Il falegname Giuseppe della tribù di Levi risulta titolare di partita IVA e socio di maggioranza di una fiorente impresa (con marchio regolarmente registrato); aveva sotto di lui tre dipendenti (regolarmente assunti a onor del vero); era proprietario di un capannone adibito a falegnameria (non risulta che avesse acceso un mutuo). Da altri documenti desumiamo che Giuseppe era anche proprietario (al 50% con sua moglie Maria) di una seconda casa nella campagna di Gerico, affittata a equo canone, e aveva il conto aperto in tre istituti bancari.

Ne esce insomma il ritratto non di un Giuseppe semplice artigiano (un povero falegname sul genere Geppetto di Pinocchio), ma di un piccolo imprenditore di successo, un tipico rappresentante della classe media emergente.
La grande scoperta – e non si parli in questo caso di una fake news messa in giro da qualche leghista o lefevriano – rischia di far saltare le fondamenta stesse di una religione millenaria? E’ probabile. Quello che è certo è che il Santo Natale del 2018 ne esce con le ossa rotte, mentre nei prossimi giorni si prevedono controlli a tappeto sui presepi per espellere gli intrusi extracomunitari. Anche tra le statuette si anniderebbero alcuni pericolosi elementi radicalizzati.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

BORDO PAGINA
E’ a pezzi l’Europa delle banche a trazione francotedesca

“L’Europa è a pezzi e difficilmente potrà uscire da una crisi strutturale che sembra essere irreversibile. Non è la tesi di un qualunque organo di stampa “sovranista” o euroscettico ma di Foreign Affairs, l’autorevole rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali pubblicata dal Council on Foreign Relations. È un’analisi a tinte foschissime per il futuro dell’eurozona quella descritta da Helen Thompson, professoressa di economia politica presso l’università di Cambridge. Secondo Foreign Affairs, lo scontro tra il governo italiano e la Commissione Europea sulla manovra economica è la dimostrazione dell’incapacità dell’Ue di rispettare la sovranità e il voto democratico dei suoi stati membri” (leggi l’articolo)
In Italia, periferia della Terra, si discute ancora di antipolitica, populismo, del futuro (sic!) del Pd, della Tav, dei vaccini, dei migranti da accogliere con un Paese in semidefault, del ritorno del fascismo (dopo quasi 80 anni!) della Ferragni o di Fedez… mentre questa previsione autorevole dal cuore planetario degli Usa, molto semplicemente è come una Tac che viene da lontano sul problema invece probabilmente strutturale del nostro tempo che riguarda in primis proprio l’Europa e per cascata ovviamente l’Italia. E non a caso il monito viene dagli Usa, piaccia o meno al Bel Paese, dove nel 2018 l’Intelllighenzia sogna ancora miraggi anticapitalistici! E l’analisi indicata è impietosa: in Usa le 50 Stelle e passa delle nazioni federate funzionano sincronicamente con il Governo centrale senza problemi di sovranità relative nel rispetto della Sovranità generale americana: con regole però similari non solo monetarie e finanziocratiche come nell’Unione Europea, ma anche fiscali, penali, civili, militari e culturali. Quell’unione nella diversità culturale che poteva fare grande l’Europa, fallita come pure i punti chiavi non solo elusi nel miraggio europeo ma neppure – se non vagamente – all’orizzonte!
Se l’analisi previsionale è verosimile come probabile, quel che è anomalo non è lo scenario “distopico” annunciato ma persino la sua semplicità. E i segnali nello specifico italiano erano già visibili, come pure certuni – politicamente scorretti – proclamavano a suo tempo, eleggendo un 25 Aprile alla rovescia quando tutto il pseudo progressismo italiano inneggiò al golpe Napolitano-Merckel-Monti per fare saltare l’ultimo governo democratico e “sovranista” italiano dell’ex premier Berlusconi (almeno fino al 4 marzo scorso, ma come noto – e come scrive la testata americana – sotto ricatto dall’Europa): l’analista autorevole del Forreign Affairs è esplicita, al di là delle rivoluzioni liberali fallite per gravi limiti come politico e statista dell’imprenditore Berlusconi e quelle stagioni… Lì l’Italia ha iniziato la sua perdita di sovranità e s’è infilata nel Buco Nero dell’Unione Europea finanzocratica a trazione tedesca già in atto dall’Unione Monetaria (e solo quella!). Unione Europea a ben vedere, poi, nata morta (almeno nella sua versione dominante finanzocratica e francotedesca) quando in realtà fin da Yalta dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa era regredita a una grande periferia geopolitica della Terra, ma periferia, con il sistema nervoso del Pianeta pulsante soprattutto e strutturale in Usa, l’Urss, e via via l’emersione prima del Giappone e dopo la fine dell’Urss (con ulteriore regressione continentale con l’Europa dell’Est) della Cina. Nessuno ricorda che fino al Pci era zeit geist italico “progressista” sbandierare ai 4 venti l’inconsistenza dell’Europa colonizzata dal consumismo americano capitalista, altro modo di dire che dopo Yalta l’Europa non contava più nulla o quasi? Ecco, ai tempi della Guerra Fredda, poteva avere un senso una Super Nazione Europea (ma unitaria nei punti chiave di cui sopra) per bilanciare le superpotenze Usa e Urss. Invece, tra altri errori strutturali, non ultimo che una Nazione Nuova artificiale e non secondo i ritmi della Storia che è lenta a livello psicologico e antropologico, è impossibile come Istant Creazione… se non con un Regime Totalitario. Hanno fondato l’Unione Europea come fosse l’Esperanto!
Inoltre, l’Unione Europea è nata in realtà come supernazionalismo, fatta in quel modo, storicamente proprio mentre i mercati sono diventati globali e planetari, una grave contraddizione in termini. La nota crisi infine strutturale e occidentale ancora in corso è stata ed è il Marcatore neoplastico per l’Unione Europea…
Ergo, qualsiasi riflessione italiana sul Futuro , in qualsiasi ottica sociopolitica, neoconservatrice o neoprogressista non dovrebbe prescindere dall’abc di una Unione Europea strutturalmente in coma e nata geneticamente malata. Altrimenti, come poi i fatti segnalano fin da dopo Tangentopoli nel sottomenu italico rispetto al mondo, è, male o bene poco importa con sguardi – pensieri diversi futuribili (per dirla con Wittgenstein e altri “lungimiranti”) sempre Piccola Politica, mai quella Grande Politica che certi bivii nel divenire storico esigono, come ben pronosticava Nietzche, sul piano intellettuale il più grande degli Europei….

A Modo suo

Agli amici confida che da dieci anni studia da sindaco. Ed è vero! Ma il sogno nasce probabilmente già alla fine degli anni ’90, quando inizia l’apprendistato come presidente della circoscrizione Giardino (sì, proprio la famigerata Gad), e si fa più concreto dal 2003, con la nomina ad assessore comunale, dapprima alle Attività economiche e in seguito a Lavori pubblici e mobilità.
La lunga strada percorsa da Aldo Modonesi, (auto)candidato in pectore che nessuno però candida, lo ha portato oggi a concludere l’ultima conferenza stampa plenaria dell’ultimo capodanno di quella che molti considerano l’ultima Giunta a trazione Pd, partito erede della principale forza politica che, dal dopoguerra, ha ininterrottamente governato la città. E lui, Aldo Modonesi, Aldino, in questa così particolare situazione, dopo avere ascoltato tutti i colleghi di Giunta e il Sindaco, ha preso la parola proprio in chiusura, come di norma fa il padrone di casa e, dulcis in fundo, ha detto la sua, a suggello di un’esperienza che – comunque vadano le cose – termina (in quel ruolo) anche per sé. Ha tenuto un discorso da reggente, sciorinando – peraltro con invidiabile scioltezza, gli va riconosciuto, e completamente a braccio, quindi senza consultare appunti, tanto si sente cucita addosso la missione – i molti traguardi tagliati in questi anni nel suo ruolo di amministratore comunale.
Un cammino, il suo, ben dosato e misurato, che lo proietta ora a un passo dalla vetta, dunque dall’ipotetico agognato trionfo; o, per eventuale rovescio della sorte, sull’orlo di un precipizio e di una rovinosa caduta. Sciagura! Ma lui vuole, fortemente vuole: per quel traguardo si sente pronto e a quella meta ambisce, fortemente ambisce… Non si è fatto, dunque, sfuggir l’occasione per sciorinare il catalogo dei trofei.
Con l’umile premessa che mettendo assieme tutti i nastri delle inaugurazioni fatte si riempirebbero due sale mostra, ha ricordato i suoi successi: 4 scuole, 2 biblioteche, 3 parcheggi, 3 piazze, il raddoppio delle piste ciclabili, 180 alloggi di edilizia pubblica, la ristrutturazione dello stadio, la riapertura del campo scuola e del motovelodromo, i cantieri post sisma, l’apertura dell’ospedale di Cona, la sistemazione dell’ex Mof, di casa Nicolini e di Porta Paola… “Da qui si parte”, afferma mr. Inpectore, e aggiunge: “Tornerà di moda la serietà, sfioriranno i ‘ciaone’ e le felpe”.
E ha poi ringraziato tutti, proprio come ogni buon padrone di casa, dal Sindaco ai colleghi di Giunta, ponendosi ex cattedra, quasi fossero le prove generali di uno spettacolo annunciato. Andrà davvero così? Con pazienza, anche la “sala rotonda” – che ha ospitato la conferenza stampa – attende di conoscere i suoi futuri frequentatori. E’ lì, infatti, che di norma si svolgono le riunioni di Giunta. La denominazione attuale deriva (per scarsa fantasia) dalla presenza di un grande tavolo di cristallo, tondo perlappunto. Appellarla “sala dei Savi”, com’era anticamente, oggi è forse apparso fuori luogo…
Comunque sia, una certezza l’abbiamo; anzi, due: la prima è che in quello stesso spazio, fra dodici mesi, altri saranno i volti dei protagonisti chiamati a rendere conto ai giornalisti – e per loro tramite alla città – di ciò che, nel bene e nel male, come governanti di Ferrara, saranno stati in grado di fare. La seconda è che di ‘savi’ (saggi), in grado di reggere le sorti della città, tutti avvertiamo un gran bisogno.

 

CARTOLINE DA FERRARA – sintesi per immagini a cura del Comune di Ferrara

Investimenti 2018 – 12 mesi in 12 foto

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Arrivano le crocerossine!

La serie di Candy Candy e l’archetipo della crocerossina. Scrivono a I dialoghi della vagina le bambine degli anni ottanta.

Prevenire è meglio che curare

Cara Riccarda,
impossibile liberarsi di Candy Candy, quasi l’unica forma di educazione sentimentale per le bambine degli anni ottanta. Ci ha puntellato in testa che noi donne dobbiamo avere l’istinto della cura. E, chiaramente, quante fregature sono venute di conseguenza!
M.

Cara M.,
è stata una iattura e la mia amica B. non vuole convincersene. B. si giustifica dicendo che però c’era il valore dell’amicizia e dei buoni sentimenti. Ma quali buoni sentimenti, Candy viveva fra le serpi e l’invidia degli altri, marginalizzata, incompresa e, soprattutto, con l’istinto della cura. Sempre.
Ma un po’ di sano egoismo per l’autotutela non possiamo praticarlo? Candy rappresentava l’opposto. Ciò che più mi ricordo di lei, è l’inafferrabilità della gioia, la brutta sorpresa sempre in agguato e il senso di ingiustizia. Mi angosciava, eppure la guardavo lo stesso. A pensarci, qualcosa di simile l’ho replicato anche da grande.
Riccarda

Da Candy alle Winx… passando per Padre Ralph

Cara Riccarda,
non so dirti quante volte, da bambina, ho guardato la serie di Candy Candy. Mi piazzavo a mezzo metro dalla tv per seguire le sventure della mia eroina. Davanti a quelle immagini di sofferenza e a quella musica malinconica, capivo che c’era qualcosa di affascinante nel destino dell’orfanella, lei era un passo più avanti rispetto a me perché aveva vissuto davvero. Non so quanto mi sia rimasto del suo spirito di crocerossina, trovavo più interessante le vicende d’amore col bellissimo Terence che poi speravo di sognare. Da adolescente spesso sognavo a occhi aperti e speravo di incontrare un ragazzo che assomigliasse a un idolo della tv, cosa che non è successa mai.
Poi sono cresciuta, oggi ho due figli che hanno vissuto l’epoca dell’esibizione dei corpi delle Winx e un mondo parallelo dove tutto è possibile. Sarebbe bello dire ai figli facciamo un disegno o impastiamo una torta, ma bisognerebbe essere mamme Wonder Woman. I figli davanti alla tv o allo smartphone, se vogliamo riuscire a preparare la cena o altro, ci sono e ci saranno sempre . Magari, con un genitore che spieghi loro che la realtà è tutta un’altra cosa.
Elena

Cara Elena,
se all’epoca, qualcuno mi avesse detto che si possono anche fare scelte diverse, cioè un po’ più felici, e che le cose possono andare meglio, avrei guardato Candy con maggiore serenità, ma forse meno interesse.
Quanto alla più rassicurante Uccelli di rovo, ricordo ancora che fu lì che chiesi a mia madre come si fanno i bambini. “Così”, mi rispose lei, indicando lo schermo e dandomi da leggere l’ultimo volume dei Quindici.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

  • La rubrica I dialoghi della vagina riprenderà venerdì 11 gennaio 2019.
    Auguriamo serene festività a tutti i lettori.

I sogni avverati di Vasco Brondi al Teatro comunale di Ferrara

Grazie Ferrara. Un grande dono di cui sono grato alla città è che qui, da giovani, ci si annoia moltissimo. Ed è in giornate come oggi, con il cielo bianco e nulla da fare, che io ho iniziato a leggere, scrivere, suonare. La noia è importante, aiuta a sviluppare la creatività”.
Esordisce così Vasco Brondi sul palco del Teatro Comunale di Ferrara, la città dove è cresciuto e da cui è partito nel 2008 con il nome di Luci della centrale elettrica. Un concerto quello di domenica (16 dicembre 2018) pensato come conclusione di un percorso, momento di bilancio di un viaggio fatto di musica e parole che da Ferrara è partito e che ora giunge al termine per diventare non si sa ancora bene cosa: sempre sulle scene a cantare ma con il suo nome di battesimo, scrittore come fa già nei libri che alterna con i suoi album, oppure autore di cinema, fumetti, poesia, più difficilmente barman (cosa che – già con poca convinzione, dice – faceva in gioventù).

Vasco Brondi (foto Max Cardelli 2018)
Brondi a Ferrara (foto Luca Stocchi 16 dicembre 2018)

L’ironia e la capacità di trovare sempre un senso al paradosso sono il segno distintivo delle cose che Vasco Brondi dice, scrive e canta. E così, con questa sua modalità alternativa e obliqua, fa il punto sull’attività artistica che ha trasformato un giovane sperimentatore di suoni e testi in un cantautore che con emozione ha scoperto di essere apprezzato dapprima dall’artista concittadino Giorgio Canali, poi da una star della musica come Jovanotti, guardato con familiarità da Battiato, coinvolto dai suoi idoli, Cccp, e dall’amato De Gregori, finendo con lo stupore di vedere i versi di una sua canzone scritti sul muro in una strada di Catania.

Sono passati dieci anni dall’esordio con quel nome lungo e un po’ fuorviante di Le luci della centrale elettrica. “La cosa buffa – dice – è che prima erano tutti lì a chiedermi ‘Ma perché Le Luci della centrale elettrica?’ E adesso invece non fanno che interrogarmi ‘Ma perché basta con Le Luci della centrale elettrica?’”
Spiega che proprio a Ferrara è nato ufficialmente il nome, che sembra quello di un gruppo o di un album o chissà che. “È un nome che avevo nella mia testa da tempo, ma che non avevo condiviso con altri. È diventato pubblico il giorno in cui mi hanno dato l’opportunità di esibirmi in un locale ferrarese di via Bologna, dov’era in programma il concerto di un gruppo affermato e serviva qualcuno che cantasse prima”. Nel manifesto della serata dovevano scrivere anche il suo nome. “Così ho detto per la prima volta a voce alta che volevo usare Le luci della centrale elettrica. Manu dello studio di registrazione mi fa ‘Mi sembra una cazzata, magari pensaci e poi mi dici’. Alla sera mi chiama per chiedermi cosa mettere e gli rispondo che va bene Le luci della centrale elettrica. Lui sta zitto e poi: ‘Contento tu…’”.

Pubblico e tecnici al termine concerto di Vasco Brondi al Teatro comunale di Ferrara

A trentaquattro anni compiuti, Vasco ha alle spalle quattro album usciti per l’etichetta Tempesta Dischi  (‘Canzoni da spiaggia deturpata, 2008; ‘Per ora noi la chiameremo felicità‘, 2010; ‘Costellazioni‘, 2014; ‘Terra‘, 2017), un Ep allegato a XL Repubblica nel 2011 ‘C’eravamo abbastanza amati‘, il doppio album di questo tour dedicato al decennale ‘2008-2018: Tra la via Emilia e la Via Lattea‘, ma ci sono pure tre libri (‘Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero‘, uscito per Baldini Castoldi Dalai nel 2009, ‘Come le strisce che lasciano gli aerei‘, scritto insieme ad Andrea Bruno per Coconino Press nel 2012 e il resoconto del viaggio sul Po ‘Anime Galleggianti‘ scritto insieme con Massimo Zamboni per La nave di Teseo nel 2016).

Vasco Brondi-Luci della centrale elettrica a Ferrara

Tanti i pensieri e le parole che hanno scandito la sua avventura artistica e che, come spesso avviene nelle sue esibizioni, si accompagnano a pensieri e parole di altri autori che ha letto, a immagini e suggestioni raccolte in giro. In passato Vasco Brondi ha condiviso con il pubblico il suo amore per la scrittura di Gianni Celati e per la fotografia di Luigi Ghirri, la rivelazione di ritrovare pezzi di pianura emiliana infilati dentro una canzone di Lucio Dalla o dei Cccp. I libri, i film e la musica sono strumenti di interpretazione del mondo e di definizione della propria identità da cui ‘Le Luci della centrale elettrica’ attinge a piene mani. La letteratura non poteva quindi mancare in questo appuntamento conclusivo. Vasco Brondi ha ricordato: “A Italo Calvino una volta chiedevano quale sarebbe stato il talismano per il Duemila, e lui diceva: ‘Imparare poesie a memoria. Perché le poesie ti tengono sempre compagnia’. Ora leggerò alcuni ‘Sogni’ di Roberto Bolaño, sono poesie di questo scrittore cileno che dopo il colpo di Stato aveva scelto di vivere in Spagna”. Il sogno, del resto, è un filo conduttore presente spesso nei suoi brani. Ne ‘I nostri corpi celesti’ (2010) cantava “ti ricordi che i nostri sogni sfondavano i soffitti/ti ricordi i nostri disperati sogni di via Ripagrande e di viale Krasnodar” e la capacità di sognare è arrivata fino al più recente ‘Chakra’ (2017) dove, più appagato, rivela “ti sogno spesso e nel sogno una città si sta per allagare/ti do l’ultimo bacio sul portone/e mi liberi dal male e ti libero dal male”.

La chiusura del concerto di domenica 16 dicembre 2018

Il concerto, nella sala elegantemente classica e ovattata del teatro ferrarese si è aperto nella penombra di luci basse e bluastre per passare a colorazioni via via più calde, dal viola al rosso fino al culmine della conclusione in piena luce. Lì, sul bordo del palco illuminato, Vasco Brondi e i suoi musicisti si sono sporti per una finalissima a tutto ritmo, accompagnata dal battimano del pubblico con il brano che racconta lo stupore “dei nostri sogni assurdi che si sono avverati/…ci sarò io e arriverò, felice da fare schifo/e libererò tutti i tuoi pianti trattenuti” [per ascoltare il brano clicca sul titolo ‘Questo scontro tranquillo’].

Il sogno avverato chiude la carrellata delle visioni di un ragazzo che fantasticava un sacco di cose e magari si tuffava nella nebbia. Come “Michelangelo Antonioni – ha detto –  che raccontava che i suoi giorni preferiti erano quelli in cui si accorgeva che la nebbia era così fitta. Allora correva in piazza ed era felice perché diceva che finalmente poteva credere di essere altrove”. Altrove, dove Vasco Brondi andrà ancora una volta. Come nei versi di Bolaño che ha letto durante il concerto: “Ho sognato che mi rimettevo in viaggio sulle strade, ma questa volta non avevo quindici anni ma più di quaranta. Possedevo solo un libro, che tenevo nel mio zainetto. All’improvviso, mentre stavo camminando, il libro si incendiava. Albeggiava, e non passava quasi nessuna macchina. Mentre gettavo in un fosso lo zaino bruciacchiato ho sentito che la spalla mi pizzicava. Come se avesse le ali”.

Ad accompagnare Vasco Brondi sul palco del Teatro comunale di Ferrara c’era la band formata da Rodrigo D’Erasmo al violino, Andrea Faccioli alle chitarre, Daniel Plentz e Anselmo Luisi alle percussioni, Daniela Savoldi al violoncello, Gabriele Lazzarotti al basso e Angelo Trabace al pianoforte.

Fotografie di Luca Stocchi

Ecco perché la Francia può permettersi un deficit più alto dell’Italia

Tra la Francia e l’Italia c’è sempre stata competizione ma per lo più hanno sempre vinto loro potendo godere di Istituzioni più solide delle nostre perché più antiche e quindi di più larga esperienza. Nella storia i francesi hanno cercato sempre di primeggiare sia in Europa che nel mondo, contendendo colonie e sfere di influenza all’Inghilterra.
Poi con l’arrivo degli americani sullo scacchiere internazionale hanno allentato la presa, come del resto l’Inghilterra, ma sono comunque riusciti a tenersi strette un bel po’ di “prerogative” in maniera forse più subdola di questi ultimi: in Africa, nel Medio Oriente e ovviamente nel mediterraneo. Incuranti, e tante volte in contrasto, con gli interessi italiani.
Sono nazionalisti e molto attenti alla difesa dei propri interessi, non seguono ma precedono. La Nato per averli ha dovuto inserire il francese come lingua ufficiale insieme a quella inglese ed infatti la Nato, per i francesi, si chiama Otan.
Si dice che l’euro sia stato pensato per ruotare intorno agli interessi di Germania e Francia e che quest’ultima abbia accettato proprio per contrastare il crescente potere economico tedesco. In ogni caso da fondatori di fatto e non di “carta”, possono permettersi ciò che altri possono solo chiedere e vedersi, per lo più, rifiutato.
Oggi, causa manifestazioni di piazza, la Francia ha bisogno di spendere e quindi di indebitarsi di più di quello che aveva previsto. Moscovici, Cottarelli e Repubblica sono concordi nell’affermare che può farlo a differenza dell’Italia che invece non può perché, dicono, ha dei fondamentali economici peggiori.
Proviamo a farci un’idea obiettiva della questione e cerchiamo di capire come sono effettivamente i conti e se la questione sia realmente … economica. Andiamo a guardare questi fondamentali.
Iniziamo dal deficit, la tabella di seguito è alquanto esplicita. Il punto interrogativo sul 2019 indica che si tratta, ovviamente, di una previsione. Per la Francia un 3,4% opzionato da Macron per placare le richieste dei gilet gialli e un 2,4% per l’Italia che Conte sta trasformando in un 2.04%.

La curiosità: la Francia nel periodo 2012 – 2014 si mantiene sulla media del deficit al 4%, in quel periodo era Ministro delle Finanze l’attuale Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici. Quando invece raggiunse il record di deficit al 7,2% nel 2009 lo stesso Moscovici era Ministro degli Esteri, sempre presente nel Governo ma, diciamo così, meno “responsabile” dell’accaduto.
Per quanto riguarda il debito pubblico l’Italia cresce nel periodo 2007 – 2017 di ben 686 miliardi di euro. Una cifra enorme considerando che i Governi che si sono succeduti hanno imposto manovre “lacrime e sangue”, taglio di salari e pensioni, taglio delle assunzioni, degli investimenti e di qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani proprio nel tentativo di abbatterlo senza, evidentemente, riuscirci.
Una cifra enorme che però, se confrontata con i 1.025 miliardi di aumento del debito francese diventano poca cosa. Nel 2018, poi, aggiungerà altri 60 miliardi di euro, il doppio dell’Italia che dovrebbe fermarsi a 32 miliardi.
La Francia, nello stesso decennio, ha aumentato la spesa governativa di quasi 300 miliardi, circa tre volte in più dell’Italia che non è arrivata a 100 miliardi.
L’Italia spende però di più in interessi sul debito pubblico. Mediamente una spesa in debito pubblico superiore di 20 miliardi all’anno rispetto alla Francia, a dimostrazione del fatto che i nostri governi hanno prestato più attenzione alle esigenze dei mercati che a quelle dei cittadini.
Interessante, conseguentemente, il confronto sul piano del bilancio primario, ovvero la reale spesa dello Stato al netto degli interessi sul debito pubblico. Un modo per constatare effettivamente il livello di “consolidamento” dei bilanci, quanto realmente spende uno Stato per andare incontro ai bisogni dei cittadini e quanto per i mercati.

Ebbene da questo grafico del Mef si ricava che per il periodo 2009 – 2016 l’Italia ha una media positiva del 2,8%, mentre la Francia ha invece una media negativa di circa 1,5%. Insomma mentre l’Italia consolida (riduce) la spesa e sta attenta a far quadrare i conti, la Francia spende più di quanto riceve dai cittadini ancor prima di spendere per gli interessi sul debito.
Passiamo alla bilancia commerciale e ai suoi saldi, un altro fattore da considerare per avere un quadro corretto della situazione economica di un Paese. Ebbene anche qui la Francia non si comporta granché bene ed infatti, come si vede dal grafico seguente…

la Francia è in deficit all’incirca dal 2006 mentre l’Italia dal 2012 sta avendo ottime performance e ha chiuso il 2017 con un surplus di 47,5 miliardi di euro.
In sintesi, la Francia ha una storia di deficit annuali ben superiori a quelli italiani e per i quali non è stata mai multata. Inoltre, ha un deficit “gemello” ovvero è in negativo sia sulla bilancia commerciale che sul settore pubblico. In quest’ultimo caso ho sottolineato che il settore pubblico si indebita sia sul bilancio primario (al netto degli interessi) che sul bilancio finale, cioè dopo aver introdotto in contabilità gli interessi sul debito pubblico.
L’Italia invece ha surplus sul bilancio primario da decenni, quindi restituisce ai cittadini meno di quello che da loro incassa. Contemporaneamente, esporta più di quello che importa a riprova che ha un’economia in grado di competere sui mercati internazionali secondo i canoni imperanti e liberisti.
Sul piano del debito dobbiamo aggiungere un grafico, anzi due. Il primo sul debito delle famiglie

E il secondo (dati: bloomberg.com) sul debito totale

Dati causa e pretesto, bisogna aggiungere che nonostante la Francia sia fuori quasi da tutti i parametri tanto cari all’eurozona, vede il suo Pil superare in crescita di circa 3 volte quello italiano nel periodo 2007 – 2017, il che copre la montagna di debito e di deficit da cui è sommerso e le permette di mantenere la forbice debito/pil sotto il 100%. A guardare la situazione francese verrebbe da pensare che in fondo uno Stato che spende non sia una tragedia, non sarà che a noi mancano proprio i suoi deficit?
A noi sognatori, stranamente, piace pensare che la matematica non sia un’opinione, che i grafici inseriti in quest’articolo abbiano un senso e quindi che la Francia sia migliore di noi per il fatto che fa Politica, decide cosa è meglio per i suoi cittadini e come un buon padre di famiglia che pensa prima ai suoi figli, i Governi francesi hanno pensato e continuano a pensare prima ai francesi, anche se devono dare giustificazioni all’Europa a volte ridicole come fa Moscovici (francese alla corte di Bruxelles).
E forse spendere di più fa bene anche all’occupazione, visto che loro hanno 3 punti percentuali di disoccupazione in meno rispetto all’Italia, hanno più servizi e quando scendono in piazza sanno farsi ascoltare. Noi abbiamo Monti, Fornero, Cottarelli e Boeri passando per Calenda, Renzi e la Boldrini. Tutti impegnati, insieme a Rai, Mediaset e grandi giornali nazionali, a elogiare qualsiasi cosa che sia contro l’Italia e gli italiani.
Quello che non reggiamo con la Francia non è il confronto con l’economia ma il fatto che la nostra politica non fa gli interessi nazionali, che i sindacati sono troppo impegnati a “concertare”, che l’informazione è troppo occupata a parlare male dell’Italia, in un sistema in cui di conseguenza i cittadini hanno finito per essere troppo confusi da decenni di cattiva politica, cattivo sindacato e cattiva informazione per cui continuano a cercare nelle ideologie la soluzione di problemi pratici.
Non essendoci visione, rappresentanza e verità si è realizzato il sistema perfetto che annulla da solo qualsiasi tentativo di miglioramento, insomma la realizzazione ultima della società gattopardesca.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
La canzone del Principe /1


Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

 

LA CANZONE DEL PRINCIPE

La musica, spente le dolci note, vibra nella memoria (J. Keats)

PROLOGO

i morti
sui campi di battaglia
esangui
al cielo avvoltoio
si conficcano
le ragioni e i torti
nella pelle della storia
fumano
le armature sciolte
in ferro nemico
tra il sogno spento
di Carlo Quinto
e la fredda pace
di Vestfalia
*
splende a lampi
di sole notturno
l’ultimo rinascimento
fu tempo
di amore e sangue
*
unghie
di neve
le vette
dalle grandi mani
sfiorano
tastiere di nuvole
nei singulti di luce
cola cera
alla fiamma mattina
sole sole
che prendi
che apri
la scatola dei denti
al sorriso
vai anche tu
a stracciarti
contro gli scogli
del cielo
*

CARLO E MARIA

poiché mia cruda sorte…
così nel suo castello
Carlo Gesualdo
principe di Venosa
pensava a Maria
bellissima moglie
che privò
di quella passione
che nudamente
l’ardeva
*
lei aveva tutto
il lucore svevo
degli occhi
bagnati dal Golfo
della malinconia
la stazza degli avi
nella sensualità
ardente di vita
giovane vedova
si adagiò a prima vista
all’amore tenero e fraterno
l’amore di sempre
che non tracolla mai
del cugino
Carlo Gesualdo
principe di Venosa
*
nel palazzo degli splendori
il cuore di Maria si rannicchiava
nel petto esuberante
opera collinare
di perfetta bellezza
la luce di Napoli
cadeva contro gli scuri
dell’antica dimora
dove la musica era regina
lei solo principessa
*
iniziò così per gioco
il tradimento
l’amore a suo piacimento
lei che tutto aveva
tutto pretendeva
Maria
non fece eccezione
con l’amante Carafa
scaltro tessitore di trame
cortigiane
*
vo’ gridando la mia libertà
ai mille occhi
del sospetto
Maria così
spianava
il suo demone
Napoli guardava
ipnotizzata dalla bellezza
e dalla follia
esibita
guardava
coniugi
amanti
*
come poteva lui
il Principe
sopportare?
come poteva lei
la venere sveva
continuare?
lavare l’onta
salvare l’onore dei Gesualdo
Carlo non ebbe scelta
*
le tragedie si nutrono
della tracotanza
delle ristrettezze
del cuore
così fu
*
di notte fu uccisa
colta nel letto
al lume delle torce
Carlo delirando gridava:
uccidi uccidi
ancora
*
poi fuggì
coi coltelli del rimorso
piantati nel ventre
il tempo lo angosciava
allargava le ferite
della sua anima
perché mia cruda sorte
non mi hai tagliato le vene
perché anch’io non sono caduto
sotto i colpi inferti a Maria
perché amore affondava
nella carneficina?
*
solo
nel castello
che portava
il suo nome
Gesualdo
compose struggenti
madrigali d’amore
*

1. continua