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Ci sono interrogativi che continuiamo a porci e che regolarmente restano senza risposta, come ad esempio il perché dell’aggressività. Un interrogativo a cui tendenzialmente rispondiamo confondendo i sintomi con le cause. La guerra, come causa delle violenze, ora la pandemia, come causa del disagio giovanile, che sfocia in atti di violenza tra coetanei.

Se fosse così, tutto sarebbe comprensibilmente semplice: cessata la guerra cessano le violenze, scomparsa la pandemia, rientrano il disagio giovanile e con esso gli episodi di aggressione.
Nel dare risposte ai nostri interrogativi tendiamo ad essere condizionati dalle contingenze e dai contesti.

Per cui che un branco di ragazzotti meni un compagno con insulti omofobi e con inni a Mussolini sia un segno dei tempi della pandemia, come ai tempi del colera, francamente andrà bene per farci il pezzo di cronaca o un convegno sull’adolescenza, ma non certo per avere consapevolezza di quello che accade.

È il vizio degli adulti che stanno a guardare e che, una volta individuate le categorie entro le quali classificare il fenomeno, pensano di aver spiegato il mondo e quindi di essere intellettualmente in pace con se stessi.

Freud [Qui] ci ha insegnato che l’aggressività è un dato costitutivo della natura umana, espressione del conflitto tra Eros e Thanatos. Tra il principio di morte e il principio del piacere. Il piacere è vivere, abbracciare la vita contro ogni miasma mortifero, contro i becchini delle nostre esistenze, contro chi coltiva aggressioni e violenze.

Ad Einstein [Qui], che gli scrive interrogandolo sul perché della guerra, Freud risponde che l’aggressività non si può abolire, ma si può indirizzare, deviarla, si può incanalarla, cercando di far emergere l’Eros piuttosto che il Thanatos.

Siamo al dunque. Non siamo necessariamente aggressivi, una pandemia non rende più aggressivi di quanto lo si possa già essere.

Se l’aggressività ci prende, ci fa sbandare, ci induce a violare l’altro come noi, a sottometterlo ai nostri ricatti, ai nostri calci e pugni, al nostro essere branco, è perché qualcuno, che doveva crescere la nostra vita, dalla famiglia alla società, non ci ha insegnato a dirigere le nostre pulsioni aggressive verso la costruzione e la pratica di valori positivi, verso la realizzazione di noi stessi. Non abbiamo incrociato la mano giusta, quella in grado di aiutarci a deviare l’istinto di morte, come dice Freud, per impedire che potesse inquinare la nostra vita e quella degli altri.

Se si legge il Rapporto Istat del 2020 [Qui], al paragrafo La società italiana sotto il lockdown, emerge l’immagine di un paese coeso, con un elevato senso civico, al clima familiare vengono associate parole positive, come ancora di salvezza e fonte di serenità.

Questo quadro dell’Istat nemmeno un anno dopo sembra incrinarsi profondamente, di fronte alle proteste di piazza per le libertà conculcate, ai traumi sociali di giovani costretti alla segregazione.

L’incontro con il male sconosciuto, sempre latente, ha fatto sì che l’aggressività dei più fosse ‘deviata’ a difendere la propria vita e quella degli altri. Ma c’è anche chi quella aggressività ha scelto di orientarla verso Thanatos, scendendo in piazza contro i primi.

‘Vita’ e ‘morte’ sono i poli della violenza e di ogni aggressività e tra questi poli siamo chiamati a scegliere. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che senza aggressività non saremmo neppure assertivi, vivremmo senza progetti e senza conflitti.

L’aggressività è un elemento positivo della nostra umanità. Il tema è quello che pone Freud. L’aggressività va deviata, va orientata, va convogliata verso la vita e non verso la morte, per costruire non per distruggere. È dunque opera educativa dacché veniamo al mondo.

Il buon Rousseau [Qui], che non credeva nel peccato originale, nell’innata cattiveria dell’uomo, pensava che ognuno di noi in natura nasce buono e che a corromperlo sia la società, quindi la stessa educazione.

Ora, noi non alleviamo i nostri ragazzi e le nostre ragazze come tanti Émile, lontani dagli influssi della vita sociale, i nostri crescono tra la famiglia, la scuola e la società, luoghi di conflitti e di contraddizioni.

Tante ‘comunità educanti’, per riprendere questa espressione alquanto ipocrita tornata di moda. Perché che una comunità sia educante è tutto da dimostrare, come è da dimostrare che siano educanti la famiglia, la scuola, la società.

Famiglia, scuola e società perseguono fini educativi che vanno per conto loro, che non hanno mai avuto come obiettivo i giovani, ma come semmai difendersi dai giovani, o come sfruttarne la gioventù.

Chi salva i giovani? L’ipocrisia degli adulti? Quella che non manca mai, che denuncia l’arroganza della loro incoerenza, quella che i giovani come Greta additano alle nuove generazioni, perché apprendano a riconoscerla e a difendersi da essa.

Chi dovrebbe incanalare l’aggressività di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi, fin dalla prima infanzia, da Thanatos a Eros? Quid Game? Se mai serviva, la serie televisiva ha squarciato il velo sull’inettitudine educativa di tanti adulti, a casa come a scuola, degli interessi sociali che sono sempre e prima di tutto di mercato.

Dell’ipocrisia, con cui ci stracciamo le vesti ogni volta che ci troviamo di fronte ad atti di bullismo, di sopraffazione, di squadrismo giovanile, come se il mondo adulto ne fosse esente e non ne fosse corresponsabile.

Euripide [Qui] scriveva più di 2500 anni fa: «Beato l’uomo che ha conquistato la sapienza / che nasce dallo studio della natura; / nessun danno egli reca ai cittadini, / azioni ingiuste non compie, / ma esamina l’immutabile ordine della natura / immortale, cosa la formi, / e come e perché: / non v’è posto nel cuore di un tal uomo / per il proposito di azioni ingiuste».

Dov’è chi possa oggi offrirsi ai giovani, per accompagnarli e assisterli lungo la strada suggerita dal poeta tragico greco? La famiglia, la scuola, la comunità educante?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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