Skip to main content

RUSSIA E UCRAINA: CYBER-GUERRA e SOLITA GUERRA

 

A fianco della guerra ‘fisica’ (dove si ammazzano persone e ammucchiano cadaveri) si sta combattendo tra Russia e Ucraina una guerra informatico-cibernetica. Si può parlare di guerra ibrida, anche se le azioni “su terra” sono ancora prevalenti e rischiano da sole di riuscire ad annientare un intero popolo. Da anni l’Ucraina subisce attacchi informatici russi. Uno, ad esempio, ha compromesso una solida infrastruttura quale è la rete elettrica. HermeticWiper è il nome del primo malware russo lanciato in questa guerra. Si tratta di un nuovo virus informatico distruttivo in grado di mettere in difficoltà reti di computer grazie alla sua funzionalità di compromissioni dei dati. Il software dannoso sa penetrare in un sistema informatico e iniziare in tempi rapidissimi a cancellare tutti i dati che appartengono a un’agenzia governativa, rendendoli irrecuperabili.
[https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/hermeticwiper-attacca-lucraina-allarme-anche-in-italia-come-difendersi/ ]

Gli oppositori di Putin non sono stati a guardare e a fianco di Kiev si sono schierati diversi gruppi internazionali di Hackers.
Ma chi sono questi fantomatici hakers e come lavorano?

Hacker è un termine della lingua inglese che designa una persona che utilizza le proprie competenze informatiche per esplorare i dettagli di un sistema programmabile e sperimenta come estenderne l’utilizzo, come modificarlo, orientarlo o annientarlo.
Il nome deriva dalla forma sostantiva del verbo inglese “to hack” che significa tagliare, sfrondare, infrangere, ridurre, aprirsi un varco fra le righe dei codici che istruiscono i programmi software, fra le miriadi di informazioni che popolano il mondo apparentemente imperscrutabile della programmazione.
Non c’è niente di legale in tutto ciò, a meno che la legalità comprenda le azioni fatte ‘a fin di bene’. Ma una idea di ‘fin di bene’ non regolamentata ci porta verso l’anarchia più totale, non a caso molti gruppi di hackers si definiscono appunto anarchici e anche indipendenti, sovra-nazionali, apolitici, de-istituzionalizzati, delocalizzati. Il tema della legalità è sempre centrale in tutte le azioni umane, lo è anche in situazioni di guerra a cominciare dal fatto che quasi tutte le guerre non sono ‘legali’ nell’accezione più rigorosa del termine.

Alcuni gruppi hackers sono entrati a modo loro in guerra, cioè si sono schierati da una parte o dall’altra dello spaventoso conflitto che si sta svolgendo sui confini europei, cominciando a organizzare azioni che possono gravemente compromettere i sistemi (informatici) di protezione delle Nazioni.
Alcuni gruppi hanno anche compiuto azioni dimostrative e di disturbo che sono fondamentali per la compromissione di qualsiasi azione militare, anche di quelle ancora combattute con i carri-armati.

Questi gruppi sono diventati un nuovo esercito con caratteristiche completamente diverse dagli eserciti che abbiamo conosciuto fino ad ora e che nessuno saprebbe come ‘orientare’ in caso di necessità. Arriveremo al punto che nei combattimenti, così come nelle arene politiche, verranno chiamati in campo gruppi di hackers che avranno la possibilità di decidere autonomamente da che parte schierarsi (pro-guerra, contro-la-guerra, per-una-parte-in-guerra, astenuti).
L’impossibilità di escluderli, data la loro pericolosità, li renderà dei nuovi soggetti politici (se così li vorremo chiamare, altrimenti chiamiamoli soggetti-ibridi che fa lo stesso).

È attraverso le loro abilità  che potrebbe scoppiare un cyber-guerra dalle caratteristiche così diverse e imprevedibili da cambiare il mondo o, al contrario, da cristallizzarlo nell’illusione di una staticità tanto finta quanto auspicabile. In un mondo fermo, infatti, nessuno può più ammazzare nessuno.
I sistemi di protezione degli Stati potrebbero, in un futuro prossimo e credibile, essere annientati e la guerra diventerebbe una guerra per il potere fatta da gruppi sovra-nazionali, sovra-politici, sovra-democratici e che si ispirano a codici di auto-regolazione che essi stessi definiscono e difendono (“tutte le guerre sono per il potere, non si fanno guerre salvifiche, la guerra salvifica non esiste, la guerra è la negazione di qualsiasi salvezza”). Il mondo sta cambiando e insieme a lui la nostra possibilità di sopravvivere e di capire.

Ascoltando quel che dicono, a modo loro e spesso in maniera criptica, guardando quel che fanno, si direbbe che gli haker sono persone colte, con una abilità nell’uso degli strumenti informatici alta o altissima, con una idea di mondo e di giustizia che galoppa verso il confine del surreale.

Pensando a questi personaggi che usano maschere, nomi in codice, geo-localizzazioni false, indirizzi internet usa e getta, età finta e sesso ibrido mi viene sempre in mente un libro che ho letto alcuni anni fa e che molti conoscono; Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor). Un romanzo poliziesco dello scrittore e giornalista svedese Stieg Larsson [Qui].
La protagonista si chiama Lisbeth Salander ed è una hacker geniale, esperta di pirateria informatica, in grado di raccogliere informazioni da archivi pubblici, privati, bancari e giudiziari. Nell’ambiente è conosciuta col nickname Wasp. Possiede un’impressionante memoria fotografica che le permette di memorizzare in poco tempo enormi quantità di dati e di informazioni. Una ragazza strana che si interessa di matematica, algebra pura, fisica e logica e qualcuno sospetta che abbia la sindrome di Asperger.

E’ come se il confine tra realtà e finzione si fosse alterato, sembra diventato improvvisamente possibile il mondo dell’impossibile. Un ambiente surreale dove la guerra è tanto reale quanto de-politicizzata e de-localizzata.
Tutto questo convive con la guerra vera che si fa con i carri-armati e che sta devastando una nazione e tutta la sua popolazione.
I morti sono morti, il sangue scorre, le lacrime arroventano la terra. Tanti in Italia hanno colf e badanti ucraine, non fosse che per questo, la disperazione è in tutte le nostre case con una presenza e una forza dettata dalla prossimità, dalla visione diretta di visi sconvolti e sensi protesi a una ricerca continua di informazioni su chi è vivo e chi è morto. Tutto questo non può che stravolge la normale vita di una famiglia facendo sentire tutti in guerra, gradi e piccoli, giovani e vecchi, ucraini e europei, cinesi e americani.

Gli hacker possono utilizzare molte tecniche per sferrare i loro attacchi imprevedibili: la diffusione di malware, le campagne di e-mail e di phishing, le attività di sorveglianza fino alle botnet organizzate. [ https://softwarelab.org/it/hacking/ ]

Le cinque tecniche di hacking più comuni sono:

  1.  Keylogger. I keylogger sono strumenti basati su hardware o software che registrano i dati digitati sulla tastiera delle vittime con l’obiettivo di rubare le loro informazioni personali.
  2. WAP falso. Sempre più persone utilizzano il Wi-Fi pubblici per connettersi a Internet, con questa consapevolezza gli hacker hanno creato un software in grado di simulare un WAP (Wireless Access Point) falso. Le persone che utilizzano il Wi-Fi gratuito finiranno così per visualizzare una lista di nomi WAP solo apparentemente autentici (tipo: “Benetton WiFi 3” o “Aeroporto Malpensa WiFi” o “Punto Pizza WiFi”). Quando le vittime si collegano al Wi-Fi falso, gli hacker possono accedere al loro dispositivo e rubare tutto ciò che vi trovano. Stessa cosa può succedere a un civile russo che vuole comprare bombe, o a un ospedale ucraino dove serve ossigeno.
  3. Attacchi DDoS. Gli hacker possono utilizzare software dannosi per creare Botnet. Le Botnet sono reti di dispositivi connessi a Internet e controllati da remoto. Sfruttando le botnet, si possono scatenare attacchi DDoS (Distributed Denial of Service) verso siti web e reti informatiche. I dispositivi che costituiscono una botnet generano una quantità impressionante di traffico in entrata verso un sito web o una rete al fine di sovraccaricarne le risorse computazionali e limitarne l’accesso. Questo è ciò che si sta usando per cercare di aiutare l’esercito e i civili Ucraini in una guerra che non vuole nessuno e che tutti sono costretti a combattere per salvare loro stessi, le loro famiglie, la loro autonomia e il loro futuro. Mi viene in mente a questo proposito, una grande verità che ci ha lasciato in eredità la storia. Senza dignità si può cominciare una guerra ma non si può decidere di finirla. Senza una “via d’uscita” nessuno dittatore si fermerà, messo com’è, con le sue spalle al muro da chi lo circonda e dalle scelte scellerate già fatte (dalla scelleratezza non si torna indietro se non attraverso un disconoscimento parziale di ciò che è stato, è un permesso che va accordato a chi si trova suo malgrado nelle condizioni di dover cedere).
  4. Phishing. Il phishing è la forma più diffusa di pirateria informatica e consiste nell’inviare e-mail da indirizzi fasulli (solo apparentemente reali) con l’obiettivo di ingannare potenziali vittime e spingerle ad aprire link e allegati.
  5. Furto di cookie. I web browser utilizzano i cookie per memorizzare password, segnalibri e cronologia di navigazione per consentire una navigazione più veloce. Gli hacker potrebbero intercettare i dati e prendere il controllo della sessione di navigazione. In una sessione seguente, potrebbero accedere ai cookie, così come ai dati di accesso della vittima.

Il gruppo che usa sistemi di hackeraggio più citato in questi giorni è Anonymous [Vedi qui].
Anonymous è una libera associazione di attivisti e hackitivisti (gli attivisti che usano gli strumenti degli hacker per combattere le loro battaglie). E’ un movimento non istituzionalizzato e fondato sull’adesione a determinati obiettivi. L’atto costitutivo di Anonymous è la campagna contro la chiesa di Scientology del 2008. L’istituzione religiosa chiedeva la censura di un video e il collettivo, contrario a ogni tipo di censura, scagliò una serie di attacchi DDoS ai siti dell’organizzazione.

Proprio Anonimus in questi giorni è diventato il protagonista di alcune azioni di cyber-guerra contro i media russi. Attraverso twitter, Anonimus ha dichiarato la decisione del movimento di inaugurare una serie di attacchi contro la Russia e così, seppur per breve tempo, sono finiti offline i siti del Cremlino, del ministero della Difesa e della Duma. Sono state hackerate anche alcune tv russe, in cui sarebbero andate in onda canzoni tipiche dell’Ucraina. Il collettivo ha modificato anche i dati di navigazione dello yacht personale di Putin, cambiandone nome e rotte. Chissà cosa deciderà di fare domani.

Anonymous non è l’unico gruppo che si è schierato apertamente a sostegno dell’Ucraina. A fianco di Kiev ci sono anche Liberland, Pwn-Bär e Hack Team che sono riusciti a mettere on line i dati di un produttore di armi bielorusso. GhostSecurity, che in passato ha condotto diversi attacchi informatici contro l’Isis. Belarus Cyber-Partisan, che è riuscito a mettere fuori uso alcuni servizi e bloccare alcune tratte ferroviarie, in particolare quella che collega la capitale con Orsha, rallentando il trasferimento di truppe russe.

Può sembrare una guerra virtuale ma in realtà ha effetti molto concreti. La dimostrazione di come i carri-armati si confrontino con altri carri-armati ma anche con un sistema di cyber-guerra assolutamente imprevedibile,  nelle mani di persone che non sappiamo chi siano, se non per quello che loro raccontano di loro stessi.
Per quel che ne sappiamo noi, potrebbero anche essere dei nostri vicini di casa. Che maschere usano i militari della cyber-guerra? Non certo elmi anti-proiettile, ma maschere da buffoni con voci criptate. Sono a-partitici, a-politici, sovranazionali, anarchici … eppure il nostro futuro è anche nelle loro mani, lo sappiamo noi, quanto lo sanno loro.

VITE DI CARTA /
Sarti che chiedono il conto

 

È un mercoledì come tutti gli altri, ma il mercato nella piazza del mio paese non è quello di sempre. Meno gente e meno rumori. Cammino tra le bancarelle e non colgo subito che questa pacatezza è un segnale poco positivo.

Mi ci fa pensare la giovane donna che incontro e saluto: mi dice di essere a casa dal lavoro, perché la ditta presso la quale è impiegata ha sospeso l’attività.” Ah, il caro bollette è arrivato anche da voi”, dico, e non sono originale. Sono parole che registrano il problema del momento e sono sulla bocca di tutti.

Spiego il vuoto della piazza con il calo dei consumi, a cui la gente ricorre per difendersi e tentare di farcela. Stiamo uscendo a fatica da una pandemia e ci prende in pieno una crisi economica.

Meno male che riusciamo entrambe e sorriderci e puntare i nostri discorsi sul ricordo di suo padre che faceva il sarto. Infatti siamo davanti a una esposizione di maglie e abiti, che sprizzano aria di globalizzazione da ogni fibra, i venditori sono cinesi e nella loro sussurrata gentilezza ci propongono a basso prezzo i nuovi capi della primavera. Ripetuti con varietà di sfumature una bancarella dopo l’altra.

“Se ci fosse qui mio padre rimarrebbe strabiliato dalla dozzinalità di questi vestiti e faticherebbe a capire il cambiamento che ha avuto anche un piccolo mercato di paese come il nostro”. Credo anch’io che sia così.

Quando lui ha avuto la sua bottega qui a due passi fino agli anni Ottanta, i clienti, che venivano anche dai paesi intorno e dalla campagna, entravano per ordinare vestiti nuovi o per provare quelli in lavorazione. Tutti capi unici fatti su misura. Magari semplici o fatti con tessuti non troppo pregiati, ma sempre curati in ogni dettaglio.

Di solito la clientela cercava di stabilire subito all’atto dell’ordine la modalità di pagamento: chi chiedeva di pagare a rate, chi pagava una parte del dovuto in natura. Soprattutto i clienti del mercoledì, i campagnoli come dicevo, che venivano in paese con l’automobile per sbrigare le commissioni dell’intera settimana, portavano ortaggi e frutta. A volte uova. Una volta addirittura tre galline, che furono messe a razzolare all’ultimo piano di casa con qualche problema di convivenza poi risolto, facendole finire in pentola tutte assieme.

Ora si comprano capi fatti in serie, chissà in quali laboratori e in quali condizioni di lavoro. Costano poco e finisce che per senso del risparmio e per la loro praticità li comperiamo e li indossiamo. Nessun conto da contrattare, il prezzo è scritto sul cartellino e quello è.

la boutique del misteroUn solo sarto di mia conoscenza non aveva fretta di incassare ed è un sarto di carta, uscito dalla penna straordinaria di Dino Buzzati [Qui] ed è il protagonista di La giacca stregata, il primo racconto che ho letto molti anni fa di questo magico autore.

Prima di tutto vediamo come ci viene presentata questa stranezza: il narratore e protagonista si fa indicare un buon sarto e gli viene consigliato un certo Alfonso Corticella. Si reca a casa sua e fa la conoscenza di “un vecchietto coi capelli neri, però sicuramente tinti. Con mia sorpresa non fece il difficile. Anzi, pareva ansioso che diventassi suo cliente…Scegliemmo un pettinato grigio quindi egli prese le misure, e si offerse di venire, per la prova, a casa mia. Gli chiesi il prezzo. Non c’era fretta, lui rispose, ci saremmo sempre messi d’accordo”.

Che persona simpatica e particolare. Il conoscente che aveva consigliato il Corticella aveva detto di presumere che fosse caro, aggiungendo “lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato”.

Il racconto va letto per intero, riassumerlo non rende bene il senso di onnipotenza e insieme il disagio del nostro protagonista, che trova grosse somme di denaro nella tasca destra della giacca e ogni volta scopre che nel mondo è accaduto “qualcosa di turpe e doloroso”.

La mente gli dice che non può esistere alcun collegamento, ma le somme ricavate da rapine o da omicidi sono ogni volta esattamente le stesse da lui estratte foglio per foglio dalla tasca.

Il finale del racconto, eccezionalmente, deve essere svelato ora:  perché ci richiama alla importanza che ha il fattore tempo in ciò che facciamo e alla tempestività, che dà valore all’agire umano.

Il protagonista, sopraffatto dai sensi di colpa, si libera dalla infernale attrazione dei “divini soldi” e si disfa della giacca stregata. La porta in un luogo isolato e la brucia, mentre una voce alle sue spalle sentenzia “Troppo tardi, Troppo tardi”.

Tornato a casa, non ritrova i tesori che ha accumulato, attingendo infinite banconote dalla tasca ed è costretto a rimettersi a lavorare per vivere.

Ci lascia così, calato in una vita quotidiana di stenti e con parole che ghiacciano: “E so che non è ancora finita. So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora”.

Mentre termino la stesura di questo testo la Russia ha invaso da più parti il territorio ucraino e di ora in ora l’aggressione armata sconvolge l’integrità del paese e le vite dei  suoi abitanti, butta in aria gli equilibri mondiali.

Come mi appare aleatoria la serie delle mie chiacchiere e dei richiami letterari. Vorrei poter incontrare di nuovo la mia conoscente e dirle “Hai visto? Scherzavamo sulla qualità dei capi che tuo padre cuciva nella sua bottega e intanto si faceva la Storia.

Una bella pagina da aggiungere al Suo dizionario già nutrito: arricchire la voce imperialismo. Poi andare alla –s e aggiungere righe a sopraffazione. E alla fine del dizionario, dove si trovano i neologismi, spiegare con maggiore dovizia democratura.

La pagina della lettera –p di pace al momento non è consultabile.”

In realtà, scherzando sui nostri vecchi, non eravamo tanto lontane dall’agire in nome della pace. Perché si agisce anche attraverso i buoni ricordi e con la trasmissione dei valori di pace e giustizia tra le generazioni. Col nostro equilibrio, con l’assennatezza. L’impegno che possiamo mettere.

Papa Francesco divulga che il due marzo prossimo digiunerà per la pace, mentre si moltiplicano le manifestazioni contro la guerra in Italia e negli altri paesi. Si accavallano le sanzioni economiche ai danni della Russia.

E noi, che siamo gente comune, portiamo cibo e beni di prima necessità da inviare il prima possibile agli ucraini nei punti di raccolta religiosi e laici che si stanno attivando. Lontani quanto basta da ogni tentazione di onnipotenza.

Nota bibliografica.

Ancora una volta attingo alla raccolta di racconti di seguito riportata, vera miniera di spunti utili a considerare con distacco e ironia, ma senza indulgenza, come è la natura umana:

  • Dino Buzzati, La boutique del mistero. Trentuno storie di magia quotidiana, Mondadori, 1968

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

Arianna Di Romano: “Ho rubato centinaia di sguardi”
Ferrara, Palazzina Marfisa, fino al 12 giugno

Arianna Di Romano, foto di Andrea Forlani

Ho rubato centinaia di sguardi per renderli eterni negli spazi vuoti della memoria
Arianna Di Romano

Un giorno di una data palindroma, fuori il sole, fa un tepore straordinario per essere il 22 febbraio. La mia pausa dall’infinita ed ennesima giornata in smart working, quello da cui non stacchi mai, che alcuni dicono che fortuna e che fortuna è ma che bisogna saper gestire. Stacco, oggi basta, devo camminare e prendere aria. E poi ieri, incuriosita, ho prenotato questa mostra di fotografia che vi voglio presentare. Cappotto, tuta, scarpe da tennis e via. Da piazza Verdi, verso via delle Scienze, mi dirigo verso via dei Coramari, voglio passare per il parco Pareschi, ci sono tanti bambini che giocano qui, fidanzati che si abbracciano sulle panchine. Era tempo che non vedevo gesti di affetto e di avvicinamento. Tutti assediati dalla paura del contatto. Nelle orecchie le cuffiette con le note di uno dei miei pianisti preferiti Alexis Ffrench. Sono rilassata, finalmente. Arrivo a fine di corso della Giovecca, alla Palazzina Marfisa d’Este, dove sono diretta per vedere la mostra fotografica di Arianna Di Romano, Oltre lo sguardo.

La purezza. Popoli delle montagne, Laos, 2015

La ragazza alla reception che mi fa il biglietto e dalla quale acquisto il catalogo della mostra è molto gentile, altrettanto la hostess della sala, alla quale ahimè non ho chiesto il nome, ma con cui mi metto subito a commentare. Non posso fare a meno di parlare con chi passa le sue giornate nelle sale di museo, mai. È una mia abitudine un po’ birichina. L’allestimento è semplice ma molto indovinato. Una sala dei ritratti ospita ritratti, i soffitti affrescati e il mobilio scuro fanno da cornice. Le fotografie sono avvolgenti e parlano da sole, tutte rigorosamente in bianco e nero, salvo quattro a colori, almeno ne ho contate quattro. Ogni foto ha una sua anima profonda e unica, ci si fa un’idea, salvo poi rimanere stupiti dai titoli. È il racconto di frammenti di umanità raccolti in giro per il mondo, un invito allo spettatore a spingersi “oltre lo sguardo”, oltre l’illusoria, e spesso fuorviante, apparenza del dato reale, alla ricerca di una diversa, e autentica, bellezza. Il bianco e nero ha una forza prorompente, ogni ruga di viso viene esaltata, quasi a voler sottolineare quanto quell’essere profondamente scavate porti sofferenza o magari semplicemente un vissuto lungo e intenso. Quelle vene mi ricordano i rami degli alberi.

Torno indietro con la mente alla mia adolescenza, quando mamma tentava di imbrigliare e direzionare la mia creatività senza orientamento nelle lezioni di pittura del maestro Goberti nella chiesa sconsacrata di piazzetta San Nicolò. Quanta enfasi sul chiaroscuro, sull’importanza delle sfumature e dei contorni dei disegni a carboncino. Quanto sforzi per dare le giuste ombre, per enfatizzare le profondità e le dimensioni, per imprimere un tratto originale e distintivo. Dal buio alla luce, in un’armonia e armonizzazione fatte di reciprocità. Qui rivedo quel tentativo, molto meglio riuscito, di trovare la giusta dimensione, di comunicare la corretta angolatura.

Mi perdo nelle immagini delle sale, ancora ho letto poco sull’artista, lo farò a casa, catalogo in mano e consultazione della rete. Voglio prima vedere bene il suo lavoro, non lasciarmi influenzare da nulla di scritto, detto o letto. A ruota libera, come faccio sempre quando visito una mostra, soprattutto di fotografia. Se mi guida da qualche parte, perfetto, altrimenti chiudo lì, amici come prima. Ho solo letto che Arianna segue e aiuta gli ultimi della terra e che ha viaggiato molto. L’essere un garbato viandante che coglie le anime che incrocia sulla sua strada mi accomuna e avvicina a lei. Un buon inizio.

L’attesa. Transilvania, Romania, 2019

Questa brillante fotografa si è spostata con il suo obiettivo dai più remoti villaggi del Sud Est asiatico, della Romania e della Polonia, fino ai campi profughi e rom in Serbia e Bosnia, dai paesi della sua terra natale, la Sardegna, alle celle di un carcere siciliano. La sua sensibilità l’ha portata a focalizzarsi sulle vite “difficili” degli emarginati, degli indigenti, dei senzatetto, dei ragazzi di strada, dei gitani, dei detenuti, dei poveri, degli anziani rimasti soli. Spicchi di vita comunitaria, tradizioni antiche. Nuovi mondi da scoprire.

La fuga. Artisti circensi, 2018

Le foto più belle, a mio umile avviso, sono quelle della Sicilia, forse anche perché amo questa terra fatta di sole, sensazioni, colori e profumi intensi. Anche in bianco e nero si colgono i colori. La fragilità di alcuni personaggi ripresi in diversi momenti della vita quotidiana, fatta anche di confessioni e balli, è disarmante.

Mi soffermo su Dentro la storia (Sicilia 2016), quella signora mi ricorda le fotografie delle mie nonne (soprattutto per le mani rugose che reggono la foto nella foto), abbigliate a festa, con il bel cappottino a quadretti e l’elegante (e nuovo) rossetto rosso brillante, per la passeggiata domenicale con la famiglia, magari a braccetto di papà.

Dentro la storia, Sicilia, 2016

Le confessioni sulle scale di Gangi (Sicilia, 2019) mi fa pensare al saliscendi di chi sbaglia e torna indietro, per cadere e rialzarsi, inciampando, ma cercando sempre di (ri)salire, Quei dubbi (Pietraperzia, Sicilia, 2015) mi ricorda un simpatico Don Camillo d’altri tempi.

Confessioni Gangi, Sicilia, 2019
Quei dubbi. Pietraperzia, Sicilia, 2015

Il ricercato dei Murales Animati di Orgosolo (2021) se ne sta seduto sfacciatamente alla finestra, quasi a voler direi sono qui, è inutile che cercate, tanto mi fermo qui e non mi pento di certo di quello che ho già fatto. Che peraltro potete leggere chiaramente perché affisso a chiare lettere sul muro scalcinato (attentato al diritto allo studio, tentato inscatolamento di persone in un pullman, latitanza prolungata da tutte le assemblee studentesche…).

Murales Animati di Orgosolo, 2021

Il ballo di Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta (2016) ci porta in una sala di ristoro di un pomeriggio tiepido e spensierato, un po’ di leggerezza dalla fosca pesantezza che sta attorno, una casa di riposo. La signora anziana, elegante, con il suo cappello, le scarpe dorate e i suoi gioielli più buoni, sorride più della suora, un po’ più seria e altera, ma si intravvede comunque una sorta di complicità serena che ci fa bene.

Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta, 2016

La Cambogia, la Thailandia e il Myanmar sono molto presenti: gli occhi parlano, le mani, le rughe e le schiene ricurve pure. Ho ricordi intensi del mio breve viaggio in Myanmar, quando ancora si sperava un po’ di più; l’oro delle pagode di Yangon mi avvolge ancora l’anima.

Qui la mia anima accarezza quelle di Arianna e dei suoi ritratti. Mi sento un tutt’uno. Un mondo che si tocca, che si parla, che si lecca le ferite, vite che si sfiorano e si riconoscono. Parte di un tutto potente e meraviglioso, di un mondo che ha energia e voglia di vivere. Non di sopravvivere, almeno non più. Quello non basta più. Il dialogo qui è fatto di mani e occhi che si sfiorano. In quegli occhi di bambini e donne vedo le sofferenze che sono di ognuno di noi ma che ci fanno sperare, una volta inciampati, caduti e rialzati. Una delicata empatia.

Gli sguardi delle bambine e delle donne ci accompagnano ancora, come in Donne e songhtaew, l’affollato veicolo trasporto passeggeri (Bangkok, Thailandia, 2015).

Donne e songhtaew. Bangkok, Thailandia, 2015

Arrivata a oltre metà percorso, noto le tre foto a colori, esse chiudono la fila delle immagini della sala, così come un’ultima foto a colori, intitolata Nell’antica capitale (quartiere di Gion, Kyoto, 2015), chiuderà l’esposizione. La vita scorre su queste immagini, quella più vera, con la sua intensità e precarietà. Ma anche fatta di infinita bellezza.

Nell’antica capitale, quartiere di Gion, Kyoto 2015

La monaca di spalle (Angkor Wat, Cambogia, 2014) illumina la sala con il suo abito arancione, se non fosse per la didascalia penserei a un monaco dai capelli grigi, appoggiato a un bastone che regge la sua fatica data da un’intensa preghiera per un mondo che non comprende l’importanza dell’essere umano e della vita. Una preghiera che a noi pare cadere nel vuoto, soprattutto oggi, ma che la monaca sa essere importante. La guerra non è mai la soluzione. Quell’incedere zoppicante fa molta tenerezza ma allo stesso tempo emana una forza immensa. Appesi a una speranza, molti di noi, tutti. Ma senza mollare, mai.

La monaca. Angkor Wat, Cambogia, 2014

La scalinata riempita di fiori rossi e arancio dei Giardini della città imperiale Hué (Vietnam, 2016) ci transita nell’ultima sala. I colori dei fiori contrastano con quelli del cielo, ma non lasciano spazio alle nubi. Il marmo è vivo. I dragoni distesi osservano.

Giardini della città imperiale Hué, Vietnam, 2016

Fino al ritrovarci avvolti dalla precarietà degli ultimi del carcere di Caltagirone ne La speranza (2021), dove Arianna ha condiviso, con alcuni ragazzi, un percorso di avviamento alla fotografia. Resta sempre un barlume di speranza, per tutti.

La speranza. Casa circondariale di Caltagirone, 2021

Torno a casa, soddisfatta e, ammetto, un pò commossa. Ceno. Subito dopo mi siedo in poltrona. Ora posso cercare qualche informazione in più su Arianna Di Romano e sfogliarmi bene il catalogo. Faccio sempre così, mi piace mantenere questa abitudine rilassante.

Arianna è sarda ma siciliana di adozione (oggi vive nel piccolo e armonioso borgo di Gangi, sulle Madonie), le sue fotografie vengono paragonate a quelle di maestri come Elliott Erwitt e Robert Doisneau per poesia e composizione, Sebastião Salgado per il trattamento dell’immagine, Sergio Larrain e Dorothea Lange per l’attenzione agli ultimi.

“Fotografando, scavo nell’umanità dimenticata – ha spiegato Di Romano – che amo e di cui vorrei trasmettere la bellezza. Vivo le sensazioni che provano le persone che ritraggo, mi identifico in loro. Continuamente cerco me stessa nell’altro”. È una donna curiosa, sensibile, felice e impaziente. Veloce. La rassegnazione è la condizione umana che l’artista ha registrato più frequentemente, fissandola ma anche sfuggendole. Pochi i sorrisi, molto lo stupore nell’essere riconosciuti e considerati. Ma la vita corre, si muove, non aspetta.

C’è tecnica sicuramente, precisione e osservazione ma anche cuore e tanta magia. Oltre lo sguardo significa soprattutto andare aldilà di quello che gli hindu chiamano maya ossia l’illusoria e fuorviante apparenza del mondo fenomenico, per cogliere l’anima dei soggetti umani. In Malesia l’hanno denominata “ladra di anime”. Gli abitanti, in gran parte animisti, non volevano farsi ritrarre per timore che venisse rubata loro l’anima. “Quello che mi spinge a fotografare – dice – è proprio rubare uno sguardo profondo. I volti che incontro li rubo, perché appartengono a persone che non sono mai in posa, sono tutti sguardi che quasi sicuramente non incontrerò mai più. Spesso non riesco a comunicare con loro. Rubo quegli sguardi per dare loro una voce”. E noi, quella voce, l’abbiamo sentita, forte e chiara.

I colori della festa. Cagliari, Sardegna, 2018

Tutte le opere © Arianna Di Romano / Kingford

 

Arianna Di Romano – Oltre lo sguardo

Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este, 20 febbraio / 12 giugno 2022

Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzata da Comune di Ferrara – Servizio Musei d’Arte e Fondazione Ferrara Arte, in collaborazione con Kingford.

Giorni e orari di apertura

9.30-13 / 15-18 | Chiuso il lunedì

Prenotazioni

https://prenotazionemusei.comune.fe.it

Ucraina: al confine del genere umano, dove la guerra non è tabù

 

Ukraina, ovvero: sul confine.

Il mondo è già pieno di virologi che si sono appena riconvertiti in esperti di relazioni internazionali. Quindi non c’è bisogno che io mi aggiunga alla lista come esperto riqualificato, per quanto lodevole possa essere l’intento di acquisire nuove competenze da spendere sul mercato delle cazzate. Mi limito sommessamente a qualche osservazione.

La NATO è una alleanza militare, fondata nel 1949. Essa fu fondata dagli Stati occidentali vincitori della seconda guerra mondiale come argine alle mire espansionistiche dell’altro vincitore della guerra contro il nazismo, il vincitore “orientale”: l’URSS. Simbolo di questa contrapposizione è Berlino, la città del Fuhrer, entrata nell’orbita dell’Unione Sovietica per la sua collocazione geografica, e sineddoche della Germania sconfitta e poi suddivisa tra i vincitori in Germania Ovest, sotto l’ombrello occidentale, e Germania Est, aderente al Patto di Varsavia, nato nel 1955 come alleanza militare uguale e contraria alla NATO. Sia l’una (Berlino) che l’altra (la Germania) furono letteralmente oggetto di spartizione territoriale tra vincitori occidentali e vincitori orientali (nota: nutro un’ammirazione sconfinata e inquieta per la Germania. Nessuna nazione sarebbe riuscita a ridiventare la locomotiva economica dell’Europa poco dopo che i vincitori si erano divisi le sue spoglie. Pensate solo a cosa saremmo diventati al suo posto. Pensiamo a cosa siamo in effetti diventati).

State tranquilli: chi parteggia per la NATO dirà che gli imperialisti, gli espansionisti sono i russi. Del resto, come dar loro torto quando lo Stato retto dallo Zar Putin, in tempo di “pace”, si riprende con l’esercito la Crimea e adesso bombarda l’Ucraina?

State tranquilli: chi parteggia per la Russia dirà che gli imperialisti, gli espansionisti sono gli yankee, spalleggiati dagli euroccidentali e dagli stati dell’est che hanno aderito alla NATO, per cui ormai la Russia è circondata. Del resto, secondo voi cosa farebbe Biden se Putin gli piazzasse dei missili Cruise in Messico? Vi siete scordati di Cuba, della Baia dei Porci, del Vietnam, del Cile?

Entrambi hanno le loro ragioni. L’unico dettaglio è che si tratta di ragioni costruite con la testa rivolta all’indietro, la direzione prevalente cui sembra guardare il genere umano, ed in particolare i suoi esponenti di vertice, gli uomini di potere. Personalmente, mi rifiuto di iniziare con l’escalation della realpolitik d’accatto, di cui tutti siamo capaci quando ci mettiamo a fare gli strateghi della domenica. Mi rifiuto di appuntare l’attenzione sul fatto che il Patto di Varsavia non esiste da più di trent’anni, mentre la NATO vive e lotta insieme a noi e continua a inglobare aderenti tra i paesi dell’ex cortina di ferro (e ripeto, la NATO è un’alleanza militare, non un cartello economico). Mi rifiuto di approfondire che, quindi, uno zar di stampo prebolscevico si possa sentire accerchiato e si senta autorizzato a bombardare un ricco paese confinante che rischia di ripresentargli interessi ed armamenti yankee sul muso, nel cortile di casa. Mi rifiuto di approfondirlo non perchè non meriti un approfondimento – anche le cose orribili non accadono per caso – ma perchè mi rifiuto di accettare che la soluzione sia il greve assalto putiniano.

Mi rifiuto altresì di pensare che Putin sia un pazzo, un malato di mente. Tecnicamente, non lo è. Eppure manifesta una patologia mentale collettiva, alimentata da una sorta di coazione a ripetere, che la psichiatria descrive come la tendenza a compiere atti psichici per un irresistibile bisogno interno, contro il quale nulla possono il ragionamento e la volontà.

Fare la guerra è un atto psicotico, eppure la specie umana non fa che ripeterlo. E’ inoltre un atto profondamente classista: la guerra la dichiarano i potenti, ma la pagano gli indifesi e i poveri, sia tra i “vincitori” sia tra i vinti.

Appunto invece l’attenzione sul fatto che l’umanità non riesca ad elaborare quello che Gino Strada definiva “il tabù della guerra”. Il tabù è un comportamento che ripugna talmente la coscienza comune da essere inammissibile alla stessa, al punto da non avere bisogno di una sanzione per essersi compiuto, perchè la sua inammissibilità è tale che non si compie. Come l’incesto, la necrofilia, la zooerastia. Un sacrilegio non religioso, ma ontologico. No. La guerra continua ad essere un’attività prediletta da molti esseri umani, che credono di realizzare attraverso di essa scopi abietti o nobili, ma il problema è la mancata elaborazione del fatto che il mezzo (la guerra) sia talmente inaccettabile da oscurare la nobiltà di qualunque fine.

Personalmente ho il tabù della guerra. Questo tabù mi impedirebbe di rispondere ad una chiamata alle armi del mio paese per andare a combattere in un paese straniero con lo scopo di ammazzare persone che non conosco e non mi hanno fatto niente. Diserterei, senza il minimo dubbio. Preferirei passare anni in carcere per diserzione che andare a combattere una guerra. Naturalmente, non sono ucraino: chi imbraccia un fucile per difendersi dall’aggressione di un nemico che ti vuole uccidere non sta combattendo una guerra, sta facendo una resistenza che, in un determinato contesto, non può che diventare armata. In tutti gli altri casi, un popolo di disertori è largamente preferibile ad una legione di volontari o coscritti addestrati ad ammazzare sconosciuti, che in una situazione diversa sarebbero chiamati killer, cecchini, sicari.

Invece l’umanità non riesce a sedimentare il tabù della guerra. Anzi, i potenti del mondo continuano a trastullarsi periodicamente con questo gigantesco incesto dell’uomo contro l’uomo, convinti di vincere qualcosa.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

Sole rosso sangue sull’altipiano (prima parte)
…un racconto

Sole rosso sangue sull’altipiano (prima parte)
Un racconto di Carlo Tassi

Manio ha dieci anni, sua sorella Naki sei.
Manio è andato al fiume con due taniche da riempire, serve l’acqua per bollire le patate e impastare la farina di sorgo per la sera. Sua nonna Keya è una brava cuoca e lo aspetta al villaggio.
Manio è sulla riva assieme alla sorellina, la rincorre lanciandole manciate di fango senza colpirla, Naki ride e scappa andando a ripararsi da suo nonno Coffie.
Coffie è il più anziano del villaggio e tutte le mattine accompagna i nipoti al fiume. Lui è considerato il più saggio di tutti e tutti al villaggio lo rispettano, ma dai nipoti si fa prendere in giro volentieri.

Il sole è grande: un cerchio rosso che riempie il cielo e scalda e regala un altro giorno di vita. Ma l’acqua è altrettanto importante, come la pioggia che riempie il fiume due volte l’anno. Il sole e l’acqua spesso si fanno la guerra, ma servono entrambi, servono alla vita.

Manio sogna un regalo: un pallone per giocare coi cugini Obie e Gali. Come quello che ha visto un giorno alla tv della scuola di Arawala. C’era una partita tra due squadre europee di cui non ricorda il nome, ma quei giocatori bianchi e neri con le maglie tutte colorate erano bravi, velocissimi con quel pallone tra i piedi.

All’improvviso due scoppi sordi, violenti, poi altri ancora, raffiche e poi urla lontane. Provengono dal villaggio che dal fiume dista circa mezzo miglio.
Coffie chiama a sé i nipoti, è allarmato, dice sottovoce che devono andare a ripararsi dietro quell’anfratto tra la riva e un grosso cespuglio di acacia, glielo indica. Poi si raccomanda con Manio di stare accanto a Naki, di proteggerla e di stare nascosti fino al suo ritorno.
Coffie dà un’ultima occhiata ai nipoti, il suo sguardo è un ammonimento a fare ciò che ha ordinato, ma c’è dell’altro: forse è uno sguardo d’addio.
Poi s’allontana camminando spedito verso il villaggio.

Manio si acquatta al terreno abbracciando sua sorella e guarda in alto il cielo azzurro dell’altipiano, immenso velo che sovrasta tutto fino all’orizzonte irraggiungibile delle montagne color porpora. Suo nonno gliele ha raccontate tante volte: montagne che nascondono altre montagne e altre ancora. Montagne mai viste ma immaginate, sognate. Quanto è grande il mondo…

Manio apre gli occhi, è buio ormai, si è addormentato mentre aspettava.
Si guarda attorno: sua sorella dorme e il nonno non è ancora tornato.
Si alza in piedi e vede che sopra il villaggio il cielo è insolitamente illuminato: un sole invisibile ha acceso la notte di rosso sangue. Bagliori ardenti si alzano dall’oasi del villaggio crepitando, come gli sbuffi ruggenti dei draghi delle favole.
Manio non ha paura del buio ma pensa che il nonno non volesse che restassero al fiume anche di notte. Decide di tornare al villaggio, sveglia la sorella, prende le due taniche piene d’acqua e si avvia. Naki, ancora mezza addormentata, lo segue in silenzio…

CLICCA QUI PER LEGGERE LA SECONDA PARTE

Living Darfur (Mattafix, 2007)

Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

Sono capace di fare la pace?

 

Alla manifestazione di ieri a Ferrara “No War in Ucraina” indossavo questo cartello. Portavo la mia bandiera della pace e ne sostenevo una enorme, insieme ad altri e ad altre. Sono stato in silenzio ad ascoltare le parole dette da chi è intervenuto. Sono stato tentato di condividere i miei pensieri.
Non l’ho fatto ma provo a farlo qui.

Anche io ho paura della guerra ma ho paura soprattutto di chi è capace di dividere le guerre fra quelle vicine e quelle lontane.
Ho paura di chi pensa esistano guerre giuste o guerre sante.
Ho paura di chi individua “i cattivi” con grande facilità.
Ho paura di chi salva “i buoni” con molta superficialità.
Ho paura di chi dividerà i profughi tra quelli da accogliere perché hanno la pelle bianca e quelli da respingere perché hanno la pelle di un altro colore.
Ho paura dell’ipocrisia di chi non vuol vedere che il nostro Paese vende armi che uccidono in questo ed in altri conflitti.
Ho paura di chi si indigna di sabato pomeriggio ma al sabato sera gli è già passata.
Ho paura di chi insegna a scuola educazione civica ma poi non se la sente di affrontare in classe una discussione sui conflitti.
Ho paura di chi non si chiede da dove cominciano le guerre.
Ho paura di chi non si preoccupa dei semi di violenza che coltiviamo involontariamente.
Ho paura perché mi accorgo che per fare una guerra serve davvero poco mentre per fare la pace serve moltissimo tempo.
Ho paura ma penso che per fare la pace occorra partire da noi e dal nostro rispetto costante e quotidiano verso gli altri.
Ho paura ma credo sia ora di chiedersi cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo.

Non ho risposte valide per ognuno ma credo sia utile cominciare a lavorare su di noi.

Ad esempio, a scuola non possiamo chiamarci fuori e fingere che i bambini ed i ragazzi non siano preoccupati: occorre ascoltarli, aiutarli a dialogare e confrontarsi, insegnargli a litigare bene, raccogliere testimonianze, far riflettere, partecipare ad iniziative di solidarietà, tenerli stretti, …

La guerra non si fermerà per questo ma forse si inizieranno a piantare i semi di una consapevolezza maggiore verso la complessità del nostro tempo, forse si riuscirà ad offrire qualche strumento per affrontare le incertezze e per riflettere sulla condizione umana.
Forse si potrà far ragionare sull’assurdità di questa e di tutte le guerre.
Forse, in questo modo, si potrà fare la pace.
Forse, così facendo, si riuscirà a fare scuola.
Forse…

UNA PIAZZA DI “PACE”?

 

Spiace dover deludere la narrazione confortante e un po’ retorica della piazza gremita di persone manifestanti per la pace e contro la guerra, senza se e senza ma. Non è quello che ho visto e sentito.

In piazza a Ferrara, sabato 26 febbraio, tirava una brutta aria.

Dopo l’apertura del segretario della CGIL Cristiano Zagatti, che ha fatto un intervento articolato sulle implicazioni sia umane che politiche della situazione di guerra, ha preso la parola Daniele Lugli del Movimento Nonviolento, il quale è stato costretto a interrompere l’intervento per le continue grida di richiesta di alzare la voce dalle retroguardie della piazza, che non riusciva a sentire.

Ora, se è normale che, all’inizio di un discorso, si chieda di alzare la voce al microfono un paio di volte, non è normale continuare a urlare “Alza la voce! Non si sente! Più forte!” per tutta la durata dell’intervento, disturbandolo, sovrastandolo e infine scoraggiando l’oratore tanto da farlo sentire inadeguato e costringendolo ad interrompersi bruscamente a metà discorso per passare il microfono a qualcun altro. Con grande umiltà, come sempre, Daniele si è fatto da parte schermendosi ed offrendo la parola “a chi si fa capire meglio di me”.
Questa insistenza sguaiata e maleducata mi ha molto infastidita: queste persone non hanno mai partecipato a dei presidi organizzati in poche ore, a dei flash-mob chiamati sotto l’urgenza del momento? Non sanno che si porta in piazza al massimo un megafono o un microfono con una cassa e che non ci sono il palco e l’impianto di un concerto degli U2? Non capiscono che se ci si trova in una posizione laterale o distante sarà difficile sentire, ma che non ha senso voler prevaricare chi parla ed impedire a tutti quanti di ascoltare? E soprattutto: si rendono conto che stanno partecipando a una manifestazione per la PACE e che è importante esserci, e pazienza se non si riesce a vedere e sentire tutto?

Posso capire il dispiacere di non riuscire ad ascoltare bene, ma questo atteggiamento a mio avviso rivela l’autoreferenzialità, la smania di essere protagonisti, di esigere attenzione e riscuotere in maniera arrogante quello che si crede spetti di diritto. Malattie pervasive del nostro tempo.

Io mi trovavo in una posizione privilegiata, esattamente di fronte al punto del microfono. Non mi ci è voluto molto per trovarmi lì: mi sono semplicemente spostata per raggiungere il centro della manifestazione per ascoltare. Questo di Daniele è stato solo l’inizio di una serie di avvenimenti sgradevoli e preoccupanti.

Dopo ha parlato una signora ucraina, un intervento molto toccante e angosciante: piangendo, ha raccontato di essere la madre di un ragazzo che è ora soldato al fronte, ed è straziata dal terrore che gli succeda qualcosa. C’era un clima di forte commozione umana quando ha preso la parola Stefania Soriani, segretaria di Rifondazione Comunista, che invece ha fatto un intervento molto politico e di netta condanna le responsabilità della Nato in questa e altre guerre e nella crescente militarizzazione del nostro continente, chiedendo l’uscita dell’Italia dalla Nato e lo scioglimento della stessa alleanza atlantica. Un contenuto, a mio avviso, condivisibile, ma forse non del tutto in sintonia, sempre  a mio avviso, in quel contesto dove era presente una numerosa comunità ucraina in grande tensione emotiva, composta soprattutto da donne molto preoccupate per la sorte delle loro famiglie là: forse questo era il momento di riunirsi semplicemente in una vicinanza umana alla popolazione civile ucraina, nel nome della solidarietà tra popoli e della richiesta di immediata cessazione delle azioni di guerra.

In ogni caso, Stefania è stata risoluta ma certamente non offensiva, tuttavia non ha potuto terminare il suo intervento perché è stata zittita da due diversi gruppi di persone: parte della comunità ucraina ha reagito molto duramente alle sue critiche alla Nato, perché è evidente che parte della comunità ucraina presente vorrebbe entrare nella Nato e vorrebbe combattere contro la Russia, e non solo per difesa. Si deve dire che non c’erano solo istanze pacifiste in piazza, che è spuntata una bandiera nera e rossa del partito nazionalista di estrema destra ucraino, che alcuni manifestanti ucraini, dopo aver cantato l’inno nazionale (che ci sta), hanno salutato con il braccio teso.

Non è un episodio limitato a Ferrara. Queste stesse cose stanno succedendo in altre piazze italiane (https://www.24emilia.com/reggio-alla-manifestazione-per-la-pace-in-ucraina-anche-una-bandiera-neonazista/) e non dovrebbero essere tollerate. Le modalità e i contenuti delle manifestazioni per la pace vanno dichiarate in maniera netta e chiara.

Soriani è stata contestata in modo violento e ingiustificabile anche da un gruppo di italiani che si trovava alla mia sinistra, che aveva cominciato prima borbottando piano dei commenti del tipo “E meno male che c’è la Nato. Meno male che abbiamo le basi qui così ci difendono”, per poi passare apertamente a gridare “Stai zitta! Basta! Vattene!”.
Massimiliano Diolaiti della CGIL ha provato a far ragionare queste persone, in maniera molto calma, dicendo loro che non era quella la modalità per manifestare il dissenso, e che anche loro potevano esprimere la loro opinione al microfono, ma in maniera civile.
Alla mia destra invece si trovava un gruppo di ragazze e ragazzi giovani, universitari iscritti a Ferrara (ho saputo poi). Da questo gruppetto è partita una ragazza che ha preso il microfono e ha detto a tutti i contestatori sguaiati ed aggressivi che si dovevano solo vergognare per aver reagito in quel modo contro una signora che stava cercando di analizzare la situazione ed esporre delle opinioni. Poi è tornata dai suoi amici ed è scoppiata in un pianto di emozione, rabbia, sdegno, dimostrando un profondo senso della giustizia. L’abbiamo tutti ringraziata, noi lì vicino, per il suo gesto coraggioso e pulito.

Ci sono stati altri interventi, più o meno apprezzati, più o meno compresi. Ci sono stati momenti di forte partecipazione emotiva. Fondamentali i richiami di Girolamo De Michele di Mediterranea Saving Humans nei confronti dei profughi che tutte le guerre creano, e verso i quali la commozione e la solidarietà durano il tempo delle flash-news, per poi tornare ad essere un problema da respingere; così come necessarie sono state le parole di Cristina Zanella di Udi Ferrara e Manuela Macario di Arcigay che hanno ricordato la presenza fondamentale e silenziosa del lavoro di cura che svolgono nella nostra società le donne dell’est, e come da questo valore della cura si debba ripartire per ricostruire le nostre relazioni quotidiane.

Alla fine alcune signore ucraine hanno intonato l’inno nazionale ed alcuni slogan: gloria all’Ucraina, gloria ai militari ucraini.

Resta la sensazione preoccupante che poche persone fossero in piazza per un pacifismo consapevole. Non si può venire a manifestare per la pace e zittire le persone. Restano comprensibili la rabbia, lo sgomento, anche il patriottismo della popolazione ucraina di fronte a un attacco ingiustificabile, ma non si può pensare che la pace sia la vittoria militare sulla parte avversa. Non si può pensare che la pace sia garantita dall’aumento di basi ed armamenti militari.

Non si può ridurre ogni dibattito, ogni lancio di notizie, ogni piazza ad una bieca e sterile tifoseria.

PER CERTI VERSI
Cangatta

CANGATTA

Si svuota
La domenica
Già vuota
Di suoni
Ascolto il fiato
Del mio cane
A ritmo dei passi
È giovane
Vorrebbe
Saltare addosso
Alle macchine
Mi spaventa
E mi fa ridere
È un cucciolo
Vederlo giocare
Con la micia
È l’essenza del gioco
E del mistero
Di due pianeti
Lontani
Che nuotano
Nelle ciambelle
Di altri universi
Poi la gatta
Entra col topo
Come fosse un gomitolo
E lui il cane
Arriva serio
E lo mangia
Lei guarda me
Con occhi interrogativi
Tra l’umano
E il cartone animato
Come se dicesse
Ma davvero
Non ha capito
Che fosse un gioco?

I pianeti ora
Sono tornati
Nei loro mondi
Anche se per poco

Post poesia :

Come potremmo essere noi umani
Se volessimo davvero
Abitare la terra

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Manitas : la sapienza del Sapere delle Mani contro il Pensiero Unico

 

Quando esce un libro è sempre una gioia. È un piccolo tesoro di parole e di idee che volano nell’aria se, come nel caso del libro di cui voglio parlarvi, risuonano nei cuori e aprono le menti.
È il caso del romanzo Manitas dell’amico Gianni Vacchelli che è uscito il 3 febbraio e al quale voglio dedicare qualche pensiero.

Manitas  porta con se un contenuto unico e speciale. È la storia di una bambina, Angelica, che sviluppa pensiero grazie all’intelligenza delle sue mani, un’intelligenza che oggi noi abbiamo delegato alla tecnologia. Le nostre mani si sono fuse con la  tecnologia fino a non conoscere più dove finisce il corpo e inizia l’artificio.
Ci hanno convinto che siamo corpi imperfetti e necessitiamo di protesi artificiali per potere vivere.
Ma questa bambina, non del tutto ancora assoggettata a questa cultura, intuisce, capisce ed elabora pensiero seguendo le sue di mani e quelle della nonna. Sarà proprio l’eredità che riceve dalla nonna che la spingerà a non disperdere la conoscenza delle mani. È un’eredità che risuona in tutti noi, perché è passata per millenni attraverso le generazioni, e ci ha sempre indicato che oltre all’intelligenza logica, astratta della mente c’è un’intelligenza del cuore che passa attraverso gli arti e gli organi del nostro corpo.

Un corpo intelligente, capace di produrre reazioni biochimiche, reazioni complesse che vanno a integrarsi a quell’intelligenza razionale, così esaltata dal nostro mondo occidentale, fino ad acquisire un potere capace di cancellare tutti gli altri.
Ebbene, questo libro acquista un ‘importanza rilevante proprio in questo momento storico perché siamo difronte a uno scontro epocale. Da un lato uno sguardo sul mondo che parla solo dell’imperfezione dei nostri corpi, della necessità di incrementarne artificiosamente l’efficienza dei corpi, come fossero macchine. Dall’altro chi sa che l’essere vivente è molto più di una macchina, che il nostro essere è molto complesso e che la tecnologia non arriva neanche a copiare un decimo della competenza  e della complessità di cui è capace ogni corpo vivente.
Dove per corpo si intende corpo fisico e spirituale come due entità non separate e separabili.

Tutta questa altissima riflessione si snoda con semplicità attraverso le vicende, le fatiche, le scoperte, anche scomode e dolorose, che Angelica si trova a vivere. Angelica, nella contemporanea Milano, vive e cresce attraverso una esperienza mistica.  Le radici terrene,  radici profonde conficcate nella terra, nella terra madre sono il terreno sul quale cresce l’albero della conoscenza dando forma a panorami sempre diversi grazie all’unicità di ogni essere umano.

Vale la pena leggerlo questo romanzo.
Non è un caso se è uscito in questi tempi estremi, tempi in cui sembra primeggiare l’ideale delle identità fluide, digitali, dove l’incarnazione sembra un ostacolo alla realizzazione dei propri sogni. Mentre l’incarnazione, se non è pensata e vissuta come pura materia, ma come un mondo più complesso di energia sottile, può aprire a un futuro nuovo e di salvezza.

Ho amato moltissimo la sapienza del sapere delle mani, punto di partenza del viaggio di Angelica.
Noi donne l’abbiamo ancora molto radicata, mentre a mio avviso, gli uomini, a parte quei pochi che ancora curano la terra, sembra l’abbiano persa. Anzi forse sarebbe giusto dire che gli uomini tendono a volersene liberare proprio per diventare immortali, perché il sapere delle mani e del ventre di Angelica è un sapere che si misura costantemente con la finitezza (che a me viene di chiamare finitudine, come a dire che c’è una fine che poi apre a un altro cominciare) e con la misura del tempo.

Il fare è sempre legato al tempo, l’essere invece no. La tesi del libro è davvero interessante, che condivido. Siamo a un bivio ed è un bivio antropologico. Con un salto quasi quantico, alla fine del libro il bivio antropologico si palesa, e saranno le parole di Angelica a renderlo evidente.
Io spero sceglieremo di vivere nel mondo di Angelica, dicendo un secco no a un mondo in cui il fine è  cancellare il sapere dei corpi, sapere ancestrale che ci mette in dialogo con l’universo e con il tutto.

Lo  stile del romanzo è molto poetico e ha una forza teatrale. Le parole sono tutte molto dense, a tratti forse troppo, nel senso proprio mistico del termine, il che lo rende un piccolo gioiello.
Certo, la domanda di quanti saranno pronti a vivere questa esperienza forte, resta, perché già i lettori sono pochi e ancor meno quelli che sono disposti a farsi avvolgere da un mondo misterico. E’ comunque una bella scommessa, vale la pena portarla in giro per aprire crepe nel pensiero unico granitico che oggi, senza che ce ne accorgiamo, governa il mondo degli umani dove sembra che “dio sia morto”.

PRESTO DI MATTINA
Segui le orme

 

«Segui le orme del gregge», si legge nel Cantico dei cantici. Che altrove aggiunge: «Se non lo sai, o bella tra le belle,/ cammina sulle orme degli armenti;/ avvia le tue caprette,/ avviale alle dimore dei pastori»: come a dire ancora: «Fatti pastorella, e tu pure, tenendo dietro ai pastori, troverai il tuo amato là, dove si raccolgono i pastori sul meriggio».

Insegnamenti quanto mai attuali in questo tempo per le comunità cristiane, chiamate al pari dell’amata del Cantico a mettersi sulle tracce del gregge in cerca dell’Amato. E con lo stesso slancio: più del vino inebriante il suo amore, il desiderio dei suoi baci più del miele alla bocca; un ardente desiderio che ci conduce fuori da noi stessi, alla ricerca delle sue orme.

Sta per iniziare – mercoledì prossimo – il tempo della Quaresima, tempo di mettere i piedi in movimento nell’amore e nella pazienza di Cristo, calcando le sue orme. Una guida che ci precede nel cammino attraendoci.

A noi è chiesto di essere protesi così come ci invita l’incipit dell’inno liturgico della preghiera mattutina: «Protesi alla gioia pasquale,/ sulle orme di Cristo Signore,/ seguiamo l’austero cammino/ della santa Quaresima».

Sì, ancora una volta, una chiesa in uscita! Perché Lui è sempre in uscita, come viene descritto dalla Lettera agli Ebrei, ove si tratteggia una sequela desiderante e amorosa verso l’Amato: «Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura», (13, 12-13).

Non è un itinerario solo penitenziale, quello della Quaresima, ma un seguire, salendo, l’amore; l’esperienza di ciò che ci manca porta alla ricerca di Qualcuno: la presenza dell’Assente, la Parola viva del Silente, lo sguardo del Vivente, il volto dell’Amato che, dopo la Pasqua, precede ancora e sempre oltre i discepoli nella Galilea nelle genti che è l’umanità di oggi.

Ardisco dire allora che la Quaresima è un cammino verso l’intimità di amicizia e di amore con il Risorto, con la sua umanità trasfigurata e di nuovo nascosta nell’umanità dei fratelli e delle sorelle; un cammino mistico che porta all’indicibile e trasformante incontro, che riunisce la vita degli amici del Nazareno, gli uomini e le donne delle beatitudini come unisce nel Cantico l’Amato all’Amata: «l’amata nell’amato trasformata» (Giovanni della Croce [Qui]).

Ecco perché ai miei occhi è apparsa la possibilità di declinare e vivere il senso di questa Quaresima, cogliendola nella corrispondenza con il testo poetico de Il Cantico dei cantici. Nella sua narrazione ho intravisto una efficace e coraggiosa immagine di ciò che ci attende lungo il cammino e del senso di ogni peregrinazione della fede.

Ho pensato che, se a Pasqua si dovrà intonare il canto nuovo della risurrezione, quale guida più coinvolgente e attraente potrà essere la strada in compagnia del Cantico dei cantici?

Scrive Agostino a commento del salmo 149: «Tutti coloro che in Cristo vengono rinnovati e cominciano ad essere partecipi della vita eterna, cantano il cantico nuovo. E questo è un cantico di pace, un cantico d’amore… Quando canti l’Alleluia, devi porgere il pane all’affamato, vestire il nudo, ospitare il pellegrino… Così esalti Dio con la voce, così canti il cantico nuovo, così dici l’Alleluia col cuore, con la bocca, con la vita». Il canto nuovo è il canto dell’amore perduto e ritrovato, l’Alleluia pasquale.

Si canta dice Agostino quando l’amore vuole manifestarsi, cantare è di chi ama: “cantare amantis est”.

È una sfida che si dovrà affrontare lungo il cammino. Ancora l’inno liturgico ci ricorda: «La legge e i profeti annunziarono/ dei quaranta giorni il mistero;/ Gesù consacrò nel deserto/questo tempo di grazia. Sia parca e frugale la mensa,/ sia sobria la lingua ed il cuore;/ fratelli, è tempo di ascoltare/ la voce dello Spirito».

Origene[Qui], commentando il versetto 3 del salmo 23 del buon Pastore in cui si legge «Mi ha fatto ritornare, mi conduce per sentieri di giustizia per amore del suo nome», così scrive: «Il Cristo cammina in testa, come fa il pastore; traccia il sentiero perché le pecore non abbiano che da mettere i piedi nelle sue orme; più tardi, egli inviterà gli amici alla sua mensa. La giustizia è l’abitudine a compiere azioni giuste» (Il salterio della Tradizione, Gribaudi, Torino 1983, 112).

Nel commentario del poeta e mistico spagnolo Luis de León[Qui] le orme sono le parole dell’amato che dialogano con quelle dell’amata: «“Dimmi; o amore dell’anima mia,/ dove vai a pascolare il gregge,/ dove lo fai riposare al meriggio/ perché io non sia come vagabonda/ dietro i greggi dei tuoi compagni”. Fin qui ha parlato l’amata.

Ora parla l’amato e risponde: “Se non lo sai o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori. Non può sopportare un cuore generoso, che chi lo ama soffra molto per lui o per causa sua. Perciò, avendo l’amato capito che l’amata lo desidera e vuole parlargli, le dice di seguire le orme del gregge e lo troverà… L’amata non ignora se stessa, conosce di essere scura e abbronzata dal sole. Ciò che avverte è l’assenza del suo sposo; ciò che desidera è sapere di lui, perciò lo prega di dirglielo».

Le orme del gregge sono la promessa di amore dell’amato, l’ultima sua parola, inizio del sentiero che la porterà all’incontro. La promessa è così parola simile all’orma, tra le tante parole che si scambiano è l’ultima che l’amato le affida come l’orma, dice Luis de León.

L’orma è l’ultima parte del piede capace di segnare il cammino: per questo seguire le orme equivale a lasciarsi guidare dalla promessa d’amore. «Orma in ebraico “hacab”, che è l’ultima parte del piede, il calcagno, e, usando la causa per l’effetto, è come dire: “l’orma che si lascia con il piede e con il calcagno”.

Dire che segua l’orma si può intendere in due modi: che l’amata segua l’amato o che segua l’orma lasciata dal gregge che è già passato; che vada dietro agli stessi capretti, seguendo le tracce che, per amore o per istinto naturale, li guidano verso le madri; esse la congiungeranno al suo amato.

Perché dobbiamo intendere che, come si suole fare, i capretti erano chiusi in casa, mentre l’amato portava le madri al pascolo e nei campi. E aggiunge: mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori, che è come dire: ti porteranno dove le porta l’amore e dove hanno il loro pascolo, che è il luogo dove io sto con gli altri pastori», (Commento al Cantico dei cantici, Roma 2003, 52-53).

Il senso spirituale si può intendere anche in altro modo. La via per trovare Dio e la virtù non è quella che ognuno vuole immaginare e tracciare per conto proprio, ma è già indicata da coloro che ci hanno preceduti nel cammino della fede. La sequela Christi si fa camminando insieme agli uomini e alle donne delle beatitudini, calcando sentieri di giustizia.

Non solo orme, allora, ma anche baci.

Questi introducono l’inizio del cantico e li ritroviamo alla fine come le due polarità attraverso cui principia, si distende e culmina tutta la narrazione della storia drammatica di questo amore: che se è forte come la morte perché ad entrambi non ci si può sottrarre, è tuttavia assai più indomabile della morte: «Un rogo sono i suoi impeti/ d’incoercibili fiamme: non vale/ il mare a sopirne gli ardori,/ né a travolgerlo i fiumi» (traduzione poetica di Agostino Venanzio Reali).

«Mi baci coi baci della sua bocca! Perché buoni sono i tuoi amori, più del vino» (Ct 1,1). Letteralmente sarebbe: «mi baci con qualsiasi bacio», anche fatto di parole e di silenzi, di sguardi o di nascondimenti; tutto può essere un bacio d’amore, l’incontro come l’attesa, purché diventino la trama di una storia in cui una volta si cerca e un’altra si è cercati, ovvero si cerca e si trova insieme.

Il disvelarsi di una presenza, di una bellezza interiore, che rende belli anche fuori in modo sorprendente: «Chi è costei che sorge come l’aurora,/ bella come la luna, fulgida come il sole,/ terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Ct 5,10).

L’aspirazione più grande: «Come vorrei che tu fossi mio fratello,/ allattato al seno di mia madre!/ Incontrandoti per strada ti potrei baciare/ senza che altri mi disprezzi./ Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;/ tu mi inizieresti all’arte dell’amore./ Ti farei bere vino aromatico/ e succo del mio melograno./ La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 8,1).

A questo proposito ci ha ricordato Gianfranco Ravasi[Qui] nel suo commentario al Cantico, che nella lirica amorosa egizia e mesopotamica, è costante l’uso degli epiteti «fratello-sorella» riferito agli innamorati. Ma lo steso si registra nel linguaggio amoroso dell’antico Vicino Oriente, ove l’amato veniva chiamato “fratello”; come in Ct 4,9.10.12; 5,1 e l’amata era interpellata anche come “sorella, sorella mia”.

Spigolando nelle interpretazioni ebraiche del Cantico si legge: «Nell’ascolto della Parola, il popolo di Dio consegue la più dolce intimità con il suo Signore, riconosce il proprio carisma e pone la sua delizia: “Il Signore… ha parlato con noi faccia a faccia, come chi bacia qualcuno, per la grandezza del suo amore, con cui ama noi più che le settanta nazioni”.

Israele, dunque, “ama camminare dietro la Legge buona”; è la Parola, infatti, la “fonte d’acque vive”, che lo disseta e che scorre perenne “come… le acque del grande fiume che scaturisce dall’Eden”; è la Parola il cibo che lo nutre, la guida che lo conduce, lai dolcezza che lo inebria, la medicina che lo guarisce», (Cantico dei Cantici, Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, 69).

Ma è Bernardo di Chiaravalle[Qui], che nei suoi sermoni dà un’interpretazione spirituale suggestiva nel paragonare le tappe e il progresso del cammino spirituale attraverso la simbologia di tre baci. Il bacio dei piedi, quello della mano ed infine il bacio della bocca.

Il primo si riferisce al cammino penitenziale, il secondo alla grazia dell’amicizia del discepolo con il maestro: intreccio di umanità, il terzo è quello dell’intimità e unione mistica, esperienza che avviene dal dono dello Spirito.

Il bacio dunque come segno di riconciliazione, come segno umanissimo di pace tra fratelli poi: bacio santo tra cristiani che ne istituisce la fratellanza. E infine, come “sigillo sul cuore come sigillo sul braccio” (Ct 8,6), il bacio dell’effusione dello Spirito che introduce nel cammino contemplativo e porta all’unione mistica:

«La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 2, 6) senza tuttavia chiudere nell’intimismo perché risuona la voce dell’amato, che invia ai fratelli e alle sorelle per narrare con il canto anche a loro la prossimità di un amore: «Alzati, amica mia,/ mia bella, e vieni!/ Perché, ecco, l’inverno è passato,/ è cessata la pioggia, se n’è andata;/ i fiori sono apparsi nei campi,/ il tempo del canto è tornato» (Ct 2, 11-12).

Bernardo scrive «Il bacio, tutti lo sappiamo, è segno di pace. Se dunque, togliamo di mezzo l’ostacolo e l’ingiustizia e ci sarà la pace. Pertanto, quando facciamo penitenza, per ottenere la riconciliazione con Dio, dopo aver cancellato il peccato che ci separa da lui, il perdono che ci viene accordato, come altro potrei chiamarlo se non un bacio di pace? Ma noi non dobbiamo posarlo in nessun’altra parte se non ai piedi del Salvatore, poiché colmo d’umiltà e verecondia deve essere l’atto che ripara la superbia della trasgressione.

Ma quando, per vivere una vita più pura ed essere più degni di intrattenerci con Dio, ci vien fatto dono dell’ancor maggiore grazia di una certa piacevole familiarità con Lui, allora leviamo il capo dalla polvere con fiducia ancor più grande, per baciare, come si usa, la mano di colui che ci ha fatto del bene, il benefattore».

Ed infine il bacio per eccellenza, cioè di quello della bocca: «altro non è se non l’infusione dello Spirito Santo. Infatti, se si considera il Padre colui che bacia e il Figlio colui che viene baciato, non sarà fuori luogo ravvisare nel bacio lo Spirito Santo, il quale è la pace inalterabile del Padre e del Figlio, il loro saldo legame, il loro amore inseparabile e la loro indivisibile unità. Abbi fiducia, chiunque tu sia, abbi fiducia e non esitare» (Sermone sul Cantico dei Cantici, Casale Monferrato 1999, 74+)

È così che io immagino il cammino della Quaresima proteso alla gioia pasquale: nel segno dei tre baci della riconciliazione, della dolce amicizia con l’umanità di Cristo e del dono dello Spirito del Risorto, perché è «solamente l’amore che tiene perfettamente uniti» (Col 3,14).

Ho cercato se tutto questo poteva dirsi in poesia ed ho trovato, per grazia, orma e bacio.

Una traccia
Quando tu cammini di buon passo,
loro sono lì a migliaia a seguire la tua traccia:
la coorte degli uomini,
gli occhi sulla nuca, le reni, le caviglie, di colui che
precede.
Migra, la nostra specie, fino alla Terra del Fuoco,
fino al piede sulla luna,
e lascia solo una traccia.

Un lieve umido bacio
Le graminacee accarezzano le dita le dita dei
camminatori dell’alba,
danno del tu alle loro caviglie con un lieve umido
bacio.
Esse benedicono i migranti poi l’alba dei tempi.

(Jean-Pierre Sonnet)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
Il derby di Siviglia si è fatto grande

Se dovessimo stabilire qual è il derby calcistico più caldo e passionale di Spagna, la scelta ricadrebbe probabilmente su quello di Siviglia: non per via del clima subtropicale, bensì per l’impareggiabile esaltazione collettiva che si porta appresso, e che col passare degli anni ha fatto sì che il dualismo Siviglia-Betis diventasse uno dei temi più chiacchierati del calcio iberico. Gli spagnoli lo chiamano el gran derbi, e viene vissuto alla stregua di un’intensa finale di coppa, perlomeno nel capoluogo andaluso. D’altronde, basti pensare che il 10% della popolazione di Siviglia ha un abbonamento stagionale ai due stadi del derby, cioè il Sánchez Pizjuán e il Benito Villamarín, i quali distano appena 3,7 chilometri l’uno dall’altro.

Così vicini, eppure così lontani: da un lato, Siviglia e Betis hanno in comune un passato tutt’altro che dominante in Liga – entrambe le squadre hanno vinto il massimo campionato spagnolo una sola volta, e per giunta negli anni ’30 e ’40 – dall’altro, l’estrazione sociale delle due tifoserie è apparentemente agli antipodi, e si basa sull’antica contrapposizione fra proletariato (Betis) e nobiltà (Siviglia). Una contrapposizione, questa, che al giorno d’oggi non è più supportata dai fatti.

A proposito di attualità, el gran derbi che si giocherà domenica 27 febbraio (ore 16:15) al Sánchez Pizjuán sarà probabilmente il più importante degli ultimi anni, nonché il più visto di sempre. Sarà anche, e soprattutto, il primo derby di Siviglia con le due squadre così in alto in classifica: il Siviglia di Lopetegui è secondo con 51 punti, il Betis di Pellegrini è terzo a cinque punti di distanza. L’undici di Lopetegui ha la miglior difesa del torneo e, nonostante i numerosi infortuni, può contare su una rosa ben costruita e su un equilibrio tattico consolidato. Il Betis, invece, è il secondo miglior attacco del campionato, e al momento è una delle squadre più imprevedibili del calcio europeo. Insomma, persino sotto quest’aspetto Siviglia e Betis non potrebbero essere più differenti.

Infine, il bilancio dei due precedenti nell’attuale stagione è di una vittoria a testa. Più che il risultato, però, è ciò che è successo sul campo a far parlare di sé: grandi giocate, espulsioni, polemiche e persino un’asta lanciata sul prato del Benito Villamarín da un tifoso del Betis. L’asta ha colpito il centrocampista del Siviglia Joan Jordán [Qui], causando la sospensione e il rinvio dell’incontro, conclusosi il giorno successivo all’incidente senza più tifosi sugli spalti. Tutto ciò ha inasprito ulteriormente la polarizzazione calcistica della città andalusa, il cui derby, tuttavia, sta per scrivere una delle sue pagine più attese.

Cover: foto di LaLiga

VICTOR STOICHITA: DIMENTICARE / TORNARE.
Biografia di un giovane talentuoso vissuto Oltrecortina.

 

Victor Stoichita

Da sempre leggo Victor Stoichita, ben prima che venissero pubblicati dal Saggiatore i suoi Breve storia dell’ombra, L’invenzione del quadro, Effetto Sherlock… Lo sanno bene alla libreria Tschann del Boulevard du Montparnasse che mi ha procurato i suoi libri di storia dell’arte in francese nelle edizioni del ginevrino Droz, del parigino Hazan
Non poteva quindi sfuggirmi nel 2014 un libro, Oublier Bucarest, che parlava di lui, della storia di una straordinaria giovinezza trascorsa in un paese oltre cortina, né era possibile evitare oggi la tentazione di rileggere quel libro nell’edizione italiana appena uscita per i tipi del romano Bordeaux.

A colpirmi, di primo acchito – né poteva essere diversamente – è il mutamento del titolo, che mentre continua a sottolineare il genere autobiografico (un récituna storia), accentuato dall’aggiunta di un elenco dei personaggi di cui si precisa il rapporto strettissimo con l’autore, ristabilisce un legame (Ritorno a Bucarest) con un paese che l’edizione francese di Actes Sud pareva in qualche modo mostrare interrotto (oublierdimenticare). O meglio, segnato da una necessità di distacco, difficile ma necessaria per riuscire a crescere e a scegliere una vita diversa altrove.

Giacché poi solo di Bucarest e della Romania queste pagine parlano, raccontando la storia di un’infanzia, di un’adolescenza, di una prima giovinezza passate nella capitale dell’antico Regno o sulle rive del Mar Nero in una famiglia dalla straordinaria cultura letteraria e musicale nella quale i più ‘normali’ sono ex-professori di liceo, mentre gli altri insegnano (o insegnavano) nelle università, sono medici e ricercatori di fama, avvocati, scrittori, deputati, principi, pour cause incorsi nelle persecuzioni del regime o incarcerati con motivazioni incomprensibili.
Una famiglia nella quale si conosce il latino e si parlano tutte le lingue (il rumeno, ovviamente, ma anche il francese, il tedesco, l’inglese, alle quali il nostro protagonista aggiungerà precocemente lo spagnolo e l’italiano), si suonano pianoforte e violino, si conosce la storia, muovendosi poi nel mondo esterno con la spensieratezza del carattere o dell’età e la prudenza necessaria per sopravvivere. C’è pure, da parte di una zia Margot, amica di Marthe Bibesco, una visita all’atelier di Brancusi e un incontro mancato di poco con Proust, a causa del ben noto timore del grande Marcel per i profumi delle signore.

È un ambiente, quello di cui Stoichita ci parla, nel quale si respira l’aria delle grandi capitali europee (soprattutto Parigi), con la raffinatezza e l’intelligenza conseguenti (persino nella convinzione che solo una linea sottile separa il puro e l’impuro), nonostante che gli interni nei quali si svolge l’azione siano prevalentemente quelli di un appartamento di stato dove in spazi ridotti (e perfino, in casi estremi, materassi condivisi) sono costretti a vivere più nuclei parentali dell’aristocrazia decaduta e della medio-alta borghesia a cui sono stati confiscati e nazionalizzati i beni con l’accusa di essere “nemici del popolo”.
A cui soprattutto, come a quanti non obbediscono alla logica del potere e della delazione, continua a essere preclusa la possibilità di libere scelte e il diritto di coltivare abilità e vocazioni. Eppure tutti, a diversi livelli, vivono nelle difficoltà con dignità ed equilibrio e con la convinzione che nulla si ottiene senza disciplina.
Colpisce la capacità in particolare dei giovani (Victor, Adrian, il fratello con l’orecchio assoluto costretto a rinunciare alla musica) di ritagliare momenti di vivacità e spensieratezza nella grigia vita di un paese dell’Est (popolato verso la metà degli anni Sessanta anche dai ‘fantasmi’ dei sopravvissuti dei Gulag) dove perfino gli atlanti sono stati normalizzati dal comunismo imperante. Un mondo nel quale la lettura dei classici e dei romanzi di cappa e spada, combinata a una buona dose di fantasia, può alimentare miti di eroismo e riscossa, di ribellione e di fuga, ma anche di colpa e rimorso: si pensi a Victor ragazzino (pungash, birbante, monello) che scappa di casa per seguire gli zingari, che scambia con un compagno un topolino con delle lamelle di chewing gum o grida all’aria “Viva Lagardère”.

Anzi, gli impedimenti (basti ricordare la “nota sociale” che sottraeva punti nelle votazioni ai giovani provenienti da famiglie borghesi rendendo loro difficile la prosecuzione degli studi) fungono da propellente, motivano l’accresciuto impegno, la ricerca di libri introvabili sulle bancarelle, il reperimento di trattati vietati fotocopiati di straforo; abituano (per salvare quanto non rientra nell’etica del realismo socialista) a sfumare i fatti della storia e della cultura, ovvero a predisporsi a esibire una seconda verità in caso di necessità, per salvare il possibile della sapienza del passato. Spingono insomma a imparare per sapere sempre di più, del pubblico e del privato. Anche della musica canticchiata nelle carceri da un nonno visto per troppo poco tempo, o dei testi del grande rinascimento inglese e della filosofia insegnati in prigione ai compagni di cella da un grande studioso.

Il libro comincia come un film, o una fotografia in bianco e nero (per altro a contrasti netti, in bianco e nero, sono i rapporti possibili marcati sulla scacchiera del Potere) che ricorda quella di Una famiglia di Ettore Scola. Ma d’altronde dall’autobiografia di Stoichita un regista talentuoso riuscirebbe sicuramente a trarre un bel film.
Tutto inizia nel 1956, con una ‘festa’ che accompagna l’anno della destalinizzazione sancita dal XX Congresso del partito comunista sovietico e la rivoluzione ungherese (con relativa illusione di mutamenti), e si chiude nel 1968, quando i carri armati sovietici, entrando a Praga, uccidono ogni residua speranza di libertà e indipendenza nei paesi che il patto di Varsavia collocava a forza nell’orbita d’influenza sovietica.
Prima e dopo questi avvenimenti che hanno segnato la storia, si ripetono per i nostri personaggi i riti dei paesi a libertà limitata: l’attenzione a non suscitare invidie e gelosie, l’abitudine a nascondere i sentimenti, l’ansia per la difficoltà di ottenere un passaporto (sempre a rischio, e per cervellotiche ragioni, di revoca) e il dover risolvere il dilemma, che si fa imperativo alla fine del liceo, tra fuggire (ovvero passare in un altro paese) e restare (ovvero fermarsi in un paese per cui si è avuto un qualche visto a termine). Che poi, come ben si capisce, è dilemma solo nominale se in ogni caso, una volta presa la decisione, il risultato è sempre quello del non ritorno.

Insomma fuggire-partire-restare strappandosi dalla famiglia, dagli amici, da una terra amata, imponendosi di dimenticare tutto quello che si potrà davvero frequentare di nuovo (in primis il proprio passato) solo a distanza di decenni, e in qualche modo da lontano, attraverso la scrittura. Ritornando così a una Bucarest perduta, abbandonata, per non dover passare le estati a lavorare nei campi o a fare il muratore (secondo l’imposizione del regime), e per poter dare un futuro al sogno di decostruire le immagini e le segrete geometrie alla maniera di Barthes e Foucault, per tentare di diventare archeologo sottomarino, o meglio (stando a quello che poi è successo) di studiare l’iconologia e il significato delle arti visive alla maniera di Panovsky, di vedere e guardare anche grazie all’ausilio della filosofia e delle poetiche quel che è nascosto, divenendo uno dei più grandi storici e critici d’arte che abbiamo oggi in Europa.

“Esiliato all’estremità del mondo languivo”, così Ovidio, letto in solitudine mentre il desiderio della lontananza si mescola all’angoscia della lontananza, la speranza della partenza alla paura della partenza, la forza della conoscenza al timore per la debolezza della conoscenza, e si fa sempre più acuta la consapevolezza che solo la volontà e la cultura possono aiutare a tentare quanto sembra impossibile. Irraggiungibile come un salto in lunghezza di più di cinque metri dopo mesi fuori allenamento che permette di superare un concorso; o il resistere al potere carismatico della folla grazie a quanto si è imparato dai libri di Max Weber e Norbert Elias.

Se il tremore nello scoprirsi tra i dieci ammessi alla facoltà sperata, i 100 lei deposti ai piedi della statua di Sant’Antonio, un colloquio con la madre protetto dallo scorrere dell’acqua in una stanza chiusa per evitare la possibilità delle microspie, il rischio di finire sotto un tram pensando a una borsa di studio e a un passaporto forse finalmente ottenuti, un oggetto misterioso che appare e scompare sul fondo del Mar Nero ripescato in apnea durante una plongé, la soluzione di un quesito difficile che arriva dalla memoria fotografica delle pagine di un libro dimenticato, il misterioso vaticinio di una zingara…, appartengono a una storia personale che affascina e colpisce per l’indubbia eccezionalità, le pagine conclusive del libro che raccontano come un regime in crisi (quello di Ceausescu nel ’68) possa cercare la propria legittimazione dalla folla proponendosi come capace di risolvere la crisi e di difendere un popolo dinanzi a un pericolo estremo ci insegnano come sia stato e sia sempre importante saper riflettere sugli avvenimenti politici evitando facili isterismi, guardando con sospetto soluzioni che orientano la ‘massa ondeggiante’ alla legittimazione di un capo.

No War!

Dal 30 luglio 2020 al 30 luglio 2021 il nostro Pianeta ha vissuto quasi 100.000 situazioni di conflitto, tra sommosse, scontri armati, proteste, violenze contro civili, attentati. Per l’Italia, l’ACLED ha registrato 184 scontri totali, ma nessuna vittima. Ben diversa la situazione in altri Paesi, come il Myanmar, dove oltre 3.200 situazioni di conflitto hanno causato quasi 3.500 morti dopo il colpo di stato della giunta militare, o il Messico, dove la violenza è di casa e nell’ultimo anno ha causato oltre 8.000 morti” (Fonte: Focus Storia Qui).

La situazione in Ucraina è molto difficile se non drammatica, la guerra è alle porte, anzi è iniziata, e la popolazione spaventata e pronta alla difesa armata. Il discorso di lunedì sera di Putin era prevedibile visto che aveva già definito l’Ucraina “Colonia dell’Occidente” e affermato che in realtà i suoi governi sono solo governi-fantoccio. Con quel discorso il presidente russo ha riconosciuto le regioni separatiste di Dontesk e Lugansk, che sono aree cuscinetto tra Ucraina e Russia.

In passato Putin aveva già inviato soldati nel Donbass in “missione di peacekeeping” e impresso una inevitabile accelerata all’escalation della crisi ucraina. Nel Donbass il conflitto fra ucraini e filorussi è aperto senza sconti (sono già morti due soldati di Kiev).

I mercati azionari sono crollati, mentre l’Occidente spera di indurre la Russia a maggior cautela, giocando la carta delle sanzioni. Intanto l’Ucraina è pronta alla “resistenza”, i carrarmati russi si stanno spostando per circondarla e la NATO sta inviando le sue truppe nelle basi militari dei paesi confinanti.

La crisi tra Russia e Ucraina non è scoppiata all’improvviso, ma è il risultato di un contrasto che dura da otto anni, da quando nel 2014, dopo la Rivoluzione di Euromaidan, culminata con la cacciata dell’allora presidente Janukovyč, Mosca ha invaso la penisola di Crimea e sostenuto i movimenti separatisti nella regione del Donbass, in Ucraina orientale.

Un clichè già visto, una escalation di soprusi e violenza già visto, la guerra con tutto il suo orrore già vista. Eppure siamo ancora lì, tutti attoniti di fronte a un conflitto armato che sembra inevitabile quanto incomprensibile, che sembra decisa all’ultimo momento in maniera verticistica e, di fatto, non voluta da nessuno. Sicuramente non voluta dalla gente di quei territori che non riesce nemmeno più a dormire di notte.

Sta aumentando in maniera esponenziale la vendita di psicofarmaci, che aiutano a riposare, a non cadere vittima di disturbi nervosi, che diminuiscono drasticamente la possibilità di sopravvivenza in quelle terre di nessuno, dove i potenti della terra giocano con i loro arsenali mortali.

Nella Seconda Guerra Mondiale sono morti in Russia 8.000.000 di militari e 17.000.000 di civili, per un totale di 25.000.000 di persone. È morto quasi il 15% della popolazione totale, che era di 168.500.000 individui (Fonte: Wikipedia Qui).

Sono cifre esorbitanti che fanno pensare alla atrocità della morte per scontri armati, al fatto che la guerra non risparmia nessuno, che la deprivazione e la paura che da essa si genera riguarda tutti e che il numero di civili morti è sempre altissimo. Bambini dilaniati dalle bombe, la cui sepoltura nella terra non potrà dar pace a nessuno. Né a chi quella guerra l’ha voluta, né a chi l’ha solo subita.

La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000 ed è in aumento in quasi tutti i paesi del mondo, ci si sta avvicinando ai duemila miliardi di dollari l’anno. I governi si sentono obbligati ad aumentare le proprie spese militari perché altri governi, percepiti come avversari, aumentano le loro.

Questo “tenersi testa” causa una continua corsa agli armamenti, con un costo immenso. Nello scenario peggiore, è un percorso che porta a conflitti devastanti.
Nello scenario migliore, è un colossale spreco di risorse.

Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’istituto che stila la classifica di tutti i paesi in base agli investimenti fatti nel campo della Difesa, nel 2020 la spesa militare nel mondo è aumentata del 2,6%, arrivando a 1.981 miliardi di dollari. In Italia la spesa per le armi ha superato i 25 miliardi di euro l’anno.

Faccio fatica a farmi un’idea di quanti siano tutti quei soldi, se non provando a paragonarli a qualcosa di simile e mi viene in mente Microsoft. La “capitalizzazione di mercato” di Microsoft è vicina al traguardo di 2.000 miliardi di dollari, mentre Amazon è sulla buona strada per diventare tra un anno la prossima azienda a raggiungere l’obiettivo dei duemila miliardi di dollari di capitalizzazione.

Secondo L’International Institute for Sustainable Development (IISD), che è un premiato think-tank indipendente che lavora per creare un mondo in cui le persone e il pianeta prosperino, con 12,5 miliardi di dollari l’anno (un terzo di quello che si spende ogni anno per le armi), sparirebbe il problema della fame nel mondo.

La corsa agli armamenti fa paura, il nostro pianeta è pieno all’inverosimile di armi fatte apposta per uccidere. Quando le armi per uccidere sono così tante, qualcuno sicuramente le userà. La nostra povera terra è popolata da mostri di metallo, che noi chiamiamo comunemente “carri-armati”, pronti ad invadere territori etichettati come nemici e a distruggere tutto quello che trovano sul loro cammino: vegetazione, animali, acqua e aria, persone e futuro di tutti.

L’unica strategia possibile per uscire da tutto ciò è lo stop della corsa agli armamenti, è un accordo fra tutti i potenti per diminuire la produzione e l’uso delle armi, a favore di coltivazioni, allevamenti e relazioni sostenibili, a favore dell’uso verde e pacifico di tutte le risorse, compresi i cervelli umani che usati bene possono fare tanto bene e, usati mali possono fare tanto male.

Credo che a questo proposito non si possa che citare Don Milani e la sua disputa con i cappellani militari. Si può riassumere il suo pensiero riportando una delle sue frasi più celebri:

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.”
(Tratto dalla Lettera ai cappellani militari – L’obbedienza non è più una virtù)

Se i potenti della terra vogliono continuare a produrre armi, devono anche trovare il modo di venderle, e per trovare il modo di vendere così tante armi tutti i mezzi possibili devono essere legittimati.

Le armi servono per la difesa? La difesa che uccide è una difesa che verrà uccisa. Se spari l’unica cosa che ti puoi aspettare è che qualcuno sparerà a te. Se offendi qualcuno lui ti offenderà, se abbandoni una persona l’avrai persa per sempre … la catena deve essere spezzata, e per fare questo bisogna partire dai comportamenti quotidiani, dalla capacità che abbiamo tutti di essere altruisti e comprensivi oppure egoisti e indifferenti.

Ogni giorno della nostra vita è così, ogni momento della nostra vita è così. In tutto questo c’entra l’educazione alla pace e al rispetto, un senso di comunità allargata e tollerante come strada primaria verso la crescita, come tramite per il confronto.

Per continuare a vendere armi bisogna trovare il modo di fare la guerra (guerre piccole tra ragazzini, guerre grandi tra generazioni, guerre enormi tra Stati), altrimenti non si riescono a mantenere gli standard di produzione e vendita attuali.

Mi chiedo quanta consapevolezza ci sia sul fatto che, fino a quando si continuerà a produrre armi, si continuerà a fare la guerra, si troverà sempre il modo di innescarne di nuove, sempre più aggressive e pericolose per intere popolazioni se non per l’intero pianeta.

Attualmente la Russia è il paese con la maggiore dotazione di carri-armati militari: 15.398. Questo si spiega col fatto che la Russia, uno dei più grandi paesi al mondo, ha oltre 12.000 miglia di confine da proteggere, tutto su terra.

La forza MBT del paese è attualmente in stato di guerra, i T-90 avanzati, i T-54, i T-64 e i T-72 sono in servizio. Il nuovo MBT della Armata Universal Combat Platform ha una torretta di cannoni telecomandata. (Qui). Con questa dotazione, la Russia ha enormi potenzialità di invasione via terra.

Con vicini come il Messico e il Canada, gli Stati Uniti non sono preoccupati della minaccia di una possibile invasione di terra. Non è utile e nemmeno pratico, per un Paese come gli USA, mantenere una MBT grande come quella della Russia, mentre è più strategico allargare e continuare a potenziale la forza aerea.

Ciò non significa che gli USA non siano ben equipaggiati con veicoli militari, gestiscono infatti ancora migliaia di carri armati in tutto il mondo. Con 8.850 mezzi a disposizione, gli Stati Uniti hanno un terzo della MBT del mondo. Il paese è dotato del pauroso M1-Abrams e di molte sue varianti. Il carro armato più recente è l’M1A3-Abrams, che può rivaleggiare con l’ MBT più avanzata al mondo, quella della Corea del Sud, nota per i suoi K2-Black-Panther.

Solo pensando ai Black Panther mi vien da piangere e credo ci siano tutti i motivi per essere da una parte molto preoccupati e dall’altra consapevoli di quanto sia necessaria una inversione di rotta e una strategia di disarmo, che possa salvare il mondo.

Parole a capo
Giorgio Bolla: “Una Venezia malata” e altre poesie

 

“Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare, ma per noi che sappiamo anche la brezza sarà preziosa.”
(Rainer Maria Rilke)

Tua è l’estasi

Tua è l’estasi
ma anche mia
tra squarci di rovere
e pioppi d’infilata.

Tu, amore,
in sere silvestri
abbandoni memorie
e giochi
come davanti a vecchi
alberi
che parlano,
adusi al sistema
dell’irrealtà
sotto balconi e
pietre di fiume
tra bave e
scogli
innalzati i respiri
alla ricerca dell’ora
e di una carezza.

 

Si sta bene dopo la pioggia

Si sta bene dopo la pioggia,
nella tua erba.

 

Tu

Tu, piccolo sole nero,
hai scelto la morte
o l’ho scelta io
per te?
Ruvide e stanche
quelle poche giornate,
e notti,
a te concesse
sul filo dell’addio,
sotto il giogo
del nulla.

 

So dove sono

So dove sono e
che altrove avrò
scelgo strette calli
o vedo la figura tua,
immergo aria e vento
nemmeno là,
tra le foglie.

 

Una Venezia malata

Una Venezia malata,
febbricitante
dentro il pianto di una donna.
Non mi abbandonare
ma aprimi
il vento.

GIORGIO BOLLA nasce nel novembre 1957 nella città che ha dato il nome al Mar Adriatico. È quindi veneto. Ha pubblicato numerose raccolte personali e conseguito Premi di Poesia nazionali ed internazionali: in particolare nel 2011, a Larissa (Grecia), ha conseguito il Gran Premio di Poesia Mediterranea. Ha pubblicato un saggio filosofico The Metaphor (e-book – Mnamon ed.). Nel 2020 con Gradiva Publications (New York) ha pubblicato Among Water, Angels and Wind.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

In copertina: foto di Ambra Simeone

In ricordo di Thich Nath Hanh – la presenza mentale

 

Oggi mi siedo nello stesso posto
Dove altri sedettero in passato.
Fra mille anni altri ancora verranno.
Chi è che intona il canto, e chi l’ascolta?…
(Nguyen Cong Tru)

Il 22 gennaio 2022 ci ha lasciato il monaco buddhista più famoso al mondo dopo il Dalai Lama: Thich Nath Hanh. Qualcuno ne ha scritto, molti i messaggi sui social soprattutto da parte di coloro che ne conoscevano bene i principi guida e ne avevano letti gli scritti avvolgenti. Di lui ho letto parecchio, spesso mi ha aiutato nei momenti più bui.

Thich Nhat Hanh era monaco zen da oltre cinquant’anni. Nato in Vietnam nel 1926, fin da giovane aveva promosso il Dharma, la Legge Universale naturale, come strumento per portare pace, riconciliazione e fratellanza nel mondo. La sua vita è stata molto ricca, ma sono bastati alcuni episodi per farne una delle figure più rappresentative del buddhismo nel mondo.

Nel 1967, mentre si trovava negli Stati Uniti, incontrava Martin Luther King, il quale, commosso dal messaggio di pace del giovane monaco, lo aveva proposto per il Nobel per la pace. Intanto Thich Nhat Hanh prendeva pubblicamente posizione contro la guerra in Vietnam. Dopo aver promosso la Delegazione di Pace Buddhista, che partecipava alle trattative di pace di Parigi, a seguito della firma degli accordi, si vide rifiutare il permesso di rientrare nel suo Paese. Si stabilì, quindi, in Francia, dove, nel 1982, fondò il Plum Village (o Villaggio dei pruni), comunità di monaci e laici vicino a Bordeaux, in Aquitania tra la valle della Loira e i Pirenei, nella quale è vissuto fino alla fine dei suoi giorni, insegnando l’arte di vivere in “consapevolezza”.

Solo nel gennaio del 2005, dopo 39 anni di esilio, su invito ufficiale del governo vietnamita, era riuscito a far ritorno per tre mesi in Vietnam. Nel 2008, fondò in Germania l’Istituto Europeo di Buddhismo Applicato, in cui la visione del Buddhismo Impegnato approfondiva e integrava lo studio dei testi con la loro immediata applicazione alla vita quotidiana. Ai suoi ritiri, da lui tenuti in molti Paesi del mondo, Italia compresa, hanno partecipato ogni anno migliaia di persone di tutte le condizioni sociali e i suoi numerosi libri di poesie, meditazioni e preghiere sono stati tradotti in molte lingue.

I suoi studenti lo chiamavano – e lo chiamano ancora – amorevolmente Thay, “maestro”.

I suoi scritti sono favolosi, semplici e intellegibili ma illuminanti. Da tempo mi sono avventurata nella lettura, sono tanti, sono belli, sono profondi. In Italia sono per la maggior parte editi da un editore romano, Ubaldini Editore, piccoli volumi dalla copertina azzurra che ricorda la carta da zucchero. In tutti si viene guidati nell’apprendimento di come trasformare ogni atto della vita quotidiana in un’esperienza gioiosa, totale, avvolgente.

Il miracolo della presenza mentale, ad esempio, nasce come una lunga lettera in vietnamita al fratello Quang che, nel 1974, era fra i responsabili della School of Youth for Social Service nel Vietnam del Sud, fondata, negli anni ’60, come applicazione concreta del Buddhismo Impegnato, quel genere di saggezza che dà una risposta a ogni cosa che accade qui e ora: dai cambiamenti climatici e la distruzione dell’ecosistema, alla mancanza di comunicazione, al fanatismo e all’intolleranza, dalle guerre alle famiglie spezzate, alle tensioni personali, con i loro corollari di stress, ansie e violenze. Allora lavare i piatti significa lavarli solo per lavarli, non per pensare alla tazza da tè che arriverà in seguito. Se mentre beviamo la nostra tazza di tè pensiamo ad altre cose, accorgendoci a stento della stessa tazza che teniamo fra le mani, ci facciamo risucchiare dal futuro, incapaci di vivere il presente. Il Sutra della presenza mentale, quindi, dice: “Quando cammina, il praticante dev’essere consapevole di camminare. Quando è seduto, il praticante dev’essere consapevole di stare seduto. Quando giace, il praticante dev’essere consapevole di giacere… qualunque posizione assuma il corpo il praticante dev’essere consapevole. In tal modo vive in diretta e costante presenza mentale del corpo…”. Bisogna anche essere coscienti di ogni respiro, di ogni movimento, di ogni pensiero e sensazione, di tutto quanto ci riguarda in un modo o nell’altro. Nei sutra buddisti si insegna a usare il respiro come supporto per la concentrazione. Il sutra dedicato alla coltivazione della presenza mentale attraverso il respiro è l’Anapanasati Sutra.

Bisogna praticare nella vita quotidiana e non solo durante le sedute di meditazione. Si può praticare la presenza mentale percorrendo il sentiero che porta a un villaggio, camminando lungo un viottolo sterrato, lungo i fianchi di colline e montagne. Ma anche per i vicoli delle città. “Mi piace camminare da solo – scriveva Thich Nhat Hanh – per i viottoli di campagna, fra piante di riso ed erbe selvatiche, poggiando un piede dopo l’altro con attenzione, consapevole di camminare su questa terra meravigliosa. In quei momenti, l’esistenza è qualcosa di prodigioso e misterioso. Di solito si pensa che sia un miracolo camminare sull’acqua o nell’aria. Io credo invece che il vero miracolo non sia camminare sull’acqua o nell’aria, ma camminare sulla terra. Ogni giorno siamo partecipi di un miracolo di cui nemmeno ci accorgiamo: l’azzurro del cielo, le nuvole bianche, le foglie verdi, gli occhi neri e curiosi di un bambino, i nostri stessi occhi. Tutto è un miracolo”.

Ma siamo attivi, abbiamo tante cose da fare e cui pensare, come si fa ad avere il tempo per passeggiare e contemplare? Cosa per pochi eletti, direbbero alcuni. Basta concentrarsi su quello che si sta facendo, pensare solo a quello, al qui e ora, al presente, essere padroni di sé stessi senza lasciare mano libera a impazienza e collera. Portare l’attenzione sul respiro. Quante volte di fronte a un momento difficile si pensa, ecco, mi fermo e respiro. Proprio quello. La presenza mentale è al tempo stesso un mezzo e un fine, il seme e il frutto. Quando la pratichiamo per sviluppare la concentrazione, la presenza mentale è un seme. Ma è di per sé la vita della consapevolezza e, quindi, è anche frutto. Essa ci libera dalla distrazione e dalla dispersione e ci consente di vivere pienamente ogni istante. Il respiro corretto aiuta in tutto questo, il ponte che connette la vita alla coscienza, che unisce il corpo ai pensieri. Ogni volta che la mente si perde, il respiro la riporta indietro. Respirare sempre, inspirare ed espirare. E ancora inspirare ed espirare. Che meraviglia di equilibrio ritrovato. Basta provare. Oggi più che mai capiamo il ruolo del respiro, oggi che ne siamo stati privati a lungo, che una feroce pandemia ha colpito proprio lì, il centro della vita.

Questo legame tra spirito e respiro è testimoniato anche dalle tre lingue classiche dell’occidente, il greco, il latino e l’ebraico, che unanimi derivano il termine spirito dal medesimo con cui designano l’aria o il vento. Non solo: di tale legame spirito-respiro testimonia anche la lingua tedesca, dove “respirare” si dice atmen, in chiara assonanza con il termine sanscrito atman che significa “anima”.

Chi sa respirare, si dice, dispone di una riserva inesauribile di vitalità: la respirazione tonifica i polmoni, rinforza il sangue, rivitalizza tutti gli organi del corpo. Si dice anche che respirare bene è più importante che mangiare. Il respiro è uno strumento, esso è già presenza mentale. Questa deve accompagnare oggi atto quotidiano, e ogni atto è un rito. Dove la parola “rito”, nella sua forza e solennità, viene usata per far comprendere l’importanza capitale della consapevolezza. Da praticare ogni giorno, senza divagare. Vivendo il momento presente, senza attaccarsi al futuro, senza preoccuparsi degli impegni che ci aspettano, senza pensare ad alzarsi e a correre via per fare qualcosa. Solo il presente è vita. Carpe diem, avrebbero detto i latini. Non pensiamo solo a “partire” …

“Per meditare dobbiamo essere capaci di sorridere molto”, amava ripetere il mite monaco. Conserviamo allora sempre un sorriso. Magari con un poco di silenzio dentro e fuori di noi.

Sii un germoglio in silenziosa attesa sulla siepe.
Sii un sorriso, frammento del miracolo della vita.
Rimani qui. Non c’è bisogno di partire.
Questa terra è bella come la terra della nostra infanzia.
Non farle male, ti prego, e continua a cantare…

Nel suo editoriale il giorno della scomparsa di Thich Nath Hanh, Vito Mancuso ha ricordato come venne definito da Martin Luther King: “un sorprendente insieme di doti e di interessi”, cui un maestro tibetano aveva aggiunto: “Scrive con la voce del Buddha”, una sensazione condivisa da milioni di lettori nel mondo, perché è impossibile leggere una sua pagina senza avvertire quella peculiare morbidezza del sentimento, analoga alla dolcezza interiore di cui parla Agostino nelle Confessioni e che l’inno liturgico Veni Sanctus Spiritus invoca dicendo Flecte quod est rigidum, “intenerisci ciò che è rigido”. Già i titoli di alcuni suoi libri ne danno un’idea: “Essere pace”, “Fare pace con sé stessi ovvero guarire le ferite dell’infanzia”, “Spegni il fuoco della rabbia”, “L’energia della preghiera”, “Il miracolo della presenza mentale”, “Discorsi ai bambini e al bambino interiore”. Leggeteli, se potete, aggiungo.

La luce del suo sorriso scalderà i nostri cuori ancora per tanto tempo.

Parte dell’articolo è stato pubblicato su Wall Street International Magazine

Effetti collaterali (e costosi) delle politiche neoliberiste del governo Draghi

 

E’ dunque arrivato un nuovo provvedimento del governo per affrontare il tema del caro bollette, in particolare quelle del gas e dell’elettricità. E’ il quarto che viene preso a partire dal giugno scorso e, come gli altri precedenti, non pare in grado di costruire soluzioni positive del problema, né tantomeno di evitare quello che si prospetta come un vero e proprio salasso per la gran parte delle famiglie italiane.

ARERA (l’Autorità nazionale di regolazione per l’energia, le reti e l’ambiente) stima che, pur tenendo conto degli intervento realizzati dal governo nel 2021, saremo di fronte ad un incremento del 131% del prezzo dell’energia elettrica e del 94% di quello del gas per il consumatore domestico tipo nel primo trimestre 2022 rispetto al primo trimestre 2021.

In questo scenario le ultime decisioni del governo, costruite con un mix di interventi tra riduzione di oneri di sistema, taglio dell’IVA, sostegno alle imprese e rafforzamento del bonus sociale per una spesa complessiva di poco più di 6 miliardi di €, non fanno altro che operare una parziale riduzione dei forti oneri che colpiranno famiglie e piccole imprese, con un po’ più di attenzione alle famiglie povere e disagiate, quelle che si attestano attorno ad un ISEE di 8000 €.
Forse non casualmente, nello stesso giorno in cui il governo annunciava quest’ultimo intervento, l’Amministratore delegato dell’ENI Descalzi  presentava il bilancio dell’azienda del 2021, che si chiude con un utile netto di 4,7 miliardi di €.  

L’intervento del governo discende da una visione da ‘capitalismo compassionevole’, per cui i profitti sono intoccabili, il meccanismo economico e i prezzi sono fissati dal mercato, l’intervento pubblico può correggere limitatamente quelle dinamiche, al massimo portando maggiormente sollievo ai poveri e agli indigenti. E che si nutre di una visione ottimista del mercato stesso, la famosa “mano invisibile” di Adam Smith, che genera progresso e equilibrio.

Quest’approccio, ideologico e ‘ingenuo’, favorisce anche il fatto di non voler vedere ciò che sta succedendo per quanto riguarda la mutata situazione del mercato dell’energia e che ormai presenta caratteristiche strutturali, non semplicemente un’eredità delle vicende economiche prodotte dalla pandemia. In realtà, al di là della vulgata per cui l’incremento dei prezzi del gas sarebbe sostanzialmente dovuto all’acuirsi delle tensioni geopolitiche, ai ricatti provenienti dalla Russia, aggravate dai rischi di guerra in Ucraina, non si tiene in sufficiente considerazione che il mercato del gas naturale sta subendo un cambiamento non di breve periodo legato alle scelte in materia energetica che sta compiendo la Cina.
La Cina, infatti, si sta impegnando per una forte limitazione del ricorso al carbone, spingendo maggiormente sull’utilizzo, appunto, del gas e delle fonti rinnovabili. Non a caso la Russia ha firmato ultimamente un contratto di 30 anni per la fornitura di gas alla Cina ed è previsto la costruzione di un nuovo gasdotto che collegherà l’Estremo Oriente russo con la Cina.

A quest’elemento di potenziale modifica strutturale della domanda e dell’offerta nel mercato del gas, si aggiunge il ruolo speculativo della finanza: mi riferisco qui al mercato dei diritti di emissione della CO2. Esso regola i cosiddetti “crediti di carbonio”(ETS), un meccanismo dell’Unione Europea per cui, se un’azienda inquina, ha diritto ad una certa quota di emissione di CO2, ma se la sfora, può sempre pagarne di ulteriori, comprate dalle aziende che, invece, ne hanno immesse di meno.
Come tutti i mercati di questa natura, esso si presta a scommesse e speculazioni, tant’è che, con la ripresa produttiva dopo la caduta del 2020, i prezzi di queste quote sono aumentati notevolmente e vengono scaricati sui consumatori: si stima, infatti, che, per quanto riguarda l’Italia, il rincaro delle bollette del gas derivi per l’80% dall’aumento del prezzo del gas, ma per un ben 20% dall’aumento dei prezzi dei permessi di emissione.

Insomma, lo sguardo di breve periodo, alimentato dall’idea della centralità del mercato, fa sì che, da una parte, si metta tra parentesi la necessità di mettere in campo da subito il processo di transizione energetica verso le fonti rinnovabili, le uniche che ci porterebbero ad una reale uscita dalla dipendenza dall’estero e dall’andamento dei mercati internazionali, e, dall’altra, non si costruiscano efficaci strumenti di tutela economica per le famiglie e le piccole imprese.

Come dice anche il presidente di Nomisma Energia Tabarelli, bisognerebbe “tornare alle tariffe amministrate, cioè stabilite dalla mano pubblica. Ma a Roma e a Bruxelles dicono che quella a cui stiamo assistendo è una normale manifestazione del libero mercato, e che si aggiusterà tutto automaticamente”.
Tariffe amministrate, fissate entro limiti certi dalla decisione politica, come si è iniziato a fare in Francia e Spagna, e recupero salariale dall’inflazione (ve la ricordate la scala mobile?) diventano nuovamente questioni fondamentali se si vuole evitare una nuova fase di impoverimento di gran parte della popolazione. Ma ciò mal si concilia, anzi è proprio l’opposto, della politica economica e sociale del governo, tutto teso a esaltare la crescita del PIL e a spingere sulle bontà salvifiche del mercato

La stella logica liberista che presiede alle scelte del PNRR e del disegno di legge delega sulla concorrenza. Quest’ultimo, il cui iter parlamentare è da poco iniziato al Senato e che il governo vorrebbe concludere entro l’estate, darebbe il colpo di grazia finale alla gestione pubblica dei servizi pubblici locali e completerebbe definitivamente i processi di privatizzazione che non si sono mai fermati da 30 anni in qua.
Con quello che si portano dietro tutte le privatizzazioni, e cioè incremento dei profitti, aumento delle tariffe, allontanamento dalle finalità sociali cui dovrebbero rispondere i servizi pubblici. Peraltro, questo processo riguarderebbe l’insieme dei servizi pubblici locali, compresi quelli sociali, quello idrico e della gestione dei rifiuti, di cui si parla meno in questi giorni, ma che sono anch’essi investiti, per esempio, da crescite tariffarie significative.

Il 5 marzo a Ferrara il convegno della Rete Giustizia Climatica

E’ in questo contesto che si colloca anche il convegno sulle politiche dei rifiuti “Ci siamo rotti i polmoni” che la Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara organizza per la mattina del 5 marzo. ( vedi sopra locandina).
Con quest’appuntamento si intende smontare i luoghi comuni e affrontare i nodi irrisolti della gestione dei rifiuti nella nostra città.
Infatti, a fronte del tanto sbandierato buon risultato della raccolta differenziata in città, che ha raggiunto l’87% sul totale dei rifiuti, frutto, in primo luogo, del comportamento virtuoso dei cittadini, abbiamo assistito all’approvazione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, decisa nella primavera scorsa con il pronunciamento dell’Ente regionale ARPAE e non osteggiata dall’ Amministrazione Comunale di Ferrara, che ha portato all’innalzamento dei rifiuti bruciati dall’inceneritore a Ferrara da 130.000 a 142.000 tonnellate.
Inoltre, le tariffe relative ai rifiuti sono cresciute di circa l’8%,
e ora, secondo quanto dichiarato dall’Amministrazione Comunale, si attestano per una famiglia media a circa 300 € l’anno, sopra la media regionale che è di circa 276 €.

Continua intanto l’assordante silenzio dell’Amministrazione Comunale rispetto alla possibilità di ripubblicizzare il servizio dei rifiuti, che Hera gestisce in proroga dalla fine del 2017, quando è scaduta la concessione, e che, invece, può essere affidato ad un’azienda pubblica, dopo aver svolto un apposito studio di fattibilità, seguendo la scelta compiuta dall’Amministrazione comunale di Forlì in questa direzione. Allo stesso modo, non si intende affrontare il tema di una progressiva fuoriuscita dall’incenerimento, che si può realizzare con scelte efficaci in tema di politiche dei rifiuti, a partire dalla riduzione della loro produzione.

Verificheremo, anche con quest’iniziativa e il contributo di ospiti importanti, la volontà di amministratori e esponenti politici regionali e comunali, che sono stati invitati a partecipare, di fuoriuscire dal pensiero unico della centralità del mercato e del profitto.
Sempre che la politica voglia misurarsi con le questioni poste da Associazioni, movimenti, società civile e non continui a rimanere chiusa nella sua torre d’avorio.

Ora i vecchi “no vax” come si chiamano?

Riapro la tesi della triennale. Parlo di post-verità. Giusto nell’introduzione, faccio qualche esempio per spiegare questo fenomeno, e includo nel discorso il movimento no vax.
Era la fine del 2020, e io avevo in mente un particolare scenario: la paura della correlazione tra vaccini e autismo, agitatori politici e ideologici che continuavano a battere su ipotesi ormai screditate dalla scienza, l’agitazione sui social (ma anche sui media tradizionali), l’aumento spaventoso di casi di morbillo nei bambini, ecc ecc.
Una cosa però era chiara: “no vax” significava “contro i vaccini”, erano coloro che rifiutavano categoricamente di far vaccinare se stessi e i propri figli.

Non pensavo che, pochi mesi dopo, avrebbe significato “chi non ha ancora ricevuto una dose contro il Covid19”.

Una conferma è arrivata alla fine del 2021, con l’approvazione da parte dell’EMA (European Medicines Agency) di Novavax.
Da allora fioccano articoli del tipo: “Novavax: il vaccino che piace ai no vax”, “Perché Novavax è il vaccino che piace ai no vax”, “Novavax, medico no-vax: «potrebbe essere più sicuro ed efficace» e così via. E come mai piace così tanto a questa categoria di persone? Semplice: perché questo è un vaccino tradizionale, perché usa una tecnologia già sperimentata da decenni.

Mentre scrivo questo articolo, sono molti gli Italiani che hanno ricevuto tutte le vaccinazioni, a parte una; che per aspettare Novavax (che sembra stia per arrivare, ma la cui data di arrivo è stata come un’oasi-miraggio che sembra sempre vicina, ma mentre la si sta per raggiungere si allontana) sono rimasti sospesi dal lavoro.

Sia chiaro, questo non vuole essere un articolo contro i vaccini che vengono attualmente somministrati in Italia; ma risulta chiaro il cortocircuito tra il significato che “no vax” aveva circa un anno fa rispetto ad oggi.
E dunque mi chiedo: ma i no vax puri, quelli di una volta, ora come si chiamano? E come si chiameranno in futuro?

Vite di carta /
Una donna di nome Circe

 

Che donna, Circe. Ho preso in mano il romanzo che le ha dedicato la studiosa statunitense Madeline Miller, pensando a quel che sapevo di lei e della storia d’amore con Ulisse, quella storia tante volte riletta dalla Odissea insieme agli studenti: lei che trasforma in maiali i compagni dell’eroe greco, adoperando le arti magiche in cui eccelle; lui che è preparato a incontrarla dalle istruzioni avute da Ermes e si sottrae alla metamorfosi; loro che finiscono per godere insieme delle gioie del talamo per un intero anno. Circe è una ospite generosa che trattiene l’amato eroe e i suoi compagni, tornati a essere uomini, sull’isola di Eea, in cui è stata esiliata dal padre da tempo immemorabile a causa delle sue arti magiche

Ma non volevo indugiare troppo sulla storia d’amore tra un mortale molto particolare e una immortale altrettanto indocile ed eccentrica. Vorrei rimanere su di lei, per ripensare a come nel libro della Miller si fa narratrice della propria vita e dei luoghi e delle relazioni che ha avuto con divini e mortali.

La storia con Ulisse costituisce solo una parte del suo vissuto, per quanto importante e foriera di sviluppi straordinari. C’è un prima e c’è un dopo su cui intendo soffermarmi: due fasi che Circe illumina col suo potente laser narrativo e con il senso critico che le proviene dall’essere collocata a metà tra divini e umani.

Divina lo è eccome, figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide; ma ha anche tratti particolari che le fanno amare la compagnia dei mortali, che le fanno avvertire il dolore del mondo. Degli dei suoi parenti e di tutti gli altri sa mettere in luce, per esempio, i capricci e la prevedibilità del comportamento. Dei mortali condivide le passioni, come indipendenza, amore, amicizia, nostalgia, sete di conoscenza. Dunque il suo è un punto di vista che si mantiene più tormentato ma anche più libero.

Nella infanzia e nella giovinezza Circe patisce le limitazioni della figlia meno amata, ha una carattere difficile, una brutta voce che le viene spesso rimproverata, è poco curata dalla madre e poco ascoltata dal padre. Si abitua a stare con se stessa e diviene sempre più autonoma e svincolata dallo standard di vita di una dea, apprendendo da sola le arti magiche.

La famiglia si adonta continuamente per il suo comportamento, la famiglia la esilia. La parabola della sua vita ricorda quella di Annemarie Schwarzenbach (1908-1942) [Qui] che fu scrittrice, fotografa, archeologa e giornalista, raccontata magistralmente da Melania Mazzucco nel libro Lei così amata, dove le cose tra mortali non vanno diversamente da quello che viene riservato a Circe, anche se siamo nel primo Novecento.

Annemarie avrebbe potuto adagiarsi in una vita comoda e agiata, invece prese le distanze dalla famiglia e per rimanere fedele a se stessa visse in una fuga continua, tra viaggi in ogni parte del mondo, rapporti irregolari con uomini e donne e molti scandali.

Da adulta la Circe raccontata da Madeline Miller è un’altra donna rispetto alla ammaliatrice di Ulisse che ci consegna l’Odissea di Omero, è una creatura ‘diversa’ che, per quanto divina, conosce l’esilio, la solitudine e la violenza che le viene usata da pirati di passaggio sulla sua isola.

La splendida parentesi della passione per Ulisse la indirizza verso un destino misterioso: scopre di aspettare un figlio quando l’eroe ha ripreso il viaggio in mare verso Itaca. Quando il bambino nasce gli imprime lo stigma della lontananza dal proprio padre, dandogli il nome di Telegono (che significa ‘nato lontano’) e lo cura incessantemente con un amore assoluto. Le arti magiche di cui è capace sono tutte spese a preservare il bambino da ogni pericolo umano e divino.

Molte cose non sapevo, della personalità inquieta di Telegono e del risentimento di Telemaco verso il padre Ulisse dopo il suo ritorno a Itaca. È questa ultima parte della storia che trovo più attraente.

Dunque Circe ha generato un figlio di cui Ulisse non conosce l’esistenza, un figlio che divenuto adolescente vuole conoscerlo e salpa alla volta di Itaca per incontrarlo. Lo incontra e lo uccide anche, perché Ulisse assale il giovane forestiero, credendolo un pirata e si ferisce a morte sulla sua lancia avvelenata.

Telegono, schiacciato dal senso di colpa, conduce con sé ad Eea Penelope e il fratello Telemaco. E Circe offre ospitalità alla moglie dell’eroe che ha amato e al figlio di lui, che non ricorda per nulla nei comportamenti e nei pensieri il grande Odisseo. Ho ridotto i fatti all’osso per lasciare spazio almeno a due considerazioni.

La prima riguarda le dinamiche familiari, imperscutabili. La famiglia è quella formata da Ulisse, Penelope e Telemaco e le sorprese sono tutte derivate dai racconti postomerici ripresi da Miller, specie dalla Telegonia di Eugammone di Cirene [Qui], con cui si conclude il ciclo dei miti troiani.

La sorpresa più grande mi è venuta dal ritratto che Telemaco fa del padre, che dopo la strage dei proci, i pretendenti di Penelope durante la sua assenza da Itaca, si è vendicato con ferocia anche delle loro famiglie e si è fatto un sovrano pieno di ombre, bugiardo e a tratti perverso. Ha provato sgomento, Telemaco, per un padre così e ne ha preso le distanze.

Anche Penelope contribuisce a darne un ritratto negativo, quando spiega a Circe perché sta cercando ospitalità fuori da Itaca. Circe ha ben compreso quanto noi umani, come gli dei d’altro canto, siamo mutevoli: cambiamo con la pratica del vivere e intanto cambia il giudizio degli altri su di noi. Difficile afferrare una volta per tutte la cifra del nostro passaggio su questa terra. Più difficile ancora nel caso di Ulisse, ma la maga, che da bambina aveva avuto pietà verso il supplizio di Prometeo, ora esercita al meglio la umana tolleranza e sa accettare il declino del suo eroe per come glielo raccontano la moglie e il figlio.

Pure Penelope ha le sue ambiguità (sull’argomento va ricordato il bellissimo saggio di Eva Cantarella, L’ambiguo malanno, nella prima parte al capitolo secondo, che è dedicato ai poemi omerici) e una complessità che la avvicina a poco a poco a Circe; non a caso nel libro di Miller rimane a imparare le arti magiche ad Eea, mentre Circe rafforza il proprio legame con Telemaco.

La seconda investe la lettura in chiave contemporanea che si può fare di Circe, una che ha proceduto per sottrazione attraverso le fasi della sua esistenza, lunghissime. Una che ha incassato più rinunce e perdite che altro, che ha saputo lasciar andare il figlio verso il proprio destino. Ha modellato il tenore della propria vita con la magia, fin dove ha potuto.

Alla fine, dopo l’incontro con Telemaco con i suoi tratti di uomo stabile ed equilibrato, conduce a termine la metamorfosi interiore in cui si è a lungo dibattuta e sceglie di diventare una mortale: come fa notare Maria Grazia Ciani nella postfazione al libro, Circe “conclude l’affannosa ricerca di identità inseguita per tutta la vita sposando borghesemente Telemaco, da cui ha delle figlie, scegliendo la pace di Eea, la tranquillità di una vita che, partendo dalla voce, si è estesa a tutta la sua esistenza. Un marito, delle figlie soavi, la pace quotidiana. Hic manebimus optime.

Questo cerchiamo, ieri come oggi: un posto dove stare, uno spazio vitale che ci dia senso e consapevolezza. Se Penelope appare liberata dalla ‘gabbia’ familiare e trova stabilità sull’isola incantata che era stata la dimora di Circe, Circe trova nella famiglia il suo luogo di arrivo.

Nel mio testo faccio riferimento a:

  • Madeline Miller, Circe, Marsilio, 2018,
  • Melania Mazzucco, Lei così amata, Einaudi, 2000
  • Eva Cantarella, L’ambiguo malanno, Einaudi Scuola, 1995

 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

FERRARA: NO AL GLIFOSATO IN CENTRO STORICO
lettera al Sindaco della Rete Giustizia Climatica

LA RETE PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA DI FERRARA SCRIVE A SINDACO E ASSESSORE ALL’AMBIENTEPER RICHIEDERE LA SOSPENSIONE DELL’USO IN AREE URBANE DI DISERBANTI A BASE DI GLIFOSATO

A fine 2017 molti avevano sperato che le ragioni della tutela della salute umana e dell’ambiente prevalessero finalmente su quelle delle lobby e l’Ue si pronunciasse contro il rinnovo alla autorizzazione all’uso del glifosato. Dopo diverse riunioni in ambito comunitario non si era raggiunta la maggioranza qualificata circa il rinnovo del discusso erbicida, ma alla fine così non è stato perché, nonostante il voto contrario di paesi importanti come Francia e Italia, l’autorizzazione all’uso del glifosato è stata rinnovata per altri 5 anni grazie al voto favorevole della Germania. Tutto ciò non aveva comunque suscitato stupore visto che erano in atto in quel periodo le trattative per la fusione tra Monsanto, leader nella produzione di sementi Ogm, in particolare di quelli resistenti all’erbicida Roundup, prodotto a base di glifosato dalla multinazionale statunitense, e Bayer, colosso della chimica tedesca.

La battaglia contro questa molecola aveva visto in tutta Europa ed anche nel nostro paese una mobilitazione davvero enorme: oltre 1 milione e 300.000 firme erano state raccolte per mettere al bando la molecola. In seguito a queste azioni numerose amministrazioni comunali e regioni italiane, come Calabria e Toscana, avevano preso provvedimenti concreti per la sua messa al bando, escludendo ad esempio dai sussidi economici le aziende che continuavano ad utilizzarlo.
Anche l’allora ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina, in risposta alle proteste organizzate dalla Coalizione Stop Glifosato, si era espresso contro il rinnovo dell’autorizzazione dell’erbicida. A dicembre 2017, un po’ a sorpresa, Repubblica ospitò un intervento della senatrice a vita Elena Cattaneo, farmacologa, biologa, nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington e per le sue ricerche sulle cellule staminali, chiaramente a difesa dell’uso di questa sostanza: “Gli agricoltori lo usano sui loro campi perché costa poco, circa 9 euro/ettaro, viene degradato velocemente dai batteri nel terreno ed è efficace, e si usa anche per diserbare strade e binari”.

Tra coloro che risposero alle considerazioni della senatrice, Stefano Bocchi, professore ordinario di Agronomia e coltivazioni erbacee dell’Università di Milano che, citando un rapporto Ispra del 2016, affermava quanto le acque superficiali della Lombardia risultassero contaminate da glifosato e dal suo metabolita Ampa e si superassero i limiti di qualità ambientale risultando dannosi per molte specie che popolano i corsi d’acqua.

Ma anche ISDE Italia (Medici per l’Ambiente) espresse valutazioni in merito alle dichiarazioni della Cattaneo, affermando che “quando le dichiarazioni inquadrano i fatti in modo distorto e al tempo stesso pretendono di fornire indirizzi che attengono alla salute pubblica e alla tutela dell’ambiente, l’attenzione di ISDE Italia viene inevitabilmente sollecitata, e che il commento a firma di Elena Cattaneo su Repubblica (Gli equivoci sul glifosato ”), elenca una serie di pregiudizi e di semplici opinioni sugli effetti sanitari e ambientali dell’erbicida più diffuso al mondo che non coincidono nel modo più assoluto con le conoscenze attualmente disponibili; il tutto, accompagnato da un concentrato di nozioni sull’agricoltura sostenibile (biologica e biodinamica) che lascia francamente sconcertati.”.

Da allora sono trascorsi 5 anni ma, a quanto sembra, nulla è cambiato.
Bene perciò ha fatto la Rete per la Giustizia climatica di Ferrara a non sottovalutare l’intenzione di Ferrara Tua di utilizzare prodotti per il diserbo delle strade potenzialmente tossici e nocivi per la salute umana e degli animali domestici.

Di seguito è riportata la lettera della Rete per la Giustizia climatica  a Sindaco e Assessore all’Ambiente di Ferrara

Come componenti del Tavolo Verde per la Rete Giustizia Climatica, vi scriviamo per chiedere di sospendere l’intervento di diserbo con glifosato previsto per il 22 febbraio in alcune vie del centro storico e di individuare modalità di intervento più rispettose dell’ambiente e della salute.

In via Mellone, via Formignana, via Scandiana, via Brasavola, via Campofranco i cittadini hanno trovato cartelli di Ferrara Tua con l’avviso che il 22/02/22 verrà eseguito un trattamento di diserbo chimico con GLIFOSATO, accompagnato dal consiglio di “NON SOSTARE NELL’AREA NELLA GIORNATA”.

E’ davvero incredibile che un prodotto pericoloso, da usare con particolare cautela in spazi aperti, venga scelto da Ferrara Tua per eliminare l’erba dalle strade strette del centro storico, caratterizzate da alta densità abitativa.

Durante i lavori del Tavolo Verde per la redazione del nuovo contratto di servizio tra il Comune e Ferrara Tua, avevamo proposto di procedere al diserbo solo con mezzi meccanici manuali e di bandire ogni fitofarmaco chimico (almeno fintanto non fossero in commercio sicuri prodotti biologici).

Ci era stata illustrata dall’Amministrazione la necessità, per sostenibilità economica, di una fase di “transizione graduale” attraverso cui arrivare all’obiettivo, pur condiviso, di eliminare l’uso dei fitofarmaci nelle aree abitate e ci era stata nel contempo data l’assicurazione che nel centro storico il glifosato non era in uso.

Alla fine la scheda tecnica approvata prevede: “Ai fini della tutela della salute e della sicurezza pubblica è necessario ridurre l’uso dei prodotti fitosanitari ….La modalità privilegiata di intervento sarà pertanto il diserbo meccanico e quello fisico, limitando il diserbo chimico alle modalità indicate dalla Delibera della Giunta regionale n. 2051 del 03 dicembre 2018, con una particolare attenzione agli sviluppi tecnici e scientifici che consentano a costi sostenibili un progressivo superamento delle tecniche di diserbo chimico”.

Considerato che nella scorsa primavera avevamo potuto constatare con soddisfazione un maggior impegno di squadre di operai dedite al diserbo meccanico manuale nella nostra città, riteniamo che l’Amministrazione vorrà procedere con coerenza sulla strada della riduzione dell’utilizzo dei diserbanti chimici a cominciare da quelli più pericolosi.

Riteniamo che, in coerenza con il lavoro fatto al Tavolo verde, concorderà con noi sulla necessità di bloccare l’intervento di diserbo con glifosato previsto da Ferrara Tua per il prossimo 22 febbraio.

A sostegno della nostra richiesta infine, alcune note per ricordare la pericolosità dell’uso del glifosato.

Il GLIFOSATO è un erbicida diffuso in tutto il mondo col nome commerciale Roundup, introdotto dalla Monsanto negli anni’70. Della sua pericolosità si discute da anni perché studi di laboratorio del 2012 sui ratti ne dimostrano la cancerogenicità.

Nell’uomo la cancerogenicità non è stata dimostrata con assoluta certezza, per questo la Agenzia Internazionale Ricerca sul Cancro lo ha inserito nella categoria dei “probabili cancerogeni” (categoria 2A, come il DDT). OMS, EFSA, ECHA, FAO consigliano cautela e ne vietano l’utilizzo in aree densamente popolate.

L’Unione Europea ne ha approvato l’utilizzo fino al 15/12/22, ma le aziende che lo producono hanno richiesto il rinnovo dell’approvazione.

La valutazione finale spetta a Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare e Agenzia Europea dei Chimici, le cui conclusioni sono attese per Maggio ‘22.

Confidando che condividiate la necessità di bandire il glifosato dai centri abitati e che la nostra richiesta verrà’ accolta, Vi inviamo cordiali saluti.

I componenti del Tavolo Verde Rete Giustizia Climatica

RETE PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA FERRARA

http://www.giustiziaclimaticaferrara.it – rgc.ferrara@gmail.com

Italiani in bolletta.
Un po’ di dati per smascherare la narrazione mainstream

 

Che la geopolitica entri nella case degli italiani con le bollette? Il Donbass è un’area dell’Ucraina al confine con la Russia dove i russi sono in maggioranza ed esistono forti spinte indipendentiste dall’Ucraina (favorite dalla Russia).
A novembre è terminato il gasdotto russo Nord Stream 2 che arriva dal mar Baltico (senza passare per l’Ucraina) in Germania, che ha fortemente voluto, ma che non vogliono gli Usa, i maggiori produttori mondiali di gas (da scisto-fracking) che venderebbero via nave ma che costa almeno il doppio di quello russo (da 20-30 centesimi a 70) e più inquinante.
Ma la contesa non è commerciale è “strategica”. Per George Fridman (consulente del Governo Usa, Intelligence Agency Stratfor) gli Usa temono un’alleanza tra una Germania-Europa ricca di tecnologie e capitali e una Russia ricca di materie prime e manodopera.
Da sempre gli Usa non vogliono che l’Europa si rafforzi con un’alleanza con la Russia (divide et impera).

I contratti “spot” (a breve) sul gas sono saliti alle stelle, ma quelli a lungo termine (anche di Eni con la Russia) che “tirano” 2/3 del gas sono sempre a 20-30 centesimi al m.cubo (i prezzi reali sono privacy), che vengono però venduti agli ignari consumatori (italiani) ai prezzi “spot”.
Così Eni prevede 14 miliardi di extraprofitti nel 2022 e ne ha fatti 4,7 nel 2021, le bollette vanno alle stelle e gli italiani in bolletta e continuano a vivere nella “bolla” di quello che dice la propaganda mainstream (sulla guerra, sulla pandemia, sulle bollette e quant’altro).
Del resto l’informazione è il 5° potere. Non è quindi escluso che insieme al conflitto Usa-Russia (che vuole stati “cuscinetto” alla sua frontiera) ci sia (dietro le quinte) un conflitto Usa-Europa, dove a farne le spese sono i cittadini (specie italiani) non avendo il Governo fatto nulla per una seria autonomia energetica.

La stima di Arera (Autority energia) è che la bolletta elettrica cresca nei primi 6 mesi del 2022 del 131% (da 20 a 46 centesimi/kWh, tasse incluse) e quella del gas del 94% (da 70,7 a 137,3 al metro cubo).
E già c’era stato un aumento nel 2020 sul 2019 del gas del 40%.

In realtà gli aumenti sono molto maggiori (come dice la bolletta di Nicola Cavallini, vedi il suo articolo su questo giornale Qui ) e differenziati (per es. Hera gas a gennaio costa 158 cent (non 137) e quindi l’aumento non è del 94% ma del 123%. Il futuro è incerto, perché “dovrebbero calare del 10-20-30%, cioè rimanere ad un livello da incubo.

Secondo le stime della Cgia, famiglie e imprese dovranno farsi carico nel primo semestre 2022 di un amento di 33,8 miliardi solo per luce e gas, con un’inflazione già al 5,3% (che si prevede salga al 7%), una famiglia di 3 persone si deve quindi attendere un incremento di circa 1.500/3.000 euro in un anno, con un ulteriore impoverimento.
La qualità della vita (welfare, inquinamento, restrizioni da pandemia e depressioni,…) è già in caduta libera da vari anni (e ha avuto una batosta senza precedenti negli ultimi due) e ciò spiega il sentiment di sfiducia (e rabbia) che cova tra gli elettori per un modello socio-economico che deteriora la “buona vita” di un tempo, che proprio non c’é più.

Protestare diventerà più complicato se per pochi studenti si mobilitano legioni di poliziotti che manganellano. E si fa di tutto per nasconderlo, anzi si dice che in Europa noi siamo i “migliori”.

L’aumento della spesa sul 2019 per gas e luce è di 44,8 miliardi (di cui 15,4 per le famiglie e 29,4 per le imprese). La somma di tutte le misure adottate dal Governo per ridurre i costi è di 11 miliardi (legge di bilancio+decreto precedente+quello attuale di 5,5 miliardi), gli altri 33,8 li pagheranno famiglie e imprese. Il Governo dunque sterilizza un quarto degli aumenti.

Cosa hanno fatto gli altri Paesi? Spagna e Francia hanno imposto un “tetto” massimo agli incrementi, Portogallo, Polonia, Grecia, Estonia hanno previsto forti sconti o azzerato quelli di rete e rinviato gli aumenti.
In Gran Bretagna il problema non si pone perché gli approvvigionamenti sono sicuri e il costo di gas e luce è il 30% di quello dell’Italia (per 40% da fonti rinnovabili, 38% da gas naturale, 16% da nucleare, 2,7% da carbone, 3% da altro).

In UK il Governo si occupa di cose strategiche, come dovrebbero fare tutti i Governi (e a maggior ragione l’Europa).
Il Governo italiano poteva fare di piu? Beh, oltre a prendere 1,5 miliardi dalle aziende che producono energie rinnovabili, avrebbe potuto prenderne molti di più da Eni che in 2 anni farà quasi 20 miliardi di extra profitti (proprio per il gas).
Eni ha contratti di lungo periodo (per almeno 2/3 delle forniture) a 20-30 centesimi (a gennaio lo paghiamo in bolletta come materia prima 129 centesimi).

Putin ha detto un mese fa in video conferenza (si può vedere su Youtube) che ci darebbe il gas anche a meno se solo fossimo un po’ più indipendenti dagli Americani….
Così gli sconti potrebbero aumentare e i pagamenti essere dilazionati. Inoltre si potrebbe cogliere l’occasione per cambiare la tariffazione del gas e della luce, facendole diventare (come quella dell’acqua), un bene essenziale (con Iva ridotta al 5% in modo permanente, com’è già negli altri paesi da anni), in modo che una quota minima (vitale) diventi un “bene comune” con una tariffa a basso costo e poi con incrementi proporzionali ai consumi, in modo anche da incentivare famiglie e imprese a consumare meno in un’ottica di sostenibilità. Oggi la tariffa del gas è quasi uguale (anzi ad un certo punto più consumi meno costa al metro cubo).

Infine doveva essere più lungimirante la politica nazionale (o europea?) di approvvigionamento di lungo periodo evitando i contratti spot oggi salatissimi e differenziare le fonti per un Paese (si sa) povero di materie prime. Ma a pagare sono sempre i cittadini mai manager o ministri.

L’Italia ha inoltre la più estesa dotazione geotermica del mondo, ma questo prevede Governi (e partiti) che si occupino delle cose strategiche e importanti dei cittadini e la sfiducia nasce se ci si occupa solo del contingente e non c’è visione di lungo periodo.

Come per altre cose (che non siano cibo e sole) anche per le bollette di gas e luce l’Italia non è affatto il paese “migliore”, come quasi tutta la stampa mainstream cerca di accreditare (del resto è comprensibile per chi si occupa di propagandare, nonostante la contraddizione di essere più global che patrioti).
E lo abbiamo visto con la pandemia dove si fa credere che siamo stati i ”migliori” (de che?). Verrà il tempo dei consuntivi (quelli veri) da cui risulterà che abbiamo avuto le maggiori restrizioni (dalle scuole ai negozi, alle imprese, con pass vaccinali e impedimenti al lavorare un milione di non vaccinati –unici nel mondo-), creato una divisione sociale assurda, con la logica di “divide et impera”, col risultato di avere uno dei maggiori tassi di mortalità in Europa.

L’Economist (di proprietà di Exor, famiglia Agnelli/Elkann) aveva titolato a fine anno “Italia paese dell’anno” (2021), ma un successivo articolo (ovviamente non riportato) ci ha ridimensionato facendo notare che il Pil era cresciuto del 6,4%, ma che l’inflazione a gennaio 2022 è 5,3% e quindi la crescita reale è dell’1%, che abbiamo però aumentato il debito pubblico moltissimo (+20% del Pil), che l’occupazione cresce poco (e per metà è a tempo determinato), che il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto di 0,2%, mentre in quasi tutti i paesi europei è cresciuto e quindi ci colloca ora al 16° posto su 27.

Ma come diceva il professor Zenezini l’ ”importante è che la gente ci creda”. Lo stesso Economist (Democracy Index 2021) non ci considera tra le “piene democrazie” (solo 21 paesi al mondo, tra cui 12 europei), ma tra le “democrazie imperfette” (36° posto al mondo)…per diventare i “migliori” abbiamo ancora tanta strada da fare (ma se a raccontarcela ci fa stare meglio, va bene così).

Nell’immagine, la bolletta di una famiglia inglese in un appartamento di 70 metri quadri e 3 persone da cui si desume che il prezzo del gas al metro cubo in febbraio 2022 è si 37 cent di sterline (pari a 45 cent di euro) tutto incluso con iva al 5%, pari al 29% del prezzo italiano. Quello di Hera gas è infatti di 158 cent di euro al metro cubo (a gennaio 2022).

TEATRO
Lezione di felicità francescana con “Uno, nessuno e centomila”

Pirandello non è mai stato uno dei miei autori preferiti. Mi disturbavano quel pessimismo distruttivo, quei pensieri arrovellanti e quelle situazioni che fanno esplodere la vita dei suoi personaggi, fino a mandare a gambe all’aria condizioni agiate e vite ben assestate.

Messa in scena teatrale del romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno e centomila” al Comunale di Ferrara

Il teatro, la bravura degli attori e forse anche l’esperienza di vita, hanno saputo convertire questo disagio e dargli tutta la forza illuminante e anche poetica ed esistenziale che fino a ieri non avevo saputo cogliere.

“Uno, nessuno e centomila” in scena da sabato 10 a lunedì 21 febbraio 2022 al Teatro Comunale di Ferrara regala questo. Il nichilismo – che nel primo atto toglie significato, gioia e armonia all’esistenza del protagonista Vitangelo-Gengè – si riscatta nel secondo e ultimo atto, grazie all’affermazione del senso della vita in termini anti-materialistici e quasi ascetici. Così si passa da quel “uno” che Vitangelo credeva di essere e che scopre diverso dalle “centomila” proiezioni di sé con cui gli altri lo vedevano nel primo atto, per arrivare a un “nessuno” più felice e contento, proprio in virtù della rinuncia a ogni bene e a ogni ruolo precostituito.

Pippo Pattavina in “Uno, nessuno e centomila”

La prima cosa che mi ha riconciliato con Luigi Pirandello è stata la bellezza delle parole, incastonate nella bellezza della scena. Mi intristiva il ricordo dell’episodio scatenante della crisi, quello del naso che Vitangelo non si era mai accorto che pendesse da una parte, come invece sua moglie gli fa notare e che manda pian piano in crisi tutta la sua identità. È bello, invece, che nella pièce questo dettaglio prosaico venga subito inquadrato nei termini pirandelliani più poetici dello “straripamento di un fiume che inonda la terraferma e la stravolge”. La metafora dà subito un senso più alto e poetico ai dettagli corporali.

Il passaggio dal romanzo alla rappresentazione teatrale viene reso possibile da un espediente narrativo: l’apertura del racconto affidata alla presenza di un giudice che interroga il protagonista di questa incredibile vicenda, che ha capovolto, insieme al suo destino, anche quello delle persone che lo circondano: moglie, dipendenti della banca, compaesani.

Pippo Pattavina con Marianella Bargilli nel primo atto di “Uno, nessuno e centomila”

Il protagonista del romanzo pirandelliano Vitangelo Moscarda, magistralmente interpretato da Pippo Pattavina, risponde al giudice per fare chiarezza sulla vicenda che lo ha portato a cedere il suo impero bancario a favore della fondazione di un ospizio di mendicità. E per spiegare il senso degli accadimenti Pippo-Vitangelo parla di “argini che si rompono”, di confini che “nei momenti di piena vengono sconvolti, con la fiumana che straripa e sommerge tutto”.

Pippo Pattavina con Marianella Bargilli in “Uno, nessuno e centomila”

Da qui si entra nella storia, presentata come narrazione in flashback. Perché questa versione teatrale del romanzo inizia a ritroso, con il protagonista ricoverato egli stesso in quell’ospizio, dove vive con serenità inaspettata e in parità con tutti gli altri mendicanti, “vestendo la divisa della comunità e mangiando nella ciotola di legno”.

La bellezza delle parole e del loro messaggio si riaccende ancora nel finale, dove va a sottolineare il senso vero della vita che lui sente di avere raggiunto con queste decisioni, apparentemente folli, di rinuncia al benessere e a un’esistenza agiata, oziosa, ma scontata. La folle rinuncia e la liberazione da un ruolo coincide con la presa di distanza dai nomi e soprannomi che gli erano stati imposti da altri (Gengé, Svirgola, Usuraio) e da un’immagine di sé che sentiva non corrispondere con il suo vero io, imprigionata in una routine già scritta e conclusa. “Io sono vivo e non concludo – dice Vitangelo – La vita non conclude. E non sa nomi, la vita. Respiro quest’albero tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro e vento: il libro che leggo, il vento che bevo, tutto fuori, vagabondo”.

“Uno, nessuno e centomila” al Teatro Comunale di Ferrara

Da un mondo dominato da beni materiali e da rapporti che sanno di finzione e artificio, si entra così in un mondo di poesia, dove tutto “è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni”.

Scena in banca con Pippo Pattavina tra Giampaolo Romania e Rosario Minardi

Capaci di dar vita a personaggi diversi, trasformandosi con camaleontica bravura Marinella Bargilli (moglie, amante e diseredata), i non solo bancari Giampaolo Romania e Rosario Minardi e il non solo giudice Mario Opinato.

La rappresentazione è incastonata in una scenografia magistrale. Opera di Salvo Manciagli con una quinta scorrevole color cemento, che grazie a proiezioni luminose mirate si tinge del disegno pittorico di una città per le scene di vita urbana, della calligrafia inchiostrata delle carte per la scena dal notaio e delle riproduzioni a pennello di carta moneta per incorniciare le scene bancarie.

Una cornice avvolgente e bella, entro la quale prende forma quella nuova visione dell’esistenza, sfaccettata e stravolgente. Pirandello dà una versione artistica e creativa a turbamenti e concetti che stava formulando in quegli anni il fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. Lo scrittore, che non a caso qualche anno dopo avrebbe ottenuto il Premio Nobel per la letteratura, riesce a dare corpo e anima alle più moderne nozioni psicologiche e neurologiche, fondate sulla scoperta della complessità dell’essenza di ogni persona. “Uno, nessuno e centomila” è l’ultimo suo romanzo, ed è quello lui stesso definì in una lettera “il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”. Un condensato così riuscito che, a cent’anni di distanza, compie la magia di continuare a farci riflettere. E fa riecheggiare in termini complessi la scelta di vita randagia, portata una settimana fa su queste stesse scene ferraresi da Sergio Castellitto nei panni di “Zorro”. Il messaggio è simile, fuori dalla gabbia degli schemi, rinunciando anche alla dolcezza della polpa pur di potersi tenere in pugno il nocciolo di un’esistenza forse scarna, ma densa ed essenziale. Per poter sempre “Rinascere, attimo per attimo” con francescano stupore.

bolletta povertà

Produci, consuma, crepa (di freddo, al buio)

 

Le bollette di gas e luce arrivate in questi giorni, o in arrivo, sono come la Coca Cola egualitaria di Andy Warhol: “una Coca Cola è sempre una Coca Cola e non c’è quantità di denaro che possa farti comprare una Coca Cola più buona di quella che l’ultimo dei poveracci si sta bevendo sul marciapiede sotto casa tua” diceva il buon Andy. Una bolletta quintuplicata è sempre una bolletta quintuplicata: riduce al verde anche la cosiddetta classe media (genere in via di rapida estinzione). Tutti uguali, tutti in bolletta.

Finalmente anche l’homo consumptor, che ha sostituito negli ominidi l’homo sapiens, ha potuto sentire sulla propria carne il morso del libero profitto (degli altri). Questa volta la brutale natura del “mercato libero”, espressione che appare stampigliata sul frontespizio delle nostre bollette, ha fatto irruzione nelle case di tutti. In questi casi le persone si mettono a nudo, come quando non ci si vergogna più, nemmeno per gli altri, perchè si è oltre la vergogna.

Questa è la differenza tra il consumo effettivo in metri cubi di gas nella mia abitazione (sempre la stessa) tra il 2020 (in alto, conguaglio arrivato nel 2021) e il 2021(in basso, conguaglio arrivato nel 2022, adesso). 85 metri cubi in più. Il 9 per cento.

Nelle prossime due foto, ho sottolineato il prezzo massimo raggiunto a metro cubo nella prima parte del 2021 e il prezzo massimo raggiunto dopo la partenza della crisi energetica, quindi nella seconda parte del 2021.

Come si può vedere, tra il prezzo massimo a metro cubo raggiunto ante crisi dei prezzi e il prezzo massimo raggiunto post crisi c’è un rapporto di circa 1 a 6: cioè il prezzo massimo è aumentato di sei volte.

Finisco di annoiare con l’ultima foto, quella del confronto tra i due conguagli, quello dell’anno scorso e quello di quest’anno:

Per essere precisi, le cifre pagate per il puro consumo(senza guardare le tasse) pagate nell’anno 2020 (conguaglio 2021) sono state di 208,89 euro; nel 2021 (conguaglio 2022) di 1.144,26 euro. Cioè sei volte tanto. Quindi: aumento del consumo, 9 %. Aumento del costo, 600%. A fronte di questo, la riduzione dell’IVA (non di tutte le accise) al 5% invece che al 10% per gli ultimi 3 mesi ha fatto l’effetto di un pannicello caldo sulla fronte di una persona che sta morendo di ipotermia. Infatti l’aumento finale è cinque volte e mezzo, non sei. Una goduria.

In questo si è concretizzata, finora, l’azione del Governo di sostegno alle famiglie sul caro bollette.  Qualche nostra vecchia conoscenza, onnipresente in tv e sui social, affermava che il contributo di solidarietà non serviva a nulla e che abbassando l’IVA il “governo dei migliori” aveva stanziato ben più denaro di quello che serviva per smorzare l’aumento dei prezzi. Stranamente adesso non ne parla più. Sarà arrivata una bolletta anche a lui?

Mario Draghi nell’ultimo incontro con la stampa ha detto: “Una parte dell’intervento sarà di ‘sostegno’ per contenere l’emergenza. Una parte ‘strutturale’ per il potenziamento delle rinnovabili, della produzione di energia. C’è poi una parte di ‘fornitura’ per assicurare la fornitura dell’energia all’industria a prezzo basso, ‘calmierato’ e con certezza sullo stoccaggio. La priorità è assicurare al Paese una crescita sostenuta e sostenibile. Fondamentale è che la crescita non sia ‘strozzata’ dalla crescita dei costi dell’energia”. 

Caro Mario Draghi, per me sarà fondamentale ridurre, non crescere. Io non crescerò affatto, bensì diminuirò i consumi. Diminuirò tutto. Se tutti facessero come me andremmo presto in recessione, e francamente non me ne importa niente. Mi scalderò meno, starò al buio, leggerò al lume di candela i libri che ho già, non accenderò più la televisione. Finché l’acqua si potrà usare a prezzi accessibili, mi laverò e la berrò. Diversamente, ci penseremo. Già la pandemia mi ha portato a diradare la gente, diraderò anche tutto il resto. Rinunciare alle cose e alle persone superflue, la mia personale rivincita nei confronti della sua indifferenza. E al fatto che non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello che, in una situazione simile, si potrebbero anche intaccare i profitti delle società che fatturano gas e luce.

“Rinunciare alle cose è meno difficile di quel che si crede: tutto sta a cominciare. Una volta che sei riuscito a prescindere da qualcosa che credevi essenziale, t’accorgi che puoi fare a meno anche di qualcos’altro, poi ancora di molte altre cose”. Questo invece lo diceva Italo Calvino, con tutto il rispetto molto più di un economista. Decrescita, questa è la mia via d’uscita. Che sia felice o infelice, non è rilevante. La felicità non c’entra nulla con l’economia. Ho semplicemente deciso che non creperò consumatore.

 

 

Il caos di una campagna sanitaria fallimentare,
il clima di odio e la compressione dei diritti costituzionali

 

… E fu così il 14 gennaio del nuovo anno, venerdì, non riuscendo a prenotare un tampone dal sito ufficiale della Regione Toscana perché il sistema sotto la pressione delle migliaia di richieste era andato in TILT, sono andata a fare il tampone rapido antigenico, da me detto “della liberazione”, riconosciuto dall’ordinanza n. 2 del 10 gennaio 2022 del Presidente della Regione Toscana (qui), valido ai fini della certificazione di inizio e di fine malattia.
Per avvantaggiarmi, l’avevo prenotato telefonicamente la settimana prima, presso la Farmacia Centrale di Vicchio, di proprietà della famiglia del sindaco, attuale presidente della Società della Salute del Mugello!
Insomma, una cosa seria, ho pensato. Questa volta mi ero sentita davvero in una botte di ferro.

Ecco fatto! A voce il farmacista dichiara: negativo; e io: bene! Dopo qualche ora mi arriva, bello fiammante, il green-pass di 48 ore sul l‘App. IO, quella a fondo blu dei Servizi Pubblici. Che prontezza, penso; buon segno.

Il lunedì seguente, 17 gennaio, rientro a lavoro e come al solito mi chiedono il green-pass. Cavolo, 48 ore sono passate e il nuovo simbolo della mia liberazione dall’isolamento è già orribilmente…scaduto e da crocetta rossa! Fortunatamente quello vecchio, rilasciatomi dopo la seconda dose di vaccino a fine luglio 2021, non è mai stato inattivato. Quindi lo esibisco e, visto verde, entro!

Inizio a lavorare e per un po’ non ci penso più. Prendo contatto con la sede centrale di Firenze (attualmente nell’ufficio distaccato del Mugello), e vengo a scoprire che, essendo saltato il precedente sistema di monitoraggio dei casi positivi della AUSL, dal 10 gennaio 2022, sempre grazie all’ordinanza del nostro buon Genio, in Toscana è stato attivato un sistema online di autovalutazione (pure qui) per cui ogni cittadino che si ammala di Covid deve:

  1. riempire un modulo sul sito della AUSL, in cui si entra solo se in possesso dello SPID (identità digitale) o della CIE (carta d’identità elettronica) o della CNS (tessera sanitaria-carta nazionale dei servizi) con il quale comunicare l’avvenuto accertamento della positività: data e luogo dove ha fatto il tampone e risultato, ovviamente.
  2. attendere che arrivi per mail la risposta  della AUSL, una sorta di comunicazione-prescrizione che intima l’inizio e le norme a cui attenersi per l’isolamento.

Eseguo pedissequamente quanto previsto e consigliato dal collega, perché sembra che questa sia l’unica strada possibile da percorrere per arrivare ad ottenere il fantomatico e agognato nuovo green-pass.  Già, perché a fine mese mi scade quello vecchio la cui validità,  il Governo Draghi, con il DPCM 17/12/2021 All. B (qui), dopo averci già provato almeno 4 o 5 volte senza successo per via dei ritardi del generalissimo, ma non altrettanto efficiente, Figliuolo nell’organizzazione delle vaccinazioni, ha ridotto precipitosamente a 180 giorni!
Molti italiani infatti si sono chiesti in questo periodo se il nostro Supergreen-Mario, rinforzato dal fido Speranza, non stesse per caso imitando il Mago Silvan dei tempi migliori, tirando fuori disposizioni di emergenza anti-covid19 come foulards colorati dal nero cilindro.

Aspetto, e dopo due giorni mi arriva il modulo della AUSL “Misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19 –comunicazione-prescrizione per rispetto misure di isolamento domiciliare fino a certa guarigione: si rende necessario disporre nei suoi confronti la misura dell’ISOLAMENTO domiciliare”. Di seguito, una serie di spiegazioni di cosa s’intende per isolamento domiciliare e una serie di controlli sanitari da farsi autonomamente (dall’autovalutazione della positività si passa direttamente alla cura fai da te) e l’indicazione di chiamare solo in caso di peggioramento il medico curante (neanche si trattasse di una normale influenza). Più sotto, in neretto, c’è un avviso per i naviganti: Ove, trascorse le 24 ore dall’esito del tampone negativo non venga trasmesso il provvedimento di fine isolamento, il referto positivo del tampone iniziale e quello negativo finale, sostituiscono il suddetto provvedimento come da Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale n.2 del 10 gennaio 2022.

La cosa più simpatica è che tutto ciò avviene quando io sono già rientrata a lavoro!

Passano i giorni, compilo i moduli per il servizio Prevenzione e Protezione dell’amministrazione, ma il dirigente mi scrive che si, ha visto il risultato del tampone negativo che gli ho inviato, ma  che per entrare a lavoro devo avere il green-pass. Comincio a preoccuparmi, consulto il mio fascicolo sanitario elettronico e scopro che il tampone negativo è stato regolarmente registrato ma manca il referto scaricabile.
Ecco perché nessuno dell’AUSL l’ha considerato e nessuno mi ha inviato il referto, semplicemente perché non c’è.
Poco male, torno in farmacia e lo richiedo. Loro il referto l’hanno ricevuto per mail dalla Ausl, io no.
Mi consegnano il referto firmato e timbrato e stampato su carta intestata Regione Toscana/AUSL Toscana Servizi sanitario regionale.  In ufficio lo scannerizzo e l’invio al Servizio Prevenzione e protezione e all’ufficio personale, che nel frattempo mi contesta anche il certificato medico INPS, perché nel certificato c’è scritto soltanto che sono stata assente per malattia e non per Covid. Anche questo non va bene. Ma come poteva certificare se ancora non c’era il referto analitico del tampone?  Vabbuò, chiamo il medico…che naturalmente non risponde. Riattacco.

Comincio ad agitarmi e scrivo a tutti: alla AUSL Toscana Centro Servizio di Igiene pubblica (quello che doveva monitorare i casi di Covid e rilasciare i certificati di inizio e fine isolamento), al Servizio Referti, alla direzione sanitaria, all‘URP della AUSL e anche a quello della Regione Toscana, allego il referto del tampone negativo, il foglio d’inizio isolamento e chiedo di ricevere la comunicazione di fine isolamento e poi il nuovo green-pass. Ma l’unica cosa che pass sono i giorni e la mia pazienza.

Per farla breve, sono passati 10 giorni dal tampone negativo e la Ausl risponde che non avendo fatto il tampone presso di loro non possono mandarmi il referto e la documentazione. Per il green pass, poiché lo rilascia il Ministero della Sanità mi devo rivolgere là.

Incredula e decisamente disarmata, ma abbastanza arrabbiata, per usare un eufemismo, decido di cambiare strategia:
vado sul sito della prenotazione tamponi della Regione Toscana e, forte della vecchia richiesta del medico mai utilizzata all’inizio della malattia, riesco a prenotare un tampone antigenico rapido per il giorno seguente martedì 25 gennaio.
Nel frattempo dal Ministero della Sanità mi mandano una mail con cui mi avvisano che il 31 gennaio mi scade il green pass!

Da brava cittadina: il 25 gennaio faccio il secondo tampone all’hub, e il giorno seguente mi arriva  il risultato “negativo” e il “green pass 48 ore”.
Il 27 gennaio arriva  la comunicazione della AUSL di fine isolamento, dove c’è scritto che sono stata ammalata dal 10 al 25 gennaio.
Dopo qualche ora mi è arrivato anche il nuovo green pass dal Ministero.gov.it ! Canto vittoria, ho ottenuto ciò che volevo!

Poi, nelle ore e giorni seguenti ci ripenso, e rifletto.
Perché in tutto il periodo estivo e autunnale invece che prepararsi alla probabilissima ripartenza dell’infezione pandemica, come successo nel 2020, già prevista dai medici scienziati  e poi  puntualmente verificatasi, Governo e alla Regione non ha fatto niente per migliorare la situazione della sanità?
Perché non è stato assunto altro personale, non sono stati aumentati i posti letto negli ospedali, non sono stati allestiti nuovi posti di terapia intensiva, non è stato realizzato un sistema di monitoraggio e segnalazione dei casi positivi efficiente e ben organizzato?
Perché è stato perso tempo prezioso gongolando a lungo nell’autocompiacimento per essere i più vaccinati, i più bravi, quelli che in Europa si sono comportati meglio… tagliando fondi e privatizzando i servizi?

Mentre tutti (vaccinati o meno), fatta la seconda o la terza dose o nessuna, da Natale in poi, siamo caduti come birilli sotto l’avanzata del virus, su tutti i mezzi d’informazione, e con particolare veemenza e arroganza sui canali della RAI, è andata avanti una spietata e spesso offensiva campagna di propaganda accusatoria nei confronti dei cittadini che hanno continuato ad aver più paura dei vaccini che del virus,

Neppure dopo aver passato mesi di lock-down e dopo aver visto cadere sul campo medici e operatori sanitari a decine e centinaia per stanchezza o per malattia, il Governo centrale e quello della Regione si è mosso per migliorare la Sanità territoriale e ospedaliera.

La reazione politica al palese fallimento nel contenimento del virus è stata quella di addossare tutta la responsabilità ai cittadini renitenti invece che a se stessi, che  i problemi sociali e sanitari del Paese sono chiamati a risolverli.
Draghi e i suoi ministri hanno inteso governare il fenomeno sociale e sanitario della pandemia togliendo diritti e applicando forme di discriminazione e repressione per coloro che non si sono allineati alla loro univoca soluzione della vaccinazione, fino a privare i cittadini della possibilità di servirsi del mezzi pubblici, a vietare anche solo l’ingresso in un bar e in un esercizio privato, o addirittura in un ufficio essenziale come le Poste per ritirare una pensione o una raccomandata, come impongono le ultime disposizioni governative. Per arrivare al top dei divieti: negare ai non vaccinati il diritto al lavoro, pilastro della nostra Carta Costituzionale.

Una esclusione violenta e inaccettabile quanto inutile dal momento in cui tutti possono infettare tutti, come oggi appare chiaro e lampante. Oggi tutti questi divieti e proibizioni hanno l’unico obiettivo di reprimere una minoranza che non si adegua, di abituarci ad essere privati dei diritti, a renderci indifferenti alle diverse sensibilità, a dividere i cittadini in buoni e cattivi, a non vedere le discriminazioni che vengono perpetrate a danno dei nostri vicini, amici o meno che siano, delle quali, per un errore del sistema o per un caso fortuito potremmo cadere vittima noi tutti, distraendoci dal riconoscere chi sono i veri responsabili di questo pericoloso gioco al massacro.

Ma come sostiene un caro amico, nel suo bellissimo libro “Dentro la zona rossa”, analisi critica e puntuale dei fenomeni occorsi nei mesi del 2020 passati in lock-down, la responsabilità della pandemia va ricercata nel sistema economico capitalista e nella politica che lo sostiene, verità che tutti abbiamo visto e riconosciuto in quel periodo e di cui siamo consapevoli, ma che vogliono farci dimenticare.

L’Europa e le tensioni che aumentano il prezzo del gas e diminuiscono il PIL

 

Mentre Mosca non sta perdendo introiti dalla diminuzione delle vendite di gas in quanto compensate dall’aumento dei prezzi, l’Europa annaspa per gli stessi motivi: riceve meno gas e lo paga molto di più. Vittima di se stessa e delle sue fragilità, incapace di affrontare in maniera autonoma la crisi ucraina per mancanza di una seria politica estera comune e per la decisione di acquistare il gas russo con contratti spot invece di fare affidamento su accordi a lungo termine.

In pratica una parte dell’Europa è vittima delle sue improvvide ed astruse strategie: sdoganarsi dal gas russo senza avere prima cercato una valida alternativa. Oltre a questo, ovviamente, ci si è messa la crisi Ucraina e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti sul nuovo gasdotto baltico Nord Stream 2, tra l’altro già concluso e potenzialmente operativo, che avrebbe comodamente trasportato tutto il gas necessario ai bisogni europei di questo periodo. Il tutto direttamente dal suolo russo alla Germania, superando tutte le problematiche di paesi problematici come la Bielorussia e la stessa Ucraina, per arrivare poi anche alle nostre caldaie a prezzi ragionevoli.

In questi giorni le tensioni non sembrano attenuarsi: l’incontro del presidente francese Macron con Putin non ha prodotto risultati di rilievo neanche in merito alle esercitazioni militari russe in Bielorussia, ai confini settentrionali dell’Ucraina. La Francia non ha motivi particolari di tensione con Mosca e un eventuale risultato positivo di questi colloqui avrebbe indubbiamente giovato a Macron in vista delle prossime elezioni, ma si è registrato un nulla di fatto.

Il premier britannico Boris Johnson interviene ovviamente a gamba tesa e a sostegno di qualsiasi cosa facciano o pensino gli americani, avendo anche la necessità di placare le polemiche interne con interventi forti all’esterno. Quindi sostegno alle operazioni Nato a Bruxelles, dopodiché è volato a Varsavia per ribadire altresì sostegno alla Polonia nel mentre la sua ministra degli esteri Liz Truss era impegnata a Mosca in un faccia a faccia con il suo omologo russo Sergei Lavrov.

Lavrov ha avuto modo di accusare la Truss di “dilettantismo” e di “mancanza di preparazione” per aver chiesto il ritiro tout court delle truppe russe dai confini ucraini. Un po’ una seconda puntata rispetto a quanto si era visto la settimana precedente quando era stata derisa dal ministero degli Esteri russo dopo aver detto che il Regno Unito avrebbe inviato aiuti “agli alleati baltici attraverso il Mar Nero”. “La sua conoscenza della storia, signora Truss, non è nulla in confronto alla sua conoscenza della geografia”, aveva scritto la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, aggiungendo: “Se c’è bisogno di salvare qualcosa da qualcuno, ebbene quello è il mondo dalla stupidità e dall’ignoranza dei politici britannici”.

Venti di guerra che frenano anche l’economia, il PIL italiano che era visto in crescita del 4,3% sembra si fermerà invece al 4% complice anche la previsione sull’inflazione che, causa l’aumento del costo delle materie prime, continua a salire.

Nessuno vuole veramente fare la guerra ma nello stesso tempo nessuno sta realmente dimostrando di voler fare la pace e tutti si stanno cimentando in uno sport pericoloso. La gara è a chi fa la voce più grossa, a chi promette peggiori conseguenze ad una ulteriore provocazione. Si susseguono atti che aumentano la tensione come richiamare i propri concittadini dall’Ucraina dando l’impressione di un imminente attacco, oppure si continuano ad ammassare truppe ed armi ai confini, che diventano sempre più caldi. Anche il Mar Baltico si sta infiammando con protagoniste le Repubbliche nordiche, normalmente sornione e brave a tenersi a distanza dai guai. Svezia e Finlandia si avvicinano alla Nato e armano le isole strategiche come mai in passato ed è di questi giorni la notizia dell’accordo di Helsinki con gli USA per l’acquisto di 64 F-35.

Allo stesso tempo ci sono esercitazioni Nato nel Mediterraneo a cui partecipa anche l’Italia, mentre navi russe attraversano lo stretto di Gibilterra direzione Mar Rosso tenute d’occhio dalla marina americana e scortate da una nave norvegese. Un affollamento pericoloso, un mostrare i muscoli che, si spera, i militari sapranno gestire meglio di quanto stanno facendo i loro politici, visto che in queste condizioni una scintilla potrebbe innescare un fuoco difficile poi da spegnere.

VITE DI CARTA /
“Il cane che ha visto Dio” e altri animali

 

Si chiama Galeone il cane che ha visto Dio nel lungo omonimo racconto di Dino Buzzati [Qui]. E poi c’è Nanà, la cagnolina abbandonata che Giovanni Eterno adotta a Roma. Infine Cane blu, il peluche che, nell’ultima puntata della serie tv Doc.Nelle tue mani, compare come un amuleto di bene a dare forza ai malati gravi di Covid 19.

la boutique del misteroGaleone è il cane-coscienza, che nel paese di Tis tutti credono sia stato il compagno fedele dell’eremita morto in un luogo isolato fuori dal paese e lì sepolto dalla comunità. Si aggira tranquillo per le strade e nella piazza senza fare altro che fissare gli uomini, poi riprende con passo dinoccolato il suo cammino di cane senza più padrone.

Siccome deve avere visto Dio nelle notti in cui dal rifugio dell’eremita si irradiavano raggi di luce bianca, una luce soprannaturale, ora i paesani lo percepiscono come il controllore dei loro comportamenti. Ne temono il giudizio, perché dentro di lui deve esserci una scheggia di Dio. Temendolo, rigano dritto. Col tempo la chiesa si ripopola durante la messa, il fornaio riprende a distribuire con onestà il pane ai poveri e così via.

hotel padreternoAnche Nanà dal canto suo compie un miracolo. Per capirlo dobbiamo spostarci dentro un’ altra narrazione, Hotel Padreterno di Robert Pazzi [Qui]. Si tratta dell’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore ferrarese: la stesura è durata tre anni, ma alla fine ha prodotto un racconto intenso e al tempo stesso leggero alla lettura, tra realismo e visionarietà , giocato come è sul piano umano e su quello divino, con la città di Roma al centro.

Dio si è preso una “vacanza dall’eternità” e ora passeggia per le strade e le piazze della città dentro al corpo di Giovanni Eterno, un anziano signore di 78 anni. È Dio nella sua versione umana a osservare la vita, a incontrare persone di ogni tipo, a fare amicizia con un bambino speciale e la sua famiglia.

Nanà arriva in un giorno qualunque ed è lei a scegliere, con uno sguardo adorante, questo anziano signore che la porta con sé e la fa adottare dalla famiglia del bambino. Le procura cibo e affetto, ora che Nanà ha partorito i suoi cuccioli e li deve allattare.

Tra tutti i sentimenti e i patimenti umani, che Dio sta provando in queste settimane, Nanà sa infondergli il più forte, quello della maternità. Giovanni, che è Padre nei cieli e padre di Emmanuele qui sulla terra, riceve dalla cagnolina il senso del suo essersi umanizzato e la consapevolezza della missione che è venuto a compiere proprio qui nella Città Eterna, prima di ritornare là dove i suoi santi lo attendono con ardore impaziente. E’ venuto a portare nuova linfa alla nostra nazione che invecchia e sente spenta la voglia di vivere.

doc - nelle tue maniCane blu” è stata la battuta condivisa da medici e infermieri dell’ospedale milanese in cui lavora il quasi-primario Doc, lanciata come un grido di guerra davanti ai casi difficili. Ci è stata fatta conoscere, sapientemente, solo nella puntata più recente di questa serie televisiva tanto seguita [Qui].

Attraverso un lungo flash back abbiamo ritrovato i nostri eroi del reparto di medicina generale  impegnati nella lotta contro il Covid, con le tute da astronauti e la scenografia distopica delle sale di terapia intensiva.

Fra spavento e voglia di catarsi assistiamo alle loro fatiche e se nella abnegazione dei loro gesti a un certo punto compare quello di consegnare a un papà intubato il cane di peluche del suo bambino è fatta: ci travolge un’empatia totale e cane blu entra nel nostro linguaggio. Non sarà una scheggia di Dio, ma è segno della resilienza a cui siamo chiamati. ‘Resilienza’, la parola è passata anche ai piani economici nazionali e si avvia a essere abusata.

Meglio cane blu, che oltre a indicare il bisogno di fare fronte ai guai indica anche come farlo, con la condivisione. Nel reparto a un certo punto Doc mette su una canzone ben ritmata e si mette a ballarla. Con lui medici e infermieri cominciano ad ancheggiare e a portare in alto le braccia e noi sorridiamo, scaricando con guizzo ariostesco tutta la tensione emotiva di prima.

Jerusalema è una preghiera espressa in lingua venda dal musicista africano Master KG [Qui] che ha avuto molto successo nel 2021; molti forse non sanno che contiene la richiesta di salvezza a Chi non è di questo mondo, tuttavia se l’hanno ascoltata oppure ballata in gruppo hanno compiuto il primo passo.

Fin qui ho chiamato in causa tre cani, tutti usciti da racconti sulla vita ma indiscutibilmente veri. Me li ha fatti incontrare nel quotidiano una nuova piccola sintonia con ciò che sto leggendo o guardando alla tv. Incontrare cani nella vita, come nelle fiction, del resto non è difficile.

Nella mia giornata incontro anche gatti, passerotti e merli:  sono “i sereni animali che avvicinano a Dio” – come li ha definiti Saba –  a cui preparo mattina e sera il cibo da lasciare in giardino. In realtà se qualcuno mi interrompe  mentre sbriciolo il pane dico: “ Un attimo che finisco la mia azione francescana e arrivo!”

E nel dire ‘francescana’ penso al santo e insieme a Papa Francesco, che intervistato da Fazio nella puntata di domenica 6 febbraio a Che tempo che fa ha pronunciato frasi tanto potenti quanto semplici sul bisogno che abbiamo di condivisione e di amicizia.

Potrei cambiare queste due ultime parole con ‘dignità’ e ‘rispetto reciproci.

Ora devo leggermi per bene gli articoli n. 9 e n.41 della Costituzione, che sono stati modificati di recente dal Parlamento; so che le modifiche apportate intendono garantire una maggiore sostenibilità ambientale, la tutela della salute e la sicurezza della collettività, la tutela degli animali. Ma vorrei saperne di più. Magari per scoprire un’altra scheggia di empatia tra un atteggiamento collettivo e le mie briciole di pane.

Fonti:

  • Roberto Pazzi, Hotel Padreterno, La nave di Teseo, 2021
  • Dino Buzzati, Il cane che ha visto Dio, in La boutique del mistero. Trentuno storie di magia quotidiana, Mondadori, 1968
  • Serie televisiva diretta da B. Catena e Martelli,  Doc. Nelle tue mani, seconda stagione, episodio di giovedì 10 febbraio 2021
  • Saba, A mia moglie, in Canzoniere, 1921

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

Privacy, perché proteggerla?
alcune pillole per l’autodifesa

 

1° Pillola Perché dedicare attenzione a mantenere i propri dati personali privati?

L’ho capito bene ascoltando un’intervista a Julian Assange, riportata nell’interessante documentario, girato su un periodo di oltre sette anni, intitolato Hacking Justice. Questa intervista mi ha portato a consolidare una serie di riflessioni.

Nella vita quotidiana abbiamo a che fare con molte persone, di cui incontriamo fisicamente solo una piccola parte. Di queste, la stragrande maggioranza ci influenza e viene da noi influenzata attraverso comportamenti mediati da terzi.
Ad esempio, nell’acquistare un paio di scarpe presso un’azienda di acquisti online, interagisco col fattorino che recapita il pacco (mediando la transazione), ma di fatto invio il denaro al distributore online, che gestirà la divisione tra se stesso, il produttore di scarpe, il fattorino.… Di queste persone, alcune sono potenti, in termini di mezzi finanziari e di influenza, mentre altre lo sono poco o niente.

Per persone con grandi mezzi finanziari, politici  e militari, conoscere significa poter influenzare il comportamento degli altri, che venga fatto in maniera brutale o meno.

Quando esponiamo i nostri percorsi abituali e le nostre attività a persone o organizzazioni con intenzioni di questo genere, stiamo informandoli sulle zone geografiche che percorreremo. Luoghi in cui potremo facilmente essere raggiunti da azioni di influenza più o meno dirette, siano esse pubblicità, messaggi politici, o strategie basate sulla manomissione di un servizio pubblico, atte a generare delle risposte specifiche da parte nostra (e della popolazione, come ad esempio sentimenti di sfiducia).

Quando esponiamo informazioni sui nostri acquisti e attività, stiamo raccontando i nostri gusti e attitudini. Questi possono essere usati per confezionare l’esca adatta ad attirarci verso un certo modo di pensare (indurre un’idea, generare qualunquismo nei più pessimisti, radicalizzazione nei più integerrimi) o una certa attività (acquistare un bene specifico in un luogo specifico, sobillare intolleranza, aderire a un credo a partire da informazioni false o estremamente parziali).
La conoscenza delle attività che si svolge lungo la nostra rete sociale informa su come le nostre idee potrebbero essere condivise attraverso questa stessa parte di società, su chi difficilmente saremmo in grado di influenzare (in particolare chi è poco collegato alla nostra rete), su quali leve insistere per indurre, a livello sociale, la formazione di gruppi isolati e incapaci di comunicare tra loro.

Influenze come queste sono difficili, se non impossibili, da riconoscere, per via del fatto che le informazioni fornite dai singoli cittadini (spesso loro malgrado), e poi aggregate, diventano proprietà privata della piattaforma informatica che le ha raccolte. Esse possono mostrare luoghi e dinamiche sensibili di una società, da influenzare per modificarne il comportamento.

Ma solo chi vi ha accesso e sia dotato di forti capacità analitiche avrà idea di come manovrare gli altri. E si tratta, nota bene, di soggetti privati o apparati statali coperti da segreto. Per tutti gli altri, la risposta a questo fenomeno non potrà che essere quella speculativa (l’immaginazione), con il rischio di  cadere nella paranoia (ma come si fa a saperlo?), oppure si gireranno dall’altra parte.

Questo descritto è tanto uno scenario distopico, quanto una realtà attuale.
L’unico mezzo certo per limitare questa sproporzione di potere e influenza è quello di trattenere le informazioni personali per sé, evitando di condividerle con elementi sociali notoriamente interessati alla collezione di dati e dagli interessi molto diversi dai nostri.

Una delle più concise ed efficaci frasi pronunciate da Edward Snowden, all’indomani delle sue rivelazioni sullo spionaggio di massa, è “Privacy is for the powerless”. Chi ha poco potere è bene che mantenga un certo livello di privacy nei confronti di chi di potere ne ha molto. Non farlo equivale a fornire ingredienti sostanziali a chi ha già abbondanti mezzi di manipolazione sociale, che vanno sempre più prendendo il posto del sistema democratico.
Concludendo la citazione “Transparency is for the powerful”.

2° Pillola Controllare l’attività delle proprie applicazioni – Messaggeria istantanea

Tra le cose da fare per ridurre la quantità di informazioni che rilasciamo online, una cosa sana è usare software Free Licence/Open-Source, piuttosto che software a codice proprietario. Si intende, strumenti i cui codici siano verificabili dal pubblico. Ciò dà la possibilità a specialisti terzi, esterni al fornitore del software, di verificare cosa questo software farà una volta installato sul vostro telefono o computer. Per esempio verificare che esso non trasmetta dati e metadati personali, o che la cifratura per comunicare su internet non sia fallata (come è stato documentato ad es. per Whatsapp).
Un esempio nel caso della messaggeria istantanea è quello di rimpiazzare il software WhatsApp con l’analogo, ma Open Source, Signal.

3° Pillola 5 criteri da considerare per un software – Un caso sulla messaggeria istantanea

In riferimento alla sostituzione di WhatsApp con Signal (vedi Pillola 1), qualcuno si chiederà: Telegram non va bene lo stesso?
In effetti Telegram è un altro software di messaggeria istantanea, Open Source, molto diffuso.
Ci sono però almeno altri 5 elementi da considerare quando scegliamo una applicazione Open Source.

1) Sia il Client che il Server sono Free licence/Open Source?
L’applicazione che installiamo sul nostro dispositivo (computer/smartphone) si chiama Client (ovvero si comporta come un cliente). I clienti si inviano/ricevono messaggi grazie all’intermediazione di un dispositivo speciale presente in rete chiamato server (sempre a disposizione per servire i client, sempre acceso e disponibile).
Sia client che server funzionano sulla base di un software che può essere Free licence/Open Source o meno.
Nel caso di Signal sia client che server sono Open Source, nel caso di Telegram, solo il client lo è.

2) Quali metadati sono raccolti?
Nel mentre che inviamo un messaggio, il nostro dispositivo elettronico può raccogliere una serie di metadati, vale a dire informazioni del contesto come ad es. il luogo in cui ci troviamo, la durata delle comunicazioni, i contatti presenti nella nostra rubrica.…
Telegram dichiara di condividere con il suo server una quantità di metadati molto più vasta rispetto a Signal (il quale tratterrebbe sul server solo l’informazione sul fatto che vi siate connessi o meno in un determinato giorno).

3) Il codice è stato testato a dovere?
I codici di buona parte delle applicazioni usate quotidianamente sono molto lunghi. Lunghi abbastanza da richiedere anni affinché i programmatori possano verificare che il programma sia ben scritto e che possano eliminare la maggior parte o tutte le falle (bugs) di sicurezza.
Buona parte dei blocchi di codice usati da Signal è stata usata e testata ampiamente, poiché gli stessi vengono usati in diverse altre applicazioni, da un’ampia comunità informatica. Il codice di Telegram, dal suo canto, è stato sviluppato servendosi meno di blocchi già testati in precedenza dalla comunità, per cui è più impegnativo, da parte della comunità informatica, verificarne la solidità.

4) Riponiamo fiducia in chi gestisce il nostro server?
L’uso di un servizio su internet implica una serie di passaggi di informazioni. Se le informazioni vengono trasmesse dopo adeguata criptazione, sarà difficile per qualcuno che intercetti la comunicazione, capirci qualcosa. Nonostante tutto, a un certo punto di questa serie di passaggi, sarà necessario riporre fiducia nell’attività svolta da qualche operatore. Per esempio: anche se il codice del server è OpenSource, dovremmo fidarci del fatto che esso non sia stato modificato prima di installarlo sul server, oppure del fatto che il server non sia compromesso a sua volta dal punto di vista hardware. In sintesi: non può esserci certezza assoluta del fatto che tutto vada come atteso. Quello che si può fare, è cercare di capire se il fornitore del servizio è affidabile e competente.

Nel caso di Telegram, il principale finanziatore della piattaforma è un magnate russo.
Nel caso di Signal, esistono molti finanziatori della piattaforma (non saprei dirvi quali e quanti). Soprattutto, il software e la sua equipe di programmatori sono riconosciuti come affidabili da giornalisti e informatici di fama mondiale impegnati nella difesa della libertà di stampa.

5) Il nostro client ha a che fare con un server centralizzato, decentralizzato o distribuito?
Il server in attesa di servire il client che è installato sul nostro dispositivo, è lo stesso che serve anche tutti gli altri dispositivi esistenti che usano lo stesso software (si intende tutti gli altri telefoni e computers)? In questo caso si parla di server centralizzato. Se invece diversi clients sono serviti da diversi server, si parla di server distribuiti o decentralizzati. E’ chiaro che, per terzi che volessero appropriarsi di informazioni presenti o in transito su un server, riuscire a manometterne uno centralizzato può essere più fruttuoso che investirsi nella manomissione di una moltitudine di server, il cui contenuto individuale è una magra quantità di informazioni personali. Naturalmente a tal proposito rientra la fiducia che possiamo riporre in coloro che gestiscono il server (4).

Sia Telegram che Signal usano server centralizzati. Un’alternativa decentralizzata Free Licence/Open Source è la coppia Element (il client) – Matrix (il server).

Maggiori informazioni in Mini-Guida alla Protezione dei Dati Personali: https://miniguide.minifox.fr/

In copertina: Graffiti in Shoreditch, London – Zabou (Wikimedia Commons)

Dove nascono le tensioni, dove possono morire le speranze di pace, dove le parole sono importanti

Il mondo ribolle, c’è un’importante e generalizzata escalation militare, una corsa continua a rifornirsi di armi e al dispiegamento di forze in alcuni teatri caldi che potrebbero segnare pericolosamente il nostro futuro. Gli osservatori di settore rilevano nel 2021 un aumento della spesa militare e le previsioni per il 2022 vanno nella stessa direzione, tutti dichiarano per “ammodernamento, efficientamento, al semplice fine di deterrenza” ma quando si producono armi, si ammassano truppe e si aumentano le esercitazioni, qualche semplice provocazione, un piccolo incidente, potrebbe diventare la scintilla per un fuoco difficile poi da spegnere.

C’è nel mondo anche una grande presenza di armi nucleari che i paesi più forti dichiarano di deterrenza mentre altri, in difficoltà strategica rispetto al nemico dichiarato, non ne escludono l’utilizzo. Si pensi al Pakistan opposto all’India che è in possesso di risorse offensive preponderanti rispetto allo storico avversario e che quindi in caso di conflitto non ne ha mai escluso l’utilizzo.

I leader politici, quelli affidabili (o presunti tali), non fanno nulla per evitare l’escalation, anzi continuano a lanciare messaggi fuorvianti e ultimatum inutili, buoni solo per rafforzare il potere di pochi ma che non fanno bene alla distensione di cui invece si avrebbe bisogno, in un mondo dove tutti i vecchi ed annosi problemi sono ancora irrisolti. Alle migrazioni forzate e ai respingimenti disumani, alla mancanza di cibo e acqua oppure di istruzione e sanità in larghe fette del nostro pianeta, alla disuguaglianza economica e sociale che dilaga oggi si aggiungono due anni di pandemia globale e una sua gestione a dir poco carente di risultati seriamente spendibili.

Nonostante tutto questo, leader democratici come Biden e Macron e paesi occidentali di cultura moderata come Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca fanno a gara con leader autoritari come Putin e Xi Jinping e paesi intemperanti per posizione geografica come Ungheria, Romania, Ucraina, Bielorussia o eccessivi per paura storica come Lettonia, Estonia e Lituania a chi spara la minaccia più grossa. Dire poi che l’Unione Europea, in questo marasma, ha perso la bussola diventa quasi un eufemismo.

Ma quali sono i luoghi del mondo che riflettono meglio l’euforia da quarta guerra mondiale? Il primo è nell’Indo-Pacifico dove Taiwan potrebbe rappresentare il casus belli. L’attore principale è ovviamente l’America di Biden che si oppone all’espansionismo della Cina. Taiwan è il primo produttore mondiale di semiconduttori ma è soprattutto un simbolo: come potrebbe la Cina proiettarsi verso lo status di potenza planetaria se non riesce nemmeno a controllare le acque intorno a se? Ed è proprio in funzione di questo che gli USA hanno costruito basi militari e un sistema di contenimento basato sui suoi alleati/satelliti ovvero Corea del sud, Giappone e Australia a cui ovviamente hanno aderito la Gran Bretagna e il Canada inviando uomini e mezzi navali. Anche la Francia, già normalmente presente in quell’area e nonostante lo smacco della mancata vendita dei suoi sommergibili all’Australia, ha fatto notare la sua presenza. Del resto la Francia ragiona da potenza.

L’Ucraina rappresenta il fronte caldo europeo. Protagonisti sempre gli Stati Uniti che dettano tempi e modi di opposizione alla Russia di Putin, intenzionato a non cedere altro terreno dopo gli ultimi allargamenti della Nato del 2004 ai Paesi confinanti. La Russia rappresenta il nemico storico e Biden non vuole cambiare atteggiamento, nonostante il pericolo cinese sembri a tutti più pressante e più degno di attenzione. Certo ha uomini e mezzi per poter sostenere le due sfide e soprattutto anche qui, come in estremo oriente, ha alleati pronti a combattere per lui. Politica da grande impero e quello romano ha fatto scuola, a quei tempi le legioni erano composte da barbari che combattevano altri barbari e ai confini c’erano tribù barbare che facevano da “stati cuscinetto”.

Ma mentre non stupisce che le Repubbliche Baltiche, la Polonia e la Romania facciano a gara per offrire basi logistiche e dare ospitalità ai nuovi dispiegamenti americani, sorprendono le mosse di avvicinamento alla Nato di Svezia e Finlandia. Di certo non c’è ancora una richiesta di adesione, come non c’è da parte dell’Ucraina nonostante le tensioni intorno a quella che per ora è solo una lontana possibilità, ma i movimenti navali nel Mar Baltico e le operazioni sulle isole strategiche da parte di questi stati rivieraschi lasciano pochi margini di errore nei messaggi che stanno inviando a Mosca: se difficilmente la Nato si allargherà verso l’est Europa, potrebbe essere molto più realistico un suo allargamento ai paesi nordici.

C’è poi l’Africa. I russi si sono mossi molto bene in Libia, creandosi un loro spazio senza porsi troppi problemi su dove posizionarsi e scalzando francesi e italiani. Paesi questi ultimi impegnati nel Sahel e dove persino la Danimarca aveva inviato 100 militari che hanno dovuto però subito fare dietro front, causa cambio di regime nel Mali. Ma anche in Ciad e in Burkina Faso la situazione è cambiata e i francesi sembrano non essere più desiderati dai loro ex stati coloniali che invece preferiscono i mercenari russi della Wagner. I nuovi dittatori vedono più di buon occhio i russi rispetto all’idea europea della costruzione nel Sahel di stati “democratici” fondati su un modello poco vicino alla loro idea di società.

E l’Italia? Nell’ambito della proiezione a sud, parte della politica strategica del nostro Ministro della Difesa, il cosiddetto “mediterraneo allargato”, ha nell’area del Sahel diverse unità militari, mezzi terrestri e aerei dislocati in Niger e in Mali con un impegno finanziario di poco meno di 100 milioni di euro (dati Milex). Tra i compiti quello di assistenza sanitaria, prevenire l’infiltrazione del terrorismo islamico in Libia nonché di addestramento delle forze armate maliane. Peccato però che, vista la crescente antipatia dei nuovi governi verso i francesi, questi stiano lasciando la zona, seguiti da tedeschi e danesi mentre svedesi e norvegesi stanno rivedendo le loro intenzioni di inviare soldati. Da noi ancora non si è presa una decisione in merito, e poiché non risultano discussioni per un ripensamento di queste missioni, è lecito pensare che stiamo addestrando i soldati dei colonnelli golpisti.

L’Africa comunque è un groviglio di interessi ma probabilmente, data l’assenza dell’interesse americano, non rappresenta per ora una miccia da guerra globale o atomica.

Tornando alla spesa militare, e con i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), abbiamo prova che la spesa globale militare è arrivata nel 2020 a 1.981 miliardi di dollari, un incremento del 9,3% rispetto al 2011 e questo nonostante la pandemia, anzi probabilmente grazie ad essa e utilizzando la possibilità di maggiori spese a deficit precedentemente non permesse. Gli Stati Uniti risultano ovviamente il Paese che spende di più con 778 miliardi di dollari seguito dalla Cina con 252 miliardi, dall’India con 72,9 miliardi e dalla Russia con 61,7 miliardi di dollari.

Aggiungendo ai dati SIPRI quelli dell’Osservatorio sulle Spese Militari Italiane (Milex), si osserva invece che il bilancio previsionale 2022 per le spese militari dell’Italia vede un aumento del 3,4% sul 2021, si sfonda dunque il tetto dei 25 miliardi di euro. Molti fondi saranno allocati alla Marina nella speranza che vengano ben utilizzati per il controllo strategico del Mediterraneo, dove ultimamente si stanno affollando le marine Nato che conducono esercitazioni “disturbate” dal transito di diverse navi russe, anche qui in chiave provocatoria e che, visto l’affollamento, rischiano di trasformare il mare nostrum in una delle possibili micce, al pari dei cieli lettoni, del Mar Baltico o dell’Indo-Pacifico.

Il dato probabilmente più preoccupante, o che almeno dovrebbe esserlo, è la mancanza di conoscenza delle dinamiche di queste operazioni militari e di cosa muove il riarmo. Dovrebbe preoccupare la lontananza di tutto questo dalle reali esigenze dei cittadini, ci dovrebbe spaventare un mondo che si muove al ritmo dei desideri e dei bisogni di un pugno di persone che impegna il futuro inconsapevole di miliardi di esseri umani. Dovremmo essere inorriditi dal fatto che ci siano persone intente a cercare o creare nemici impegnando soldi pubblici che altrimenti potrebbero essere utilizzati per il benessere collettivo.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

IL COMPLOTTO DEI COMPLOTTISTI

Personalmente, non ho mai creduto ai complotti. Però ora ce n’è davvero uno in atto: è diffuso, globale, coordinato e pervasivo. È il complotto dei complottisti

Prospera, naturalmente, nella dimensione dei social, ma te lo ritrovi dove meno te lo aspetti. Certi cattivi maestri – ho scoperto spiando i quaderni di mio figlio – lasciano che si insinui persino nelle scuole.

A complottare sono milioni e milioni di persone in ogni continente, guidate però da alcuni leader indiscussi, che possono aver acquisito una popolarità così capillare e diffusa solo in virtù del sostegno di chissà quale potenza oscura.

Voglio farvi solo qualche esempio, che potete verificare sui social, per farvi capire quali pericoli stiamo correndo e in quale epoca oscurantista stiamo rischiando di sprofondare.

Il più influente di tutti questi leader è probabilmente un certo Karl Marx.

Nei suoi post cerca di convincere la gente che tutto quel che succede nel mondo ha un retroscena, come se ogni fenomeno sociale fosse il prodotto di una contrapposizione in cui qualcuno cerca di fregare qualcun altro, anche se poi lui cerca di darsi un tono scientifico definendo questa allucinazione “lotta di classe”.

Si tratta, evidentemente, di una semplificazione agghiacciante, concepita per attecchire sulla psiche fragile dei ceti inferiori, che possono così proiettare su qualcun altro le responsabilità per le loro grame condizioni di vita.

Ne può derivare una sorta di paranoia collettiva, nella quale si arriva a dubitare di tutto e di tutti, a chiedersi d’istinto dove sta e per chi è il bidone. Che so? I Trattati europei? La green economy? La pandemia?
Tutto ha un risvolto occulto nel quale qualche blocco sociale prospera a detrimento di qualche altro.

Si capisce che il giochino escogitato da questo Marx faccia proseliti un po’ ovunque.
Nel nostro Paese, ad esempio, c’è un sardo che si è guadagnato una certa popolarità parlando di “egemonia culturale”: anche qui, un nome quanto mai pomposo per la solita solfa trita e ritrita del mainstream, del neoliberismo e di tutte quelle strutture che, anziché essere riconosciute come forme – magari imperfette – della realtà, vengono immaginate come un suo aberrante travestimento finalizzato al mantenimento e all’espansione di rapporti di dominio.

Non andrebbe messo in carcere uno come questo Gramsci? Ma, tanto, troverebbe il modo di postare anche da lì

A proposito di questi deliri sul dominio, un altro nome rilevante della galassia del complottismo d’accatto è quello di un tizio che si fa chiamare Foucault, senza dubbio un nickname eco del titolo di un certo romanzo che mi sembra di aver intravisto in giro qualche anno fa.

Hai aderito a un programma di prevenzione del tumore del colon? Ti lavi regolarmente e ti disinfetti all’occorrenza le mani? Ti metti sempre il preservativo, o lo pretendi?
Sei una vittima della “biopolitica”(non c’è dubbio: questi complottisti hanno fantasia per i nomi!).

In quanto “biopolitiche”, quelle pratiche non significherebbero banalmente che c’è ancora qualcuno con un po’ di buon senso, ma nientepopodimeno che il potere ha trovato una nuova forma di sviluppo, facendosi principio di garanzia e di mantenimento della vita e della salute, ma aprendosi in questo modo la strada verso il governo dei corpi.

Ma come fanno a venirgli in mente queste cose?
Ci sono Scuole di Alti Studi per complottisti?

In ogni caso, gli va l’acqua per l’orto. Il filone si è rivelato promettente, molti vi si sono buttati e hanno cominciata a spararla uno più grossa dell’altro contro la medicina e contro la scienza in generale. Il botto più grande, forse, l’ha fatto un certo Ivan Illich, con una trovata grossolana che non avrebbe dovuto incuriosire nemmeno un australopiteco: da cosa deriverebbero molti problemi di salute nella nostra epoca? Ma dalla medicina stessa, che diamine: sarebbe la “iatrogenesi”!

L’arzigogolo è, nel suo genere, un capolavoro: siccome la medicina ha esteso le proprie conoscenze e ora tutti sappiamo bene quante calorie bruciamo andando a comprare il latte e se siamo intolleranti al pompelmo, allora tutta la nostra esistenza viene ricodificata in prospettiva clinica e sottoposta a un regime terapeutico nel quale l’ininterrotto ricorso alle armi e agli artifici della medicina stessa finisce per produrre una nuova generazione e un nuovo ordine di patologie.

Non ti verrebbe da dirgli: “OK, Illich o come diavolo ti chiami, allora per il tuo bene a te non ti curiamo proprio. E, quando proprio ci implorerai, le cure te le paghi da solo!”?

Ora, il fatto che tutte queste menate non siano prodotti di menti insane e isolate, ma si inscrivano al contrario in un unico disegno, appare evidente quando tutti i vari elementi si saldano in una visione organica: ecco che la scienza e la tecnica – lungi dall’essere quelle cose che ci permettono di vivere al caldo e al sicuro, di dormire meglio grazie alla pillolina e di girare il mondo comodamente seduti davanti alla tv mentre in casa qualche macchinario sgobba al posto nostro – sono pratiche socialmente connotate le quali producono l’amplificazione delle diseguaglianze, ovvero della corruzione del mondo.

Si tratta, evidentemente, di una mistificazione che non meriterebbe nemmeno d’esser presa in considerazione, se non fosse che il leone da tastiera che le sta dietro ha deciso di farsi chiamare “Rousseau”.
Il nickname prescelto non vi dice nulla? Non vi fa balenare il dubbio che, intorno a tutto questo, vi sia qualche copertura politica?
Come vedete, i dubbi sono tanti e i pericoli molto concreti.

Per questo, non dobbiamo essere indifferenti, o peggio ancora inerti. Quando questi tizi vi appaiono sui social, segnalateli instancabilmente come autori di fake news e di messaggi fuorvianti.
Se vi accorgete che un professore di vostro figlio ne parla a scuola, denunciatelo prontamente al Ministero.

Io, quando ho visto quei quaderni, l’ho fatto. E, pensate fin dove possono arrivare questi maledetti, il tizio mi ha querelato.
Ma la cosa peggiore è che ho scoperto che anche il mio avvocato, che conosco da una vita, è un complottista: mi ha consigliato di transare.