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Adelaide e la rabbia degli angeli – un racconto

Quello di settembre era il primo sabato che Adelaide avrebbe trascorso lontano dalla propria casa. La porta chiusa, serrata. Sono passata più volte, nessun movimento.
Esattamente quindici giorni prima, quell’anziana signora, mi aveva fermata davanti al proprio cancello mentre passeggiando mi godevo le ultime ore di sole estivo.
Mi mettono via” mi disse quella frase annuendo più volte il capo.

La guardai incredula. E’ così energica Adelaide, non si riposa un attimo: sposta le piante, stende i panni, coltiva il suo orto, gioca con il suo cane.
In una delle tante occasioni nelle quali mi ero fermata a parlare con lei, mi aveva confessato che spesso la notte faticava a dormire
– “Se sono stanca, perché magari mi muovo tutto il giorno, dormo. Non voglio prendere farmaci. A volte guardo la televisione, mi bevo un po’ di latte e anche se mi riaddormento verso mattina nessun problema, a pos star a let – mi diceva sorridendo mostrandomi le gengive e dando libero sfogo all’inflessione dialettale.

Mi mettono via e non me l’aspettavo”. Mi ripete. “Ora tocca a me. Spero di morire presto. Vado in una casa famiglia vicino ad una mia cugina che mi può venire a trovare. Poi se sarà così non lo so.

Non lo merito… ho lavorato tanto, mi sono fatta questa casa da sola. Mio marito è morto quando la casa era in costruzione, tre figli da tirar su, erano piccoli. Cosi non me l’aspettavo”. Allarga le braccia in segno di resa. A cosa si arrende? Alla decisione dei figli, alla vecchiaia, alla difficoltà di vivere in una società all’apparenza semplificata, ma in realtà sempre più complicata? Non lo so e non lo sa nemmeno lei.

Mi commuovo, sento il suo dolore. Le dico che sicuramente la porteranno ogni tanto a rivedere la sua casa. Mi dice che è meglio che non la riveda più. Se così deve andare, cosi vada.

La sera mentre preparo la cena cerco di pensare che in fondo Adelaide potrebbe anche star bene nella “Casa Famiglia”. Sono poi cose materiali che lascerà e se fosse morta le avrebbe lasciate comunque.

Ma è viva e vivi sono i ricordi e i desideri che accompagneranno le sue giornate.

Mi viene da pensare a quando a volte in casa mi guardo le foto di quando ero giovane, delle gite, delle vacanze e trovo bella la mia vita, la mia gioventù.

Penso a quando sono sola e decido di non cucinare, di mangiarmi un panino in santa pace, guardando la TV o leggendo un libro ascoltando il rumore del silenzio; o a quando canto sotto la doccia senza che nessuno si chieda se sono impazzita. A volte chiamo un’amica anche se sono le dieci di sera. Non disturbo nessuno.

Se lo fa anche lei sono piccole libertà che le mancheranno.

Volare con la mente senza la briglia degli anni, senza doverne dar conto a nessuno.

Anche Adelaide è uno spirito libero, sempre indaffarata a gestire le sue giornate. Quando era tempo di raccogliere l’uva mi preparava i “sugali** e me ne dava una ciotola. Quest’autunno mi mancherà quel gesto di ringraziamento dettato dal fatto che a volte mi fermavo a parlare con lei.

Ci si pensa tante volte al fatto che se si ha la fortuna di non morire giovani si diventa vecchi. Si pensa di arrivare a quel giorno organizzati, preparati; invece a volte qualcuno deve decidere per noi. Come si fa…? non c’è alternativa.

All’inizio della mia carriera come infermiera ho lavorato alla “Casa di Riposo”. Non ho mai visto maltrattare nessuno, però quando era ora di mangiare si mangiava, quando era ora di dormire si dormiva, quando era ora di lavarsi ci si lavava, quando era l’ora del silenzio si taceva.

Io ero destinata agli autosufficienti, ma anche per loro c’erano rituali dettati dall’organizzazione. I familiari che venivano a trovare il proprio congiunto si contavano sulle punte di tre dita. Sembravano persone senza passato, senza storia, catapultate in un mondo senza futuro. Si sarebbero potuti alzare dal loro letto, ma nessuno lo faceva, a meno che non dovesse andare al bagno.

Alzarsi e camminare, camminare per andare dove?

Oggi è tutto cambiato. Ne sono sicura.

Tre giorni prima della partenza Adelaide impreca, rompe anche dei piatti. Impreca contro il passato, contro gli anni augurandosi che ne rimangano pochi, impreca contro tutto quello che non immaginava andasse così.

La sera, leggendo, anche l’ultimo libro che ho comprato mi parla della vecchiaia. Sembra una congiura verso i miei pensieri.

“Gli ultimi sei anni di vita sono i più costosi, dolorosi e solitari, sono anni di dipendenza e, con una terribile frequenza, sono anni di povertà. Solitamente l’ultima fase è tragica, perché la società non è preparata a gestire la longevità”, scrive Isabel Allende  (Donne dell’anima mia, Feltrinelli). Circa quarant’anni fa lessi un libro di Sindney Sheldon dal titolo La rabbia degli angeli. No, non ricordo più la trama, ma mentre passo davanti a casa di Adelaide e la sento imprecare, mi viene da associare quel titolo al suo nome.

 

DDL Concorrenza: privatizzazioni su larga scala. Una dichiarazione di guerra all’acqua e ai beni comuni

 

Era il 5 agosto 2011 quando l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet, scrisse la famigerata lettera al Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie e ineludibili “privatizzazioni su larga scala” in particolare della “fornitura di servizi pubblici locali“.

Uno schiaffo ai 26 milioni di italianə che poco più di un mese prima avevano votato ai referendum indicando una strada diametralmente opposta, ossia lo stop alle privatizzazioni e alla mercificazione dell’acqua.

Oggi Draghi, da Premier con pieni poteri, ripropone in maniera esplicita e chiara quella stessa ricetta mediante il DDL Concorrenza approvato dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso. La logica che muove l’intero disegno di legge, oltremodo evidenziata nell’art.6, è quella di chiudere il cerchio sul definitivo affidamento al mercato dei servizi pubblici essenziali.

Un provvedimento ispirato da un’evidente ideologia neoliberista, in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il fallimento della gestione privatistica, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, investimenti insufficienti, aumento delle perdite delle reti, aumento dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia.

Questa norma, di fatto, punta a rendere residuale la forma di gestione del cosiddetto “in house providing”, ossia l’autoproduzione del servizio compresa la vera e propria gestione pubblica, per cui gli Enti Locali che opteranno per tale scelta dovranno “giustificare” (letteralmente) il mancato ricorso al mercato.

Nel DDL emerge chiaramente la scelta della privatizzazione. Gli Enti Locali che intendano discostarsi da quell’indirizzo dovranno dimostrare anticipatamente e successivamente periodicamente il perché di altra scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust, oltre a prevedere sistemi di monitoraggio dei costi”, mentre i privati avranno solo l’onere di produrre una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati.

Inoltre, si prevedono incentivi per favorire le aggregazioni, indicando così chiaramente che il modello prescelto è quello delle grandi società multiservizi quotate in Borsa, che diventeranno i soggetti monopolisti (alla faccia della concorrenza!) praticamente a tempo indefinito. Tutto ciò in perfetta continuità con quanto previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Ed è proprio dal combinato disposto tra PNRR, DDL sulla concorrenza e decreto semplificazioni (poteri sostitutivi dello Stato) che il governo intende mettere una pietra tombale sull’esito referendario, provando così a chiudere una partita che Draghi ha iniziato a giocare ben 10 anni fa dimostrando, oggi come allora, di fare solo gli interessi delle grandi lobby finanziarie e svilendo strumenti di democrazia diretta garantiti dalla Costituzione.

L’art. 6 è un proditorio attacco alla sovranità comunale: i Comuni da presidii di democrazia di prossimità vengono ridotti a meri esecutori della spoliazione della ricchezza sociale. E’ il punto di demarcazione tra due diverse culture, quella che considera un dovere il rispetto e la garanzia dei diritti fondamentali e quella che trasforma ogni cosa, anche le persone, in strumenti economici e merci.

Noi continueremo a batterci per la difesa dell’acqua, dei beni comuni e dei diritti ad essi associati e della volontà popolare.

A questo scopo, nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione nazionale in programma il 20 novembre a Napoli, in cui chiederemo con forza anche lo stop alla privatizzazione delle partecipate della città partenopea (tra le quali l’azienda pubblica “Acqua Bene Comune”) paventate in questi giorni, metteremo in campo una rinnovata attivazione per ottenere il ritiro di questo provvedimento, al pari del DDL Concorrenza e dei famigerati intendimenti in esso contenuti.

Facciamo appello alla mobilitazione generale, rivolgendoci alle tante realtà e organizzazioni sociali che in questi anni hanno saputo coltivare e arricchire un dibattito e una mobilitazione sui servizi pubblici locali e sui beni comuni, per ribadire insieme che essi sono un valore fondante delle comunità e della società, senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Siamo quelli che vogliono l’acqua pubblica, quelli che credono che un bene universale fondamentale per la vita non debba essere affidato alle logiche del mercato e del profitto. Quelli che insieme alla più vasta coalizione sociale mai vista in questo paese e a milioni di cittadine e cittadini, hanno vinto i referendum per l’acqua bene comune del 12 e 13 giugno 2011. www.acquabenecomune.org/

IL PIANO DRAGHI LAMORGESE:
privatizzare, vietare i cortei, comprimere la democrazia

 

Come nel più prevedibile dei copioni di teatro, dopo aver sapientemente preparato il terreno per un paio di mesi, il cerchio si chiude e il governo Draghi-Lamorgese porta l’affondo finale: nell’Italia della ripresa-resilienza sarà vietato manifestare.

L’esito è stato preparato attraverso diverse tappe.

La prima avviene il 9 ottobre, quando una “sconsiderata” gestione dell’ordine pubblico a Roma permette un assalto di gruppi neofascisti alla sede nazionale della Cgil, dopo averlo annunciato due ore prima dal palco di Piazza del Popolo.

La seconda avviene in vista del G20 del 30-31 ottobre, quando si costruisce una campagna di stampa di tre settimane su allarmi inesistenti in riferimento alle manifestazioni dei movimenti sociali, che portano esercito per strada e cecchini sui tetti a fronteggiare nientepopodimeno che la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future. Naturalmente la buona riuscita delle mobilitazioni viene attribuita al Ministero dell’Interno che ha “impedito” alle stesse di produrre disagi all’ordine pubblico.

Serve la goccia per far traboccare il vaso: ed ecco l’annuncio di un possibile cluster di contagiati dovuto alla ripetute manifestazioni No Green Pass nella città di Trieste e la presa di posizione del Sindaco della città, il quale, senza nessun senso delle proporzioni e del ridicolo, richiede a gran voce l’adozione di leggi speciali: “come ai tempi delle Brigate Rosse”.

Il pranzo è servito e il governo Draghi – non contento di aver imposto un Parlamento embedded, totalmente allineato alle sue scelte politiche sul post pandemia – prova a risolvere anche l’altro polo del problema, rappresentato dal conflitto sociale.

Ed ecco il nuovo pacchetto di provvedimenti annunciato sugli organi di stampa dalla Ministra Lamorgese, la quale, naturalmente non disconosce il diritto a manifestare (art. 21 della Costituzione), ma lo colloca dopo il “diritto” dei cittadini a non partecipare ai cortei (come se fosse obbligatorio) e dopo il “diritto” dei commercianti a poter trarre gli usuali benefici dallo shopping festivo e, ancor più, natalizio prossimo venturo.

Saranno vietati i cortei nei centri storici delle città, in tutte le vie dei negozi e in prossimità dei punti sensibili. E, come se non bastasse, laddove non ci siano “particolari esigenze e garanzie” – chi le stabilisce? – saranno vietati i cortei in quanto tali e permesse solo manifestazioni statiche e sit-in.

Il quadro è sufficientemente chiaro. La pandemia ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e la generale insostenibilità di un modello di società basato sull’economia del profitto. Il governo Draghi si è imposto il compito di proseguire con quel modello costi quel che costi.

Ed ecco allora un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) tutto rivolto ad accontentare le imprese e a mortificare il lavoro e i suoi diritti; una politica fiscale volta a liberare i ceti abbienti dalle insopportabili imposte, di nuovo scaricate su lavoratori e pensionati; una transizione ecologica interamente vocata al greenwashing; una nuova ondata di privatizzazioni di tutti i servizi pubblici locali; un attacco alla povertà, attraverso provvedimenti vergognosi come il tentativo di restringere il reddito di cittadinanza e di comprimere l’indennità alle persone con disabilità.

Tutte misure che, com’è ovvio, acuiranno il disagio delle persone e produrranno rabbia e conflitto sociale. Come risolverlo? Non c’è problema, basta vietarlo.

D’altronde, non è da tempo che i grandi poteri finanziari dicono che le Costituzioni dei paesi del Sud Europa sono poco adatte alla modernità perché troppo intrise di idee socialiste?

Marco Bersani, Attac Italia

Questo articolo è apparso con altro titolo su Attac Italia il  9 novembre 2021

SUM, ERGO COGITO
Essere liberi vuol dire pensare.

 

Quando sento dire, e non da ragazzi ingenui e spontanei, che l’obbligo della certificazione verde implica togliere la libertà e che rappresenta un provvedimento paragonabile alle leggi fasciste, mi sento sconfortata. Sconfortata non solo perché questo indica che si è persa la capacità di usare la logica, ma soprattutto perché dimostra che lo studio della storia come maturazione di società, cultura e umanità sta scomparendo Una storia ridotta alla sola acquisizione di un accumulo indiscriminato e una giustapposizione di dati, senza riflessione.

La creazione del green pass è stata fatta proprio per garantire la libertà di tutti: se ci fosse stato l’obbligo del vaccino questa misura non sarebbe stata necessaria, ma il governo per adempiere al suo compito democratico l’ha ideata e implementata per rispettare due diritti: la salute di tutti e la libertà.
E’ è una garanzia reciproca. Una garanzia, seppur minima, per chi è vaccinato di interagire con chi non lo è senza rischi eccessivi, e per chi non è vaccinato di non essere causa di contagio agli altri.

Considerare il green pass un modo occulto di costringere la gente a vaccinarsi, come hanno insinuato le Destre e alcuni mezzi di informazione, è una lettura malevola che non rispetta questa intenzione democratica. È una presa di posizione gratuita che la Destra ha esercitato sul governo semplicemente per mostrare il suo potere, facendo azione di disturbo. Eppure, il compito dell’ Opposizione non dovrebbe essere di andare semplicemente contro al governo, ma rappresentare i temi delle minoranze che compongono la società, rendendo più democratica l’azione del governo. L’Opposizione fine a sé stessa crea instabilità, non democrazia.

La politica e le leggi vanno interpretate secondo i valori dell’umanità: altrimenti anche i principi su cui si basava il processo di Norimberga decadono. Eichmann non doveva essere giustiziato perché pedestre esecutore di leggi scritte. E anche Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, doveva lasciar morire decine di persone per rispettare il Decreto Sicurezza–bis.

Queste ultime sembrano affermazioni retoriche, invece è una realtà che si sta attuando, per esempio, nel caso Riace.
Sono 15 sabati consecutivi che vediamo rumorose manifestazioni contro il green pass, mentre per la condanna a tredici anni di carcere di Mimmo Lucano per aver salvato delle persone e per aver trasformato una situazione di emarginazione in un motore di innovazione e sviluppo, non ce n’è stata che una sola, pressoché ignorata dai mezzi di comunicazione. E’ una nuova conferma che la stampa non svolge un servizio alla democrazia, ma segue piuttosto le leggi di mercato. E questo dovrebbe indignarci profondamente a prescindere dal nostro schieramento politico.

Sicuramente Mimmo Lucano per realizzare un progetto di accoglienza degno di quella che storicamente è stata la cultura italiana ha dovuto forzare dei regolamenti burocratici, in un paese e in un contesto nel quale la burocrazia per mantenere il proprio potere di controllo è arrivata, come spesso accade, alla disumanità se non addirittura all’assurdo.

Sappiamo ancora cos’è la democrazia?
Ci ricordiamo che la democrazia altro non è se non il tentativo di rendere storica e permanente la capacità di un’organizzazione di armonizzare l’esercizio della libertà personale – non solo individuale – con il bene comune? Che è lo strumento che permette di trasformare gli individui da atomi separati e in contrapposizione in soggetti intercomunicanti, solidali e collaborativi? Alla fine, vogliamo chiederci se siamo esseri che si limitano ad esprimere le leggi della chimica e della fisica, oppure se siamo esseri liberi che danno senso alla vita qualificandola secondo i propri valori di condivisione e comunione?

Avvenimenti come questi fanno emergere la superficialità dei comportamenti delle persone e l’incapacità di riflettere sulla realtà che diventa sempre più complessa e sempre più esigente. Questa è una conseguenza del depotenziamento della scuola pubblica, inteso sia per quanto riguarda gli investimenti e la percentuale di spesa pubblica, sia perché il ruolo della scuola è stato reso sempre più marginale nell’organizzazione generale della società stessa. La conseguenza immediata è che non si dà più peso e tempo alla necessità di pensare.

Cosa vuol dire pensare?  Oggi la scuola non lo insegna più.
L’istruzione pubblica manca doppiamente a questo ruolo di costruzione del pensiero: prima di tutto, eliminando l’educazione civica ha privato le nuove generazioni dell’abitudine a riflettere su cosa sia la democrazia, privandole anche delle nozioni di base relative alle istituzioni che la reggono e alle loro funzioni.
Il risultato paradossale è che la gente accusa il governo di non essere democratico e poi non va a votare. Questa mancanza di elementare educazione e cultura civica ha reso possibile l’impoverimento del linguaggio tanto da permettere la confusione tra concetti quali potere, politica e partito, che vengono usati come sinonimi, quando i loro significati non sono affatto coincidenti.
Altrettanto grave è che la scuola oggi non sia più finalizzata a educare la persona a sapere chi è, chi vuole essere e dove vuole andare, ma semplicemente a essere funzionale a una logica capitalistica che ha come scopo quello di avere successo, dove il successo si identifica solo con il diventare ricchi.

Oggi la scuola non insegna che pensare è entrare dentro il significato delle conoscenze e includerle in un processo storico e all’interno di un contesto. Pensare vuol dire dare senso e significato reale alle parole, considerandole nella complessità del ragionamento in cui sono espresse. Per questo pensare ti rende libero: perché ti permette di sapere chi sei e chi vuoi essere, ti aiuta a individuare i criteri per riconoscere dove sei, sapere che ci sono gli altri e ti rende consapevole anche di possedere gli strumenti per esprimere tua soggettività mettendoti in relazione e non in contrapposizione con l’altro. Senza conflitto.

Quando la scuola tornerà ad insegnare a pensare e ad essere creativi?  Quando riconoscerà il valore profondo di ogni persona? Quando riconoscerà che la persona, proprio perché unica e libera, è la risorsa che l’umanità attende per crescere e diventare sempre più libera e capace di individuare e rispondere al desiderio di una vita felice per tutti?

VITE DI CARTA /
Sul rileggere i libri e di altre cose preziose

Mi trovo nella felice condizione di preparare l’incontro con la scrittrice Donatella di Pietrantonio [Qui] che avverrà il 23 novembre prossimo alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea [Qui]. Lavoro alla rilettura dei suoi romanzi insieme alla amica e collega di sempre, Maria Calabrese. Ci diciamo dubbi e apprezzamenti, ci emozioniamo insieme davanti alla scrittura così intima e vibrante degli ultimi due romanzi che l’autrice ha pubblicato: L’Arminuta nel 2017 e Borgo Sud nel 2020.

arminutaLa qualità di L’Arminuta si è già sedimentata nel panorama letterario italiano degli ultimi anni: nello stesso 2017 ha vinto tra gli altri il Premio Campiello e il 21 ottobre scorso è uscito il film omonimo, diretto da Giuseppe Bonito e apprezzato in primis dalla scrittrice che ha partecipato alla sceneggiatura. Siamo andate a vederlo e ci è sembrato un film intenso, pieno di sensibilità e verità interiore come certe poesie dai tratti prosastici, armoniose e scabre al tempo stesso.
Ci è servito per procedere a quella lettura di scavo dentro ai testi che rappresenta il nostro ideale di lettura.

 

borgo sudOra siamo intente a ripercorrere Borgo Sud e lo scavo si fa pieno di gallerie e cunicoli affondati nel passato della narratrice, la stessa di L’Arminuta, che anche qui non dice il proprio nome e che in ogni capitolo parte dal presente ma presto si lascia prendere dai ricordi.
Il presente è un tempo doloroso: è arrivata da Grenoble per assistere la sorella che ha subito un grave incidente domestico. Occorrono due settimane perché Adriana possa uscire dal coma e nei giorni e soprattutto nelle notti dell’attesa la narratrice ripercorre le fasi del loro passato in famiglia e del suo, con l’esito di restituirsi a se stessa, di mettere alla prova le proprie scelte e corroborarne la validità. Anche Adriana del resto viene ripensata alla luce della propria indole e della vita arruffata che ha condotto.

Abbiamo riletto per intero Borgo sud, abbiamo riempito le pagine del libro e alcuni nostri foglietti di note scritte a matita, di richiami tra pagine ora lontane ora vicine. Ci sono venute in mente ipotesi a cui non avevamo pensato durante la prima lettura, che pure risale solo a pochi mesi fa.

Ce lo siamo ripetute di frequente: “Guarda, in questo passaggio sembra che la madre di Piero sapesse già…”; oppure “Controlla in quale tempo è avvenuto ciò che la narratrice sta ricordando. E’ prima del 1992, l’anno del destino per le due sorelle?”; “Qui viene detto il nome della madre, e qui si dice quanta stima avessero per lei i paesani. E’ importante per la sua figura complessiva”.

Abbiamo ricostruito la fabula del romanzo, dunque abbiamo messo in fila i fatti secondo l’ordine temporale, scoprendo una volta di più la cura con cui l’autrice ha progettato la sua scrittura, in alcuni capitoli i flash back sono uno dentro l’altro come nelle bamboline russe. Con naturalezza. Una complessità strutturale così passa quasi inosservata alla prima lettura. Si nota soprattutto lo stato di necessità emotiva che spinge la narratrice a ripensare a ciò che è stato e a farlo in modo ricorsivo. Puntando ai gangli vitali del vissuto e ritornandoci più volte.

Con quale piacere abbiamo fatto emergere dal testo la sua ossatura: le parti messe in luce hanno evidenziato una totale plausibilità, come pezzi di vita riprodotti così bene da poter essere nostri e di tutti. Dalle parti in ombra sono emerse delle nuove suggestioni, come speso accade con ciò che è lasciato implicito. In un romanzo dai toni così intimi sotto c’è la rete leggera ma resistentissima di un meccanismo ben congegnato, con le rotelle che si muovono in sincronia.

Ho trovato anche un mio errore di lettura, un errore che ho riportato nell’articolo scritto nel gennaio scorso per questa rubrica. Me ne sono proprio dispiaciuta, anche se so che può capitare a ogni lettore nel suo primo incontro con un testo.

Una ragione di più per rileggere un libro, rivedere un film, ascoltare una persona che non vedevamo più da tempo o rovistare tra le vecchie foto per trovare quella che ci illumina per bene una fetta di passato. Una ragione di più per rimanere sulle cose, per attraversarne lo spessore.

Credo che Maria abbia ripensato come me a quante volte da insegnanti abbiamo guidato i ragazzi alla scoperta dei testi, cercando di mantenere in equilibrio la conoscenza della loro struttura con il piacere di leggerli. Convinte, sempre, che dei libi non dovesse bastarci una lettura di superficie.

So che Maria, come me, ha cercato di trasmettere non tanto una tecnica di lettura ma una visione del mondo, un’idea di impegno in quello che si fa, il cui esito finale è la comprensione del sistema su cui ogni libro è costruito. Un premio. La messa in moto di un raffronto con noi stessi e con lo scrittore che assegna peso a entrambi, che fa crescere.

Lo rifaremmo da capo. Dando l’esempio del nostro collaborare. Battendoci contro la superficialità, come modalità di approccio alla conoscenza, contro un’idea pericolosa di ‘scuola-usa-e-getta’, che pure si affaccia dall’esterno e tende a insinuarsi dentro le aule. Io studente ti ascolto come se fossi davanti alla tv: ti ascolto finché mi va, intanto tu parla pure, esponi i tuoi autori e le tue nozioni. Tra poco suonerà la campanella e la tua trasmissione avrà fine.

Invece no. Maria e io abbiamo proposto percorsi di conoscenze da condividere, con un obiettivo in fondo da raggiungere, con regole da rispettare ognuno nel proprio ruolo. Con una relazione professionale e umana da curare un giorno dopo l’altro.

Stiamo ripercorrendo Borgo sud come lettrici, lo assaporiamo per noi stesse e per trasmetterne la bellezza al pubblico adulto, che vorrà esserci il prossimo 23. Dentro di noi, tuttavia, come in un’altra bambola russa, c’è l’insegnante che ognuna di noi è stata, un pezzo della nostra identità.

Con tutte queste bambole, una contenuta nell’altra, il processo della lettura, come vedete, viene a complicarsi. Il gioco è un gioco degli specchi fra autore, personaggi, lettori. Insieme a Maria ribadisco, però, che è il bello che c’è nell’atto di leggere.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

SALVIAMO IL MONDO…
a partire dai nostri cervelli.

 

La pandemia pare abbia fatto della razionalità una funzione misteriosa, a volte ingombrante, addirittura considerata pericolosa o per lo meno limitante. Non avere esercitato la nostra mente alla razionalità può comportare però di essere facilmente vittime della scissione fra i due sistemi cognitivi resi famosi da Kahneman [Qui], psicologo israeliano premio nobel per l’economia, con il suo libro Pensieri lenti e veloci.

Non si tratta di due componenti anatomiche del cervello, ma di due modalità operative: il Sistema 1 consiste nei giudizi istantanei; il Sistema 2 nel pensarci due volte.

Il nostro barcamenarci per i mondi poco conosciuti, con cui l’aggressione della malattia ci ha costretto a confrontarci, ha fatto emergere quanto le persone abbiano difficoltà a misurarsi con i parametri della razionalità.

Questo dovrebbe essere un obiettivo dell’istruzione: padroneggiare gli strumenti intellettuali di un corretto ragionamento. Logica, pensiero critico, i modi ottimali per adeguare le nostre convinzioni e prendere decisioni, strumenti di ragionamento indispensabili per evitare la follia nella nostra vita personale e nelle politiche pubbliche.

Francesco Bacone [Qui] scrisse di un uomo al quale, condotto in una chiesa, era stato mostrato un dipinto che raffigurava dei marinai scampati a un naufragio grazie a un voto: «E dove sono dipinti» chiese l’uomo «quelli che, dopo aver fatto il voto, sono periti ugualmente?».

La razionalità non va di moda. Secondo un recente luogo comune vivremmo nell’era della “postverità”. Come dire che siamo al paradosso, considerato che l’affermazione non può essere vera. Se lo fosse affermerebbe qualcosa di vero sull’epoca in cui viviamo.

Insomma, la razionalità ci scarseggia, l’istruzione non ci aiuta. A ben vedere la nostra cultura umanistica riesce con straordinario equilibrismo a tenere insieme razionale e irrazionale, fisico e metafisico, dio, santi, madonne e miracoli con la fisica dei quanti.

Perché allora stupirsi se la pandemia da Covid-19 ha dato la stura al delirio nazional-fascio-populista della dittatura sanitaria, delle teorie del complotto, della malattia come arma biologica messa a punto dal nemico sinico, un trucco di Bill Gates per impiantare microchip tracciabili nei corpi delle persone, il complotto di una cricca di élite globali per controllare l’economia mondiale. La fiera della ciarlataneria e della cialtroneria  avallata da celebrità, filosofi e politici.

Inquietante. Ma ormai tutto si beve, come se intorno a noi fosse esplosa una grande maionese impazzita, che non risparmia i suoi schizzi né a destra né a sinistra. Sottomettere tutte le proprie credenze al tribunale della ragione e delle prove è una capacità innaturale, come saper leggere, scrivere e fare di conto, e, quindi, va appresa e coltivata.

È a questo che servono le scuole e le altre istituzioni, che hanno il compito di rendere le persone più razionali. Sviluppare la razionalità con cui nasciamo e cresciamo, il nostro buonsenso, la nostra capacità di cavarcela, usando gli strumenti di ragionamento più potenti messi a punto dai migliori pensatori nel corso dei millenni. Kahneman ha osservato che gli esseri umani non sono mai così irrazionali come quando proteggono le loro idee predilette.

Come conciliare la razionalità, che ha permesso alla nostra specie di cavarsela nelle diverse epoche, con i nostri sbandamenti, ossia i nostri bias, vale a dire pregiudizi, illusioni e fallacie cognitive? Come la nostra specie possa essere così intelligente e, tuttavia, venire tanto facilmente illusa?

Per quanto il nostro sistema cognitivo sia eccellente, nel mondo della complessità, delle conoscenze ancora sconosciute dobbiamo sapere quando ignorarlo e affidare il nostro ragionamento agli strumenti della logica, della probabilità e del pensiero critico, che estendono le facoltà della nostra ragione al di là di ciò che ci è stato dato dalla natura.

Nel XXI secolo, se pensiamo di basarci sul nostro istinto, sulla fiducia in noi stessi, assisteremo, come del resto sta già accadendo, al concreto rischio di mandare oltre le persone anche la nostra democrazia al cimitero.

Nonostante tutte le conquiste della scienza, i progressi tecnologici, l’affermarsi sempre più del principio di realtà, la mentalità mitologica occupa ancora vasti territori nel continente delle credenze mainstream. L’esempio ovvio sono le religioni. A vent’anni dall’inizio del terzo millennio  i “nuovi atei”, Sam Harris, Daniel Dennett, Christopher Hitchens e Richard Dawkins, sono ancora vituperati.

Principi base, per esempio che l’universo, per quanto riguarda gli esseri umani, non ha alcuno scopo, che tutte le interazioni fisiche sono governate da poche forze fondamentali, che i corpi viventi sono complesse macchine molecolari e che la mente è l’attività di elaborazione delle informazioni del cervello, non vengono mai spiegati, forse per timore di offendere sensibilità religiose e morali. Non deve sorprendere, quindi, che ciò che la gente ricava dall’istruzione scientifica sia un guazzabuglio sincretico, in cui gravità ed elettromagnetismo convivono con karma e poteri curativi dei cristalli.

Del resto nelle nostre scuole d’infanzia pubbliche è permesso inculcare per un’ora e mezza alla settimana a bambini di tre anni l’idea di dio e i principi di una religione, quella cattolica. Per poi continuare negli altri gradi di istruzione, con un’insistenza oraria soprattutto quando le menti dei piccoli sono più malleabili, vedi le due ore nella scuola primaria.

Pretendere di educare le intelligenze alla razionalità e alla logica quando si chiedono atti di fede è un paradosso, che però noi coltiviamo nell’assoluta indifferenza generale. La stessa con la quale siamo sedotti dalle sirene dei reduci del latino e dalla inossidabilità dei licei classici, dove ancora la matematica è insegnata per due ore alla settimana contro le diciannove riservate alle materie umanistiche.

Non dovremmo dunque neppure meravigliarci delle emozioni stupide ed illogiche degli esseri umani, quelle che fanno dire al signor Spock di Star Trek, che per lui sono una costante causa di irritazione e per questo non gli è mai piaciuto lavorare a contatto con gli umani.

Dall’assalto alla CGIL alle manifestazioni di piazza dei no-vax e dei no-pass, a nessuno dotato di razionalità piacerebbe lavorare a contatto di queste persone. La lezione che ci viene da questi due anni di aggressione del virus riguarda prima di tutto la razionalità, come recuperarla, come difenderla, come farla crescere.

Un’altra questione  che investe la scuola, contenuti, qualità e contraddizioni della nostra istruzione, della formazione che vendiamo, in cambio del loro tempo, a bambine e bambini, a ragazzi e ragazze.

Invece di inventarci nuove giornate da celebrare a scuola, nuovi format di educazione civica, la prima educazione è quella di far funzionare i cervelli, di allenarli alla ragione, alla logica, al pensiero critico, da subito, anziché indottrinarli con materie di fede. Allenarli almeno ogni giorno per le trentatré settimane di scuola di ogni anno.

C’è l’ecosistema del pianeta da salvare, ma se non curiamo prima l’ecosistema dei nostri cervelli  sarà difficile pensare per il futuro ad una esistenza sostenibile.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

TEATRO COMUNALE
Il balletto della pandemia, prima nazionale a Ferrara

 

Il lockdown che come per incanto ha infilato uffici e redazioni tra telecomandi e playstation dei nostri tinelli, per sei bei giovani ballerini e sei belle giovani ballerine ha trasformato salotti e monolocali nella porzione di una grandiosa e frastagliata sala prova, disseminata probabilmente tra l’Olanda, il Belgio, l’Italia. Mentre io mi districavo tra le e-mail d’ufficio e le varie richieste di servizio annunciate dalle notifiche di WhatsApp, loro volteggiavano lievi e tenaci sotto le webcam accese. A fare della pandemia il filo conduttore di un ambizioso spettacolo è “Blasphemy Rhapsody – La volubilità delle certezze”, andato in scena al Teatro Comunale di Ferrara sabato 6 novembre 2021 in prima nazionale.

Emio Greco in scena al Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Questo è l’appuntamento che ha visto Ferrara accogliere il debutto italiano del nuovo lavoro firmato dal danzatore e coreografo Emio Greco insieme con il regista olandese Pieter C. Scholten, a conclusione del “Festival di danza contemporanea” del teatro Claudio Abbado con protagonista la compagnia di danza olandese Ick Dans Amsterdam.

Victor Swank con Emio Greco e una delle ballerine della compagnia Ick Dans (foto Marco Caselli Nirmal)

Ritmi concitati, sincronici, ma che mantengono rigorosamente distanziati gli uni dagli altri aprono il balletto, che già nella scheda descrittiva viene presentato come uno spettacolo che “nasce in un momento storico – quello della pandemia da coronavirus – in cui ogni certezza sociale, umana, professionale non trovava più alcuna radice in un’unica visione di cultura”.

Emergenza sanitaria raccontata attraverso la danza, dunque, con l’isolamento che ha trovato una via di fuga nel collegamento a distanza. Il riferimento pandemico viene mostrato in maniera quasi documentaria alla fine, quando sulla scenografia di sfondo viene proiettato il mosaico delle schermate con ciascuno dei protagonisti più o meno riconoscibile nelle sagome-video dei danzatori, che piroettano e muovono le braccia in ambienti dall’aspetto assolutamente domestico.

I danzatori dell’Ick Amsterdam sul palco ferrarese (foto Marco Caselli Nirmal)

Tutti i gesti e i movimenti dello spettacolo “Blasphemy Rhapsody” sono del resto così perfetti e, nello stesso tempo, caratterizzati da quell’individualismo che mantiene ogni mossa dell’uno uguale ma staccata da quella degli altri. Un filo conduttore molto concreto, dove diversi elementi vanno a rafforzare questo parallelismo tra la realtà dominata dall’avvento di un virus e l’impeccabile messa in scena. Ecco allora l’irruzione sul palco di una figura maschile nerovestita, che richiama a sé tutto il corpo di danza e governa una specie di girotondo che gravita intorno a lui; poi la figura del ballerino (interpretato dallo stesso Emio Greco) che irrompe con la croce rossa sul petto a impartire indicazioni; lo sventolio dei drappi bianchi; l’applicazione collettiva di una mini-mascherina nera sul naso.

Il riferimento cronachistico è comunque uno spunto. La danza contemporanea sta alla danza classica un po’ come l’astrattismo alla pittura figurativa. La narrazione di una storia, così come la rappresentazione di persone, paesaggi o figure, non sono più il fine ultimo dello sguardo. Per apprezzare la danza contemporanea, mi rendo conto che bisogna piuttosto cambiare approccio e trovare una nuova modalità, che renda apprezzabile ciò che si vede e gli dia un senso altro, che va oltre i riferimenti narrativi.

I ballerini della compagnia olandese Ick Dans Amsterdam (foto Marco Caselli Nirmal)

Per chi, come me, non è conoscitore del genere, uno spettacolo di danza contemporanea richiede forse di lasciarsi soprattutto andare ai suoni e alla messa in scena della bellezza dei corpi, che creano composizioni spericolate e armoniche, flessuose ondulazioni e colpi di scena, mescolando – in questo caso – ritmi quasi tribali, posizioni ginniche, una rivisitazione del charleston post-bellico e danze liberatorie del sud d’Italia.

Le coreografie di questi danzatori e danzatrici –  perfettamente modellati, snodati e sincronizzati – compongono figure singole e d’insieme che offrono suggestioni visive basate sui loro movimenti frenetici e sinuosi, a volte identici tra loro o volutamente dissonanti e ampliati fin quasi allo spasimo. L’immagine complessiva, che il palco offre allo sguardo del pubblico, si modella sulla base dei suoni e dei ritmi, come un’onda che trascina lo spettatore dentro quelle movenze, che nella vita reale sarebbero improbabili, e che però nei ballerini che le realizzano sul palco sono così scorrevoli e inappuntabili da diventare naturalissime.

“Blasphemy Rhapsody” (foto Marco Caselli Nirmal)

Nella danza classica tutto questo viene incapsulato nell’involucro di una narrazione con personaggi riconoscibili attraverso scenografie e costumi che raccontano una storia con passi e volteggi. La danza contemporanea lascia da parte la trama, o, meglio, la riduce come la rappresentazione di un quadro astratto, dove il tema è un’ispirazione per lasciare poi forme, composizioni e colori a dominare la scena, relegando in sottofondo gli eventuali significati letterali della rappresentazione figurativa.

Luci e corpi protagonisti sul palco del Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Nel romanzo “Un amore” di Dino Buzzati, la partecipazione alle prove di un balletto a cui il protagonista si trova ad assistere descrive bene la sensazione che la danza contemporanea, nella sua essenzialità, può trasmettere. “Vedendole così vicine – racconta il narratore a proposito delle ballerine – prese dall’impegno del lavoro, senza trucchi né code di pavone, così semplici e disadorne, nude più che se fossero nude, Dorigo capì improvvisamente il loro segreto”. Per il protagonista del romanzo il ballo altro non è che “un meraviglioso simbolo dell’atto sessuale”. A questa sublimazione della passione carnale, della fusione dei corpi e del piacere – secondo lui – mirano alla fin fine tutte le componenti che stanno dietro un balletto: “la regola, la disciplina, la ferrea e spesso crudele imposizione, alle membra, di movimenti difficili e dolorosi, il costringere quei giovani corpi verginali a far vedere le più riposte prospettive in posizioni estremamente tese e aperte, la liberazione delle gambe, del torso, delle braccia nelle loro massime disponibilità”. Per lui “la bellezza stava appunto in questo appassionato e spudorato abbandono” a cui le ballerine si dedicano “con impeto, con patimento, con sudore”.

La compagnia Ick Dans Amsterdam alla fine dello spettacolo, a Ferrara il 6 novembre 2021

Con energico impeto – sudato, convincente e impeccabile – gli interpreti dell’Ick-Ensemble spiccano per le loro personalità fisiche, che alla fine ci diventano familiari come i personaggi di una storia: lo scultoreo, tanto alto quanto esile ed atletico corpo candido del ricciuto Victor Swank, l’aria della fidanzatina di scuola della bionda Doreja Atkociunas che con il suo semplice abito bianco sembra fare irrompere la normalità sulla scena dell’emergenza (e che infatti se ne resta per lungo tempo seduta in disparte), il mediterraneo Denis Bruno d’aspetto un po’ piratesco, la minuta Maria Ribas, le slanciate Sixtine Biron e Beatrice Cardone dalla lunga chioma ondeggiante, il diavolesco Emio Greco, i prodighi Louis Dobbs e Dennis Van Herpen dalle fattezze fiamminghe, la scattante Laurie Pascual, Marie Couturier dalla chioma fluente e l’aspetto d’eroe selvaggio di Claudio Murabito. Lunghi minuti di applausi scrosciano sul palco a ripagare la compagnia di una tensione incessante che ha inchiodato il pubblico per settanta minuti di suggestioni, acrobazie e corpi, trasformati in materia di composizione artistica.

IL VIAGGIO DI VALENTINA (1)
25mila chilometri in bicicletta dal Vietnam all’Italia

 

Periscopio e i suoi lettori possono seguire Valentina nel suo affascinante viaggio tra due continenti, dall’Estremo Oriente all’Italia. Le interviste sono state rilasciate durante un’avventura, durata 18 mesi e conclusasi poco prima del fermo pandemia. Il reportage comincia oggi e proseguirà  per le prossime 9 settimane, sempre di lunedì, all’interno della nuova rubrica dedicata ai viaggi – reali e immaginari – che abbiamo voluto chiamare SUOLE DI VENTO. “Suole di vento” era il soprannome che Paul Verlaine aveva dato al suo irrequieto, intimo amico Arthur Rimbaud. Come ci hanno insegnato Conrad e Chatwin, l’inquietudine è una qualità dell’anima.
(La Redazione)

La bicicletta è un modo di accordare la vita col tempo e con lo spazio, è l’andare e lo stare dentro misure ancora umane”, affermava il giornalista e scrittore Sergio Zavoli [Qui]. Lo sa la città di Ferrara e lo sa anche Valentina Brunet, 33 anni, proveniente da una piccola e affascinante valle nel cuore delle Dolomiti, che ha percorso in sella alla sua due ruote ben 25.000 chilometri dal Vietnam all’Italia in due anni e mezzo, dal 14 marzo 2017 al 21 settembre 2019. Uno spostamento continuo non progettato e non pianificato e forse per questo affascinante e sorprendente.

Era partita con una muta subacquea nello zaino, intenzionata a trovare un lavoretto da guida sub e si era ritrovata con una bicicletta e un sogno che si stava realizzando. Il lungo racconto che si snoda sul suo viaggio, conduce tra le distese umide del Vietnam, una rapida visita in Cina e Hong Kong, la vastità del deserto dei Gobi, le yurte mongole, l’accoglienza dei villaggi rurali senza tempo della Russia e gli scenari spettacolari della Siberia, i cavalli selvaggi, i serpenti e gli arbusti spinosi del Kazakistan, i passi montuosi del Pamir a 4.000 metri del Kirghizistan, i confini piantonati dai militari e i luoghi che ricordano i cicloviaggiatori morti per mano dei terroristi in Tajikistan e poi ancora la mitica Samarcanda in Uzbekistan.

Il viaggio di Valentina racconta ancora l’approccio con le diverse culture incontrate, l’obbligo di indossare l’hjiab, la discriminazione come donna, sola, libera, straniera, la sensazione di pericolo in alcuni momenti, la difficoltà a trovare protezione e sicurezza in contesti di ostilità, pregiudizio e, in alcuni frangenti, di aggressione verbale e fisica.
Valentina però riconosce anche il sostegno che in questi casi i social network, le persone più aperte, i compagni di viaggio occasionali le hanno fornito.

Riferisce anche del suo arrivo negli Emirati Arabi, a Dubai, il riappropriarsi di alcune comodità dopo le ristrettezze di tanto tempo, l’incontro con lo sceicco Awad, grande appassionato di turismo, e continua il suo narrarsi con l’ingresso nell’Oman, Paese dove la bellezza del paesaggio è affiancata da una visione della donna legata fortemente agli aspetti più restrittivi di quella cultura. Seguono Armenia e Georgia e, con i Balcani, le ultime migliaia di pedalate che la separano dal confine italiano, casa.

La nostra cicloviaggiatrice ricorda gli aspetti della quotidianità, dall’alimentazione alle condizioni di salute, dalle necessità logistiche alla comunicazione e ai rapporti interpersonali. Un viaggio che ha lasciato traccia profonda, innescando cambiamenti significativi nello sguardo sul mondo e in se stessa, permettendole di vivere il paesaggio e le sue popolazioni in tutti i suoi risvolti, assaporandone ogni aspetto, anche quello più scomodo.

Altri viaggi attendono Valentina, Canada e Patagonia tra i primi, non appena la situazione pandemica lo consentirà.

Gli scatti del reportage sono della stessa Valentina Brunet e dagli occasionali spettatori incontrati durante il suo viaggio. 

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IL DDL CONCORRENZA = PRIVATIZZAZIONI
Draghi all’assalto dei servizi pubblici locali.

Era atteso da tempo.
Faceva parte delle stringenti ‘condizionalità’ richieste dalla Commissione Europea per accedere ai fondi del Next Generation Eu.
Era uno degli assi portanti per i quali Draghi è stato definito da Confindustria “l’uomo della necessità”.
Era fortemente voluto dalle lobby finanziarie.
Ed è arrivato. Il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato. Un nuovo bastimento carico di privatizzazioni.

Mentre i media mainstream ancora una volta dirottano l’attenzione (colpiti i tassisti, risparmiati i concessionari degli stabilimenti balneari etc.) nessuno mette l’accento sulla sostanza del provvedimento, concentrata nell’art. 6: la privatizzazione dei servizi pubblici locali e la definitiva mutazione del ruolo dei Comuni.

Un provvedimento vergognoso che, sin nelle finalità espresse all’art. 1, sembra aver completamente accantonato quanto la pandemia ha evidenziato oltre ogni ragionevole dubbio: il mercato non funziona, non protegge, separa persone e comunità.  Senza alcun senso del ridicolo si dice che il provvedimento ha lo scopo di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati […] per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”.

Se dalle finalità generali passiamo allo specifico articolo sui servizi pubblici locali, va subito notato il salto di qualità messo in campo dal governo Draghi: per la prima volta si parla di tutti i servizi pubblici locali senza alcuna esclusioneCome si evince dall’unico passaggio – paragrafo d – in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, il resto del provvedimento supera i precedenti tentativi di privatizzazione per la globalità dei servizi coinvolti. Ad ulteriore conferma di questa estensione, valga il richiamo (par. o) alla normativa relativa al Terzo Settore.

Ribaltando a 360 gradi la funzione dei Comuni e il ruolo di garanzia dei diritti svolto storicamente dai servizi pubblici locali, il ddl Concorrenza (par. a) pone la gestione dei servizi pubblici locali come competenza esclusiva dello Stato da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza. E ne separa (par. b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.

I paragrafi successivi sono un vero capolavoro di ribaltamento della realtà.

Mentre all’affidatario privato viene richiesta (bontà sua) una relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, ecco il tour de force che deve affrontare il Comune che, malauguratamente, scelga di gestire in proprio un servizio pubblico localedovrà produrre “una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato” (par. f); dovrà tempestivamente trasmetterla all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (par.g); dovrà prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); dovrà procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.

Per quanto riguarda i servizi pubblici a rilevanza economica (par. d), ovvero acqua, rifiuti, energia, e trasporto pubblico, si prevedono inoltre incentivi e premialità che favoriscano l’aggregazione (leggi multiutility).

Non contento di puntare alla privatizzazione delle gestioni, il Governo prevede anche (par. q) una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente.

In questo contesto, il richiamo alla partecipazione degli utenti nella definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico (par. t) locale suona come la presa per i fondelli finale.

Un attacco feroce e determinato ai diritti delle persone, ai beni comuni e alle comunità locali. Di questo si tratta. Portato avanti da un governo che non ha mai fatto mistero di essere al servizio dei grandi interessi finanziari e che ha preteso un Parlamento embedded per poter avere mano libera su tutte le scelte fondamentali di ridisegno della società.

“La zavorra dei vincoli e del debito ci impedisce qualunque movimento. Non avere alcuna agibilità sul bilancio significa impattare enormemente sulla qualità di vita dei cittadini. E’ impossibile governare la città se non possiamo mettere risorse”. Così ha tuonato pochi giorni fa Gaetano Manfredi, nuovo sindaco di Napoli.
La risposta del governo Draghi è che non vi è alcun bisogno di governare i Comuni e le città: basta mettere tutto sul mercato.

Marco Bersani, Attac Italia
Questo articolo è apparso con altro titolo su Attac Italia il  5 novembre 2021

PER CERTI VERSI
Novembre

NOVEMBRE

Piove
È il primo novembre
Sono a Saletto
Il vento improvviso
E diretto
Accende il carnevale
I coriandoli volano
Sfogliati
Dagli aceri rossi
Smascherati
È il brumale
Della natura
La terra marrone
Scura
Rude
Chiude coi remi
Del tempo
Grande Solone
Le crepe
Muta
Si appresta
A rapprendersi
Covando semi
Prima che il gelo
La investa

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Diario in pubblico
Nero come il carbone

Alla fine della Seconda guerra mondiale – e la testimonianza è personale – si ripresero i miti dell’infanzia codificati in tempi bui. Tra questi la Befana “dalle scarpe tutte rotte” che lasciava vicino alla stufa o al caminetto, per chi lo possedeva, la sua calza piena di doni e… anche di carbone, che esprimeva la punizione per ciò che i bambini avevano commesso di scorretto lungo l’anno.

Era una sorpresa temutissima che penalizzava e marchiava di nero ciò che secondo il giudizio genitoriale non andava fatto. Praticamente ogni anno ho avuto la mia calza di carbone, quella materia che faceva paura perché nera, strappata dalla profondità misteriosa della terra, temibile ma pur necessaria.

Una delle immagini che più ritorna nel mio immaginario infantile è nell’inverno freddo e nebbioso il rito del riscaldamento del letto, ottenuto attraverso un ordigno che, a seconda di come era fatto, prendeva il nome di prete suora. Il primo allungato, il secondo tondo.

Il rito, seguito con molta attenzione e partecipazione, da cui noi bambini eravamo tenuti lontani, comprendeva la necessità di riempire di braci di carbone (o della più economica carbonella) un recipiente di ferro che veniva sospeso o meglio appeso dentro il prete o la suora.

Prima d’infilarci sotto le coperte o meglio i coltroni pieni di scarti di cotone, resi bollenti dal carbone ardente, meticolosamente le braci venivano riversate dentro il camino o la cucina economica per evitare di procurare qualche incendio non sempre scongiurato.

Il progresso avvenne quando si elettrizzarono anche gli scaldini del letto. La negrezza del carbone frattanto diventò bivalente come metafora e realtà. Appena un accenno rabbrividente quando si pensa quanti dei camini della soluzione finale furono alimentati col carbone! Altro che i delinquenti civili e morali che sfilano protestando per il green pass vestiti da prigionieri dei campi. Vergogna!!!

Nel tempo del boom economico i nuovi ricchi si esponevano al sole nelle spiagge per diventare “neri come il carbone”, mentre la tragedia delle miniere procurava Marcinelle [Qui] o relegava i carbonai tra i lavoratori più umili della classe lavorativa.

Ancora negli anni Sessanta era in atto la discriminazione tra i lavoratori italiani che lavoravano nelle miniere del carbone tanto da impedire l’accesso ai bagni nelle stazioni della Baviera, come da me sperimentato de visu.

Ci fu poi la mitizzazione dei carbonai nelle colonne dei musical da “spazza camin” o di altre canore esibizioni. Sempre in quegli anni vidi le cantine dove si accumulava il fossile per alimentare i termosifoni, recente conquista del miracolo italiano.

E col trascorrere dei decenni ecco la condanna del carbone come principale protagonista della trasformazione climatica, mentre “i negri”, secondo la più schifosa definizione di tanti novelli idioti, venivano di nuovo paragonati al carbone.

Spero che il nuovo pericolo rappresentato da questo fossile sia compreso e al più presto si pensi a una soluzione alternativa. La moda ora condanna anche l’abbrustolimento al mare, quella che ci rendeva neri come il carbone. Est modus in rebus. Oltre al fondamentale vaccino si usi il carbone per motivi più consoni al nostro tempo minacciato e minaccioso.

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PRESTO DI MATTINA
Un andare nascendo

«Si richiede all’Aurora, anche senza saperlo, questo seguitare a nascere. Si richiede all’assoluto dell’essere, e alla pienezza della luce, e al dispiegarsi del tempo, di non cadere mai più» (Maria Zambrano [Qui], Dell’Aurora, Genova 2000, 54).

Si domanda loro di restare aurorali, senza tramonto: «L’aurora si reitera», si rinnova, pur restando nella propria notte «avanza a ogni apparire delle sue luci molteplici». Un camminare nascendo è l’aurora. Un andare nascendo è pure quel camminare insieme che ha nome sinodalità. Esperienza del vivere e del ri-cominciare insieme, cum-re-initiare.

«Si accende nei cieli l’Aurora come fosse una cosa della terra: come un fiore che, per la sua purezza e il suo ardore, ha raggiunto il confine dove terra e cielo si schiudono e si abbracciano. Quasi fosse l’abbraccio senza eguali tra cielo e terra, un abbraccio che perdura e non si scioglie facilmente. Non è un miraggio: è un’azione, o meglio un atto unico e, quindi, un essere. Un essere che in quell’atto vive insieme – nello stesso istante – la propria nascita e la propria trasfigurazione», (ivi, 148).

La sinodalità come l’aurora delinea l’orizzonte da cui il sole sorge: lo fa lievitare nel mondo. Lo ha ricordato anche papa Francesco ai cristiani della chiesa di Roma (18 settembre 2021): «Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo. I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a volte dietro. Nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del senso della fede, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze».

Come l’umanità, così la chiesa e il suo vissuto che chiamiamo tradizione, assomigliano ad «una pasta lievitata, una realtà in fermento dove possiamo riconoscere la crescita, e nell’impasto una comunione» che si attua nel movimento. La sinodalità realizza la vera comunione perché è esperienza dello Spirito che, come lievito fa lievitare la pasta non in un punto, ma tutta insieme, nell’interezza: Spirito di crescenza nel suo abbassarsi umile, stabilità fedele che muove tutto, trasformante mitezza, esondante intimità.

Se nascere è per tutti l’accedere all’umano e rinascere è ritrovarlo ed accrescerlo ogni volta che lo si assume come dono e compito del vivere, allo stesso modo la sinodalità costituisce, nella forma di una responsabilità per tutti, la sfida ecclesiale dell’ora presente, uno spirito e un’azione da assumere per ritrovare e far rinascere il vangelo in mezzo a noi.

È reale opportunità di accedere di nuovo all’umanità di Dio fattasi incontro nell’umanità delle persone e rivelatasi nell’umana carne di Gesù di Nazareth nato da Maria, l’adombrata dallo Spirito, disceso poi in modo permanente sui credenti a Pentecoste.

Sinodalità è allora l’esperienza da viversi nel Corpo di Cristo, che è un popolo in cammino verso gli altri popoli; “vessillo” ricorda pure il concilio e anche papa Francesco attorno al quale i figli di Dio dispersi possano raccogliersi in unità (SC 2), cercando così di incontrare quel Gesù nascosto negli uomini e nelle donne del nostro tempo, al fine di testimoniare e di confermare, insieme allo Spirito del risorto, l’affidabilità della promessa contenuta nel Padre nostro e nelle Beatitudini: per tutti è il vangelo, per tutti la Pasqua, per tutti il Regno dei cieli.

Ricorda papa Francesco con una notevole arditezza di pensiero che «il Vangelo è disordine perché lo Spirito, quando arriva, fa chiasso al punto che l’azione degli Apostoli sembra azione di ubriachi; così dicevano: “Sono ubriachi!” (cf. At 2,13). La docilità allo Spirito è rivoluzionaria, perché è rivoluzionario Gesù Cristo, perché è rivoluzionaria l’Incarnazione, perché è rivoluzionaria la Risurrezione» (Discorso all’Azione cattolica del 30 aprile 2021).

Sinodalità dice lo scompiglio dello Spirito che sparpagliando riunisce; da lui viene il cambiamento che rivoluziona la vita ecclesiale. Sinodalità: perenne giovinezza dello Spirito suscitatrice del pensare e dell’agire cattolico, che papa Francesco traduce con l’espressione del “farsi prossimo”:

«La parola “cattolica” si può dunque tradurre con l’espressione “farsi prossimo”, perché è universale; “farsi prossimo”, ma di tutti. Il tempo della pandemia, che ha chiesto e tuttora domanda di accettare forme di distanziamento, ha reso ancora più evidente il valore della vicinanza fraterna: tra le persone, tra le generazioni, tra i territori».

Il farsi prossimo del cammino sinodale dovrà così iniziare «dal basso, dal basso, dal basso», iniziando dall’ascolto, insieme: «in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra».

In questo orizzonte di senso mi sembra che vada anche l’orientamento della chiesa italiana con la Carta d’intenti per avviare il cammino sinodale proposto nell’ultima assemblea della Conferenza episcopale italiana del 23-27 maggio 2021 che titola: Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita e nella Lettera alle donne e agli uomini di buona volontà, del fine settembre scorso si legge: «Sogniamo una Chiesa aperta, in dialogo. Non più “di tutti” ma sempre “per tutti”»; un cammino che comprende tre fasi temporali: narrativa (2021-2023); sapienziale (2023-2024) profetica (2025).

Si tratterà di far venire di nuovo alla luce ciò che era rimasto in ombra, lasciato dietro le quinte, al V° Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, dal tema In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, che si svolse nel 2015: l’ascolto delle narrazioni negli ambiti del vivere (vita affettiva, lavoro e fragilità, tradizione, cittadinanza); il discernimento comunitario poi e le scelte profetiche, evangeliche infine per una riforma anche strutturale del vivere ecclesiale.

Papa Francesco, allora, entrò in quell’assemblea in “punta di piedi”, parlando solo alla fine e ricordando che la comprensione dell’umanità di Gesù andava fatta a partire dall’Ecce homo, dal suo volto.

Disse quella volta: «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il “misericordiae vultus”. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo».

Francesco al termine del convegno aveva pure invitato tutte le comunità ad un esercizio di sinodalità, riprendendo in mano gli orientamenti dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, dicendo ai presenti come lui vedeva e desiderava la chiesa italiana, il suo modo di sentirla viva, il sogno di vederla rinascere:

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura. Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii Gaudium [Qui]».

Si tratta ora di togliere dall’archivio i pensieri e gli affetti, gli intenti e le pratiche generati a Firenze nel 2015. Si tratta di tornare a declinare quei verbi di allora, di cui sembra si siano troppo presto perse le tracce: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare, riappropriandosi di quel metodo sinodale.

Un mettere mano a quel sogno incarnandolo nella realtà di oggi, in nuove storie di chiesa. Sono passati cinque anni da allora e Francesco chiede di lasciarsi coinvolgere in un “sinodo globale”, universale a partire dalle chiese locali e da ogni battezzato per «ascoltarsi, parlarsi e ascoltarsi; non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”» (2,7)».

Egli domanda di ritrovare nello spirito profetico l’“eloquenza dei gesti”: «una Chiesa del dialogo è una Chiesa sinodale, che si pone insieme in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra. In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare.

E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società… È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare.

Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante», (ivi, Discorso Ac).

“Un luogo aperto, una Chiesa dell’ascolto, una Chiesa della vicinanza” sono le tre “opportunità” che il sinodo deve cogliere secondo papa Francesco, le tre parole chiave sono comunione, partecipazione, missione; i tre rischi che si corrono sono il formalismo, l’intellettualismo, l’immobilismo e citando il padre Yves Congar [Qui], uno dei teologi al concilio Vaticano, ricorda che «non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa».

Come «l‘aurora non è il preludio, [alla luce] bensì il centro stesso del giorno nel mezzo della notte, il giorno-notte, la luce-tenebra che poi si separano senza perdersi l’una nell’altra. La vita stessa», così la sinodalità non è premessa, preludio alla comunione, ma ne è lo svolgimento, la sua forma sinfonica, la vita stessa della chiesa in movimento.

Il camminare insieme non è ouverture alla consonanza, ma la sua narrazione esistenziale, il suo pluriforme e permanente attuarsi e rinascere: è fede pulsante di tutti, è intelligenza e sentimento del credere in relazione con tutti, che spera per tutti che, quando è ancora notte, mette in cammino verso levante: una luce nascente: «Ho sempre camminato verso l’alba, non verso l’occaso; e ho sempre sofferto per tante albe precipitate nell’occaso!», (Zambrano, ivi, 53; 157).

Il sinodo è dei poeti e di chi prega” ho letto nel giornale del papa, forse perché la preghiera e le parole originarie sono luoghi di umanità, di rinascita e creatività perché privilegiati dallo spirito, il confine dove terra e cielo si schiudono e si abbracciano come poesia e preghiera si abbracciano in questo inno liturgico del mattino.

L’aurora inonda il cielo
di una festa di luce,
e riveste la terra
di meraviglia nuova.
Fugge l’ansia dai cuori,
s’accende la speranza:
emerge sopra il caos
un’iride di pace.

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La via crucis dell’editoria religiosa

 

Ai tempi dell’Università a Bologna, la tappa nelle librerie era costante. Almeno una volta ogni settimana. Feltrinelli era la mia prediletta perché aveva un parco riviste notevole. Ci trovavo molte delle testate ‘resistenti’ come, ad esempio Il Tetto, Tempi di Fraternità, il Bollettino dell’Isolotto, Com-Nuovi tempi”
Quando gli orari delle lezioni lo permettevano, mi spingevo fino alla piccola, straripante libreria Palmaverde in via Castiglione gestita dal poeta editore Roberto Roversi e alla libreria Dehoniana di via Nosadella.

All’inizio di ottobre, la proprietà ha diffuso la notizia del fallimento e della chiusura delle Edizioni Dehoniane di Bologna (EDB), editore di migliaia di titoli, centro culturale di primo piano nella produzione postconciliare. Un titolo esemplificativo: La Bibbia di Gerusalemme, amata da tanti cattolici e non solo, dai tanti gruppi vangelo sorti sulla spinta del vento conciliare.
A proposito della notizia sulla chiusura, c’è da aggiungere che le maestranze hanno saputo del loro licenziamento per vie traverse. Amici giornalisti RAI hanno informato i lavoratori di cosa stava succedendo [Vedi qui] perché la dirigenza dei dehoniani aveva omesso questo…passaggio.

Già nel giugno 2016, al convegno di Peccioli su questo tema, Brunetto Salvarani denunciava questo preoccupante declino, affermando che “nell’arco di pochi mesi, una serie di testate che hanno fatto la storia della comunicazione ecclesiale e religiosa nella stagione successiva al Concilio Vaticano II hanno cessato le pubblicazioni o sono entrate in una fase di crisi vistosa, e, almeno all’apparenza, irreversibile. In particolare, sono le riviste di carattere culturale, e quelle che nel corso degli anni hanno rappresentato un punto di osservazione fondamentale sugli eventi del Sud planetario (…) Ce n’è abbastanza per chiedersi se le ragioni di tali problemi non riguardino solo l’ambito economico, come si tende a pensare, ma tocchino questioni di linguaggio, di spazi di formazione, di capacità di riflessione sulle grandi trasformazioni in atto nei mondi culturali.”

Una crisi dell’editoria su carta che non colpisce solamente quella religiosa. Da anni, testate giornalistiche come La Repubblica, Il Corriere della Sera hanno dimezzato tiratura e vendite, senza dimenticare quotidiani come L’Unità che hanno chiuso trascinando nel vuoto ingenti risorse economiche e umane.

Nel giugno 2020, su Vita e Pensiero Plus, mons. Erio Castellucci, arcivescovo-abate di Modena – Nonantola, oltre a segnalare con grande preoccupazione il “crescente pressapochismo culturale e informativo, in un clima dove gli slogan gridati si impongono sulle riflessioni argomentate”, evidenziava che le librerie religiose privilegiano l’esposizione di articoli religiosi, coroncine, immaginette e non le opere più serie e significative.

Gianfranco Brunelli, direttore de Il Regno, rivista di punta dei dehoniani che nel 2015, avendo come “alternativa” la chiusura, scelse la coraggiosa strada dell’autonomia che ancora oggi continua, ha dichiarato che il nostro Paese “da una decina di anni conosce un’ulteriore ondata del processo di secolarizzazione, che sta facendo segnare una generale crisi culturale. Ci troviamo di fronte a una sorta di analfabetismo religioso, in special modo biblico, che deve preoccupare l’insieme della nostra cultura, quella cosiddetta laica compresa. Più ignoranti non significa più santi.”

Lo storico Massimo Faggioli, in un approfondito ed appassionato articolo apparso su Domani [Qui] evidenzia che “oggi il non saper leggere e comprendere testi lunghi e complessi comporta qualcosa di molto diverso rispetto all’epoca in cui dominava l’analfabetismo e il messaggio religioso arrivava  attraverso canali diversi. Non ci si aspetta da tutti i cattolici di essere topi di biblioteca o di possedere una biblioteca, in senso letterale o figurato. (…) L’assunto che i leader della chiesa possano permettersi di essere ignoranti è solo un’altra forma di clericalismo.”
Ovviamente, questa crisi lavorativa che non sembra del tutto compromessa, al di là dei numeri in campo, è grave, emblematica per modalità, comportamenti e soprattutto per evidenti difetti di etica tra le parole stampate nei tanti libri e le opere della dirigenza dehoniana.

Cover: volumi in vetrina delle Edizioni Dehoniane (l’Avvenire)

Cina e USA tra Big Tech e Sociale
Analisi delle differenze

Nell’ultimo anno stiamo assistendo ad un tentativo di ridimensionamento dello strapotere delle big tech cinesi ad opera di Xi Jinping. In realtà qualcosa di più di un semplice tentativo, esempio ne è la donazione da parte di Alibaba di 100 miliardi di yuan (15,5 miliardi di euro) ai programmi sociali ed economici del Partito Comunista.

Era successo anche a Pinduoduo, che aveva donato 1,5 miliardi di dollari, e a Tencent che da aprile ha annunciato donazioni complessive di 15 miliardi per un programma dedicato al “bene comune”.

Precedentemente sempre Alibaba di Jack Ma, a luglio di quest’anno, aveva donato altri 23 milioni di dollari all’Henan, la regione della Cina centrale colpita da un’alluvione.

Un susseguirsi di donazioni apparentemente spontanee ma che nei fatti seguono le richieste dell’apparato comunista cinese e, come notano e fanno notare gli analisti finanziari tra cui quelli di Mf – Milano Finanza, “il presidente Xi Jinping … pretende collaborazione dai Cresi del tech per la redistribuzione della ricchezza e, considerate le recenti ingerenze governative, le aziende stanno rispondendo all’appello.”

Ma per capire quello che sta succedendo bisogna fare qualche passo indietro ed arrivare fino al 1979, quando la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e Deng Xiaoping divenne il primo leader supremo di quel Paese a visitare gli Usa. Una lunga visita di nove giorni, iniziata il 28 Gennaio 1979, nel corso della quale vi furono tanti incontri tra Deng e il Presidente statunitense Jimmy Carter.

La storica visita ruppe il ghiaccio delle relazioni Cina-Usa, e portò alla firma di accordi di cooperazione in materia di tecnologia, cultura, istruzione e agricoltura. Lo scopo di Deng era far uscire la Cina dalle esperienze traumatiche imposte da Mao Zedong copiando il modello capitalista americano senza perdere l’impronta asiatica.

Deng divenne così il pioniere della riforma economica e l’artefice del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che segnava la transizione dall’economia pianificata a un’economia aperta al mercato, con la supervisione dello stato nelle sue prospettive macroeconomiche.

Da quel momento iniziò la grande corsa del pil cinese e Pechino si accreditò sempre di più agli occhi degli occidentali fino ad essere accettata nel Wto (World Trade Organization) nel 2001. Ma già allora il capitalismo cinese assomigliava sempre meno a quello americano e più a quello delle “tigri asiatiche”, cioè Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong cioè iniziativa privata con la presenza discreta (eufemismo) dello stato, che mantiene quote di partecipazione nelle grandi aziende e controlla le banche e gli interessi strategici.

Le concessioni alle leggi di mercato avevano un fine politico, funzionale agli scopi prefissati e non ideologiche, quindi le leve del potere non sono mai state cedute, solo messe da parte per il tempo ritenuto necessario. E per Xi Jinping il tempo di tirarle fuori e mostrare alla finanza cinese, ma anche al mondo, chi comanda davvero è arrivato, anche perché le big tech stavano oltrepassando il limite accettabile dalla nomenclatura.

Grazie a questo sistema la Cina ha ottenuto un successo dietro l’altro, fino a diventare la seconda potenza economica mondiale, tantissime persone sono uscite dalla povertà estrema (anche se con qualche trucco contabile) e Xi è arrivato a dire in un suo discorso a febbraio di quest’anno che in Cina “la povertà estrema è stata sconfitta”, intestandosi ovviamente il successo. Sembra che solo Di Maio sia riuscito in occidente nella stessa impresa!

Ma raggiunti i risultati, è tempo di tirare i remi in barca, in questo caso i remi sono le big tech e in primis Jack Ma a cui è richiesto il ritorno nei ranghi con il pretesto che tecnologica e protezione dei dati devono avere un ruolo nello sviluppo equo delle comunità, quindi non può essere un privato a detenerne il monopolio.

L’Occidente magari si scandalizza, abituata a un liberismo protetto per legge da schiere di avvocati, ma un po’ d’invidia in fondo c’è, visti i tanti grattacapi che le multinazionali ci danno in termini di trasparenza e ricorso ai paradisi fiscali.

Trump aveva provato a opporre qualche resistenza ma era stato subito ridimensionato. L’America non è la Cina, ci sono le elezioni, c’è la libertà, l’opinione pubblica manipolabile dai giornali manipolabili a loro volta dalle stesse big tech, e quindi capitolò e addirittura fu estromesso, come si ricorderà, da alcuni social. Il potere economico e lo stuolo di avvocati a sua difesa vince sul potere politico che lo ha creato.

Jo Biden è stato a guardare e quando è stato il momento ha seguito il coro di critiche a Trump comprendendo però che alcune delle lotte dei repubblicani avevano un senso. Motivo per cui ha lasciato in piedi tutti i dazi a carico della Cina, indugiando su quelli all’Europa, in funzione antiglobalista e di protezione del welfare interno, dei lavoratori e delle merci americane (quasi fosse un Trump qualsiasi).

Ovviamente senza troppo sbandierare le intenzioni per non turbare la sinistra mondiale (il baluardo della finanza costruito da Clinton fino a Obama) sembra proprio che anche lui sia intenzionato a ridimensionare il “libero mercato”. Ha assunto come assistente al National Security Council Jake Sullivan per ricostruire l’economia americana su basi meno liberiste e più protezioniste promuovendo lo slogan “Buy american”.

Un’altra mossa interessante è stata la nomina della giovanissima Lina Khan, una donna sempre all’attacco delle big tech alla Federal Trade Commission (Ftc, antitrust americano), proprio con lo scopo di portare più stato nelle grandi imprese. Un po’ di quel controllo statale cinese che Biden vorrebbe per gli Stati Uniti.

Di questi giorni è la nuova misura economica che immette nell’economia ulteriori 1.750 miliardi di dollari, un’iniezione di soldi per far ripartire i consumi proprio come aveva fatto la Cina immediatamente dopo la grandi crisi del 2008 e come ha fatto già dall’anno della pandemia, il che le ha permesso di superare immediatamente le difficoltà causate dalla pandemia. Il “Build back better framework” di Biden guarda alla classe media, alla scuola a partire dall’asilo, la cura dei disabili e in generale gli aiuti ai caregiver, le agevolazioni per il passaggio a energie rinnovabili e il rafforzamento dell’assistenza sanitaria. In particolare, vi figura la scuola materna gratuita per tutti i bambini di 3 e 4 anni, portando a circa 20 milioni il numero di bambini con accesso ai servizi di assistenza all’infanzia di alta qualità e a prezzi accessibili.

Non a tutti potrebbe piacere questo modo di fare, questo tentativo di imbrigliare le big tech e grandi spese per ambiente, cosa che la Cina sta facendo da tempo, e sociale. Biden sta operando in velocità perché sa che il suo orizzonte temporale è ben diverso da quello di Xi, dura solo due anni e già nelle elezioni di medio termine la sua maggioranza potrebbe cambiare, sullo sfondo di grandi lacerazioni interne tra cui quelli di movimenti come Black Lives Matter che tende a descrivere l’America agli stessi americani come un paese di razzisti incalliti che devono fare ammenda e scontare il peccato originale dell’imperialismo. Un paese diviso e in preda a isterismi continui che hanno portato persino all’abbattimento di statue per riscrivere il passato, metodi a metà tra talebani e 1984 (il libro di George Orwell). Una realtà di divisione e conflitti che per ora crea seri problemi interni ma sembra non fiaccare ancora la proiezione di potenza esterna.

Ma prima o poi l’America potrebbe crollare su stessa e sulle sue contraddizioni mentre la Cina all’interno è forte e questo le permette di perseguire i suoi scopi di politica estera senza contraccolpi. Noi non siamo pronti ad un futuro cinese e quindi dobbiamo sperare che l’Europa sappia trovare una terza via, staccarsi quanto basta dall’egemonia e dal caos americano, evitando ad esempio di impelagarci nelle future guerre nell’indo-pacifico dove già sono accorsi gli inglesi in funzione anti Cina, e tornare ad occuparci di Mediterraneo e del cortile di casa nostra. Ovviamente facendo attenzione a non cadere nelle lusinghe del mercato economico cinese, come ad un certo punto sembravano voler fare alcuni “portavoce” del passato governo Conte.

Vaccini e Covid: la fiducia non si cripta

E’ curioso vedere che certi “rappresentanti eletti dal popolo” gridano contro l’attacco alle libertà solo quando la libertà di fare il cavolo che gli pare è la loro.
E’ di questi giorni la “rivolta” di alcuni europarlamentari (sei dei quali hanno indetto una conferenza stampa da guerriglieri, manco fossimo nel Chiapas) contro l’obbligo di Green Pass introdotto anche per loro dall’Europarlamento. L’episodio potrebbe essere rubricato come una manifestazione di folklore, se non fosse che il finale della dichiarazione ha richiamato un problema reale e niente affatto folkloristico: a fine conferenza,
i “ribelli” hanno mostrato le pagine, quasi completamente oscurate, che mostrano le clausole dei contratti stipulati tra Unione Europea e case farmaceutiche per la commercializzazione dei “vaccini” anti Covid-19. Ovviamente le clausole criptate non consentono di sapere quasi nulla delle condizioni economiche alle quali sono stati conclusi gli accordi, né sulle eventuali clausole di esonero da responsabilità delle case stesse per danni a lungo termine da vaccino.

Manon Aubry, copresidente del gruppo europarlamentare della Sinistra, già nel marzo scorso aveva puntato il dito contro l’esecutivo guidato da Ursula Von der Leyen (vedi qui), ipotizzando che la mancata trasparenza sul contenuto dei contratti celasse condizioni capestro per gli Stati (quindi la collettività) e favorevoli per le case farmaceutiche. Peccato che le case stesse abbiano ricevuto ingenti sovvenzioni pubbliche per le loro ricerche, che abbiano applicato prezzi differenziati e conseguenti forniture di favore agli Stati che pagavano di più (es.Israele) e di sfavore per gli Stati poveri.
Per non parlare dei brevetti, che continuano a non essere temporaneamente liberalizzati, nonostante la più grave crisi sanitaria mondiale dai tempi dell’epidemia di Spagnola. In questo modo si è autorizzati a pensare che lo Stato impone ai privati cittadini (ai privati “deboli”) le restrizioni delle libertà individuali più massive di sempre, almeno in regime di democrazia, e lo stesso Stato si fa imporre dai privati (i privati “forti”) le condizioni di utilizzo dei loro prodotti “salvavita”. E i cittadini non ne devono sapere nulla.

Il danno più grave che questa condotta omertosa produce nell’opinione pubblica è la sfiducia.
Sfiducia nelle dichiarazioni ufficiali, nelle notizie di fonte governativa, fino alla sfiducia nei confronti delle notizie provenienti dalla comunità scientifica. Non fidarsi del potere è sempre un buon esercizio critico, ma ci sono frangenti della storia in cui il “potere” dovrebbe capire che non può continuare ad essere opaco, pena la trasformazione dello spirito critico in complottismo.
Se qualcuno ti nasconde una cosa, pensi immediatamente che quello che ti racconta (coprendo il resto con una pecetta nera) siano un mucchio di balle. Questa non è una giustificazione per l’estremismo allucinogeno di alcune frange di invasati che giocano oscenamente coi parallelismi tra green pass e nazismo. La testa di costoro non la cambi, ci sarebbe voluta un’altra famiglia, un’altra scuola, forse un’altra testa. Quello che spaventa è la sfiducia delle persone perbene.
Ci sono individui preparati, dalla cultura strutturata, che non si fermano agli slogan, che sono cresciuti nutrendo lo spirito critico ma che sanno distinguere tra una fake new e una notizia vera: molti di costoro sono preoccupati per la piega che hanno preso le cose.

La radicalizzazione delle opinioni tra coloro che disprezzano gli scettici, e coloro che disprezzano gli ortodossi, accusandosi reciprocamente di attentare alla salute pubblica o di essere ciechi di fronte alla dittatura sanitaria, è un fenomeno di imbarbarimento del dibattito pubblico che produce solo veleno. E la causa è la sfiducia generalizzata nei confronti di quello che ci racconta il “potere”.

E’ appena stato pubblicato dalla rivista New Scientist (e ripreso da Internazionaleleggi qui) un interessantissimo articolo sulle possibilità che le tecniche basate sul Rna messaggero (tecnica utilizzata nella maggior parte dei vaccini contro il Covid) possano, in futuro, far produrre i medicinali al nostro corpo, con prospettiva di cura per tutto, dalle infezioni batteriche alle malattie autoimmuni, fino ai rari disturbi genetici e al cancro.

Quando il potere politico appone il “segreto di Stato” sui contratti stipulati con la cosiddetta Big Pharma, non fa altro che minare la credibilità di tutto, compreso quanto di buono viene dal mondo della ricerca scientifica.
Se questa epidemia mondiale (come abbiamo sentito ripetere fino alla nausea in uno stucchevole lockdown mediatico) deve far modificare alcuni paradigmi di relazione con i problemi, uno di questi paradigmi deve essere la fine della “ragion di Stato” come paravento per nascondere le cose ai cittadini.

Se si vuole che i cittadini accettino le restrizioni imposte dallo Stato, lo Stato deve essere autorevole, e la sua autorevolezza passa anche attraverso la trasparenza dei suoi atti, soprattutto quando vanno ad incidere sulla vita quotidiana dei cittadini.
Per far rispettare alla collettività con autorevolezza, e non con autoritarismo, i doveri legati ad uno stato di emergenza pubblica, i cittadini di questa collettività devono avere il diritto di essere informati in maniera trasparente e completa.
Solo in questo modo si può ricostruire un rapporto tra cittadini e autorità pubblica basato sulla fiducia.

C’è speranza se accade a Ferrara

 

Finalmente nella mia città un fine settimana come si deve. Non un assembramento ringhioso contro le misure anticovid, espressione incivile di un disagio profondo, che non trova adeguata, diversa risposta. Piccole iniziative, invece, dicono di una città nella quale i diritti di tutti vanno riconosciuti. E come tali c’è chi li sente.

29 ottobre, venerdì pomeriggio, in piazza municipio è la risposta alla bocciatura del Senato di un disegno di legge contro la discriminazione determinata da sesso, genere, orientamento sessuale. Una concittadina, segreteria nazionale di Arcigay, ricorda ai tanti intervenuti che una legge così era attesa da più di trent’anni. Una proposta era stata allora avanzata. Ci sono cittadine e cittadini che quotidianamente subiscono soprusi non per quello che fanno, ma per quello che sono. Se la libertà non è di tutti ci sono solo privilegi e soggezioni.

mediterranea

Sempre lo stesso giorno, ma alla sera, in una grande sala di fronte a un folto pubblico, Mediterranea sbarca a Ferrara. C’era già stata una prima volta a marzo per illustrare la propria attività. Denuncia la violazione dei diritti umani e si è assunta il difficile complito di monitore la situazione del Mediterraneo, con soccorso a chi vi si trova in pericolo. È un compito che la situazione dei paesi europei non agevola. Sostanzialmente non è mutata neppure in Italia, con il cambiare dei governi. Almeno non si assiste più all’oscena esultanza del Ministro dell’Interno per gli sbarchi impediti. È l’occasione di celebrare la formazione di un gruppo locale, uno degli equipaggi a terra, essenziali per l’attività degli equipaggi in mare.

30 ottobre, sabato mattina. È una piccola, privata, riunione rispetto a quelle ricordate. Per me è molto importante. Una dozzina di persone si incontrano, in maggioranza donne. Sono tutori volontari di minori stranieri non accompagnati. Si confrontano, partendo dalle loro concrete esperienze.
Sono riuniti in un’associazione, primo esempio in regione, nata da un corso di formazione e autoformazione del 2015. Da allora se n’è fatta di strada. Io sono invitato per l’accompagnamento che ho offerto sia nel primo che nel secondo corso e nella nascita dell’associazione. È un’attenzione che mi onora. L’associazione svolge un’opera di divulgazione e approfondimento sulla presenza dei minori, in particolare non accompagnati, tra i migranti. Anche quando lo sguardo si rivolge ad ambiti più generali – stamane è uscito il tema della tratta – sempre forte è il radicamento all’esperienza in corso. L’associazione si chiama Tutori nel Tempo,TnT, a significare che non vi è abbandono al passaggio alla maggiore età. È questo un momento particolarmente delicato. Cessa la protezione dovuta al minore e questi, da adulto, deve confrontarsi con le pessime leggi e disposizioni che in Italia – non solo in Italia – regolano immigrazione e condizione dello straniero.

Yaya Yafa

Nel pomeriggio dello stesso sabato un corteo, con una forte partecipazione di giovani lavoratori africani, si forma nei pressi dello stadio. Viene rapidamente ricordato il giovane Yaya Yafa e le circostanze della sua morte sul lavoro. Poi parte un corteo che raggiunge la piazza municipale. Parole d’ordine: Giustizia per Yaya, Lottiamo insieme per i diritti di tutti i lavoratori, Lottiamo insieme contro le discriminazioni. La promozione è di Amici di Yaya, Comunità africana, Cittadini del mondo. C’è molta commozione.

Yaya ha solo 22 anni, una moglie e un figlio di pochi mesi
da mantenere. È conosciuto da coetanei e famiglie, anche per la sua attività di calciatore in una squadra locale. Lavora come bracciante, iscritto alla Flai Cgil. Nella disoccupazione stagionale ha accettato un contratto di lavoro come facchino per sette giorni, o forse sarebbe meglio dire notti, all’interporto di Bologna. Proprio a metà del periodo muore schiacciato da un camion mentre è intento, nella notte del 21 ottobre, al carico e scarico di merci. L’inchiesta accerterà le responsabilità.

Quello che è certo è che le cosiddette morti bianche sembrano un bollettino di guerra, con i morti da una parte sola.

Il corteo si fa assemblea nella piazza municipale. Si susseguono ricordi di Yaya e testimonianze sulle condizioni di lavoro nell’Interporto dove il giovane ha trovato la morte. C’è anche un momento di preghiera proposto da un camionista: “Yaya per me era come un figlio. Era spesso a mangiare a casa mia. I miei familiari lo piangono. I morti sul lavoro vanno in paradiso”. Molto seguito e applaudito è l’intervento del segretario della Flai di Ferrara. Ricorda l’impegno del giovane nella ricerca di ogni occasione di lavoro. Dice dell’impegno sindacale per garantire dignità e sicurezza del lavoro, impedita da contratti brevissimi, senza alcuna formazione possibile. Ci sono contratti di un giorno, per persone contattate tramite Whastapp, dalla sera alla mattina.
Sono ragazzi prevalentemente africani, viene detto in diversi interventi. Accettano tutto – si dice – anche per il timore di non vedere rinnovato il permesso di soggiorno. “Bisogna rifiutarli, stare uniti. Hanno bisogno di noi. Possiamo spuntare contratti più degni”. In un grande striscione è scritto: “Protesta degli immigrati. Vivo qui, lavoro qui. Basta discriminazioni”. Così il pomeriggio del sabato si salda, contro una diversa non meno odiosa discriminazione, al giorno precedente.

La scuola è una macchina del tempo:
invece che sul futuro, è puntata sul passato.

 

No signori, non è come la raccontate. Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo.
C’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi per diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro Paese, persino per la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante. Come tempio incontaminato. Come luogo degli otia studiorum. Una scuola  che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte, come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse, altro non è che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente. Il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento.

Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro Presi nella rete. La mente ai tempi del web ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.
Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello Stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici.

C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal bambino o dall’adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale».

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare.
Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si muovono a velocità differenti.
La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza.
Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza, la scuola risponde guardando al passato. Limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi. Tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza.
Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte.

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° Secolo, di come rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società. Non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione tra chi può soddisfarli e chi no.
La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale, e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per cumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Terza parte)

 

Arina viveva nella dependance di Casa Pilla. Gli anziani signori Pilla avevano una casa in via Torre Antonina a Pontalba. La via era particolare. Corta, in salita, con case solo da un lato mentre dalla parte opposta c’era un frutteto enorme.

La casa era circondata sui due lati corti e su quello posteriore da vecchi alberi molto curati e sulla parte anteriore dal prato inglese, un roseto di rose bianche e una piscina dove d’estate facevano il bagno i nipotini dei Pilla.

Il figlio dei vecchi Pilla era morto ormai da anni e Margherita Pilla, l’unica loro nipote, aveva sposato un direttore di banca di Trescia. Margerita si era trasferita in città per stare vicino al marito, ma tornava spesso a Pontalba con Martino e Penelope, i suoi due bambini. Per questo nella porzione di giardino antistante la casa era posizionata la piscina. Martino e Penelope vi si tuffavano appena possibile e non uscivano di là se non dopo che Margherita li aveva minacciati di non portarli più a trovare i bisnonni.

Arina si occupava di Villa Pilla e in modo particolare di Luigia Pilla, la nonna di Margerita. L’accompagnava al mercato di Pontalba e a fare commissioni. La portava a fare i controlli sanitari in città. L’aiutava a cucinare, a fare la marmellata con le prugne e la crema di nocciole, a lavarsi e a vestirsi, a leggere il giornale.

Conversava con lei di politica, stagioni, tempo, matrimoni, battesimi, funerali e imprevisti vari che riguardavano gli abitanti di quel paese piccolissimo e ricco di vegetazione che si chiamava, e si chiama tutt’ora, Pontalba.

Chissà perché quel paese aveva quel nome, si chiedeva Arina. Pontalba, un ponte sull’alba. Sul ponte lei ci andava spesso. Da là si poteva vedere il fiume scorrere lento e pacifico e contemporaneamente il sole sorgere dietro gli alberi che costeggiavano gli argini. Il ponte permetteva di transitare sopra il Lungone e di passare dal territorio del comune di Pontalba a quello del Comune di Iupine.

Iupine era il primo comune della provincia di Vergania, mentre Pontalba l’ultimo della provincia di Trescia. Non era mai scorso molto buon sangue tra Pontalbesi e Iupinesi. “Questo è abbastanza normale”, pensava Arina, “i confini segnano una frattura e il senso di appartenenza si ricuce esclusivamente al di qua e aldilà del confine”.Così per i Pontalbesi gli Iupinesi erano brutti e dispettosi e la stessa cosa pensavano gli Iupinesi dei Pontalbesi.

Arina aveva davvero un buon lavoro, uno stipendio sicuro e abitava nella dependance di una bella casa, anche se non paragonabile alla maestosità di Villa Cenaroli, dove abitava Ettore.
Quel maggiordomo aveva un buon lavoro e viveva nella zona più bella di Pontalba; inoltre la contessa Malù aveva la fama di essere molto generosa coi suoi dipendenti.

Tutto questo rendeva Ettore interessante. Da quel poco che aveva visto lei, quell’uomo sembrava un po’ pedante, un po’ fuori dal mondo reale, ma sicuramente onesto. Uno che credeva in quel che diceva e faceva.

“Non so che necessità abbia di spiegarmi il significato di alcune parole strane, a me non importano. Ma se a lui fa piacere che lo faccia pure. Non ho nulla da perdere. Anzi, parli pure, io intanto posso raccogliere la legna, oppure le more e le fragole, oppure le nocciole per fare la crema da invasare per la brutta stagione.” Pensava Arina.

Da novembre a marzo lei e Luigia uscivano poco. Alle diciassette accendevano la televisione e dopo mezz’ora preparavano il thè fumante con i biscotti e la crema di nocciole.
Luigia era stata amica della mamma di Malù e conosceva bene sia i conti che la vita che si svolgeva tranquilla a Villa Cenaroli. Alcune abitudini erano trasmigrate da una casa all’altra e ora le caratterizzavano entrambe rendendole diverse da tutte le altre.

La presenza del prato, del giardiniere, di una dependance per la servitù, l’abitudine del thè, quella di avere ospiti durante il fine settimana e di invitare parenti e amici a cena. Entrambe le case erano anche molto ospitali. Se una persona Passava da Pontalba ed era un conoscente dei Pilla piuttosto che dei Cenaroli, poteva contare su una ospitalità sicura e molto ben organizzata.

Luigia Pilla si era accorta che Arina ultimamente era strana. Sembrava sovrappensiero, oppure con la testa tra le nuvole, non sapeva decidersi.
Così glielo chiese:
– Cosa ti passa per la testa Arina?
Ettore, il maggiordomo dei Cenaroli, buon partito, da sposare, insomma – disse Arina, andando subito al sodo.

Luigia restò esterrefatta, non sapeva che Arina conoscesse Ettore, anche perché il maggiordomo non usciva quasi mai dal cancello di villa Cenaroli, la residenza bellissima che costeggiava il Lungone dove viveva e lavorava da sempre.

– Ma dove hai conosciuto Ettore? – chiese Luigia.
– Sulla strada sterrata dei castagni, io stavo raccogliendo la legna e lui uscito dal cancello per aiutarmi. Sembrato una persona seria, buon lavoro sicuro e buono stipendio.
Ma ti piace? – chiese Luigia.

– Cosa significa mi piace? Io vengo da Romania, ho avuto problemi di “sallute”. Con la fine della dittatura, ho perso lavoro, il mio primo marito, tutti i vantaggi di prima. Ho dovuto fare di tutto, compreso contrabbando sigarette, profumi e oro con la Turchia.

Ho visto gente ricca diventare poverissima, ammalarsi e morire. Ho visto la miseria e la paura, la guerra. Ho visto la corruzione che un regime dittatoriale lascia dietro di sé quando finisce. Ho visto ciò che resta e diventa visibile quando cade “ommertà” che un regime impone come vincolo al privilegio, come premessa per casa e stipendio.

Ho avuto alcuni miei parenti prima ammalti e poi morti e non ho potuto fare nulla per curarli e seppellirli. Una persona che ha visto e provato sulla sua pelle tutto questo considera il “piacere” cosa diversa.

Un uomo piace nella proporzione in cui sa essere economicamente stabile, nella misura in cui sa essere come pensione. Se poi sta anche in un bel posto e sembra sano di mente, ha tutto ciò che deve avere. Non c’è altro che si possa sperare e non c’è nulla di più a cui “annellare”. Chi ha passato quello che ho passato io, sa che occhi belli e pelle liscia durano forse qualche anno, mentre la pensione e una vecchia casa di mattoni durano fin che uno vive. –

Luigia non commentò quello che Arina le aveva detto. Non le vennero le parole. Si accorse come in Arina ci fosse una rinuncia a qualsiasi sogno, una attenta analisi della realtà volta ad eludere qualsiasi possibile delusione.

La priorità di Arina era trovare una persona solida dal punto di vista economico e comportamentale. Altro non voleva e non cercava. Quello che aveva visto e sopportato in patria aveva ucciso una parte dei suoi sentimenti. Sicuramente tutti i suoi sogni.

Si chiese cosa avrebbe potuto dire ad Arina su Ettore e poi si sorprese a pensare che Ettore era una brava persona, gentile, con uno stipendio sicuro e una bella casa. Arina avrebbe potuto vivere a Villa Cenaroli, sulle sponde del Lungone. Vedere le stagioni che cambiano, le foglie dei rampicanti che diventano rosse, gli uccelli migratori che arrivano e ripartono, le tartarughe di terra che scavano un tunnel sotto l’argilla e là si posizionano per superare l’inverno. Avrebbe potuto osservare da vicino gli aironi e le gazze, i corvi e i leprotti correre felici lungo gli argini (almeno fintantoché non riapriva la caccia).

Ma l’amore è qualcosa in più, è molto di più? Oppure no. … Le era venuto il dubbio che i trascorsi di Arina l’avessero in parte uccisa, che i drammi già passati non potessero più essere cancellati dal suo cuore e che quindi quello che diceva su Ettore fosse la forma (possibile) di amore che Arina poteva ancora provare su questa terra.

Avrebbe parlato con Malù per verificare la serietà di Ettore nei confronti di Arina e, una volta appurata quella, si poteva organizzare un bel matrimonio e il conseguente trasferimento di Arina a Villa Cenaroli.

Magari lei e Malù avrebbero potevano fare scambio di cameriera. Magari Malù le avrebbe ceduto volentieri Serafina e si sarebbe presa Arina. Malù era intelligente e di solito altruista, si poteva combinare un fruttuoso scambio.

In quanto a Ettore ed Arina si poteva augurare loro di vivere serenamente e in pace. In fondo al suo cuore Luigia sapeva che mancava qualcosa, che non c’era, almeno da parte di Arina, molto amore spassionato, poco trasporto. Non c’era innamoramento. Mancava quel sentimento dolce e leggero che avvolge tutto con un manto dorato e rigenera il cuore rendendolo nuovo e forte.

Ma tant’è, magari il matrimonio avrebbe funzionato comunque; c’era inoltre la possibilità che una quotidianità tranquilla cementasse dei sentimenti che potevano alla lunga trasformarsi in amore. Poteva anche essere. E comunque, sposando Ettore, Arina si sarebbe definitivamente sistemata.

“Parlerò con Malù e vedrò come si può sistemare la faccenda” pensò Luigia.
“Parlerò con Ettore” e vedrò come sistemarmi, pensò Arina.

In quel momento si decise il futuro di diverse persone senza menzionare l’amore, senza rifletter sul fatto che è l’amore che fa girare il mondo. Senza quel nobile sentimento perdiamo parte del nostro valore come esseri umani, come individui che hanno una spiritualità delicata e raffinatissima, che va coltivata, se non si vuole che marcisca.

Forse un matrimonio di quel tipo poteva essere un buon inizio e forse poteva essere l’esatto contrario. Ma quante certezze ci sono nei cambi di vita, quanto possono le accidentalità, le malattie, i casi nefasti, le cattiverie della gente? Che bisogno c’è dia anelare a quel sentimento nobile e onirico che si chiama amore spassionato?

Eppure, nell’amore sta tutto il senso della nostra vita e in quel momento Luigia, Arina ed Ettore sbagliarono tutti e tre qualcosa. Luigia e Arina perché abdicarono all’amore, Ettore perché lo diede per scontato.

Il matrimonio fu una discreta comunione d’intenti, un discreto successo che garantì ai protagonisti una discreta vita. Così è l’esistere, spesso ci si accontenta troppo di quel che si ha.

Arina Arina mon seul et grand amour. Quelle douleur est l’amour.
(Arina, Arina, mio solo e grande amore. Quale dolore è l’amore.)

Fine

L’amore di Ettore (1° parte)

L’amore di Ettore (2° parte)

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Seconda parte)

 

Passarono alcuni mesi e il povero Ettore, magro come un chiodo e tormentato come non mai, continuava a pensare alla sua innamorata.Serafina aveva scoperto, parlando con le donne al mercato, che l’amata del maggiordomo non era affatto originaria di Pontalba, ma che si chiamava Arina e faceva la colf a casa dei signori Pilla.

Arina proveniva da Buzău un municipio della Romania di 135.000 abitanti, capoluogo dell’omonimo distretto, nella regione storica della Muntenia. Viveva nella dependance della casa dei Pilla e si occupava delle pulizie e delle necessità personali della vecchia signora Pilla, che, avendo novant’anni, dava un po’ i numeri.

Arina Arina mon seul et grand amour. Quelle douleur est l’amour. (Arina, Arina, mio solo e grande amore. Quale dolore è l’amore.) – soleva dire Ettore quando pensava che nessuno lo sentisse. Dirlo in francese gli piaceva, faceva sembrare più nobile il sentimento e l’essere umano che lo animava, cioè lui.

La passione per le frasi in francese era una delle sue caratteristiche, così come tutte le abitudini che ricordavano, anche solo vagamente, la nobiltà. Se poi si mescolava il francese, gli atteggiamenti nobiliari e le pene d’amore, si arrivava a una essenza del vivere che ambiva al titolo di ‘principesca’ e che gli piaceva immensamente.

Si era talmente immedesimato nella parte che la viveva come l’unica realtà possibile e all’interno di questa si tormentava a dismisura. Era diventato magro e pallido come una cipolla conservata al buio e vaneggiava di pene e tormenti come un vero spirito romantico. Victor Hugo [Qui] a suo confronto era un illuminista colto.

Oltre ai tormenti amorosi aveva diversi problemi da affrontare. Purtroppo Arina faceva la badante. Avrebbe potuto andare meglio, poteva essere una maestra, oppure lavorare in Comune, o essere la commessa di qualche bottega di Pontalba … macchè era solo una badante.

Come risolvere questo grave problema? Ci avrebbe pensato lui a innalzare lo status della sua bella! L’avrebbe sposata, come gli aveva consigliato Guido e l’avrebbe resa niente di meno che la moglie del maggiordomo della contessa Cenaroli. Questo avrebbe placato le male lingue, avrebbe innalzato Arina di status sociale e avrebbe reso Ettore fiero all’inverosimile per la grande azione di magnanimità, nonché prova d’amore, manifestata.

Ora restava un unico problema: come dichiararsi ad Arina visto che non la conosceva? Doveva tener d’occhio il cancello del castagneto. Come aveva già fatto in passato, prima o poi Arina sarebbe andata a raccogliere la legna e quello sarebbe stato il momento giusto per iniziare il corteggiamento che vagheggiava da mesi.

Quasi tutti i giorni verso le tre del pomeriggio, dopo aver supervisionato i lavori di riordino domestico post pranzo, Ettore faceva un giro nel parco e si spingeva fino al cancello che dava sulla stradina sterrata. Fu proprio così che uno degli ultimi giorni di Marzo vide di nuovo Arina che raccoglieva legna più o meno dove l’aveva vista mesi prima. Anche questa volta portava la giacca nera, ma non aveva il berretto e i capelli erano racchiusi in un’unica lunga treccia color miele scuro che, dalla testa, arrivava quasi a metà schiena.

“Povero me, cosa posso fare ora? Cosa le devo dire?”. Ettore pensò a Guido, cosa avrebbe fatto lui? Probabilmente avrebbe detto qualcosa di molto semplice, quasi banale e stupefacente nella sua normalità e così decise di fare anche lui.

– Buongiorno – disse – io sono Ettore, il maggiordomo di Villa Cenaroli, sta raccogliendo legna? La posso aiutare?
Arina alzò la testa, lo fissò per un attimo e poi sembrò pensierosa. Forse soppesò il vantaggio dell’offerta appena rivoltale e poi rispose:
– Aiutare. Grazie. Tu prendi legna e mettila qui. Io metto nel cesto.

Ettore non se lo fece ripetere due volte. Estrasse la chiave arrugginita che teneva sempre nel mazzo nascosto sotto il grembiule da giardino, la infilò nella toppa e aprì il cancello facendo rumore. Lo stridore prodotto dall’apertura fece alzare in volo le anatre del parco, che avevano proprio là il loro laghetto artificiale preferito. Una piccola quantità di acqua del Lungone veniva infatti dirottata in quella pozza artificiale, ricreando un habitat ideale per le anatre selvatiche che passavano in quel parco tutta la bella stagione prima di migrare verso il caldo, appena prima che a Pontalba si vedesse la prima brina.

Gri, gri, sbam! Il cancello si aprì e Ettore uscì dal recinto del piccolo mondo nel quale viveva abitualmente. Vide dei rametti di castagno in terra e cominciò a raccoglierli, passandoli ad Arina che li prendeva e li riponeva nel suo cesto.

“Ora cosa le dico” pensò Ettore, con i rametti di castagno in mano. “Forse le posso raccontare qualcosa sui castagni”. Lui lavorava con i giardinieri da molti anni e aveva imparato da loro molte nozioni sulla vegetazione del parco. Quindi quello era un terreno su cui si sentiva particolarmente sicuro.

Il castagno [Qui] è una pianta arborea, con la chioma espansa e rotondeggiante. Può essere alto tra i dieci e i trenta metri. E’ una specie eliofila, caducifoglie e latifoglie. I castagni sono alberi molto longevi, possono superare i mille anni di età.
Arina lo guardò stupefatta, poi disse: – eofila, cadofila e latifula – e gli sorrise.
Mai visto niente di più bello, pensò il maggiordomo, ma c’era qualcosa che non tornava nelle parole che Arina aveva ripetuto.

Allora Ettore provò a spiegare meglio.
– Una pianta eliofila, non eofila, è una pianta che cresce e dà frutti se in pieno sole. Ha bisogno della diretta e forte luce del sole.
– Si si, sole – disse Arina – Quando io in Romania sempre poco sole. Ofila bella cosa.
– Eofila! si dice eofila.
– Io sono di Romania, non so bene Italiano, in Romania là si dice eophile, come latino.

Che spettacolo, Arina sapeva il latino. Questa cosa gli piacque molto, la donna non sapeva bene l’italiano, ma avrebbe potuto impararlo perfettamente. Il rumeno è una lingua neo-latina [Qui] con tante parole che ricordano quella bella lingua morta che è l’antenata dell’Italiano. Forse era il caso di proseguire.

– Caducifoglie e non cadofila, significa che il castagno perde le foglie nella stagione a lui sfavorevole, che qui da noi è quella fredda invernale. Tra l’altro le foglie autunnali sono bellissime, diventano interamente gialle e poi cadono, i bambini della scuola elementare di Pontalba vengono sempre a raccoglierle per fare i collages sull’autunno. Attaccano le foglie direttamente sui cartelloni di carta da pacco bianca e fanno dei paesaggi autunnali con tutte le tonalità del marrone del verde e del giallo, molto belli.
– Collages? Cosa è collages?

– Non importa, lasciamo stare. Questo non è importante – le rispose Ettore, poi proseguì: – Latifoglie e non latifula. Latifoglie significa che i castagni hanno le fogli di forma allargata.
– Si, si però troppo difficile. Parole non necessarie. Importante è capire in generale – disse Arina e non sembrava molto contenta di quelle nuove parole spiegate da Ettore. Le sembravano difficili e, per quel poco che aveva capito, abbastanza inutili.

Però Ettore non era brutto e aveva di certo un buon lavoro e uno stipendio sicuro. Queste le sembrarono buone premesse. Lei aveva avuto una vita difficile, un matrimonio finito male, una militanza nel partito di Nicolae Ceaușescu finita ancor peggio nel 1989.
– Tu sposato? – chiese.
– No – rispose Ettore. Ma di quella domanda si spaventò. Sembrava che la situazione stesse precipitando suo malgrado. Doveva prendere tempo e chiedere di nuovo consiglio a Guido.

– Ai ai ai! mi è entrato un moscerino in un occhio. Devo rientrare a cercare Serafina che ha delle mani d’angelo e lo può togliere – disse d’un fiato e, così facendo, riaprì il cancello.
Arina lo guardò e poi alzando le spalle lo salutò: – Ciao Ettore, foglie bellissime.
“Questo va educato” pensò Arina e così pensando definì le caratteristiche di quel rapporto che non cambiò mai più.

L’amore di Ettore (Prima parte) 

L’amore di Ettore (Terza parte) 

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PER CERTI VERSI
Il giorno dei Morti

IL GIORNO DEI MORTI

Sto spolverando
Le fotografie
Bianche e nere
Dei nonni
Delle prozie
Degli avi
Dei parenti
Acquisiti
Degli amici
Morti prima
Dolori gravi
Tutti
Fermati in quell’attimo
Riempiti
Dal ricordo
Lontano
Eppure qui
Ormai è la vostra
Ricorrenza
Siete sempre
In un sorriso
Senza tempo
Che vive
E si consuma
In una salda
Volatile
Compresenza

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Prima parte)

 

Un giorno Ettore, il maggiordomo della Contessa Malù, vide una bella donna che raccoglieva legna appena fuori dal parco di Villa Cenaroli e se ne innamorò.

Non l’aveva vista bene e nemmeno vi aveva mai parlato, ma tant’è, il cuore accellerò. Desiderò seduta stante coricarsi sopra di lei senza pensare più a nulla. Chissà perché. Forse perché quel giorno era uno dei primi giorni di sole dopo la tanta nebbia dell’autunno lungo il fiume, o forse perché si era definitivamente ripreso da una brutta influenza. Dopo una cura ricostituente prescritta dal medico della contessa, il suo fisico era rinvigorito e pronto a tutto.

Guardò la donna con maggiore attenzione. Era sicuramente di Pontalba. Portava dei jeans blu, le scarpe da ginnastica e una giacca a vento nera. In testa aveva un berretto di lana anch’esso nero dal quale spuntavano dei capelli castano chiaro che, dritti e lunghi, si allungavano decisi lungo la schiena.

Aveva un cesto di vimini che stava riempiendo velocemente di piccoli rami secchi, sparsi fuori dal cancello della villa dopo la potatura dei castagni. La parte più bassa del parco, quella che confinava con il fiume e con la stradina sterrata che portava al cimitero del paese, era infatti ‘abitata’ da enormi castagni che là troneggiavano da molti anni. Ettore li aveva sempre visti, avevano sicuramente molti più anni di lui.

Una volta Guido, il primo fidanzato di Costanza, gli aveva raccontato che da piccolo si divertiva a raccogliere i ricci spinosi delle castagne che si depositavano sul sentiero e a tirarli alle bambine che malauguratamente si avventuravano da quelle parti. Il gioco funzionava particolarmente bene con le bambine che avevano i capelli lunghi. I ricci si impigliavano senza indecisione, e le bambine non riuscivano più a districarli dai capelli, se non tirando vigorosamente e stappando parte della chioma aggrovigliata. Un vero divertimento per quella ‘peste’ del piccolo Guido.

Ettore riguardò la ragazza che raccoglieva la legna di castagno. Quanti anni poteva avere? Forse quaranta. Lui ne aveva cinquanta, poteva andare come età? Dieci anni di differenza erano troppi? … Mah. Era lui ad avere dieci anni di più, quindi la cosa poteva andare, non sarebbe stato accettabile il contrario, una donna con dieci anni di più del suo compagno non era possibile, davvero sconveniente per un maggiordomo come lui.

Che fare? Forse doveva chiedere consiglio a Guido. Rientrò in casa, sicuro del suo innamoramento e per nulla dubbioso sulla reciprocità di tale sentimento. “Se non è amore, sicuramente lo diventerà” pensò mentre rientrava in Villa.

Dopo alcuni giorni, mentre si trovava dove aveva visto la sua innamorata per la prima volta, cioè vicino al cancello che dal castagneto di Villa Cenaroli dava sulla stradina sterrata che portava al cimitero, vide Guido che si stava avvicinando con il suo cane al guinzaglio, un giovane akita inu [Qui] dal manto interamente candido che si chiamava Reblanco.

Reblanco aveva un pedegree importante, dei genitori pluripremiati ed era il padre di alcuni cuccioli di akita che stavano crescendo splendidamente in una casa di Trescia. Lui però non ricordava questa genitura e passava le sue giornate con Guido che lo adorava.

Reblanco era costato tremila euro che, per le finanze di Guido, non era poco. Ma tantè, tra le stranezze di Guido c’era anche il suo modo un po’ originale di considerare i soldi e di usarli in funzione dei desideri più che delle necessità. Soleva dire che tra un desiderio e una necessità c’è una differenza enorme, anzi, che tra l’uno e l’altra esiste quasi sempre un’antitesi. Forse aveva ragione, almeno in parte. Sta di fatto che Reblanco era uno spettacolo e a Pontalba tutti lo guardavano passare con piacere e ammirazione.

Ettore pensò che quello era il momento buono per chiedere a Guido un consiglio sulla sua innamorata.
– Ciao Guido, stai portando Reblanco a spasso?
– Si, avevamo voglia entrambi di sgranchirci le zampe – gli risponde Guido un po’ distrattamente, mentre tira Reblanco per il guinzaglio cercando di farlo rallentare.
– Mi sono innamorato di una signora che è venuta qui alcuni giorni fa a raccogliere la legna e adesso non so cosa fare, come rintracciarla, come dichiararmi.
– Secondo me l’unica cosa sensata da fare è sposarla!
– Ma non la conosco, non so nemmeno come si chiama!
Proprio per questo te la puoi sposare, è ancora una sorpresa. Se tu la conoscessi davvero ti passerebbe la voglia. Invece adesso puoi ancora sposare una favola, una principessa che è esattamente come tu la vuoi. Evvai super-Ettore! Sposati la paesana e facci subito un figlio.

E questo è Guido, un po’ saggio, un po’ genio, un po’ pazzo, un po’ triste. Quel che dice lo pensa davvero, i suoi consigli sanno essere utili seppur nella loro originalità. Spesso tra i suoi suggerimenti si nasconde la luce, altre volte il terreno per un cammino irrealizzabile. Uno così bisogna prenderlo a piccole dosi e distillare quello che dice, in modo da isolare l’illuminazione dalla stranezza, la saggezza dalla malinconia, l’euforia dal nichilismo.

– Grazie del consiglio – gli risponde Ettore e Guido riprende il suo cammino. Tira un po’ il guinzaglio di Reblanco e fa un cenno di saluto con la mano. I due, l’uomo e il cane, allineano il passo al centro della stradina e proseguono tranquillamente sul loro sentiero, già dimentichi dei tormenti di Ettore. Nessuno dei due, per motivi diversi, li considera degni della benchè minima preoccupazione.

Ettore è fermo sul cancello. Li guarda allontanarsi, li trova eleganti, maestosi nel loro incedere in mezzo alla strada e per nulla preoccupati di bloccare il cammino a chi viene in senso contrario. A dire il vero non passa quasi mai nessuno, la strada tra i castagni è tutta loro e ben si adatta all’abbigliamento di Guido e al pelo liscio e folto di Reblanco.

Ora che fare? Come si chiama la donna? A chi chiederlo? Forse a Malù che in paese conosce quasi tutti. Oppure a Serafina che va sempre a comprare la frutta al mercato.
Ettore tornò verso la villa e vide Serafina che stava lavando il pavimento di marmo del poggiolo che dava sulla scalinata.
– Serafina aiutami, mi sono innamorato.
– Ma di chi ti sei innamorato?
– Non so.
– Non sai di chi ti sei innamorato? E’ impossibile!
– Invece è possibile.
– Ma no!
– Ma si!
– No!
– Si!

Quella ‘quadrata’ di Serafina riuscì con poche parole ad instillare nel cervello di Ettore il dubbio di non essere amato e quel dubbio lo gettò in uno stato di sconforto che lo fece piangere a dirotto chiuso nella sua camera e che durò per tutto quel terribile inverno.

Fuori, a Pontalba, imperversava il Covid-19, ma lui visse questo dramma in maniera ovattata, perché il suo cuore era tutto pervaso dalle pene d’amore. Il dubbio di non essere ricambiato dalla sua innamorata lo accompagnò fino agli albori di quella tremenda primavera e lo prosciugò come una castagna secca. Diventò ‘un mondo’ (come in paese si chiamavano appunto le castagne secche).

Ah aime aimer autant qu’il le peut et autant qu’il le veut …” (Ah l’amore, l’amore quanto può e quanto vuole).

L’amore di Ettore (2° parte)

L’amore di Ettore (3° parte)

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

A voi la nuvola del G20, a noi il futuro

Contro il G20, in piazza a Roma molteplici percorsi: dal corteo studentesco di venerdì 29 alla manifestazione nazionale di sabato 30, dal Climate Camp all’assemblea nazionale di convergenza del 31 ottobre. Perché non vogliamo tornare a quella normalità che era il problema.
Quale miglior collocazione, dal punto di vista evocativo, della ‘Nuvola’ come sede del vertice del G20 di fine ottobre a Roma?

Nella nuvola è impossibile vedere l’oltre e lo sguardo si autoriflette, facendo credere a coloro che vi sono immersi che il mondo si esaurisca lì. E’ cosi che i governi dei paesi più ricchi del pianeta possono ritrovarsi e discutere di “persone, pianeta, prosperità”, fingendosi parte della soluzione, mentre è chiaro a tutti che fanno parte del problema.

Parlano di crescita, ma l’unica cosa che sono riusciti ad aumentare è la produzione di gas serra, di cui detengono il 75%, rendendo drammatica la conseguente crisi climatica. Non stanno cercando di capire come uscire da una crisi sistemica, bensì come continuare ad estrarre valore finanziario da persone, territori, natura e come difendere questa accumulazione di ricchezza. Attraverso armi, guerre, frontiere, muri, società disciplinare. Parlano di transizione ecologica, ma pensano al greenwashing; annunciano la rivoluzione digitale ma hanno in mente sfruttamento e precarietà.

Hanno tuttavia un pregio: aver finalmente chiarito che la preservazione del modello capitalistico non ha più bisogno di alcun consenso sociale, è obbligatoria e ineluttabile. “Ripresa” per l’economia del profitto, “resilienza” per le popolazioni che devono subirla.

La difesa di un diritto, di un posto di lavoro, di un bene comune, di un territorio sono sacrosante e necessarie, ma drammaticamente insufficienti se continuano a realizzarsi su un piano inclinato dall’alto verso il basso.Occorre rovesciare il piano, chiedendo ad ogni esperienza di collocarsi in una dimensione di interdipendenza con tutte le altre – nessuno si salva da solo – e dentro l’orizzonte della sfida per un’alternativa di società. Un piano che metta la cura di sé, degli altri e delle altre, del vivente e del pianeta al centro di una nuova organizzazione della società, oltre e contro la solitudine competitiva e l’ ‘uno su mille ce la fa” del modello capitalistico.

E’ questa la novità messa in campo da processi, percorsi ed esperienze che in questo anno e mezzo di pandemia hanno costruito il filo rosso della convergenza fra i movimenti e alimentato la mobilitazione sociale di chi rifiuta di tornare alla normalità perché era la normalità il problema. E che ha iniziato a dare frutti, producendo lotte radicali che smettono di percepirsi come solitarie e ‘disperate’ e interrogano persone, territori e società. Smettono di interpretare la parte di un copione prestabilito e rivoluzionano la scenografia.

Un’insieme di appuntamenti, che, per la prima volta, vedrà assieme la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future e di Extinction Rebellion con importanti vertenze operaie e del lavoro come Gkn, Alitalia, Whirlpool; tutti i sindacati di base ma anche la Flc Cgil; tutti i movimenti sociali ma anche le esperienze del mondo contadino e dell’ agro-ecologia; le reti studentesche e gli spazi sociali; la rete Fuori dal Fossile e il movimento No tav; le esperienze femministe e il Consiglio Nazionale Indigeno dell’Ezln del Chiapas…e molto altro ancora.

Una tappa, non un punto di arrivo. Contro il G20, ma ben oltre loro e la loro insulsa vetrina. Per il diritto al conflitto sociale e alla libertà di manifestare, ma senza alcun interesse per il clima intimidatorio ancora una volta artificialmente costruito da governi e mass-media mainstream.

Ci aspetta una stagione dove molti nodi verranno al pettine, con un’oligarchia al governo che, per imporre un Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, ha ottenuto l’unanimismo parlamentare e pretende il silenziamento di ogni conflitto sociale. La attraverseremo con la lenta impazienza. L’impazienza di chi ogni giorno che nasce ha chiara la necessità di rivoluzionare lo stato di cose esistenti, la lentezza di chi sa che solo la fiducia delle radici nei fiori genera foreste rigogliose.

Vi aspettiamo in piazza in questo week end di fine di ottobre. Speriamo di ritrovarvi ogni giorno successivo.

Marco Bersani, Attac Italia
Questo articolo è apparso con altro titolo su Dinamopress il 28 ottobre 2021

Al cantón fraréś : Il rarità d’Frara”

I piccoli ferraresi che frequentavano la IV elementare, circa un secolo fa, avevano in dotazione “A L’OMBRA DAL CASTEL antologia dialettale ferrarese… ”. Era utile per l’apprendimento della lingua nazionale traducendo dal vernacolo, secondo i “Programmi di studio e prescrizioni didattiche (1923)“. Il volume, lire 3,50, era corredato da un vocabolarietto Ferrarese – Italiano e arricchito con illustrazioni e note.
Agli scolari venivano proposte, fra i vari esercizi, semplici informazioni sulle bellezze (maravié) del capoluogo che sarebbe diventato un giorno Patrimonio dell’Umanità.
( Ciarìn )

Vedi anche Al Cantón fraréś del 22 maggio 2020 [Qui].

 

Il rarità d’Frara
i è sett, propria com jéra sett il maravié dal mond.
Ecli: Al Castèl – La fazzada dal Dom – Al Campanìl – Al palazz di Diamànt – San Franzzesch – Santa Maria in Va – Al Muntagnón.

Al Castèl
l’è sta fatt dal 1385 dal marchés Niculò sgónd d’Este. L’è in mezz a l’acqua e al gh’à quàtar torr ch’il s’ved luntan diés o dódas chilometri.
Che beli fest, al temp di duca! E quant brav omin!: Guarino, l’Ariost, al Tasso e tant’àltar. Ma anch quant bruti cos, alora! Il dó parsón d’Ugo e Parisina il fa paura sol a védril!

La fazzada dal Dom
l’è una dil più beli d’Italia; e i furastiér i sta dil’i ór incantà a guardarla. L’è dal 1135!… Anch alora agh’i era dla brava zént!

Al campanìl dal Dom
tutt ad marm, alt 50 mètar, con Zurzón (al campanón che ass sent luntan ott chilometri). Se al fuss finì con la cupla, al starév all’impàr dal campanìl d’Giotto a Firenze.

Al palazz di Diamànt
a n’scherza. Al gh’à dó fazzà tutt ad marm a punt ad diamànt, e as dis che dentar in t’una ad st’il punt, ch’an s’sa brisa quala, agh sia un diamànt propria ad chi bun. In t’al palazz po’ a gh’è da star a boca averta. A gh’è di magnifich salùn con di bei quàdar! tutt ad pitór frarìs: Garòful, Carpi, Costa, Mentessi, Previati… A gh’è anch al Museo dal Risorgiment, con d’i s’ciop, dil carabinn, dil spad; e po’ al ritratt ad Mosti coi vuluntari dal sò bataglión; e po’ i ritratt di tri màrtir frarìs: Succi, Malaguti, Parmeggiani fusilà dai tudésch dal 1853.

San Franzzesch
l’è ‘na bela césa con un’eco ch’ripèt il parol dasdòtt o vint volt!… ‘na zìzula!

Santa Maria in Va
la gh’à dil beli pitùr dal Bononi. Ma la cosa più bela l’è l’altàr dal Preziosissim. Al fatt l’è quest: Al sgónd giorn ad Pasqua dal 1171 quand un pret ch’géva messa al rumpì l’ostia cunsacrada, ecco, com’un scrizz, tant gózz ad sangv! Anch’adess, in tal mur, ass ved il macc!

Al Muntagnón
l’è sta una maravié al temp di duca, con bosch, zardìn, paschiera, grott e una palazzina pr’i bagn. Adess più gnént, ma solament al deposit dl’acqua potabile.


Traduzione degli autori.

Le rarità di Ferrara
Le rarità di Ferrara sono sette, proprio come erano sette le meraviglie del mondo.
Eccole: Il Castello – La facciata del Duomo – Il campanile – Il palazzo dei Diamanti – San Francesco – Santa Maria in Vado – Il Montagnone.

Il Castello
è stato edificato nel 1385 dal Marchese Niccolò secondo d’Este. È in mezzo all’acqua e ha quattro torri che si vedono lontano dieci o dodici chilometri.
Che belle feste, al tempo dei duchi! E quanti bravi uomini!: Guarino, L’Ariosto, il Tasso e tanti altri. Ma anche quante brutte cose, allora! Le due prigioni d’Ugo e Parisina fanno paura solamente a vederle!

La facciata del Duomo
è una delle più belle d’Italia; e gli stranieri stanno delle ore incantati a guardarla. È del 1135!… Anche allora c’era della brava gente!

Il campanile del Duomo
tutto di marmo, alto cinquanta metri, con Giorgione (il campanone che si sente lontano otto chilometri), se fosse finito con la cupola, starebbe alla pari del campanile di Giotto a Firenze.

Il palazzo dei Diamanti
non ischerza, con due facciate tutte di marmo a punta di diamante, e si dice che dentro in una di queste punte, che non si sa quale, ci sia un diamante proprio di quelli veri. Nel palazzo poi c’è da stare a bocca aperta. Vi sono dei magnifici saloni con dei bei quadri tutti di pittori ferraresi: Garofalo, Carpi, Costa, Mentessi, Previati… C’è anche il Museo del Risorgimento, con dei fucili, delle carabine, delle spade; poi il ritratto di Mosti con i volontari del suo battaglione; poi i ritratti dei tre martiri ferraresi: Succi, Malagutti e Parmeggiani fucilati dagli austriaci nel 1853.

San Francesco
è una bella chiesa con una eco che ripete le parole diciotto o venti volte!… una giuggiola!

Santa Maria in Vado
ha delle belle pitture del Bononi. Ma la cosa più bella è l’altare del Preziosissimo. Il fatto è questo: il secondo giorno di Pasqua del 1171, quando un prete, che diceva la messa, ruppe l’ostia consacrata, ecco, come uno spruzzo, tante gocce di sangue! Anche adesso, nel muro si vedono le macchie!

ll Montagnone
è stata una maraviglia al tempo dei duchi, con boschi, giardini, peschiera, grotte ed una palazzina per i bagni. Adesso più nulla, ma solamente il deposito dell’acqua potabile.


Tratto da: Ferri e De Sisti, A l’ombra dal Castèl : Antologia dialettale ferrarese per gli esercizi di traduzione in italiano, in conformità dei programmi ufficiali 1. ottobre 1923, 2: Classe 4. Elementare, Palermo, Remo Sandron, 1925.

I compilatori dell’antologia
– Luigi Ferri (1854-1935), ispettore scolastico, autore fra l’altro del Vocabolario Ferrarese – Italiano del 1889.
– Francesco De Sisti (1878-1954), insegnante, sportivo, autore de L’influenza psicologica della educazione fisica.
– Mario Luigi De Sisti (1904-1982), figlio di Francesco, architetto, pittore, illustratore della copertina di A l’ombra dal Castèl.

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 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

 In copertina: Organo, particolare, basilica di San Francesco – Ferrara

“Non credevo che il fucile fosse carico…”
ma nemmeno il ministero conosce il numero delle armi nelle case degli italiani.

 

In un istante, fuori da ogni volontà, vedere spezzate le vite delle persone che si amano di più. Un dolore così immenso respinge ogni morale, simile solo al niente che resta dopo un uragano che distrugge la casa con i suoi abitanti e non c’è a chi dare la colpa. Allargare lo sguardo per una riflessione che vada oltre l’evento, invece, si può.

Il fatto è accaduto il 16 ottobre a San Felice del Benaco, in provincia di Brescia. A quanto è dato conoscere fin qui, Viola Balzaretti, 15 anni, muore per mano del fratello tredicenne che per gioco le spara con il fucile del padre, ancora carico dopo la caccia.
Il ragazzo, non imputabile per età, verrà forse seguito dalla giustizia minorile ma non dovrà rispondere penalmente per ciò che ha fatto. Gli sarà comunque di troppo rispondere a se stesso.

Il resoconto della vicina che lo descrive uscire di corsa dalla casa familiare, la maglietta macchiata del sangue di Viola, gridando “Non sono stato io”, è eloquente di quanto sarà terribile convivere con questo mistero: essere fattore causale di una morte che mai si sarebbe voluta e di cui non si è realmente responsabili. Una sorte terribile è toccata pure ai genitori, medici entrambi, lui medico legale e, per due mandati, assessore comunale alle politiche sociali. Attualmente è indagato per la cattiva custodia delle armi in suo possesso. “Una famiglia perbene”, dicono in paese, e certamente lo è.

Ugualmente e diversamente vittime sono coloro che a Viola e ai suoi vogliono bene. Pochi giorni dopo, nella scuola frequentata dalla ragazza, uno psicologo ha incontrato i compagni. Dare espressione al dolore è tra le poche vie possibili per non esserne schiacciati.

Le ragioni vere di quanto è accaduto, probabilmente, non vanno cercate in casa Balzaretti bensì in un panorama più ampio. L’articolo di Repubblica del 18 ottobre attacca così: “A casa mia sono cresciuto che c’erano più fucili che posate”, dice un ragazzo al bancone del bar del centro (…). Di fucili ce n’erano otto, più due pistole, nella villetta di Roberto Balzaretti.”.
Una contiguità con le armi da fuoco che non impressiona, qui e forse altrove. Ricordo bene una conversazione in Sardegna di molti anni fa. L’ospite a tavola mi spiega l’ovvietà di avere almeno un’arma in casa e ridacchia della mia incredulità, gli pare impossibile che altrove funzioni diversamente. Tendenze radicate nel tessuto sociale, come è vero che in certe regioni si consuma più alcol della media italiana o che nella mia città ci spostiamo in bicicletta.

I tratti culturali sono facilmente strumentalizzati da chi ne trae profitto. La legittima difesa a qualunque costo, ad esempio, con qualche mezzo bisognerà pure farla. Magari un’arma, per proteggersi dai malfattori. Anche se poi, ormai da anni, in Italia è più facile essere colpiti con una pistola detenuta legalmente – in genere da un familiare – piuttosto che il contrario. Nel 2020, su 93 omicidi di donne (inclusi i femminicidi), 23 (1 su 4) sono stati commessi con armi da fuoco detenute legali.

L’organizzazione indipendente svizzera Small Arms Survey nel 2018 ha stimato in Italia circa 8,6 milioni di armi da fuoco diffuse tra la popolazione civile (di cui solo 2 milioni regolarmente registrate), escluse quelle possedute da esercito e forze dell’ordine. Come dire 14/15 armi da fuoco ogni 100 civili. Negli ultimi anni si è andati di male in peggio; stando a un sondaggio Censis del 2020 1 italiano su 10 è armato, e nell’ultimo anno ci sarebbe stato un ulteriore incremento.
“Il numero preciso di armi registrate, tuttavia, non si conosce: né il Ministero dell’Interno né la Polizia di Stato lo hanno mai pubblicato e, in merito, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni”, chiosa il Giorno in un articolo datato 14 ottobre 2021, vale a dire prima e a prescindere dalla morte di Viola.

Come si fa a possedere un’arma nel nostro paese? Facile: ci vuole un nulla osta oppure un porto d’armi. Il nulla osta serve per un solo acquisto, che però può riguardare anche più armi, da tenere in casa. Con il porto d’armi invece si va a caccia, al poligono, si lavora come guardia giurata, se ne fa uso all’esterno insomma.

Giorgio Beretta, analista di Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere, ne parla in un articolo ben documentato per la rivista Il Mulino nell’estate di due anni fa. In un’intervista a Vanity Fair lo studioso fa un sunto efficace: «La normativa italiana per il numero di armi detenibili è tra le più permissive in Europa, con una licenza per tiro sportivo o da caccia si possono tenere tre pistole, dodici fucili semiautomatici (tipo gli Ar-15, i più usati nelle stragi in America) e un numero illimitato di fucili da caccia. Le norme sono troppo blande e le licenze si possono ottenere con troppa facilità. Non è richiesto né un esame tossicologico né una perizia psichiatrica nemmeno per gli anziani. Tutto si basa su un’autocertificazione controfirmata dal medico curante e un breve esame all’Asl, simile a quello per ottenere e rinnovare la patente di guida».

Non si conosce il numero di armi detenute attualmente in Italia, né quanti nulla osta siano approvati.
Per ovviare il problema Beretta propone una tassa annuale sulle armi, 12-15 Euro per digitalizzarle tutte – molte ancora sono registrate soltanto su registri cartacei – e istituire un fondo dedicato alle vittime delle armi da fuoco legalmente detenute.
Una banalità è certa: il modo migliore per non uccidere è disarmarsi. Finché non lo si fa, occorre una cura corretta delle armi e della persona che l’ha in uso. L’Espresso del 28 settembre 2021 annuncia una proposta di legge portata avanti dal Pd con altre forze politiche in base alla quale il certificato sanitario dovrebbe essere più severo e curato da una commissione medica. Entrerebbe in vigore, inoltre, l’obbligo di avvisare i conviventi maggiorenni della presenza di un’arma in casa.

In chiave di prevenzione nei contesti a rischio, la onlus Ognivolta, nata dopo un ‘incidente’, ha proposto un collegamento tra le banche dati delle forze dell’ordine e della sanità pubblica di modo che, quando qualcuno viene fermato perché autore di violenze o viene sottoposto a TSO, sia immediato verificare se è in possesso di un’arma e, in quel caso, sottrarla. Nel settembre 2020 il Senato ha approvato un ordine del giorno in tal senso, ci si augura che l’iniziativa trovi concretezza.

 Questo articolo è uscito il 27 ottobre, con altro titolo, sull’edizione online di Azione nonviolenta

La Chat – un racconto

 

– Mamma hai finito col computer?
Ma cosa stai facendo… è due ore che sei chiusa li dentro! –

Cosa sto facendo? Già, me lo chiedo anche io. Se sapesse che sto parlando con uno sconosciuto, chissà cosa mi direbbe.

– Sì tesoro, adesso ho finito, ancora un attimo!
Ecco adesso il computer è tutto tuo.
Vado a scuola adesso.
Ci vediamo a pranzo, io torno verso le due, a dopo.
Sono in ritardo, devo spicciarmi.
Non posso arrivare in classe dopo i ragazzi ancora una volta –

Francesca, quarantanove anni appena compiuti, prof. di matematica al Liceo Galvani della città, una separazione faticosa alle spalle, una figlia, Sabrina, ventun anni, secondo anno di Psicologia, semplicemente la sua vita.
Dopo la separazione, oramai erano dieci anni, aveva avuto alcune storie, brevi, passate senza lasciare traccia, prive di importanza.
Ma era da circa un anno che sentiva pressante il bisogno di avere per sé qualcosa di più significativo dei rapporti occasionali avuti fino a quel momento, almeno un compagno, se non un marito.
Ben presto si era resa conto che la cosa però era molto più difficile di quello che aveva supposto.
Nonostante avesse già abbassato di molto le comuni aspettative, accontentandosi per quello che riguardava l’aspetto fisico; era diciamo, quello interiore, che lasciava a desiderare delle diverse persone con cui era uscita fino a quel momento.
E sì che sarebbe stata disposta ad intraprendere seriamente una relazione, ma con un uomo semplicemente normale con sentimenti che corrispondessero per lo meno a quelli tipici di un amore nuovo, chiedendo solamente quello che una donna si aspetta quando inizia una nuova storia, soprattutto un po’ di attenzione e premura.

Invece aveva incontrato solo figure di basso profilo e scoraggiata aveva quasi smesso di accettare altre proposte di uscite galanti.
Aveva anche declinato alcuni inviti a cena con Giulia e Nadia, le sue amiche da sempre, incontri organizzati appositamente per presentarle amici sentimentalmente liberi.

Tutto questo fino a quando aveva sentito parlare – quasi per caso dalla sua collega Doridi – di questa sua nuova relazione iniziata su una di quelle solite chat di incontri.
Aveva chiesto come si faceva, aveva capito che c’era una registrazione da fare, l’aveva anche fatta, ma poi più nulla.

Fino a quando una notte in cui si sentiva particolarmente sola, aveva provato.
Ed ecco che con Marco Z. oramai chattava quasi tutte le sere, da un mese abbondante, attendendo prima che sua figlia si ritirasse in camera sua.
Di solito cominciava a comunicare dopo la mezzanotte e arrivavano spesso le due prima che andasse a dormire.
Si alzava al mattino ancora del tutto addormentata.
Abituata da sempre a dormire molto, quelle poche ore di sonno di certo non le bastavano per recuperare.
E infatti durante il mattino, in classe, diverse volte si era trovata a sbadigliare in continuazione.
Aveva raddoppiato il numero dei caffè presi di solito, ma questo non era stato sufficiente a nasconderle un’aria di estraneità da questo mondo che fino ad allora non aveva mai frequentato.
Tutti si erano accorti di questo cambiamento e a chi le chiedeva spiegazioni rispondeva frettolosamente in termini volutamente molto generici rimanendo sul vago.

– Stanotte lo chiamo e gli chiedo un appuntamento… non posso continuare così all’infinito.
È solo lunedì e sono già stanca come se fosse sabato – pensava Francesca quel giorno di settembre mentre rincasava dal lavoro.

Alle 16:30 in piazza Duomo.
Sono solo le 16 e io sono già qui.
Ho preso una giornata di permesso per fare le cose con calma.
Ho richiesto e disdetto l’appuntamento col parrucchiere due volte.
Non voglio farmi vedere troppo tirata.
Voglio che mi consideri così per come sono.
Ma così come sono poi gli piacerò?
Accidenti potevo andarci da Maurizio almeno per la piega. Guarda come mi stanno questi capelli.. proprio oggi!
È inutile adesso è tardi.
Mi sono messa la gonna.
Non la metto quasi mai.
Vado sempre in bici, e poi sono più comoda coi pantaloni.
Mia figlia mi ha chiesto stamattina se avevo un appuntamento con un uomo.
Ma dico cosa le salta in mente!
Sono diventata subito rossa, mi sono morsicata la lingua perché stavo per chiederle come cavolo lei lo sapesse, poi le ho risposto abbastanza seccamente che io a cinquant’anni potevo anche vestirmi come cazzo mi pareva e che non dovevo giustificarmi di fronte a mia figlia e che…
Al che lei con una vocina molto pacata, mi ha risposto che era solo una battuta e non importava che me la prendessi tanto!
Sono uscita senza dirle una parola.
Sono ritornata subito indietro.
Ho suonato il campanello di casa.
Mi ero dimenticata le chiavi.

– Buongiorno… devi essere Francesca vero? Io sono Marco! –

Mi giro.
Ho il cuore a mille come quello di una adolescente al suo primo appuntamento
– Ma non sei pelato… sei bellissimo Marco…Oh, scusa, cioè volevo dire sei normale! –
– Ah, grazie – rispose con un sorriso Marco – lo prendo come un complimento! –
– Ma no, cioè sì… oh, insomma, ciao.
Sì, sono Francesca e sono agitatissima.
– Bene, anche tu sei molto carina Francesca –
Cosa dici stiamo qui fermi in mezzo alla strada a farci i complimenti o ti andrebbe un caffè? –
– Mi andrebbe, certo Marco, eccome –
– Allora qui all’angolo c’è un bar che a me piace molto, andiamo a sederci lì –
Francesca lo guardò bene negli occhi e con un sorriso fece un cenno di assenso.
Marco le porse il braccio.
Lei si appoggiò delicatamente.

E tutto il resto non contava più nulla.

Parole a capo
Leopoldo Attolico: “Camminando” e altre poesie

Nei poeti la scelta delle parole è invariabilmente più rivelatrice di qualsiasi elemento narrativo
(Iosif Brodskij)

NOTTE, RISVEGLIO

Un po’ di fresco e di aria marina.
La poesia è arrivata.
Ora il fervore del mare
tenta l’approccio con l’aria drappeggiata:
dicotomie di nembi organizzati a spicchi
dalle parti della luna; che fa la Monna Lisa
pencola appena e bussa dentro l’anima.
Breve tremore
conciliabolo del sonno col cuore
breve poesia finita…

Piego la testa sulla luna

 

CAMMINANDO

Il viale dei gelsi
lucidi di sole
era a un passo;
ma la felicità, lontanissima
urtava i colori come un Angelus in un paese morto…

Mi portai via, così, solo il pudore
di un cuore assorto distratto di bambino
che apre e chiude subito la porta
per non disturbare

 

VIDI, MIA MADRE

Vidi, nel gioco
passeri rotolare sul tetto
e in un amen (di gioia? di paura?)
irridere l’abisso: solo uno scarto, prensile, nell’aria
per poi ricominciare daccapo,
dalla prima tegola.
Nell’enfasi del sole e dei colori
-in quell’incanto
vidi, mi parve, intera la mia vita;
come una partitura
percorrere il declivio in splendido fervore di note
verso l’ultima; e lasciarla, febbrile
all’indulgenza preoccupata di una piccola creatura
sorta dal nulla, chissà da quale Ade di sogno
e di parole venuta a darmene misura,
a fior di labbra

In “Piccolo spacciatore”, 1964-1967 – Cooperativa Editrice Il Ventaglio, Roma, 1987

Leopoldo Attolico vive ed opera a Roma, ove è nato il 5 Marzo 1946.
Dalla seconda metà degli anni ’80 si è occupato principalmente di poesia performativa 29, declinata in modalità defatigante nutrita di leggerezza lessicale, giocosità, ironia/autoironia e senso del paradosso. Ha al suo attivo sette titoli di poesia e quattro plaquettes in edizioni d’arte. La sua più recente pubblicazione, “Si fa per dire”, Tutte le poesie, 1964-2016, è presente nelle Marco Saya Edizioni, 2018. www.attolico.it

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VERGOGNA EMILIA: L’ACQUA DEVE RESTARE PRIVATA.
L’Assemblea Regionale vota di soppiatto la proroga dei contratti a Hera e Iren.

 

Poco più di 10 giorni fa l’Assemblea Regionale dell’Emilia-Romagna ha approvato un emendamento alla legge regionale “Misure urgenti a sostegno del sistema economico ed altri interventi per la modifica dell’ordinamento regionale” che proroga gli affidamenti del servizio idrico in regione fino alla fine del 2027,
Uniche eccezioni, i territori di Reggio Emilia e Rimini, dove sono in corso procedure di gara.
L’emendamento, approvato da tutti i Gruppi consiliari, tranne quelli di Europa Verde e Gruppo misto che non hanno partecipato al voto, compie una scelta molto grave, perché prolunga ulteriormente la situazione di privatizzazione del servizio idrico in regione e rappresenta un ennesimo mancato rispetto dell’esito referendario del 2011.

In Emilia Romagna la grandissima parte delle gestioni del servizio idrico è svolta da 2 grandi multiutilities quotate in Borsa e ispirate da una logica privatistica, Iren e Hera, e ora, proprio quando si poteva aprire il percorso per la ripubblicizzazione, in particolare nelle gestioni finora affidate a Hera, si fa loro questo grande regalo.
Infatti, a fine anno sarebbe scaduta la concessione del servizio idrico a Hera nel territorio di Bologna, alla fine del 2023 a Forlì-Cesena e Ravenna, alla fine del 2024 a Ferrara e Modena.

A Bologna, in particolare, si era avviato un confronto tra gli amministratori locali, Atersir (l’Agenzia regionale che interviene sul servizio idrico e quello dei rifiuti), il comitato acqua pubblica e altri soggetti per far svolgere all’Università di Bologna uno studio sulle forme di gestione del servizio idrico e sulla sua possibile ripubblicizzazione. Un passaggio propedeutico per arrivare ad una scelta condivisa per il futuro del servizio idrico nell’area metropolitana.

Intanto, la prima cosa che fa riflettere è come l’Assemblea Regionale è arrivata alla decisione. Questa è stata presa senza nessuna discussione preliminare con i comitati dell’acqua e altri soggetti della società civile, con un emendamento introdotto di soppiatto in una legge che parlava d’altro.
Un vero e proprio colpo di mano. Una modalità che è esattamente il contrario di quella volontà di favorire la partecipazione, che la Regione proclama a ogni piè sospinto. Una partecipazione che appare sempre più come comunicazione dall’alto (la politica del partiti) verso il basso (la società civile). Una partecipazionesoprattutto,  che non deve riguardare le decisioni di carattere strategico, come quella di cui stiamo parlando.

Le ragioni per giustificare tale scelta sono decisamente inconsistenti.
Si è detto che la continuità delle gestioni serve per poter realizzare gli investimenti che dovrebbero arrivare dal PNRR per il servizio idrico. Dimenticandosi volutamente di riflettere sul fatto che gli eventuali nuovi gestori dovrebbero comunque portare avanti gli investimenti già programmati.
Ancora, si è sostenuto, secondo l’infausta teoria del ‘meno peggio’, che era preferibile concedere una proroga di 6 anni piuttosto che procedere ad una gara, che avrebbe prodotto un affidamento di 30 anni. Facendo finta di non vedere che esiste un’alternativa alla messa in gara del servizio idrico: la ripubblicizzazione, appunto.

Un servizio idrico che, comunque, fino ad un nuovo affidamento, continua in proroga alla gestione esistente e che non esiste alcun obbligo per effettuare una gara all’immediata scadenza della concessione. Come dimostra l’esperienza concreta, che evidenzia che la gara per il servizio idrico a Reggio Emilia è stata indetta nel 2017-18, 6 anni più tardi della fine della concessione avvenuta a fine 2011, mentre a Rimini, con la concessione scaduta nel 2012, si è proceduti alla gara solo nel 2018. Peraltro, a 10 anni di distanza, queste procedure di gara non si sono ancora concluse!

Quello che rimane, allo stato dei fatti, è che le scelte relative al territorio regionale in tema di acqua e rifiuti sono dettate dalle grandi multiutilities e che la politica si adegua.

Si decreta per via legislativa la prosecuzione delle privatizzazioni per un tempo molto lungo (dicembre 2027), impedendo che si potesse discutere della possibile ripubblicizzazione del servizio idrico. Si tratta In più, siamo in presenza di un vulnus democratico, visto che la gestione privatistica di Hera e Iren rappresenta un vero e proprio schiaffo rispetto agli esiti del referendum del 2011.
Infine, vi è persino un forte dubbio di legittimità giuridica sul come si è compiuta questa scelta: in contraddizione con quanto dispone la legislazione nazionale, con il Codice ambientale 152 del 2006, che dice che la materia degli affidamenti è competenza degli Enti di governo degli Ambiti Territoriali Ottimali – nel nostro caso Atersir – qui si interviene direttamente per via legislativa con una legge della Regione.

L’impressine di fondo è che questo non è provvedimento a sé stante, ma si inquadra in una strategia ben precisa volta a privatizzare completamente il servizio idrico nel Paese.
Basta leggere le pagine del PNRR dedicate alla missione “Tutela del territorio e della risorsa idrica”. Al di là delle risorse stanziate, decisamente insufficienti, il cuore del PNRR in materia è quello della “riforma” per rendere “efficienti” i soggetti gestori del servizio idrico.
Nel mirino, c’è, in primo luogo il Mezzogiorno e molto probabilmente l’azienda di diritto pubblico Acqua Bene Comune di Napoli, la prima e quasi unica esperienza che ha dato compiutamente corso all’esito referendario.

L’intenzione – che peraltro informa tutto il PNRR – è che l’intervento pubblico sia servente nei confronti del mercato, per crearlo e sostenerlo, ed è finalizzato ad aprire la strada alla conquista del Mezzogiorno da parte delle grandi aziende multiutilities quotate in Borsa, per rendere irreversibile il modello di gestione costruito sulle stesse.

Non si può rimanere indifferenti e fermi di fronte a questa situazione.
Il Coordinamento regionale comitati per l’acqua pubblica e la Rete regionale Emergenza Climatica e Ambientale hanno indetto per mercoledì 3 novembre alle 14,30 un presidio sotto la sede della Regione Emilia-Romagna.
Intanto, il
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua organizza una “carovana per l’acqua” che toccherà vari territori e culminerà a Napoli con una manifestazione di carattere nazionale il 20 novembre.

Non ci rassegniamo al fatto che, a 10 anni di distanza, si vorrebbe definitivamente cancellare la volontà popolare espressa con i referendum del 2011, tantomeno che ciò provenga da una regione come l’Emilia Romagna e con il silenzio del Comune di Bologna, che, per bocca del suo neosindaco, ha appena finito di dire che intende ispirarsi alle città più progressiste dell’Europa, come Parigi e Barcellona. La prima ha ripubblicizzato il servizio idrico ancora nel 2011, la seconda è impegnata, nonostante l’opposizione del governo centrale, in una battaglia per fare altrettanto. Qui, invece, sembra di assistere al denunciato blablabla che si nutre di tanti buoni propositi annunciati per poi compiere scelte che vanno in tutt’altra direzione. Ma che, proprio per questo, vanno contrastate e fermate.