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VITE DI CARTA /
Fausto Coppi e la Livra, ovvero la leggerezza

 

Come ogni mercoledì ho attraversato la piazza del mio paese e le vie d’intorno per stare al mercato e respirarne l’atmosfera. È un rito, lo so bene, ma non ci posso rinunciare.

Stavolta non ho nemmeno fatto spesa di verdura e frutta, non mi serviva nulla che non avessi trovato proprio il giorno prima al supermercato. Però c’è stata una piccola avventura dello spirito, come accade spesso.

Piccola, ci tengo a ribadirlo, ed è questa.

La Livra, il soprannome di sempre, non compare nel necrologio che ho letto entrando nella piazza: ci sono cognome e nome e la bella età, 93 anni portati col sorriso fino all’ultimo giorno.

L’ho incontrata l’ultima volta in ottobre, proprio sul bordo di questa piazza, con una affettuosa badante seduta sulla stessa panchina. Ahi, ho pensato, non sei più sulla porta della tua casa a guardare chi passa stando in piedi a braccia conserte.

Abiti a due passi da qui e, se ti vedo seduta e scruto il tuo sorriso, trovo che è cambiato insieme a te, è più opaco, leggermente smarrito. Ma mi riconosci: non appena ti saluto e ti chiedo come stai, pronunci il mio nome e subito mi collochi nel passato che abbiamo in comune, quando i nostri appartamenti affacciavano sullo stesso cortile.

Ci vorrebbe mia madre, qui e ora, a tirare fuori dal cilindro dei ricordi una quantità di aneddoti più o meno faceti, che potremmo rivivere con leggerezza.

Io ero bambina e voi due giovani donne sposate: mia madre lavorava per una ditta che le consegnava a domicilio montagne di scarpe da cucire e tu seguivi la casa e la famiglia. Ma lei manca da oltre vent’anni e tu da qualche giorno, come mi ha appena detto il necrologio.

Nessuna di voi due è più qui, non mi rimane che la leggerezza. Mi arriva dai ricordi infantili (dalla vita) e dalle letture che ho in corso (dalla letteratura).

Il caso vuole che in queste settimane mi stia dedicando a conoscere la figura e l’opera poetica di Roberto Roversi [Qui]. È un primo approccio, frammentato in tanti brevi momenti in cui consulto i manuali e le storie della letteratura che ho nello studio, alternandoli con la lettura delle sue poesie.

fausto coppi roberto roversiIl testo che Roversi ha dedicato a Fausto Coppi [Qui] mi è apparso sullo schermo mentre navigavo in internet alla ricerca di un’altra sua raccolta. L’ho letto con rapimento e mi sono sentita catturare in particolare da tre versi: il primo recita “Coppi leggero leggero come un pensiero” e gli altri due “Fausto un gatto/anzi no, una livra”.

Eccola, la lepre stigmatizzata dal poeta, scegliendo la versione del nostro dialetto bolognese, la lepre che accende la scintilla, in cui si incontrano un ciclista eccezionale e una donna della mia infanzia.

Sul dizionario Treccani il lemma ‘lèpre’ recita nella prima accezione di significato: “Nome comune delle varie specie di roditori leporidi del genere Lepus, diffusi in tutto il mondo; hanno abitudini prevalentemente notturne, indole paurosa, udito finissimo con buona vista e olfatto; ottimi corridori, molto veloci e resistenti, sono uno dei capi di selvaggina più comuni e ricercati”. E più avanti sul suo valore simbolico: “È talora assunta come simbolo o metafora della velocità nel correre, della timidezza, della sospettosità”.

Ho trovato il tratto semantico che cercavo, posso uscire dal dizionario e tornare alle due figure umane in cui la qualità principale dell’animale, la sua velocità nella corsa, è stata fissata come uno stigma. Roversi abbrevia la similitudine, non usa il come per il confronto con Coppi, ma utilizza una metafora netta, “Fausto un gatto…, una livra”.

Quanto alla mia simpatica compaesana, il soprannome inchioda anche lei a quella sua agilità nei gesti e nella camminata. Nei paesi o nei quartieri di città usava (e usa ancora) identificare le persone con un soprannome.

Ora la nostra Livra trovava espressa nel suo la dote della velocità in senso letterale, secondo la variante della dantesca legge del contrappasso che fa corrispondere per analogia la qualità e la persona.

Potrei citare altresì il caso di un mio coetaneo piuttosto robusto che veniva chiamato Trasparént in ossequio all’altra variante, quella secondo cui la corrispondenza avviene in modo contrario.

Mi piacerebbe divagare su nomignoli, apostrofi e soprannomi paesani, alcuni sono un vero spasso linguistico, ma torno a lei. La vicina di casa giovane e poco esperta, che dalle finestre aperte nella stagione calda sentivamo camminare in lungo e in largo nel cortile, tra casa, lavanderia e bassocomodi.

Parlava tra sé e sé e la voce era spesso alterata dall’ansia di fare bene i lavori di casa, attività in cui metteva tanto impegno, ma in cui l’organizzazione di giorno in giorno si manteneva difettosa. Vedevamo le sue gambe magre avvicinarsi alla finestra sotto la quale mia madre lavorava alle sue preziose scarpe: aveva sempre un lavoro venuto male di cui discolparsi, un consiglio da chiedere. A volte un prestito.

Temeva il giudizio del marito, che al rientro dal lavoro le chiedeva cosa avesse fatto durante il giorno, non trovando pronta la cena o non ancora asciutti i suoi indumenti. Eppure la sua giornata era piena di battute di spirito e risatine.

Anche Coppi sapeva dissimulare la fatica lungo i percorsi di montagna, sapeva attaccare e arrivare da solo al traguardo della corsa dopo una lunga lunghissima fuga solitaria. Mio padre lo vide correre al motovelodromo di Ferrara, quando ancora non era famoso, e rimase conquistato dal suo portamento timido e dalla gambe esili, che in realtà sapevano pedalare come delle bielle d’acciaio. Quella per Fausto Coppi rimase poi una fede assoluta fino all’ultimo giorno.

Mi rimane la leggerezza, dicevo. In quella forma che Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni americane definisce “una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la pietra tombale”. Presso il Battistero di Firenze scavalcò infatti con un balzo solo un imponente sarcofago e si liberò della sgradita brigata di Betto Brunelleschi – dice Boccaccio – “sì come colui che leggierissimo era”.

Tuttavia questa definizione non basta. La leggerezza attiene anche alle parole con cui formuliamo le nostre narrazioni e i ricordi, e consiste – mi soccorre di nuovo Calvino – in “un alleggerimento del linguaggio, per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso”.

Le parole aleggiano come “un pulviscolo sottile” sopra le cose, agiscono per astrazione. Direi, distillano dalla distanza che si sono date i significati che vanno a immettere nella comunicazione.

Della Livra e di Fausto Coppi ci arriva da un lato l’essenza figurale della lepre che corre veloce e del gatto dal passo felpato, dall’altro la parola che rende lei e il Campionissimo leggeri come pensieri.

Nota bibliografica:

  • Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio. Garzanti, 1988
  • Giovanni Boccaccio, Decameron, Garzanti, 1974 (novella di Guido Cavalcanti, VI,9)
  • Roberto Roversi, Quando Coppi e Bartali correvano in bicicletta (L’Espresso, 29 luglio 1979)

 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
El más grande

Ciò che è successo ieri a Melbourne sarebbe l’epilogo perfetto di un film o un documentario su Rafa Nadal: il record dei 21 Slam, giunto al termine di una rimonta folle e imprevedibile, è infatti la sublimazione di un’intera carriera, nonché il modo ideale per chiudere il cerchio della sua legacy. Di conseguenza, se fossimo al cinema o davanti a un biopic di Netflix, dopo una vittoria del genere ci aspetteremmo i titoli di coda poiché faremmo fatica a immaginare una chiusura migliore di quella.

La carriera di Nadal, invece, andrà avanti ancora per un po’, ed è probabile che tra qualche mese ci ritroveremo a commentare il superamento di quello stesso record. Nel frattempo, prendiamoci il tempo necessario a digerire l’assurdità e l’epicità dell’impresa di ieri: basti pensare che, dopo aver perso malamente i primi due set, le chance di vittoria di Nadal – quelle mostrate da Eurosport durante un cambio campo – si aggiravano attorno al 4%. Aggiungete a tutto ciò le cinque ore e mezzo di gara, i dieci anni d’età che separano lo stesso Nadal da Medvedev e, soprattutto, il fatto che il 35enne maiorchino non giocava con regolarità da agosto 2021 a causa di una patologia al piede sinistro con cui fa i conti da molti anni.

Infine, date un’occhiata alle prime pagine dei giornali spagnoli di oggi [Qui] e, se vi piace l’idea di immortalare l’unicità del presente, datevi da fare per conservarle il più a lungo possibile: salvatele, condividetele, commentatele. Insomma, trattatele come quel biglietto del cinema di molti anni fa che custodite gelosamente da qualche parte.

Cover: foto di Beth Wilson

Mangiami!
…un racconto

Mangiami!
Un racconto di Carlo Tassi

Mangiami!
Mangia la mia carne.
Mangiane a sazietà. Condita col sugo del mio sangue!
Gusta il sapore del mio dolore. Congruo tributo per il tuo riscatto d’appetito.
Sacro cuore, sacre frattaglie, sull’altare del tuo piacere.
Sono nato per questo.

Partorito e allattato da mia madre che mai ho potuto sentire.
Inchiodato nella croce del volere naturale.
Eccomi, curato, purificato e macellato. Non serve che m’arrenda.
Perché tu, uomo, mangi solo carne innocente, esente da peccato.
Eccomi, sono io l’infante. Fai presto, prima che la paura mi prenda.

Ridotto a oggetto morituro, mangiato fresco e presto dimenticato.
Sono nato per non vivere, paradosso mercantile dell’umano procedere.
Non voglio tremare, non voglio urlare, non voglio morire, ma a qualcosa devo servire.
Sennò che senso avrebbe farmi nascere, farmi crescere, per tuo volere?

Eccomi, la vita che mi hai dato ti ho restituito. Fanne buon uso.
Pezzetti di vita tagliati fini fini, conditi con l’olio, salati di lacrime e spezie.
Pezzetti gustosi, nutrienti, senza occhi, senza sentimenti.
Sono stato mai qualcuno? Essere vivente, muto, implorante?
Sarò mai stato un figlio da amare? Qualcuno da crescere e rimpiangere?

Migliaia di me ti chiamano, numeri anonimi, spiriti invisibili.
Massacrati dalla prassi quotidiana, al riparo da sguardi sensibili.
Tra urla silenziose e macchine d’acciaio rumorose si compie il mio destino.
Così si consuma la mattanza. Inizia e termina l’atroce dolore.
Nessun senso di colpa, nessun rimorso, nessun rancore.
Saluto tutti col mio ultimo, disperato battito di cuore.
Perché alla fine tutto si cancella. Basta un mio piatto di pietanza e resta solo il buonumore.

Riscattami dalla pena del disegno prestabilito, liberami dalle catene dell’anonimato.
Mangiami e ricordami.
Mangiami e ricorda ciò che ero.

E che, anche se per poco, sono esistito!

Weird Fishes/Arpeggi, live from studio (Radiohead, 2007)

Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

Mattarella, Draghi e il Gioco dell’oca dei partiti

 

Quel giorno Luigi Pintor superò se stesso: “Non moriremo democristiani”, così titolava la prima pagina del manifesto il 28 giugno 1983. La DC aveva sostanzialmente perso le elezioni politiche e, per la prima volta dal lontano 1948, la Sinistra (allora esistevano ancora il PCI e il PSI) poteva sperare di andare al governo, scalzando il lunghissimo dominio scudocrociato.
Non andò cosi. A sbriciolare la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista ci pensò una decina di anni dopo Mani Pulite, mentre il PCI aveva già perso nome, simbolo e direzione politica dopo la Caduta del Muro di Berlino.

La fine dei vecchi partiti portò in scena una nuova classe politica. Nuovi partiti e nuovi leader (figli senza passione e senza memoria, quindi peggiori dei padri) che avrebbero dovuto aprire una era diversa ed inedita nella nostra storia repubblicana. Perciò si parlò tanto di “Seconda Repubblica”, e quindi, nei decenni a seguire, di Terza o Quarta Repubblica.
Anche questa volta, non andò così. Siamo rimasti alla Prima Repubblica.

O meglio, alla infinita, mortificante, sgangherata agonia della Prima Repubblica. Intanto, ci sono passati sotto gli occhi (e sulla schiena) molte stagioni. “Gli anni di panna montata” di Bettino Craxi. La discesa in campo del Cavaliere Azzurro e il suo sogno di Stato-Azienda. L’utopia qualunquista di Beppe Grillo. Il bonapartismo di Matteo Renzi. Il populismo pecoreccio di Matteo Salvini. Infine, dopo alcune prove generali, i tecnici hanno sostituito i politici, diventando essi stessi politici. Più politici dei politici. Non è forse un politico Mario Draghi?

Siamo a oggi, o appena a ieri. A quella indegna settimana di accordi mancati, veti incrociati e candidati bruciati. Giorni e notti per cercare inutilmente l’intesa su un nome da votare come Presidente della Repubblica. Ognuno ha mosso le proprie pedine, come in un grande Gioco dell’oca… per ritrovarsi poi, tutti insieme, alla casella numero uno. Mattarella presidente e Draghi a capo del governo.

Tutti (apparentemente) felici e contenti. Ma nessuno ci crede. La crisi dell’Italia dei partiti è ormai conclamata e irreversibile. Non comandano nel governo, nel parlamento, nel Paese. E non comandano nemmeno i loro governatori e i loto deputati. Iscritti, militanti e simpatizzanti si sono ridotti all’osso.
Dietro il paravento del povero Mattarella e lassù, sopra i partiti, governa Draghi e la sua squadra. A lui, l’ha detto chiaramente in conferenza stampa, sarebbe piaciuto tanto fare il Presidente della Repubblica, ma ci proverà di nuovo e con più chances fra un annetto.

Intanto, l’unico vero vincitore del grande gioco dell’oca, complice la pandemia, è proprio Mario Draghi, l’uomo solo al comando. Con lui, desideri e progetti dei partiti politici sono stati decisamente subordinati ai diktat dell’economia e della finanza. Con lui, anche senza un formale presidenzialismo, la Seconda Repubblica è già cominciata. E non è una buona notizia.

Auschwitz

FARE POESIA DOPO AUSCHWITZ

Iniziamo un percorso all’interno delle poesie di Primo Levi, proponendo l’approfondimento di suoi testi molto noti, che vale sempre la pena di ricordare come testimonianza della Shoà.
E’ famosa l’affermazione di Adorno del 1949: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico”: secondo un primo significato, ciò indica che dopo Auschwitz è impossibile, o ingiusto, fare poesia. Il termine “barbarico”, però, potrebbe anche significare “irrazionale”: quanto è accaduto chiederebbe al poeta di “ricollocarsi entro uno stato percettivo e cognitivo tutto straniero e anteriore rispetto a quello della cultura occidentale, fondata sui principi (…) della razionalizzazione”.

Primo Levi si pone più semplicemente rispetto al problema: in una intervista del 1984 con Giulio Nascimbeni che gli riproponeva l’affermazione di Adorno, egli risponde: “La mia esperienza è stata opposta. Allora (nel 1945-46 n.d.r.) mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro (…): In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz”, “…o per lo meno tenendo conto di Auschwitz”. Perché è stato un evento irreversibile nella storia umana, aggiungerà in una conversazione con Lucia Borgia.

 

In una intervista del settembre-ottobre 1986 su Qol preciserà ulteriormente: “Io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare poesia dimenticando Auschwitz. Una poesia oggi di tipo decadente, di tipo intimistico, di tipo sentimentale, non è che sia proibita, però suona stonata. Mi pare che la poesia oggi, in qualche modo dovrebbe essere impegnata. Impegnata anche se non in modo vistoso. In modo esplicito, ma siccome penso che ogni essere umano debba in qualche modo impegnarsi, così a maggior ragione chi scrive prosa o poesia dovrebbe riflettere nel suo scritto un suo impegno. Ma non è un precetto, è una preferenza”.

Shemà

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(10 gennaio 1946)

Questo articolo è uscito con il medesimo titolo su Peacelink del 27 gennaio 2022.

Biblioteche: partecipazione vera o finta?
L’Amministrazione Comunale di Ferrara preferisce decidere da sola.

 

Finalmente è  arrivato il momento della partecipazione?!?
Abbiamo appreso dalla stampa cittadina che, nei prossimi giorni, partirà il progetto “Cara biblioteca”, organizzato dall’Amministrazione comunale di Ferrara e volto a coinvolgere i cittadini nella definizione del futuro del sistema bibliotecario comunale. Parrebbe una buona notizia, dopo l’insistenza con cui, in vari modi, da più di 2 anni, bibliotecari, cittadini, Associazioni che hanno a cuore le politiche culturali nella città avevano sottolineato la necessità di procedere in questa direzione.
Di criticità, però, a questo proposito, ce ne sono molte e non si può certo dire che siano il prodotto dei soliti malcontenti o che giungano improvvisati.

In primo luogo, quest’ascolto dei cittadini, organizzato tramite 5 assemblee, avviene a valle della decisione dell’Amministrazione Comunale di esternalizzare le biblioteche Rodari di viale Krasnodar e Luppi di Porotto, avvenuta nei mesi passati.
Esternalizzare, o sarebbe meglio dire, privatizzare 2 delle 6 biblioteche esistenti nel territorio comunale non è un fatto di poco conto. Ha significato cambiare volto al sistema bibliotecario ferrarese nel senso di un evidente disinvestimento e deresponsabilizzazione dell’Amministrazione comunale in questo settore.

Logica avrebbe voluto che una scelta di questo tipo, come peraltro richiesto in tante occasioni e da molti soggetti, dovesse eventualmente avvenire dopo aver messo in campo un reale processo partecipativo e di ascolto dei cittadini. Decidere prima e chiamare poi a discutere, se è ancora possibile poter dire la propria su questo cambiamento, non depone certamente a favore della bontà e delle reali intenzioni di chi oggi promuove questo percorso.

Ancor più, vale la pena ragionare su come esso si dovrebbe svolgere.
Al di là del coinvolgimento assembleare e della sottolineatura dell’importanza dell’ascolto, passaggio certamente importante e che si spera venga promosso non solo con l’informazione tramite articoli di stampa, occorre chiedersi cosa vuol dire realizzare una reale partecipazione
Se s
i intende, cioè, la reale possibilità per i cittadini, in termini individuali ma anche collettivi, di poter contare nella formazione delle decisioni. Oppure essi siano semplicemente chiamati ad esprimere un’opinione che non è dato sapere quanto potrà essere tenuta in considerazione e tantomeno influire nelle nelle scelte che si andranno a compiere.

Non mi si dica che dire ciò significa avere una posizione pregiudiziale o essere animati da uno spirito sospettoso. Basta ragionare su ciò che è successo negli anni passati, quando sono stati utilizzati varie forme e strumenti, compresi quelli  previsti dallo Statuto comunale, per sollecitare l’Amministrazione comunale ad attivare una seria partecipazione e discussione.

Nei mesi di ottobre e novembre del 2019 è stata promossa, da parte dell’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori delle biblioteche, con il sostegno dei sindacati di categoria CGIL CISL UIL, una petizione rivolta all’Amministrazione comunale che chiedeva di dar vita ad una nuova e importante struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, procedere ad assunzioni adeguate di personale comunale e rinnovare il modello bibliotecario.

Sulla petizione sono state raccolte più di 2000 firme e, da parte dell’Amministrazione comunale, sono arrivate solo risposte generiche, ma nessun impegno concreto.
Sull’ipotesi di una nuova struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, assistiamo all’alternarsi, quasi con un andamento carsico, di dichiarazioni di intenti e assenza di iniziative fattive in proposito.
Sulle assunzioni di bibliotecari comunali, a fronte dell’uscita progressiva degli stessi per il pensionamento, non si procede neanche alla loro sostituzione integrale.
Sulla assoluta necessità di un nuovo modello bibliotecario all’altezza dei tempi, di cui non si intravede neanche l’ombra di un impegno in questo senso.
Analogo destino l’ha subito un’altra petizione, promossa nella primavera del 2021 dal Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche, su cui si erano registrate un migliaio di adesioni individuali e più di 30 tra Associazioni e organizzazioni sociali e culturali, per certi versi ancora più circonstanziata nei contenuti e tanto più ignorata.

In ogni caso, se l’Amministrazione comunale è seriamente intenzionata a portare avanti un reale percorso partecipativo, lo può dimostrare con i fatti.

Esso, infatti, per essere tale, oltre al momento dell’ascolto, si regge se ha almeno altri due punti di svolgimento.
Il primo è quello, una volta terminata la fase di espressione delle domande e dei bisogni, di dar vita ad un Tavolo partecipativo, promosso dall’Amministrazione comunale, cui chiamare Associazioni e soggetti interessati alle politiche culturali nella città, rappresentanze dei cittadini che hanno partecipato alle assemblee preparatorie, gli stessi bibliotecari, il cui ruolo è fondamentale e sarebbe certamente sminuito se rimanesse limitato ad un incontro preliminare, come quello rivolto agli utenti.
Tale Tavolo dovrebbe avere il compito di elaborare proposte e allargare la discussione, chiamando anche “esperti” e confrontandosi con altre esperienze esistenti al di fuori della nostra città e che si cimentano con il tema di costruire sistemi bibliotecari adeguati agli anni che stiamo vivendo.

Da lì dovrebbero scaturire le linee di un nuovo progetto per disegnare il futuro del sistema bibliotecario a Ferrara, che poi – ed è questo il secondo punto di ulteriore sviluppo di un meccanismo partecipativo – andrebbero riportate alla discussione di tutti i cittadini interessati, con una nuova tornata assembleare.

Sono questi i basilari e sperimentati passaggi su cui si fonda una partecipazione capace di dare protagonismo ai soggetti interessati: ascolto e esplicitazione dei bisogni, costruzione di un’ipotesi di progetto di intervento, verifica della stessa attraverso una discussione larga.

Se non ci si incammina su questa strada, vuol dire che siamo di fronte ad un’idea di partecipazione guidata dall’alto, che serve solo ad autolegittimare le scelte di un’Amministrazione autoreferenziale e nessuna intenzione di tener conto di quello che pensano i cittadini/utenti e le persone che lavorano nel sistema bibliotecario.

Un modo di procedere che abbiamo già visto in passato, con Amministrazioni precedenti, e che si conferma oggi. Sul nodo biblioteche ma anche su altre questioni e situazioni.
Sembra che, da un po’ di tempo in qua, da piazza Municipale in molti si esercitino a magnificare la partecipazione e, contemporaneamente, lavorino per depotenziarla e renderla inoffensiva, rendendo residuale il ruolo dei cittadini, delle Associazioni, dei soggetti sociali e dei lavoratori.
E lo sappiamo bene, senza un vero protagonismo, nessun progetto, anche il più innovativo, riesce realmente a decollare e vivere.

Allora sì, come giustamente ha rilevato Ranieri Varese qualche giorno fa, saremmo solamente di fronte all’ennesima conferma che non c’è una volontà di assumersi responsabilità, capacità di progettare il futuro, rilanciare una forte presenza pubblica nel sistema culturale e bibliotecario della città.

Per leggere tutti gli articoli di Corrado Oddi è sufficiente cliccare il suo nome sotto il titolo.

CONTRO VERSO
Filastrocca dei miei panni (quasi un rap)

 

Michael ha 15 anni e diverse denunce. Un padre violento da sempre, da cui ha chiesto di essere protetto. La violenza che ha subito, lui l’ha imparata. Adesso che gli educatori vorrebbero aiutarlo la sputa indietro, non riesce a fidarsi, fa e si fa del male, molto male.
C’è chi dice che non si possa più fare niente per Michael, a parte prescrivere gli psicofarmaci adatti.

Filastrocca dei miei panni (quasi un rap)

Sono tutto matto – matto, matto
vivo soddisfatto – tanto, tanto
di tenervi in scacco, scacco matto
sotto ad ogni attacco che vi faccio.

Perché sono matto, assai violento
sono il più tremendo e vi tormento
rompo tutto quanto, scappo, arraffo
urlo vi distruggo e mi fa un baffo

che ci sia un’udienza, una pendenza.
Forse una condanna è la sentenza
ma ci sono nato, è la violenza
quella che ha plasmato ormai l’essenza

di ogni relazione. È la ragione
che mi fa potente tra la gente
e immediatamente mi consente
di sciupare tutto ciò che tocco.

Perché ve l’ho detto, sono tocco,
quel che tocco rompo e lo distruggo
se mi dai un confine sai che fuggo
ho già visto troppo e sono matto.

Vedo mio fratello, dolce e bello.
Vedo poi mio padre, e il ritornello:
lui che col bastone, a suon di botte
ci distrusse troppe, troppe volte.

E da qui vi osservo, rido e faccio
tutto ciò che voglio, strappo, straccio,
butto varechina, e la catena
l’àgito all’istante su un passante.

Sono adolescente, e della gente
me ne importa poco, anzi, niente.
Vivo con un tarlo nella mente.
Sono matto, mica deficiente.

Giro per il mondo, ho 15 anni,
so che se mi guardi mi condanni.
Prova tu a campare nei miei panni!
Vieni solo un giorno nei miei panni!

Una delle possibili conseguenze del maltrattamento sui bambini è che questi, crescendo, diventino a loro volta violenti. Non c’è niente di preordinato nel comportamento umano e non è detto che accada, ma una correlazione esiste ed è tutto sommato comprensibile: se si è sperimentato per anni che i rapporti più importanti si definiscono secondo la legge del più forte, meglio trovarsi dalla parte di chi si impone che da quella di chi soccombe.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, esce su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BOMBE SU FERRARA:
il racconto dei bombardamenti del 29 dicembre ’43 e 28 gennaio ’44

 

Presentazione di Roberto Paltrinieri

Tra i molteplici effetti positivi dello scrivere vi è la capacità di suscitare nel lettore emozioni, muovere tutta una serie di riflessioni, considerazioni personali a volte così profonde e coinvolgenti da far nascere una significativa relazione tra chi scrive e chi legge.
Certo si tratta nella maggior parte dei casi, di una relazione “ a distanza”, ma in alcuni casi fortunati si trasforma in una relazione interpersonale vera e propria.
Proprio questo è capitato tra il sottoscritto e Carmelo Galeotti, di cui ho il piacere di presentare su questo giornale, un suo scritto sul primo bombardamento avvenuto verso la fine della seconda guerra mondiale, a Ferrara nel dicembre del 1943.
Carmelo aveva letto alcuni miei racconti pubblicati su FerraraItalia, che avevano suscitato ricordi molto piacevoli sulla sua giovinezza. Pochi mesi fa ho ricevuto una sua graditissima lettera dove mi sono reso conto che Carmelo, per gli amici Melo, oltre che essere un distinto signore di novantasette anni ancora molto attivo, è un valente scrittore.

Carmelo Galeotti nasce a Messina nel 1925. Vive la sua adolescenza a Tripoli di Libia, allora Colonia italiana dove, dopo la crisi mondiale del 1929 si è trasferita la sua famiglia e dove il padre ha un bar gelateria, una torrefazione di caffè e una piccola distilleria.
Nel 1940, con la Seconda Guerra Mondiale, Tripoli è territorio Oltremare e zona di operazioni di guerra.
Nel 1941 deve interrompere gli studi e poi rientrare i Italia dove, dopo varie peregrinazioni come profugo di guerra, arriva a Ferrara nel 1943.
Qui continua gli studi e nel 1949 si laurea in ingegneria civile nell’Università di Bologna.
La sua attività professionale si svolge tutta nell’Ente Pubblico. Prima , per un anno, come assistente volontario, senza stipendio, nell’Istituto di Scienza delle Costruzioni dell’Università di Bologna, poi nel Comune di Ferrara e poi, in Provincia di Ferrara dove, concorso dopo concorso, giunge al grado apicale di Ingegnere Capo.
Dal 1990 è in pensione.

Carmelo è anche uno scrittore particolarmente dotato.
Pochi anni fa ha scritto un libro di natura autobiografica dal titolo che prende il nome da quello della sua famiglia ,“Galeotti”, ma che in verità è molto più di una banale saga di una famiglia siciliana, è piuttosto un vero atto di amore verso la Vita.
Un libro bellissimo, ancora non pubblicato, che ho avuto il piacere di leggere, dove viene riportata anche la descrizione del primo bombardamento su Ferrara nel ’43.

Ed ecco che sono arrivato.
Carmelo legge il mio racconto L’amore di Nina, racconto che prende il via dalle conseguenze del secondo bombardamento su Ferrara del 28 gennaio del 1944. e mi propone di pubblicare per il giorno dell’anniversario di quell’avvenimento terribile per la nostra città, il brano sul primo bombardamento tratto dal suo libro.

BOMBE SU FERRARA

di Carmelo Galeotti

Era un mercoledì. La giornata si annunciò fredda e senza vento, il cielo sin dalle prime ore, divenne azzurro così profondo come raramente accade a Ferrara, città piatta e liscia di pianura, figlia sottomessa della nebbia.
Melo e Valentino, suggestionati da queste frizzanti condizioni atmosferiche, dopo la frugale colazione a base di caffè di orzo tostato e macinato fatto in casa da mamma Maria, uscirono di casa respirando a pieni polmoni.
Non avevano impegni per quel mattino
La loro giovane età e l’eccezionale bel tempo avevano fatto effetto di una inconsapevole euforia.
Di certo, non sarebbero stati così euforici se il tempo fosse stato come nelle settimane precedenti, con le giornate piene zeppe di nebbia fitta e umida da gelare le ossa, con la gente dall’aspetto triste che si trascinava per le strade con facce smunte e occhiaie livide.
La bella giornata li aveva contagiati e erano speranzosi, non avevano dubbi le cose sarebbero certamente cambiate in meglio.
Per l’avvenire il tempo avrebbe giocato a loro favore.
D’altronde …peggio di come erano ora le cose….
Si diressero verso la piazza del Duomo dove c’erano cartelloni che portavano affissi le copie della stampa locale: il Corriere Padano ed un altro giornalucolo, edito dalla Federazione Fascista, poi c’era una copia del Bollettino di guerra del giorno precedente, poi c’erano i manifesti degli spettacoli dei cinema.
Sfiorarono con una occhiata il Corriere che, con un titolone, riportava:
“a Ortona le truppe germaniche hanno scritto una pagina di storia”
In seconda pagina, invece, lessero notizie che li fece sorridere:
“ …la Finanza ha inferto un duro colpo al mercato nero : sequestrati 52 chili di residui di tabacco..”
Ormai anche le cicche mozziconi di sigari e sigarette raccolti per terra, residui di tabacco fumato, erano diventate merce di qualità protetta.
“ … in via Voltino n° 5 , con un colpo ladresco i soliti ignoti hanno rubato un rimorchio di cui non si sa il valore, forse 18.000 lire.
La signora Pastorelli Maria ha udito i rumori dei ladri ma non è intervenuta perché è rimasta a letto…”
“… in questi giorni, per il mese in corso, saranno distribuiti 50 grammi di grasso in sostituzione dei 50 grammi di burro che non erano stati distribuiti…)
L’attenzione maggiore, però, la concentrarono sulle locandine dei cinema.
A Ferrara ne funzionavano sette: il Nuovo, l’ Apollo, il Ristori, il Boldini, il San Pietro, l’Estense in piazza Municipale, il Diana in piazza Travaglio.
Poteva essere lo svago per il pomeriggio, tanto più gradito perché assieme ad Armando Rosella, figlio del Comandante dei Carabinieri della caserma Pastrengo sarebbero entrati gratis al cinema.
Il maresciallo Rosella, di solito, comandava un carabiniere di accompagnare i tre ragazzi fino all’ingresso del cinema, poi con un cenno di intesa al botteghino li faceva accomodare nelle poltrone di platea.
Si avvicinava mezzogiorno quando decisero di tornare a casa per dare una mano alla mamma per il pranzo.
Si apparecchiava la tavola, si grattava un po’ di formaggio da una rinsecchita crosta di parmigiano, si andava a prendere in cantina un paio di tronchetti di legna da ardere nella “cucina economica” a tre fuochi e fornetto.
I tronchetti di legna costituivano un combustibile problematico perché la legna era umida, faceva fumo, aveva un potere calorifero basso e bisognava avere molta perizia e tanta pazienza, per ottenere un fuoco sufficientemente acceso.
Per ottenere qualche vantaggio, nelle settimane precedenti nelle lunghe serate d’autunno si era ricorso a creare del combustibile alternativo.
La trovata consisteva nell’appallottolare palle di carta di giornale, da incarto ed altro, macerate in acqua e lasciate essiccare.
Le palle di carta non producevano molto calore ma avevano il vantaggio di bruciare rapidamente così da essere un buon comburente per i tronchetti legna e per qualche misero pezzo di carbone coke.

Dopo la colazione di mezzogiorno, toccò a uno dei due fratelli lavare i piatti sfregandoli con la cenere delle palle di carta raccolta nel cinerario del fornello della cucina.
Gli altri ascoltavano la voce della radio, quella nazionale dell’EIAR a volume normale, quella di Radio Londra quasi un bisbiglio.
Erano da poco passate le 13,30 quando un cupo ronzio di aerei si fece sempre più forte provenendo da ovest.
Certamente uno stormo di bombardieri.
Con il sole alle spalle era la condizione ideale per bombardare Ferrara eludendo l’artiglieria contraerea.
Ma la contraerea non sparò neanche un colpo, non ci fu nessuna reazione.
Probabilmente gli artiglieri stavano facendo la digestione del rancio, giocando a carte.
Il bombardamento, il primo di una successiva lunga serie, su Ferrara città inerme, fu molto brutto
Tutta la famiglia Galeotti scese a rotta di collo le scale dall’ultimo piano dell’edificio fino all’interrato della cantina
L’edificio sorgeva a qualche centinaio di metri dalla stazione ferroviaria e le bombe caddero a grappoli così vicine che le finestre furono divelte, i portoni sventrati.
Non ci fu nessuno scampo per quei sventurati delle case colpite.
Dopo qualche minuto il ronzio dei bombardieri si allontanò verso est lasciando Ferrara sotto una densa nuvola gialla.

Il racconto del bombardamento di Ferrara, corre il rischio di cadere nel banale usando i soliti aggettivi di effetto privi di originalità identici a tanti altri racconti di analoghi avvenimenti.
Ciò capita perché può identificarsi con il fenomeno psichico dell’alterazione dei ricordi per indurre nei lettori o gli ascoltatori di oggi quel senso tragico e angoscioso di allora.
D’altronde, dopo oltre settanta anni, un racconto aderente alla realtà del vero avvenimento creerebbe poche emozioni.
La dura realtà è che in quel primo bombardamento morirono nel giro di pochi minuti trecento dodici persone, uomini donne bambini.
Nei mesi successivi, molti altri disgraziati morirono per lo scoppio di residuati bellici.
Oggi, quando si trova qualche residuato bellico arrugginito corroso e quasi inoffensivo, la stampa ed i media ne danno un risalto nazionale.
Si evacuano interi quartieri cittadini e si paralizza ogni attività per ore poi si fa brillare l’ordigno profondamente interrato che scoppia con un soffocato rumore.
Nel bombardamento di Ferrara, in quel primo bombardamento, di quegli ordigni ne esplosero in pochi minuti qualche centinaio.
Negli oltre venti bombardamenti ed incursioni su Ferrara, di quelle bombe di aereo esplosero migliaia.
Melo e Valentino, frastornati per lo scampato pericolo, uscirono per strada ancora sotto il fitto polverio dei mattoni e dei calcinacci polverizzati dalle bombe.
Intanto che il vento disperdeva la fitta nuvolaglia videro gente impaurita che correva o che si guardava attorno indecisa che fare.
Gente incredula e sbigottita.
L’impressione più impressionante la fece un tizio, un poveraccio, che in mezzo alla strada, si muoveva come se cercasse una direzione dove andare.
Era come uno di quei manichini usciti dal pennello di De Chirico.
Al posto della testa di un comune normale essere umano, con i capelli, il naso, la bocca, aveva un’informe testa
Una testa a forma d’uovo, che a differenza dei manichini di De Chirico aveva quattro fori: due per gli occhi e le due per le narici in cui le palpebre degli occhi battevano in cerca di pulizia e luce e le narici si dilatavano in cerca d’aria.
Una mano poderosa sembrava che l’avesse preso per i piedi e a testa in giù l’avesse immerso una vasca piena di una liquida poltiglia di malta da muratore.
Il poveraccio si sfregò li occhi e si pulì la bocca e, dopo qualche istante, come se avesse indovinato una direzione, barcollando voltò l’angolo e sparì.
L’indomani mattina, 30 dicembre 1943, quando aprì l’Anagrafe del Municipio, c’era una ressa di persone davanti la porta dell’ufficio dell’Ufficiale dello Stato Civile.
La moltitudine di persone stava facendo la coda per denunciare la morte “per incursione aerea” di congiunti o amici.

Nel giro di pochi minuti gli stampati di “dichiarazione di morte” si esaurirono, e una squadra di dattilografe dovette fare gli straordinari fino a sera per stampare a macchina le dichiarazioni sostitutive.
Per guadagnare tempo, l’Ufficiale di Stato Civile ordinò alle dattilografe di scrivere negli Atti “ m. p. i. a.” al posto di “morto per incursione aerea” e, “U.S.C.” al posto della firma: “L’Ufficiale dello Stato Civile”
Gli Atti di morte di quel primo bombardamento, tuttora conservati nell’Archivio dello Stato Civile, sono trecento dodici.
In essi figurano 176 donne e 75 bambini, di cui il più piccolo aveva otto giorni e il più grande quindici anni.
Alla fine della guerra nell’aprile di due anni dopo, soltanto nel Comune di Ferrara, si contarono i morti : 1071 civili di cui circa 800 donne e circa 250 bambini.

Oggi, scrivendo ad oltre settanta anni, della tragica fine di circa duecento cinquanta bambini, si viene colti da una amara tristezza:
“..neanche Erode nella strage degli innocenti era stato capace di tanto..”
Questo fu il luttuoso contributo di Ferrara, città che a detta dei soliti “saputissimi” doveva essere una città “a vocazione agricola”, di “scarso interesse bellico” non “bombardabile” perché “città di Italo Balbo amico degli inglesi e beneamato dagli americani”
L’esperienza e, in particolare questo tipo di esperienza, insegna ed ammonisce: mai dare credito ai soliti saputissimi.

Cover: Ferrara bombardata – i luoghi del disastro (immagine tratta da: https://resistenzamappe.it/)

Celati forever (11):
I lettori di libri sono sempre più falsi

 

Uno studente di letteratura venuto a Milano per seguire i corsi di letteratura all’università, ha cercato a lungo di comprendere cosa vogliano dire i libri, e cosa vogliano dire i professori che parlano di libri e di letteratura.
Appena sbarcato all’università aveva subito cominciato a sentirsi a disagio, perché tutti i discorsi che ascoltava durante le lezioni erano per lui incomprensibili. Inoltre si vergognava di provenire da un istituto tecnico professionale, i cui studenti sono considerati inferiori a quelli che provengono dal liceo, e così spesso il nostro studente arrossiva.
[…]
Un giorno ha conosciuto quattro studenti napoletani e si è accorto che questi, grazie alla loro lunga esperienza di studenti falliti e fuori corso, erano giunti a farsi qualche idea su cosa succede nelle aule universitarie. Il nostro studente non era ancora riuscito a trovare un libro che gli spiegasse di cosa parlano i libri e i professori, e dunque s’è rivolto ai quattro napoletani, i quali ben volentieri hanno accettato di spiegargli le idee che si erano fatti in materia.
Gli hanno detto che nelle aule universitarie ogni insegnante non fa che vantarsi d’aver capito benissimo i libri che ha letto, e che gli studenti debbono solo imparare a far la stessa cosa.
[…]
Gli hanno spiegato che da un libro bastava ricavare poche frasi di rilievo, in modo da opporre un’idea ad un’altra idea, e così mostrare di aver capito tutto. Anzi, secondo loro le frasi di rilievo non bisognava neanche ricavarle dal libro, bensì dall’introduzione che spiega di cosa parla il librio, e questo era il metodo migliore. ha trovato il coraggio 

Mettendo in pratica questi consigli, lo studente di letteratura è effettivamente riuscito a superare alcuni esami con buoni voti. A questo punto però gli è sorto un dubbio, sul quale ha rimuginato alcuni mesi, con la testa confusa. Il dubbio era questo: mentre per lui era molto chiaro che i professori non parlano per vantare quello che c’è scritto nei libri, bensì soltanto per vantare se stessi di averlo capito, per lo stesso motivo non gli era affatto chiaro cosa ci fosse scritto nei libri, e dunque di cosa parlasse egli stesso quando a un esame si vantava di averli capiti.
Bloccato da questo dubbio vagava per le strade pensandoci su, e senza più pensare agli esami che avrebbe dovuto sostenere. Finché un giorno ha trovato il coraggio di esporre ai quattro ragazzi napoletani il suo problema, con queste parole: «Insomma, se i professori non fanno che parlare di quello che hanno capito, di cosa parlano i libri?»
I quattro gli hanno allegramente risposto di non saperne nulla, e la stessa cosa gli hanno risposto gli altri studenti a cui ha sottoposto il problema, nonché due due assistenti universitari piuttosto allibiti davanti a una simile domanda. La domanda però gli sembrava plausibile, allora il nostro studente ha ricominciato a vergognarsi e arrossire, non solo perché non capiva, ma perché gli altri deridevano i suoi sforzi per capire.
La sua situazione di studente diventava sempre più insostenibile. Con tali dubbi in testa e vedendo che per gli altri tutto ciò non aveva senso ., s’è quindi risolto ad abbandonare l’università ed a troncare ogni rapporto con le compagnie di studenti assieme a cui viveva, per i quali i libri erano soltanto qualcosa che bisognava fingere di aver capito, fingendo di aver capito cosa avevano capito i professori, onde sostenere gli esami.
Ha deciso di cercare un posto dove potersi dare alla lettura di moltissimi libri per conto suo (senza ascoltare le vanterie dei professori), in modo da riuscire a capire finalmente ad appurare di cosa parlassero e cosa volessero dire i libri.
[…]

Gianni Celati, “I lettori di libri sono sempre più falsi”, sta in Quattro novelle sulle apparenze, Milano, Feltrinelli, 2000, poi Quodlibet, 2017

Per leggere tutti i testi di Gianni Celati su questo quotidiano, clicca [Qui]
Puoi visitare l’esposizione NEL MIO DESTINO DI DISAVVENTURE PERPETUE: OMAGGIO A GIANNI CELATI presso la Biblioteca Bertoldi di Argenta fino al 31 gennaio 2022.

La Memoria di Ferrara:
ma l’Olocausto non è un Festival

Come è possibile dimenticare che Ferrara è stata culla dell’Ebraismo, con una Comunità Ebraica che affonda le sue radici nel XII secolo?

Stiamo parlando della città di Giorgio Bassani, autore de Gli occhiali d’oro Il giardino dei Finzi Contini, divenuto poi famoso in tutto il mondo grazie all’omonimo film del regista Vittorio De Sica [Qui].

Come dimenticare che, dei cento ebrei ferraresi deportati nei campi di sterminio, solamente cinque di loro hanno fatto ritorno?

Non si placano le critiche sull’inadeguata e infelice definizione di Festival delle Memorie per le iniziative in programma a Ferrara in occasione del Giorno della Memoria, 27 gennaio, nonostante il repentino cambio di nome in Settimana delle Memorie , da molti visto come una banale ‘arrampicata sugli specchi’.
Gli autori di questo cosiddetto ‘festival’ sarebbero l’attore Moni Ovadia [Qui], attuale direttore artistico del teatro Comunale di Ferrara, e il prof. Vittorio Sgarbi, come presidente di Ferrara Arte.
Numerosissimi i commenti e gli articoli negativi da parte dei membri della comunità ebraica, rappresentati anche da personalità di rilievo, indignati dall’organizzazione e dal messaggio che essa propone.
L’amico professore universitario Ugo Volli, scrittore e autore del libro Mai più! Usi e abusi del giorno della memoria, ha commentato a riguardo: “E’ possibile accostare la parola ‘festa’ (da cui ‘festival’ evidentemente deriva) al genocidio, alla strage e alla tortura di milioni di persone? Chi può essere così perverso e insensibile da pensare ad una Sanremo della Shoah?”
“Festival delle Memorie a Ferrara?”, scrive la giornalista Deborah Fait, “Banalizzazione della Shoah. Un minestrone di banalità, un’insalata russa di genocidi avvenuti nella storia. Il 27 gennaio è la data istituzionale legiferata nel 2005 dall’Assemblea delle Nazioni Unite per non dimenticare il genocidio del popolo ebraico. Tutti gli altri genocidi hanno le loro date specifiche”.
Anche Kiwan Kiwan, politico ferrarese di origini libanesi, sottolinea che “tutte le storie non possono essere accomunate per il solo fatto che hanno prodotto un genocidio”.
Ogni storia è a sè, ognuna ha la sua drammatica identità, e accomunarle e non dar loro separatamente il giusto rilievo vuol dire sminuire tutti i genocidi perpetrati nella storia.
Non poteva mancare il commento di Vittorio Polacco, uno degli ultimi sopravvissuti che sarà ospite giovedì 27 alla trasmissione I fatti vostri su Rai2: “La Memoria non può e non deve essere un festival. Chi vi scrive è un reduce della retata del 16 ottobre a Roma; caricato sul camion tedesco con nonni, zii e cugini, e di quel camion solo io mi sono salvato”.
Durante la conferenza stampa per la presentazione del Festival, Sgarbi ha voluto esternare un giudizio dell’amico Ovadia sul fantomatico ‘genocidio palestinese’ ad opera di Israele. L’atteggiamento e il pensiero di Moni Ovadia, ‘antitutto per eccellenza’ quando si parla di ebrei e di Israele, non rappresentano certo una novità agli occhi della comunità ebraica.
La delusione di molti deriva proprio da Vittorio Sgarbi, che ha scelto il momento meno adatto per certe dichiarazioni. Sgarbi si è sempre dichiarato amico degli ebrei e di Israele, dichiarando in passato che “Israele si difende da un estremismo fanatico. Gli israeliani non accoltellano i turisti per strada. Non lanciano quotidianamente razzi contro le abitazioni civili. Non incitano i giovani al martirio imbottendo loro di esplosivi. Si difendono. Contro gli israeliani e gli ebrei in particolare, pregiudizi inaccettabili, frutto di disinformazione e di rancore ideologico”.
E mentre noi scegliamo di generalizzare la Memoria di un’intera comunità, mettendola a paragone con altri drammatici eventi della storia dell’Uomo, nella giornata ad essa dedicata, pochi giorni fa in Toscana due ragazzine quindicenni sputavano e insultavano un dodicenne ‘semplicemente’ perché ebreo.
“Non ricordate gli ebrei morti, se non difendete quelli vivi”. Dobbiamo porci molte domande.

LA NAZIONE DELLE PIANTE E L’ASSALTO DELL’ANTROPOCENE

 

Un vero capodanno degli alberi, Rosh Hashana Lailanot, come gli ebrei, per Tu Bishvat, il 15 del mese di Shevat, per noi il 17 gennaio 2022. Questo vorrei per cominciare meglio l’anno.

La festa dell’albero del 21 novembre non mi convince. Non si direbbe più che Epifania tutte le feste porta via.
Inoltre quest’anno il capodanno degli alberi coincide con il Befanone, al Vción, Sant’Antonio abate insomma. Benedice gli animali, porta doni ai bimbi trascurati da altri passaggi (San Nicola, Santa Lucia, Babbo Natale, Befana), ricorda a tutti l’imprevedibilità dell’amore: al s’era inamurà int un busghìn, un maialino. Un giorno che ci ricordi il nostro legame con la natura, con gli alberi in particolare. Un giorno in cui gustare frutti e vini diversi, buoni però.

C’è bisogno di un capodanno così. La Fao ci ricorda che la deforestazione continua, al ritmo di 10 milioni di ettari all’anno, nell’ultimo quinquennio. In quello precedente erano 12 milioni, nel primo decennio del 2000 erano 15, e 16 tra il 1990 e il 2000. L’anno scorso siamo tornati ai 12 milioni. Nella sola Amazzonia è stato deforestato il 22% di suolo in più rispetto all’anno precedente.

In questa ricorrenza i bambini israeliani piantano alberelli. Lo farebbero anche da noi con la serietà che è propria di bimbi consapevoli dell’importanza dell’azione. “Se stai piantando un albero e ti dicono che è arrivato il Messia, prima finisci di piantare l’albero e poi vai ad accogliere il Messia”.

La nostra biografia si farebbe ecobiografia: “Io sono vita che vuole vivere, circondata da vita che vuole vivere” come scrive Jean-Philippe Pierron. Tutti siamo stati “arboricoli”, aggiunge. “Eravamo piccoli, ma talmente più grandi, quando, nell’albero dei nostri giochi, afferravamo con una mano un ramo più alto. E appollaiati su di esso, le ore meravigliate a contemplare la storia della specie che s’inventava in noi”. Arboricolo è, per tacere di Tarzan, il barone rampante che al padre oppone un irreplicabile “Ma io dagli alberi piscio più lontano!”. A tanto non mi sono spinto, non procedendo, bambino, oltre i rami più bassi dell’albero più alto della scuola di Roncobonoldo.

C’è chi continua ad abbracciare gli alberi, come fa Luca Zampini, testimoniandolo con le sue fotografie. È grazie a lui se le piante ci guardano con occhi meno severi: “Ci osservano gli alberi. Vorrebbero che noi ci accorgessimo di quanto è innaturale il mondo che gli abbiamo creato intorno. Ci guardano nella speranza che provvediamo a migliorarlo. Resistono e soffrono. Superstiti sempre più radi, troppo poco importanti ai nostri giorni per meritare attenzione”.

Bruno Latour, mette in evidenza come sia la stessa storia fisica e mentale degli umani ad essere legata a quella dei non umani e all’ambiente. Una visione più completa delle richieste e dei diritti delle parti in causa potrebbe darcela un “parlamento delle cose”. O almeno un “parlamento dei viventi”, evocato da Marielle Macé: “La terra si fa sentire, il parlamento dei viventi chiede ora di essere allargato. Esteso ad altre voci, altre intelligenze, altri modi di fare per vivere… L’ampliamento radicale delle forme di vita da considerare e degli accordi da costruire, questo è il punto cruciale”.

La posizione delle piante è nota, grazie a Stefano Mancuso, che, conoscendole bene ne ha stilato la Carta dei Diritti1. La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente. 2. La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono. 3. La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate. 4. La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni. 5. La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti. 6. Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni dei viventi è vietato. 7. La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirsi, vivervi, senza alcuna limitazione. 8. La Nazione delle Piante riconosce e favorisce il mutuo appoggio fra le comunità naturali di esseri viventi come strumento di convivenza e di progresso.

Mi viene in mente Capitini: si interroga se sia indifferente per il carbone restare dov’è o essere utilizzato dall’uomo. Non sa darsi una risposta, però si fa vegetariano e sa che solo il fiore che non cogli è tuo. Nonviolenza, del resto, è apertura a esistenza, libertà, sviluppo di tutti gli esseri. L’assalto agli alberi, con la deforestazione, è alla base del virus di successo con il quale ci stiamo confrontando. Vacciniamo – questo è un bene – i popoli ricchi, e non i poveri – questo è un male – assicurando così la diffusione della pandemia. Si è rotto il climatizzatore della fabbrica del mondo, ci ripetono Marco Paolini e Telmo Pievani. Appare necessario e urgente un processo costituente, capace di trarre il meglio dalla nostra esperienza, senza che la paura ci rinchiuda – lo sta facendo – in identità di “sangue e terra”, già sperimentate col nazismo.

Una splendida introduzione a una possibile Costituzione della terra l’ha scritta Luigi FerrajoliNon si è fermato qui. Ha tracciato la Carta della Nazione degli Umani in un testo di 100 articoli. La prima parte enuncia principi e diritti fondamentali, la seconda poteri e organizzazione. L’impegno è costituzionalizzare la globalizzazione, globalizzare il garantismo costituzionale.

“L’umanità si trova oggi di fronte ad emergenze e a sfide globali che mettono in pericolo la sua stessa sopravvivenza: le devastazioni ambientali e il rischio di una prossima inabitabilità del pianeta, la minaccia nucleare generata da migliaia di testate atomiche, la crescita della povertà e la morte per fame o per malattie non curate di milioni di esseri umani, le ondate migratorie di masse crescenti di persone che fuggono dalla miseria, dagli sconvolgimenti climatici, dalle guerre civili e dalle persecuzioni politiche”. Non mi provo a riassumere il ricco articolato, una semplice bozza secondo Ferrajoli. Ne consiglio la lettura. Propongo solo i primi due articoli. Ce n’è abbastanza per orientare la nostra azione.

Articolo 1 La Terra, casa comune degli esseri viventi

La Terra è un pianeta vivente.
Essa appartiene, come casa comune, a tutti gli esseri viventi: agli esseri umani, agli animali e alle piante. Appartiene anche alle generazioni future, alle quali la nostra generazione ha il dovere di garantire, con la continuazione della storia, che esse vengano al mondo e possano sopravvivere. L’umanità fa parte della natura. La vita e la salute del genere umano dipendono dalla vitalità e dalla salute del mondo naturale e degli altri esseri viventi, animali e vegetali, che insieme agli esseri umani formano una famiglia accomunata da una stessa origine e da una globale interdipendenza.

Articolo 2 Le finalità della Federazione della Terra
I fini della Federazione della Terra sono: garantire la vita presente e futura sul nostro pianeta in tutte le sue forme e, a questo fine, porre termine alle emissioni di gas serra e al riscaldamento climatico, agli inquinamenti dell’aria, dell’acqua e del suolo, alle deforestazioni, alle aggressioni alla biodiversità e alle sofferenze crudeli inflitte agli animali; mantenere la pace e la sicurezza internazionale e, a questo fine, mettere al bando tutte le armi, nucleari e convenzionali, sopprimere gli eserciti nazionali e così realizzare il disarmo degli Stati e delle persone e il monopolio della forza in capo alle sole istituzioni di polizia; promuovere fra i popoli rapporti amichevoli di solidarietà e di cooperazione nella soluzione dei problemi globali di carattere ecologico, politico, economico e sociale e, a questo fine, garantire l’uguale dignità di tutte le persone e la conservazione e la tutela di tutti i beni vitali; realizzare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani nei diritti fondamentali e, a questo fine, introdurre, in capo ad adeguate istituzioni e funzioni globali di garanzia, gli obblighi di prestazione e i divieti di lesione che a tali diritti corrispondono come loro garanzie.

Questo articolo, con altro titolo, è uscito il 24 gennaio sull’edizione online di Azione nonviolenta

Per leggere tutti gli articoli di Daniele Lugli è sufficiente cliccare sul suo nome sotto il Titolo.

Tree sleeping …
Il sogno di una casa sull’albero

@Aromantica

Molti di noi, da ragazzini, hanno sognato la casa sull’albero. Arrampicarsi in maniera agile e spensierata su quegli amici imponenti e maestosi era un desiderio irrefrenabile. Se non altro per sentirsi leggeri, liberi, soli con le nubi e i sogni a cielo aperto. Un’avventura che poteva dimostrare a noi stessi e agli altri quanto eravamo bravi e magari onnipotenti. Senza paura di cadute o di inciampi, sentimenti che dovremmo portarci dentro anche da adulti. Voler ritrovare quella spensieratezza, oggi si può, per chi ancora non ha perso il vizio di sognare. Una stanza sull’albero, più o meno spartana o molto chic, la si può trovare in varie regioni italiane. Eccone alcune, dal Lazio alla Sardegna. Per una piccola fuga dal mondo.

La Piantata, Arlena di Castro, Viterbo, Lazio

Suite Bleue, La Piantata

Nascosta dietro alla chioma rigogliosa di una quercia secolare e avvolta dal profumo della lavanda durante i mesi estivi, l’agriturismo La Piantata, a pochi km da Viterbo, ad Arlena di Castro, dispone della bellissima e accogliente Suite Bleue, perfetta per un relax alternativo in totale sintonia e sinergia con la natura. Progettata dall’architetto Alain Laurens (noto per aver progettato molte case sugli alberi), la casa sull’albero è ampia, 44 metri quadri, si trova a otto metri da terra e dispone di un comodo letto matrimoniale a baldacchino, riscaldamento autonomo, terrazzo dove viene servita la colazione (rigorosamente a chilometro zero), diffusore ultra-moderno per la musica. Favolosa anche la Black Cabin (la Casa sull’Albero più grande d’Europa), un eco-loft di 87 metri quadri per dormire riparati dall’ombra della chioma di un pino marittimo di 200 anni. Incredibile vista a 360° su un oliveto secolare di oltre 1.800 piante, 12 ettari di colline coltivate a lavanda, i Monti Cimini e, sullo sfondo, il mare di Tarquinia. Ogni anno, dalla fine di luglio fino alla notte di San Lorenzo, gli ospiti potranno anche assistere alla suggestiva raccolta della lavanda.

CasaBARTHEL, Firenze, Toscana

Casa Barthel

Bed and view. Tra le case sull’albero in Italia con design moderno, ma perfettamente inserito nel contesto naturale circostante, CasaBARTHEL è situata sulle colline toscane, a pochi minuti dal centro di Firenze e un’ora circa dal cuore del Chianti. Progettata dall’interior designer Riccardo Barthel e realizzata con materiali di recupero, come ferro e legno riciclato, la casetta è finemente arredata e le pareti interne sono lavagne su cui gli ospiti di tutto il mondo lasciano messaggi con gessetti colorati. Agli inizi degli anni Ottanta la famiglia decise di trasferirsi in una casa colonica alle porte del centro di Firenze, sulla collina di fronte alla Certosa di Val d’Ema. La proprietà aveva una casa in pietra circondata da campi di olivi, una concimaia, il fienile e una grande aia di cotto pensata come una piazza di paese. Oggi sono ancora lì e qui troviamo una stupenda casasullALBERO, una romantica stanza immersa nei pini silvestri e negli olivi sempreverdi. Un miniappartamento, una casa/studio e una perfetta residenza d’artista a quattro metri da terra. I proprietari hanno una passione per gli oggetti che amano scoprire e recuperare un po’ ovunque. Per questo ogni appartamento ha una collezione (fra queste, la casadellaCERAMICA prende il nome dalle mattonelle antiche provenienti dalla Campania; la casadelFATTORE espone un manuale contadino degli anni trenta trovato al mercato delle pulci di Parigi; la casadelMARINAIO deve il suo nome a una collezione di modellini, fotografie e quadri di barche a vela; la casadelCINEMA ha una colorata collezione di poster cinematografici, tra cui una gigantesca locandina dei Blues Brothers. Qualche terrazzamento più in basso la casadeiBALOCCHI deve il suo nome alla collezione di cucine giocattolo raccolti nei brocantes francesi).

Tree Village, Claut, Friuli-Venezia Giulia

Tree Village

A Claut, in Friuli-Venezia Giulia, si trova un bellissimo villaggio sugli alberi (il primo in Ialia), immerso nel parco naturale delle Dolomiti Friulane, il Tree Village, ideale per tutta la famiglia, grandi e piccini. Qui le casette sono più spartane, e accolgono gli sportivi che, da aprile, possono praticare Nordic Trekking in notturna, Hydrospeed lungo il torrente Cellina, il percorso Kneipp con istruttore, canyoning, biking e tante altre attività organizzate. Nato dai ricordi di bambino di Renzo Grava e dei suoi nonni Mene, contadino, e Maria, casalinga, con due mucche e una stalla e la vita che seguiva le stagioni, tutto era una sorta di incantesimo. Durante la calda estate si sentiva il rumore della mitica Motobenassi, una falciatrice a motore con il suo odore di olio, si faceva il fieno, i prati erano custoditi con cura e amore, nessun filo d’erba andava perduto, si condividevano i pezzi della storia contadina, con orgoglio e curiosità. Un taglio del prato, cui Renzo contribuiva salendo con il nonno sulla falciatrice, era un lavoro importante. Tanti ricordi, di quei giorni spensierati passati tra le montagne, il fieno, l’altalena e il ruscello, che affiorano ancora oggi. E che oggi accolgono, nelle loro casette sugli alberi, chiunque voglia tornare un po’ bambino… perché, come scrive Renzo, quello che conta è la passione, quella che accumuna le persone alla terra, alla montagna, alla propria montagna perché ognuno di noi ha una montagna nel cuore.

Malga Priu, Ugovizza, Friuli-Venezia Giulia

malga Priu

Da Ugovizza, frazione di Malborghetto-Valbruna (montagne che, fra tanti amici, frequentavo con la famiglia da bambina…), proseguendo fino ai confini del bosco, attraverso una stradina sterrata, si arriva a Malga Priu, sulla via Pontebbana, dove è possibile dormire sospesi in una casa sull’albero che è come un’enorme pigna. Ad oggi, sono disponibili due case-pigna, entrambe di 40 mq distribuiti su 3 piani, progettate dell’architetto Claudio Beltrame e realizzate solo con materiali eco-sostenibili. Il primo piano è la zona lounge con terrazza panoramica; il piano centrale, punto di accesso della casa, include cucina, salotto, bagno e una seconda terrazza; al terzo piano si trova la zona notte, con un oblò sul tetto per addormentarsi guardando le stelle. Perfette per un fine settimana nella natura.

Caravan Park Sexten, Sesto, Trentino Alto-Adige

Caravan Sesto
Caravan Sesto

Posta nell’Alto Adige orientale, nella sempre magica e unica Val Pusteria, Sesto è nota in tutto il mondo per le sue bellissime e immense montagne. Chi ama i paesaggi verdi e che si perdono all’orizzonte conosce bene questi panorami circondati dalle Dolomiti (come me…). Non per nulla lo stemma della cittadina è ornato dalle Tre Cime di Lavaredo… Immersa nel parco naturale delle Dolomiti di Sesto, la cittadina porta i turisti a gli amanti della natura verso i prati della Croda Rossa e la Val Fiscalina che profuma di fieno. Se qui si trovano hotel, appartamenti vacanza e agriturismo di altissimo livello, oggi a incuriosire è il campeggio, il Caravan Park Sexten. Ossia la meraviglia di dormire sospesi. Tanti, molti di noi, da bambini, hanno sognato di dormire sugli alberi. Sospesi dalla terra, leggeri, là in alto più vicini alle nuvole, dove dalla finestra si (intra)vedano fruscianti rami verdi e si odano sbarazzini cinguettii perduti. Oggi, al Caravan Park Sexten si può. Basta salire una scaletta per raggiungere il settimo cielo, quel sogno che si realizza, ovvero una casa sull’albero di 35 mq a 3 metri e mezzo di altezza dove osservare la natura dall’alto, leggere, scrivere, disegnare, ascoltare musica e riposare. Magari ricamare o dipingere. E sognare, liberi da ogni pensiero. Qui la mattina si viene svegliati dalla carrucola su cui è stato caricato il cesto con la ricca e salutare colazione: comincia così una giornata con ritmi nuovi e la sospensione fisica rappresenta, come metafora, l’intervallo che ciascun ospite si prende dalla quotidianità. Un rifugio benefico. Le strutture in legno, realizzate secondo i moderni ed avanzati concetti della bioarchitettura, offrono una vista straordinaria sulla Meridiana di Sesto e aprono una nuova dimensione del piacere del bagno e del relax da condividere in un ambiente magico. Le lussuose case sull’albero sono dotate di soggiorno, televisore, stanza da bagno con doccia sensoriale, idromassaggio e sauna. E se d’estate il verde avvolge, immaginate d’inverno, dove il candore della neve riscalda e i fiocchi accarezzano i sogni. Magari abbracciati, stretti stetti, all’amore della propria vita. Un paesaggio degno di una magnifica favola. E tutto rigorosamente prenotabile online.

San Luis Retreat Hotel & Lodges, Avelengo, Trentino-Alto Adige

San Luis

Restiamo sempre in Alto Adige, ma ci spostiamo ora nella zona escursionistica di Merano, al San Luis Retreat Hotel & Lodges, che offre chalets in legno con pontili sul lago e lussuose case sugli alberi, tutte una diversa dall’altra. Un hotel di case sull’albero in Italia nella cornice di un classico parco alpino di 40 ettari: un bosco di larici e abeti rossi, circondato da montagne, che si sviluppa intorno ad un lago di 5800 mq, in cui la natura offre uno spettacolo impagabile in tutte le stagioni dell’anno. Qui il lusso è il relax ma, soprattutto, il silenzio e l’atmosfera fatata. Che curiosità la luxury casa sull’albero… poco  spartana sicuramente, ma in cima, verso l’alto di ogni vetta, favolosa per corpo, anima e mente…

Aroma(n)tica Treehouse, San Salvatore Monferrato (SL), Piemonte

La bellissima casa sull’albero Aroma (n) tica Treehouse, di Pina e Mauro, si affaccia sulle colline del Monferrato, zona anche ad alta vocazione vitivinicola con prodotti di livello superiore, come Barbera, Freisa, Grignolino e Cortese, ed è immersa nella natura più incontaminata, tra il profumo delle erbe e del tiglio. Attraverso una comoda scaletta in legno si può accedere alla camera arredata in stile shabby chic. Il nido è sospeso su di un parco di 18.000 mq di proprietà della Tenuta Montegrande, una residenza di campagna costruita nel 1893, e gode di una terrazza panoramica, oltre che una piscina solarium. Una meraviglia, per rilassarsi all’aperto durante le belle giornate di sole. L’avventura di Pina e Mauro, con questa casa, rifugio della famiglia, è iniziata 30 anni fa: due figlie, una nonna con la passione dell’orto e tanti animali. Qui si offre un’ospitalità discreta, uno stile di vita genuino e il godimento di una natura incontaminata. I proprietari raccolgono la frutta, prendono le uova delle loro galline, essiccano le erbe per le tisane e imbottigliano il vino. Hanno ereditato il sogno di questa casa sulla collina dal nonno Alfredo e lo portano avanti con la passione e l’affetto che si nutre per le cose più preziose, quelle che si fanno crescere con le proprie mani. Un angolo di Paradiso.

 La Casa di Mimma, Caposele (AV), Campania

casa di Mimma

Scendiamo un po’ più a sud, e a metà strada tra Napoli e Matera, troviamo La Casa di Mimmaun piccolo giallo sull’albero, ideale per chi vuole concedersi una pausa dalle preoccupazioni quotidiane. Il piccolo terrazzino sull’albero permetterà di rilassarvi grazie alle sedute di meditazione organizzate all’aperto; da non dimenticare la presenza del barbecue ad appagare ogni sforzo e le passeggiate, belle occasioni per scoprire la bellissima regione Campania. A partire da Caposele, una piccola cittadina in provincia di Avellino, dove ammirare il patrimonio naturale dell’Oasi Senerchia e scoprire la storia racchiusa nell’Abbazia del Goleto, tesoro risalente al XII secolo.

Su Gologone Experience Hotel, Oliena (NU), Sardegna

Sugologone, Wild Suite

Chiudiamo questa breve, ma intensa, carrellata con la Sardegna. Anche le isole possono offrire la possibilità di dormire sugli alberi, o tra gli alberi: è il caso del lussuoso albergo a 4 stelle Su Gologone Experience Hotel e della sua splendida Wild Suite. Raggiungere Oliena, in provincia di Nuoro, significa poter dormire sotto le stelle e riscoprire il cinguettio degli uccelli e il canto delle cicale, unito al calore della luce inebriante della Barbagia … La camera sull’albero, di ben 60 metri quadri, è nascosta dai rami di un fico; l’arredamento è curato nei particolari e riprende l’atmosfera naturale esterna grazie alla presenza interna di profumati rami di ginepro, sughero e fico. Terrazzo dei sogni e dei desideri completano l’esperienza unica. Un’ode all’armonia.

VOLEVO SPOSARE SIMON LEBON
In margine al sogno spezzato del Cavaliere

 

Molti giornali non solo scrivono ma titolano che fare il Presidente della Repubblica era il sogno di Berlusconi da piccolo. Lo fanno con la solita condiscendenza, come fosse una notizia, come fosse un dispiacere per l’Italia tutta che quel sogno non si sia avverato.

A parte che assai probabilmente è una balla grande come una casa, una delle mille e mille che Berlusconi ci ha rifilato in questi (troppi) anni, è anche un bel chi se ne frega, diciamolo.

Che lo sognasse da bambino vuol dire che oggi ne avrebbe più diritto, più merito, più non so cosa? Perché a leggere su certi giornali, sempre genuflessi, questa Ode al povero Cavaliere caduto da cavallo (Foscolo perdonami) sembrerebbe proprio di sì. E la cosa peggiore è che citare quell’ipotetico temino infantile sembra una cosa commovente, che fa onore a Berlusconi, che un poco lo risarcisce della delusione. Invece è solo patetico, e anche ridicolo (le due cose vanno spesso a braccetto).

Quanti bambini avranno scritto a sette anni “da grande voglio fare il Presidente della Repubblica?”. Pochi, mi figuro, pochi megalomani malamente politicizzati già a quell’età. Ma qualche decina o qualche centinaia ci sarà stato. Che facciamo? Un’ode anche per ciascuno di loro? Un bel titolone di prima pagina, o in Home page? E tutti quelli che volevano fare gli astronauti e ora portano in giro le sacche di Glovo rovinandosi la salute e rischiando la pelle correndo in strada per quattro euro lordi l’ora? Quei sogni infantili malamente spezzati come li risarciremo? Avremo la stessa attenzione e compassione (in senso nobile)?

C’era chi voleva sposare Simon Le Bon e qualcosa – più di qualcosa – ne ricavò anche, a conferma che i sogni è sempre bene inseguirli tenacemente, ma quel matrimonio non s’era da fare e non si fece, e il Paese non ne soffrì più di tanto, che io ricordi.

Pudore pudore… (Raffaella Carrà, 1979).

Nota: questo articolo di Piergiorgio Paterlini è già uscito il 23 gennaio in  http://paterlini.blogautore.espresso.repubblica.it/

GLI SPARI SOPRA
Io sono un qualunquista

 

Io sono un qualunquista? Sono un qualunquista. Affermazione o domanda? Già alla prima frase dell’articolo mi balza alla mente una canzone di uno dei cantanti amati dalle mie figlie, di cui non ricordo il nome, ma il solo fatto di citarlo fa venire i brividi ad un rockettaro come me.

Ho dei seri dubbi su me stesso: ho passato tutta la vita da partigiano (in senso Gramsciano) e lo sono tutt’ora, sono stato attivista per diversi anni, molto distanti tra loro, a quindici e a quaranta anni. Ho sempre avuto certezze granitiche e ortodosse sulle mie idee o sui miei dogmi. E pure quelli non sono cambiati negli anni, la mia coerenza o ottusità ai miei ideali di gioventù (cit.) è ancora lì che mi guarda da quella prima tessera della Fgci del 1984. E pure mi sento diverso, meno coinvolto, con molta meno voglia di persuadere chi non la pensa come me, mi sento disarmato, la verità è che non ne sono più capace. Ma poi, io come la penso? Mi mancano gli strumenti cognitivi che avevo, leggevo saggi, giornali, riviste di partito. Poi sono diventato un ex, di un sacco di cose. Un ex attivista, un ex adolescente, un ex calciatore, un ex motociclista, un ex pescatore. Vero è, come dicono i vecchi, fichi e meloni ogni frutto le sue stagioni e via con la fiera delle banalità. Vedi, allora è vero. Sono un qualunquista. Non riesco a capirmi, vorrei essere coinvolto, vorrei sentirmi partecipe, vorrei avere quella cosa che mio cugino (il mio terapeuta dall’infanzia) definisce con un termine ferrarese bellissimo e intraducibile, sghizuìglia. Parteggiare, stare con, sentirsi parte di un noi politico, una sorta di innamoramento eterno e immutabile. Dalle farfalle nello stomaco al reflusso gastrico è un attimo.

Tranquilli, non sto diventando un moderato. Sono e rimango una persona non di estrema sinistra ma estremamente di sinistra. La mia collocazione non esiste. In molti hanno fretta di andare a votare, perché il popolo deve decidere. Ma decidere cosa? Che vota sempre per quei quattro o cinque contenitori. Centro sinistra, centro destra, destra, né destra e né sinistra, sono ampiamente rappresentati, non sono la stessa cosa, anche se da undici mesi governano insieme. Sono diversi ma attendono di sedersi attorno a un tavolo per decidere il prossimo presidente della Repubblica. Do ut des. Forse è realmente solo questa la politica, forse di moderazione in moderazione ci si radicalizza solo da una parte, a destra? Sto per dirlo, no, non voglio… sono tutti uguali, tutti pensano al proprio orto, tutti pensano ai voti e non alle persone. Ecco, lo sapevo, sono un qualunquista. Tutti ladri, nessuno ladro (cit.), ecco ora cito pure la buonanima di Bettino.

Ma cosa mi sta succedendo? Sarà la pandemia che mi offusca la mente? Il periodo stagnante, come l’acqua di Valle Giralda? No, il mio abbassare la guardia ed affrontare l’avversario con le braccia sui fianchi e la faccia esposta ai pugni, parte da lontano. Forse ora ha toccato il livello più basso. Anche se si può sempre scavare.

E’ passato troppo tempo da quando in TV riconoscevo i politici di sinistra, della mia sinistra, dalle prime quattro parole. Li riconoscevo dal nodo lento della cravatta, da quella luce negli occhi che non ho mai più visto, erano i miei, eravamo diversi, non meglio, diversi.

Ora ascolto un lento e amorfo brusio, intervallato dalle urla di popolar populisti, cambia solo la tinta dei capelli, il gessato e la cravatta sono gli stessi, addirittura la felpa la indossa Salvini, gli operai stanno a destra, il centro sinistra è la borghesia dominante, la parola popolo e popolare brulica sulla bocca della Meloni.

Ma dove cazzo sono finito?

Mi accorgo di avere fatto questo discorso almeno mille volte. Oltre che qualunquista sto pure diventando sclerotico. Ho votato nella mia vita per almeno sette o otto partiti, dal più grande partito comunista d’occidente a Potere al Popolo, PdS e DS, PdCI, Sinistra Arcobaleno, SEL. Oramai da diverse elezioni non raggiungo il quorum. Una decina abbondante di anni fa credetti di avere trovato di nuovo un noi, ragazze e ragazzi giovani, pieni di idee, coraggio, voglia di cambiare, radicalità e allegria. Poi arrivarono gli squali e si spolparono la carcassa di quella nuova speranza di rinascita. Tutto come da copione, quando il piccolo si ingrandisce i culi cercano le poltrone. Politica come mestiere, che schifo. La politica è una missione per conto del popolo, i datori di lavoro degli eletti sono gli elettori, non le banche, i poteri forti (ma poi che cazzo sono i poteri forti, io non l’ho mai capito).

Occorrerebbe un agglutinamento (no, non è un errore di grammatica), bisognerebbe attaccare i cocci e le briciole, che, come la fascia di meteoriti, gravitano fuori dal parlamento nella galassia lontana, lontana della sinistra-sinistra. Esistono partiti più Leninisti di Lenin e più Maoisti di Mao. Marx non era marxista, era comunista. Tra il centro e il Soviet Supremo ci sarà pure uno spazio dove potersi tenere per mano senza andare a ricercare Lev Trockij a Coyoacán. Chiaro, non sono talmente sprovveduto dal pensare che lo schieramento vittorioso alle elezioni di non si sa quando sarà un monocolore rosso. Non ho fretta, più che altro ho paura, sono impaurito da come voteranno gli italiani. Certo che la politica è anche alleanza, ma a pari dignità e poi agli schieramenti ci si pensa dopo, prima occorre creare la scacchiera.

Comunque si, sono un qualunquista. Riduco tutto a pensieri semplici, cedo sotto i colpi di chi utilizza termini medici senza sapere di cosa parla, di chi spolvera la sua laurea su internet, io mi sono diplomato a mala pena. Anche se credo di avere letto negli ultimi trent’ anni molto più di tanti laureati, che dopo la tesi hanno abbandonato biblioteche e librerie.

Mi sento piatto e orfano. Vorrei essere in un angolo del quarto stato, ma ora siamo già al quinto o sesto. Vedo gente piena di certezze, mentre io brancolo nel buio dei miei dubbi, sento gente che cita a memoria l’ultima pubblicazione scientifica della nonsochecazzo, mentre io non sono informato nemmeno sul mercato invernale della  S.P.A.L. (non è vero).

Spesso mi sento un vaso di coccio tra i vasi di ferro.

E comunque nella certezza dei miei dubbi e col mio qualunquismo dilagante, vorrei seguire lassù verso la seconda stella a destra e la trovare la mia utopia, una sinistra unita, non litigiosa, non scunzamnestra, con la voglia di stare insieme più forte della voglia di essere perfettini.

Perché, sappiatelo, la perfezione è di destra.

Celati forever (10):
L’incanto greve di cui parlano i Gamuna

 

I GAMUNA

I Gamuna dicono che l’incanto greve “ti attira verso il ta“: parola che per loro indica il “questo” (ta) dove l’individuo è piantato. Il ta è insieme l’incanto del vivere e l’uomo piantato nella terra, con la polvere che lo avvolge, con i suoi sogni e la deriva dei sogni, con il suo modo d’essere nella grande allucinazione del mondo. Inoltre loro vedono questo incanto del vivere come un tremolio delle cose che si stanno sfaldando nell’afa delle stagioni calde, o tra i barbagli della polvere che invade l’aria marzolina. Oppure lo vedono nelle cose che sono destinate a sfaldarsi, disfarsi e crollare per l’attrazione di tutto verso il basso. Così si crea attorno alla città una bolla di aria tremolante in cui tutto, dicono, diventa “stupido come un cencio” (pertuma bin), tutto greve e insignificante. Ed è questa atmosfera che dà la voglia di crollare a terra, per ritrovarsi nel proprio “questo” (ta), nel “questo qui ora” (ta muna ti), come quando si va nel sonno.
[…]
L’incanto greve di cui parlano i Gamuna non è altro che la forza di gravità, da loro descritta come l’incanto del vivere, perpetuo e irresistibile. Di questo gli adulti non amano parlare, ma s’intendono attraverso certe immagini. Ad esempio: qualcuno posa lo sguardo su una ragnatela e la vede tremolare per un colpo di brezza; oppure alza gli occhi a guardare le nuvole e le vede sfilacciarsi nel vento; oppure si fissa su una crepa nel muro e vede che si è allargata rispetto a ieri; oppure contempla una goccia che pende da una grondaia ed è sul punto di cadere. In questi casi, un adulto prova il sentimento del disfarsi, del cedere di tutte le cose lentamente o all’improvviso. Allora lui comincia a pensare al suo amico Donghi, al cugino Wanghi, a suo zio Fonghi, e sente che la rete di abitudini che li ha uniti è destinata a sfaldarsi per via della forza irresistibile che trascina tutto verso il basso. Ecco l’incanto del vivere, come un sogno sospeso sopra l’abisso di centomila ripetizioni, frusciante tra suoni lievi e improvvisi sfasci
[….]
C’è un altro aspetto di quell’incanto, che solo i profeti gamunici sanno dire in modo melodioso. Bonetti rende appena l’idea. Col sentimento dell’incanto greve, l’avvenire non è più là davanti che ti aspetta, dicono, ma ti avvolge all’intorno in tutte le cose. L’avvenire si vede dovunque come un’onda che viene e ti trascina, ma spazza anche via l’altalena di speranze e timori, perché avvolgendoti ti guida e ti culla con la “dolcezza del tremolio” (ouina ki truntrun). Quella è la dolcezza delle epoche mute, la dolcezza dell’inizio dei tempi, quando c’era solo l’alta cupola del cielo e nessuno sapeva di essere capitato in un’allucinazione.

Gianni Celati, Fata morgana, Milano, Feltrinelli, 2005

Per leggere tutti i testi di Gianni Celati su questo quotidiano, clicca [Qui]
Puoi visitare l’esposizione NEL MIO DESTINO DI DISAVVENTURE PERPETUE: OMAGGIO A GIANNI CELATI presso la Biblioteca Bertoldi di Argenta fino al 31 gennaio 2022.

Pandemia e geopolitica:
l’Italia sceglie i vaccini privati USA (meno efficaci di quello russo e cubano)

 

Il 26 gennaio in Gran Bretagna la pandemia “finisce”, nel senso che il Governo ha deciso di togliere tutte le restrizioni, incluse le mascherine al chiuso e nelle scuole (sono solo raccomandate nei luoghi chiusi se affollati), in quanto la variante Omicron è ormai considerata una “influenza”.
Nei Paesi nordici le misure sono da mesi molto modeste, mentre in Italia, e ora anche in Austria, si introducono maggiori restrizioni come l’obbligo vaccinale per gli over 18 dal 4 febbraio.
Anche la Francia introduce il pass vaccinal per over 16 anni per accedere a cinema, teatro, musei, bar, ristoranti, treni ed eventi sportivi e per quei lavoratori che operano in questi settori. Viene però tolta la mascherina all’aperto e lo smart working è facoltativo, inoltre dal 7 marzo saranno alleggeriti i protocolli nelle scuole a differenza dell’Italia dove, inspiegabilmente, uno studente in classe di un positivo deve stare a casa 10 giorni anche se è asintomatico, mentre un adulto no anche se a contatto col pubblico.

L’Italia è quindi ancora il Paese con le maggiori restrizioni in Europa, nonostante i suoi decessi siano negli ultimi 50 giorni sotto la media europea.
Nel frattempo continua il silenzioso (nel senso che nessuno ne parla) successo di Svezia, Cuba e Giappone che registrano (e di gran lunga) la minore mortalità per Covid negli ultimi mesi.

La Svezia aveva scelto la via delle minori restrizioni ed anche nel confronto con i cugini nordici (Danimarca, Norvegia e Finlandia) ha meno morti sia nel 2021 che negli ultimi mesi.

Per quanto riguarda i vaccini, ha fatto scalpore il fatto che il vaccino russo (Sputnik) mostri una copertura maggiore di quello Pfizer e di Moderna (studio Spallanzani e Gamaleya: 70% di copertura dopo 3-6 mesi, mentre Pfizer scende a circa il 40% dopo 3 mesi).

Ricorderete come i nostri media come abbiano sempre deriso e sminuito il valore di Sputnik, così come un blackout informativo c’è stato su Soberana, l’altro vaccino di Stato (quello Cubano) che ha invece anch’esso ottime performance, al punto che negli ultimi 3 mesi Cuba registra una delle minori mortalità al mondo.

In Italia e in Europa questi 2 vaccini di Stato, frutto di una ricerca pubblica sono fuori legge  San Marino che lo aveva acquistato, dal gennaio 2022 deve fare la 3^ dose con Pfizer, se i suoi cittadini vogliono circolare come vaccinati in Italia ed Europa.

Se a questi indizi si aggiunge l’accordo bilaterale che il nostro Ministero della Salute ha fatto il 12 ottobre 2020 (e riconfermato il 3.9.2021) con gli Stati Uniti [Vedi qui] in cui l’Italia si impegna ad acquistare con priorità terapie relative alla salute provenienti dagli Usa anche in relazione a Covid-19, compresi vaccini e trattamenti (anche se nel testo in italiano non c’è la dizione “vaccini”, presente invece nell’accordo originale in inglese “surveillance, control, and research on infection diseases, and related vaccines and treatments”), è difficile resistere all’idea che ci sia più politica che scienza nel contrasto alla Covid-19.

E’ del tutto evidente che, sotto la copertura della “scienza”, delle “evidenze scientifiche” e della “salute pubblica”, ci sono rilevanti interessi di geopolitica che condizionano le scelte dei singoli Paesi e, in questo caso, non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa. L’Italia si conferma ancora una volta, il paese più disponibile (tra gli europei) a seguire le strategie americane.

In passato le questioni di geopolitica (e di modello di sviluppo), pur evidenti, erano rimaste ai margini degli interessi degli italiani, in ben altre faccende affaccendati, ma dal prossimo marzo, quando arriveranno le bollette di gas e luce, forse crescerà l’interesse per come l’”effetto farfalla” (che colpisce tutti) della globalizzazione, che si è trasformato in “effetto elefante” con la pandemia, riguardi tutti.

L’ha spiegato molto bene l’attore Marco Paolini e il filosofo della scienza Telmo Pievani nella trasmissione di Rai 3 La fabbrica del mondo, uno dei rari esempi di informazione pubblica degli ultimi 2 anni, in cui si spiega che ambiente, deforestazione, pipistrelli, allevamenti intensivi, alimentazione, disuguaglianze e, naturalmente salti di specie e pandemia, sono tra loro connessi
E’ di questo che si dovrebbe discutere davvero: guardando alla luna anziché al dito.

Cover: Immagine tratta da:https://www.aibi.it/ita/

Le storie di Costanza /
Gennaio 1959 – Le matite colorate

Nel Gennaio 1959 mia madre Anna Ghepardi aveva 17 anni, ne compì 18 il 21 Ottobre.
Fu l’anno in cui si diplomò maestra. Per una femmina che veniva da una famiglia povera fu una grande conquista.

Racconta che nessuna delle sue amiche di Cremantello raggiunse il diploma, le più brave tra le sue coetanee fecero tre anni di quello che allora si chiamava ‘Avviamento professionale’ e poi si misero a fare le segretarie o le centraliniste.

Le altre andarono a fare le operaie in filanda, rovinandosi le mani con l’acqua bollente, in cui bisognava inserire i bozzoli dei bachi da seta per poi sgarzare il prezioso filamento.

Era l’anno 1959 quando imperversava una famosa epidemia, quella portata dal ceppo influenzale conosciuto come ‘Asiatica’ [Qui]. La vita scorreva senza troppi problemi e le informazioni su questa pandemia erano scarse, sia da parte delle Autorità che da parte dei medici di famiglia.

L’Asiatica contaminava giovani, meno giovani, ma soprattutto anziani. Si trattava di una forte influenza che colpiva le vie respiratorie, causando forti febbri (fino a quaranta), indebolendo tutti i muscoli e costringendo chi la contraeva a letto per settimane.

Tra il 1957 e il 1960 morirono per l’Asiatica circa quattro milioni di persone nel mondo. Fu causata dal virus A/Singapore/1/57 H2N2 (influenza di tipo A), isolato per la prima volta in Cina nel 1954.

Mia madre racconta che anche lei prese l’influenza e stette a casa una settimana da scuola. Il collegio che ospitava mio padre chiuse venti giorni perché erano tutti ammalati: ragazzi e insegnanti. Lei però guarì, così come mio padre. Molte informazioni non c’erano, non si sapeva quante persone si fossero ammalate, quanto grave fosse la pandemia, quante persone morirono.

Nel gennaio del 1959 successero nel mondo diversi eventi importanti, ma mia madre dice che non ne conoscevano nessuno. I giornali non si leggevano, la TV era presente solo in qualche esercizio pubblico e le notizie arrivavano, in un paese piccolo come Cremantello, frammentate, ritardate e poco attendibili.

Fu così che, ignorati dagli abitanti di Cremantello, successero nel Gennaio 1959 alcuni grandi avvenimenti.

Il primo gennaio il dittatore Fulgencio Batista abbandonò l’Avana. Fidel Castro entrò nella capitale cubana in testa alle sue truppe.

Il due Gennaio l’Unione Sovietica lanciò nello spazio Luna 1, il primo oggetto costruito dall’uomo ad uscire dall’orbita terrestre.

Il tre gennaio l’Alaska entrò negli USA, diventandone il 49º stato.

Il sei gennaio a Bologna Giuseppe Dossetti, ex politico e parlamentare democristiano, esponente della sinistra del partito, ricevette l’ordinazione sacerdotale.

L’otto gennaio, al Palazzo dell’Eliseo in Francia, René Coty, ultimo presidente della Quarta Repubblica, passò le consegne a Charles de Gaulle, primo presidente della nuova Costituzione.

Il ventisei Gennaio in Italia cadde il secondo governo Fanfani. Il politico abbandonò anche la carica di segretario della Democrazia Cristiana.

Di tutto questo a Cremantello non si seppe nulla. Si andava avanti conducendo una vita relativamente tranquilla e complessivamente povera. In una famiglia di contadini di quattro persone c’erano quattro piatti, quattro forchette e quattro bicchieri. Se andava tutto bene, c’era un cappotto o una giacca pesante a testa.

I bambini andavano a scuola con gli zoccoli (per fortuna gli zoccoli scaldavano i piedi e li tenevano asciutti) e possedevano sei pastelli di legno per colorare i loro disegni. I pastelli dovevano durare tutto l’anno, non era possibile ipotizzare di doverli rimpiazzare.

Se un pastello cadeva lo si raccoglieva subito e si controllava che la mina fosse integra. La mina rotta era una grande sfortuna. Tutte le volte che si provava a fare la punta al pastello, la frazione di mina usciva dall’involucro di legno in maniera anomala e si depositava sul pezzo di carta dove si erano appena raccolti i trucioli della limatura.

Era un evento che intristiva sia i bambini che i genitori e per il quale non c’era rimedio. Le matite colorate che cadevano generavano sicuramente apprensione. A maggior ragione se cadevano il rosso o il giallo, i due colori primari prediletti dai bambini.

Mia mamma quell’anno fece la maturità. L’autobus per la città passava davanti a casa sua e si fermava poco più in là, ma lei non lo poteva prendere perché costava troppo. Doveva fare ogni mattina cinque chilometri in bicicletta per arrivare al paese più vicino, dove si trovava la stazione ferroviaria e dove lei poteva permettersi di pagare il biglietto del treno per arrivare a scuola.

Al ritorno il percorso era fatto in senso inverso. Prima un pezzo di viaggio in treno e poi cinque chilometri in bicicletta per arrivare a casa. Ricordo di aver sentito la nonna Adelina dire che avrebbe voluto mettere le ruote sotto la casa e spostarla vicino alla città per aiutare sua figlia negli studi e non doverla vedere arrivare a casa col buio e, d’inverno quando faceva molto freddo, congelata o bagnata.

Ma la grande casa della nonna le ruote non le aveva, non le ebbe mai e mia madre dovette continuare a fare dieci chilometri in bicicletta tutti i giorni, finché si diplomò.

Ogni tanto mia madre dice che il poter stare in casa al caldo, quando fuori fa freddo, è tutt’ora una delle sue massime soddisfazioni. Racconta anche la nonna Adelina la aspettava a casa con la cena pronta, anche se la qualità del cibo non era eccellente, un po’ per la mancanza di materie prime e un po’ perché la nonna non amava cucinare.

Quando si doveva fermare a scuola anche al pomeriggio, mangiava nella pausa pranzo due panini con la pancetta, il salume che costava meno.

Aveva però una grande fortuna. Il padre di una sua compagna di classe faceva l’apicultore e, per lo stesso motivo per cui mia madre aveva sempre la pancetta, la figlia dell’apicultore aveva sempre due panini col miele.

Così si creò un sodalizio davvero vincente. Siccome mia madre era stufa della pancetta e Verbena era stufa del miele, facevano uno scambio. Mia mamma dava uno dei suoi panini a Verbena, la quale le cedeva uno dei suoi al miele.

Fu in quel modo che la situazione migliorò senza costi aggiuntivi per nessuno. La solidarietà e la reciprocità sono uno dei vettori del senso di comunità e uno dei collanti sociali più forti che conosciamo, senza bisogno di spendere nulla. Senza soldi si acuisce l’efficienza e, purtroppo solo in alcuni casi, anche la solidarietà.

Mia madre dice che quando sente pronunciare delle frasi stucchevoli del tipo “si stava bene quando si stava peggio” le viene la nausea. Si stava peggio e basta. Ci si ammalava di più, si moriva prima, si soffriva il freddo, c’erano meno possibilità di vedere, imparare, capire e conoscere.

Dopo cena la nonna le cercava i termini da tradurre sul vocabolario di latino. Spesso mia madre era costretta a fare delle tardive versioni, dalla nostra ‘lingua morta’ all’italiano, che non le piacevano minimamente. Il latino non è mai stato il suo forte e forse proprio per quello, le versioni scivolavano verso la fine della giornata e non la chiudevano nel migliore dei modi. Ma a scuola non si studiava solo latino e, per fortuna, nelle altre materie era brava.

Mia madre non aveva il padre. Era morto improvvisamente d’infarto a cinquant’anni. Questo condizionò sicuramente la sua infanzia e la sua adolescenza, così come quella dello zio Giovanni e fece sì che il carattere della nonna Adelina diventasse complicato e a volte inspiegabile.

La nonna si intristiva sempre durante le feste, non le piaceva il Natale e non voleva mai festeggiare nessuno. Le feste le ricordavano il marito morto e penso che le venisse una terribile nostalgia del poco tempo in cui lei e i suoi bambini erano potuti stare con lui.

Quando è avvenuto questo tremendo lutto, mia madre aveva otto anni e lo zio Giovanni due. Chissà com’era il nonno, non avrò mai la possibilità di saperlo. Nel 1959 erano passati dieci anni da quella nefasta giornata e la vita scorreva tutto sommato tranquilla.

La loro situazione era simile a quella di altri compaesani perché, nonostante la mancanza del papà, erano economicamente indipendenti. La nonna Adelina era una brava sarta e lavorava sempre.

Mentre tutto questo accadeva a Cremantello, nel mondo succedeva di tutto, ma loro non lo sapevano e continuarono la loro vita di sempre, coltivando l’orto, aiutando lo zio che vendeva le stoffe, andando in giro in biciletta e mangiando il gelato la domenica pomeriggio.

Del resto i confini del mondo e del sapere sono mutevoli e la differenza la fa ‘ciò che si sa’.
‘Ciò che non si sa’ non condiziona in alcun modo la qualità della vita percepita.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

N.B. Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore sotto il titolo. 

Perché l’elezione di Draghi al Quirinale va evitata a ogni costo

Avevo provato, qualche giorno fa, a scrivere un appello ironico (almeno nelle intenzioni) ai Parlamentari della Repubblica e ai Delegati regionali perché il 24 gennaio facilitassero l’ascesa di Mario Draghi al Quirinale.
Le ragioni dell’appello non erano di natura politica, né legate all’esigenza di evitare l’indecenza di una presidenza berlusconiana, bensì umanitarie: salvare le nipoti dal minacciato ritorno a casa di cotanto nonno.

Era, ovviamente, solo un modo di sdrammatizzare un epilogo che continuava ad apparirmi ineluttabile, anche se forse già in modo meno netto che a fine novembre, quando ne avevo scritto su questo giornale [Vedi qui] . Ben presto, però, ho lasciato stare. L’evoluzione recente della situazione mi ha infatti spento la voglia di sdrammatizzare. Mi ha anzi convinto del fatto che sui Grandi Elettori pesa stavolta una responsabilità immensa: quella di evitare l’ascesa al Quirinale di Draghi, colui che potrebbe a breve essere identificato come il principale responsabile di una débâcle  governativa forse senza precedenti nella storia della Repubblica Italiana.

Che, infatti, l’azione di governo cominci a mostrare aspetti critici molto preoccupanti appare sempre più evidente. Ne è segno inequivocabile il fatto che anche nella vasta area del giornalismo da cortile nazionale il tema cominci a essere evocato più o meno implicitamente, e che persino su Repubblica trapeli qua e là.

Cosa sta, dunque, accadendo? E cosa potrebbe accadere a breve?

Nella sua azione di contrasto alla pandemia, il Governo Draghi ha puntato praticamente tutto su un’unica carta: il dispositivo vaccinazioni/green pass.
In questo modo, nulla o quasi nulla è stato fatto sui molti altri piani via via ipotizzati dagli esperti e mai praticati, se non addirittura ostacolati. Si tratta di diverse linee di azione, potenzialmente sinergiche (anche alle vaccinazioni) nella risposta alla pandemia, tanto spesso citate.
Mi limito qui solo a qualche esempio: investimenti logistici, ad esempio nei trasporti e nelle scuole; in queste ultime, diminuzione dell’affollamento delle classi; uso esteso delle mascherine ffp2; sviluppo di una rete territoriale istituzionale per le terapie intensive; potenziamento, soprattutto in certe aree del Paese, delle strutture per le terapie ospedaliere, ecc.

Proprio in questi giorni però, l’EMA (European Medicines Agency) – non esattamente un covo di negazionisti e di no-vax –  avanza dei seri dubbi sul fatto che sia sostenibile una strategia vaccinale basata sulla somministrazione ripetuta a distanza di pochi mesi di dosi booster [Qui].
L’EMA ha fornito così un altissimo sostegno istituzionale a una perplessità diffusa e articolata.

Tra gli elementi critici che possono valere, anche in sinergia tra di loro, a sollevare più di un ragionevole dubbio sulla sostenibilità a medio termine della strategia governativa di contrasto alla pandemia ricordiamo:

  1. La difficoltà logistica a somministrare una dose vaccinale a tutta la popolazione italiana ogni quattro mesi;
  2. L’impossibilità logistica di somministrare una dose vaccinale a una percentuale significativa della popolazione mondiale ogni quattro mesi, il che – data la dimensione globale del problema – significa restarvi immersi;
  3. La possibilità che sempre più concretamente sta emergendo che, dopo la terza dose, i booster perdano progressivamente efficacia [Qui] ;
  4. La probabilità molto concreta che le ripetute sollecitazioni del sistema immunitario lo indeboliscano, con l’effetto paradossale – soprattutto in combinazione con il punto precedente – di rendere la popolazione più esposta al contagio e alle forme gravi di malattia.

Non si può, naturalmente, sapere a priori quanti e quali di questi elementi annunciati dal presente metteranno radici nel futuro. Ma possiamo immaginare uno scenario come quello che segue, sapendo che è meno improbabile di quello nel quale la strategia unica vaccinazione/green pass avrà posto sotto controllo il problema.

Ottobre 2022. Draghi è al Quirinale.
– La popolazione italiana è vaccinata in una percentuale superiore al 90%.
– Le terze dosi sono scadute o in scadenza.
– EMA sconsiglia, o non autorizza se non in casi specifici, la somministrazione di richiami ulteriori.
– Il Paese non ha predisposto (se non per iniziative private e particolari) altre difese: nei trasporti, nelle scuole, una rete di assistenza domiciliare eccetera.
Siamo (saremmo) quindi, sostanzialmente, a prima del Governo Draghi, per molti aspetti, a prima della pandemia.

Ed ecco arriva una nuova variante. In questo caso, delle due l’una:

  • o Draghi ha buoni agganci anche nelle Altissime Sfere – quelle del Divino – e allora tutto ciò potrebbe portarci – per ragioni del tutto diverse dai meriti del Presidente – alla sospirata trasformazione del virus in endemico, più o meno come quello dell’influenza;
  • Oppure nelle suddette Sfere, quelli come il Presidente non sono ancora sdoganati, e allora il Paese sarà in balia del destino, mentre il principale responsabile di questa tragica débâcle lo guarderà, ancora per sei anni e mezzo, dall’alto del Quirinale.

Naturalmente non è detto che vada così, e tutti speriamo in altri e più rosei scenari, ma la possibilità esiste ed ha una sua fondatezza. Ed è questa possibilità, che mi spinge a rivolgere un secondo appello ai Grandi Elettori, questa volta tutt’altro che ironico:

Onorevoli Parlamentari e Delegati Regionali, nel mettere il vostro voto nell’urna,  prendete in seria considerazione tale possibilità e decidete con tutta la prudenza connaturata alla vostra altissima responsabilità. Voi rappresentate il popolo italiano, e il popolo confida in ognuno di voi.

VITE DI CARTA /
Una data che non dobbiamo sapere:
“Cambiare l’acqua ai fiori” di Valérie Perrin

Valérie Perrin (1967-….) [Qui] ha scritto un romanzo di grande qualità il cui titolo, Cambiare l’acqua ai fiori, mi ha fatto pensare a quelle atmosfere familiari che solo una donna sa ricostruire con leggerezza se racconta la quotidianità di casa fatta di gesti rassicuranti ma ripetitivi, e ci sa mettere  un pizzico di ironia.

cambiare l'acqua ai fioriLo sto leggendo in questi giorni e sto cambiando idea nella maniera più totale. È bello cambiare idea quando si passa da una presupposizione all’incontro diretto con un libro.

In realtà oltre a questo mi sto anche guardando dentro. Perché la voce narrante, che dice ‘io’ e racconta la propria esistenza, fa la guardiana di un cimitero nella provincia francese e ha una disarmante dimestichezza con i defunti.

Li chiama per nome e cognome e aggiunge ogni volta tra parentesi l’anno di nascita e quello di morte: si aggira per esempio lungo uno dei vialetti e si ferma a curare i fiori – ecco il titolo del libro – sulla tomba di Nadine Ribeau (1954-2007).

Pulisce le fotografie su tutte le tombe nei quattro settori che compongono il  cimitero e questo comporta alcune settimane di lavoro, in attesa di curare stagionalmente la fioritura delle diverse piante che le famiglie hanno scelto di piantare in memoria dei loro cari.

Dopo i temporali passa in rassegna le tombe per raddrizzare i vasi caduti e aggiustare i danni procurati dalle intemperie. Cura anche i suoi fiori nel giardino della piccola casa in cui vive da sola ai margini del camposanto e, se qualcuno glieli chiede, li vende e si impegna a curarli una volta sistemati sulla tomba. Apre e chiude ogni giorno il cancello di accesso.

Che vita è la sua? Sono arrivata a leggere le prime duecento pagine e mi sto facendo l’idea che sia una vita passabile, con tratti di serenità, stesi come una coltre sopra un dolore abissale che viene dal passato.

Certo, questa Violette Trenet, che è custode del cimitero di Brancion-en-Chalon in Borgogna, è attorniata da amici che le sono accanto ogni giorno, visto che lavorano come lei a contatto con i morti: sono i tre becchini che curano la manutenzione generale del cimitero, più i fratelli che gestiscono il servizio delle pompe funebri e il parroco del paese che celebra i funerali.

Poi ci sono gli animali, alcuni gatti venuti a vivere lì dopo avere seguito il feretro del proprio padrone e un cane, la affettuosa Eliane, che vi si è trasferita per lo stesso motivo e ora vive in casa di Violette.

Infine ci sono i vicini, con cui il libro incomincia. Le parole sono queste: “I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità…” E via di seguito con la lista delle virtù o dei vizi fino alla conclusione: “ I miei vicini sono morti. L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano”.

Allegria, ho pensato. E invece non è il caso di fare battute facili. Se mi guardo dentro, quando alla domenica entro nel cimitero del mio paese per ‘dare un saluto ai miei’, mi viene facile scambiare due parole con…diciamo ‘i residenti’.

‘Vicini’ lo lascio a Violette. Sul tragitto per arrivare dai miei controllo se serve acqua ai vasi depositati davanti alle tombe e intanto rivolgo un pensiero a tutti. Mi sembra che sia una operazione che dà vita alle persone che tutti sono stati e mi incuriosisce riguardare le fotografie e le date.

Mi scatta immediato il calcolo: Nadine è vissuta per 53 anni. Ho fatto il conto anche leggendo i suoi dati nel libro. Il pezzo di tempo che spetta alla nostra vita è delimitato da due numeri: conosciamo il primo mentre non sappiamo del secondo, né dobbiamo saperlo.

Mettere in prospettiva le vite aiuta a pensarle con naturalità, nel loro inizio, come nella loro conclusione.
Fin dai tempi del Liceo lo studio delle letterature ha comportato la memorizzazione della biografia di ogni autore, a cominciare dalla data e dal luogo di nascita associato ai dati della morte.

Orazio, il grande poeta latino, appartiene al primo secolo avanti Cristo; sui testi letterari come su Wikipedia si legge Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.) [Qui] e via di seguito con la vita e le opere. Ma si legge anche Italo Calvino (1923-1985) [Qui]. Ho letto entrambi con passione, sapendo che sono appartenuti a epoche diverse, eppure sono entrambi ancora ‘vivi’ attraverso le loro opere.

Ancora vive in senso letterale quello che fu il compagno di banco di Calvino presso il Liceo Classico G.D.Cassini di Sanremo, mi riferisco a Eugenio Scalfari (1924-…) [Qui], del quale infatti riporto la sola data di nascita, mentre scuoto la testa sorpresa una volta di più dalla varietà dei destini, dalla loro durata così diversa.

Tutti risibili i segmenti delle nostre vite, se rapportati ai tempi lunghi della storia o alle ere geologiche. Il che mi rafforza l’idea di una legge vecchia quanto il mondo, che dovremmo educarci a considerare accettabile. La cultura classica, a cui mi sono formata, lo studio della letteratura, sono stati fino a qui dei facilitatori di accettabilità del destino. Tutto racchiuso in quel numero che non conosco e che si avvicina.

Giorni fa ho seguito in tv i funerali di stato di David Sassoli [Qui] e ho riflettuto sul suo secondo numero: il primo è come per me l’anno 1956. Siamo coetanei. Mi correggo, lo siamo stati.

Hic et nunc ascolto i discorsi di cordoglio che i mass media continuano a diramare: al netto dei rituali retorici e chiudendo occhi e orecchi sulla cronaca politica che in queste stesse ore e giorni è occupata dalla imminente elezione del Capo dello Stato, capisco che una figura come la sua potrà seguire il passo della storia.

Come giornalista ma soprattutto come politico e in qualità di Presidente del Parlamento Europeo dal  3 luglio 2019 all’11 gennaio 2022, credo che potrà rimanere ancora a lungo ‘in vita’.

Nota bibliografica:

  • Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, E/O, 2019 (traduzione di Alberto Bacci Testasecca)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

Draghi e Macron attaccano

 

Il 7 dicembre del 2021 scrivevo del Patto del Quirinale tra Francia e Italia (qui: se dai tedeschi ci difenderanno i francesi chi ci difenderà dai francesi) sottolineando che uno dei suoi motivi ispiratori era la nostra necessità di trovare una sponda per arginare i richiami prossimi agli equilibri di bilancio da parte dei paesi nordici.

Una prima conferma alla correttezza dell’ipotesi è arrivata poco dopo, il successivo 23 dicembre, a mezzo articolo sul Nyt a firma Draghi–Macron e pubblicato anche sul sito del nostro governo con tanto di traduzione di cortesia (qui: intervento di draghi e macron sul financial times).

Argomento dell’articolo proprio la necessità di modificare il Patto di Stabilità e Crescita dell’Unione Europea, quindi la constatazione della vetustà dei vecchi parametri del tetto al deficit al 3% e del debito al 60% del Pil “Già prima della pandemia, le regole di bilancio dell’UE andavano riformate. Sono troppo opache ed eccessivamente complesse. Hanno limitato il campo d’azione dei Governi durante le crisi e sovraccaricato di responsabilità la politica monetaria”.

Si parla dell’importanza della politica monetaria e di quanto bene abbiano fatto gli interventi nell’economia dei governi dell’Eu sostenuti dalle politiche accomodanti della Bce che hanno permesso una rapida ripresa. E che questi interventi devono essere strutturali per permettere alle economie di crescere, tenendo sotto controllo il debito ma senza peggiorare la vita ai cittadini “Non c’è dubbio che dobbiamo ridurre i nostri livelli di indebitamento. Ma non possiamo aspettarci di farlo attraverso tasse più alte o tagli alla spesa sociale insostenibili, né possiamo soffocare la crescita attraverso aggiustamenti di bilancio impraticabili”.

Il debito non è solo debito fatto oggi che andrà poi sulle spalle delle future generazioni ma un investimento di cui proprio loro raccoglieranno i frutti “Abbiamo bisogno di più spazio di manovra e di margini di spesa sufficienti per prepararci al futuro e per garantire la nostra piena sovranità. Il debito per finanziare tali investimenti, che certamente gioveranno alle generazioni future e alla crescita di lungo termine, dovrà essere favorito dalle regole di bilancio, dato che questo tipo di spesa pubblica contribuisce alla sostenibilità di lungo termine del debito”, come raccontava anche Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976.

Del resto lo avrò umilmente scritto innumerevoli volte su queste pagine nel corso degli ultimi anni, in maniera sicuramente meno autorevole ma molto più esplicita. Ma qualcosa di notevolmente esplicito c’è anche in questo articolo quando i due scrivono “L’imminente presidenza francese del Consiglio dell’Ue avrà come obiettivo lo sviluppo di una strategia condivisa e completa per il futuro dell’Unione”, che suona come una specie di avvertimento agli altri Paesi europei, in particolare ai soliti falchi del rigore.

Tutto bene quindi? Non allarghiamoci troppo. Di fianco, sempre sul sito del governo c’è un link a un documento, in inglese e questa volta senza traduzione di cortesia, di 13 pagine che però vale la pena di leggere. Redatto da Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni e Charles-Henri Weymuller come approfondimento dell’articolo, vale sicuramente come proposta concreta su quali siano le intenzioni dell’intesa franco – italiana: la creazione di un’Agenzia del debito europeo che si accolli tutto il debito pandemico emesso negli ultimi due anni e mantenga bassi i tassi di interesse dei titoli di stato sul mercato con la possibilità di allungare i tempi di rientro per la parte del debito contratta per investimenti ritenuti idonei.

E’ interessante constatare che anche in questo paper la spesa pubblica, a debito, diventa investimento per le future generazioni, un passo in avanti rispetto al blocco del pensiero unico: debito = peccato. Una breccia che però non può diventare come quella dei bersaglieri a “Porta Pia”, non si può allargare troppo. Infatti viene ribadito che il debito deve essere restituito, perché a leggere ci sarà anche la Germania cioè quella che permette al debito comune di vedersi attribuita la tripla A, e non si può esagerare.

Insomma, nell’articolo si chiariscono gli scopi di politica economica del Patto del Quirinale incentrati su un passaggio dal neoliberismo classico ad un keynesismo possibile mentre nel paper tecnico si dice alla Germania e ai sui satelliti rigoristi che un tale passaggio non sarà esente da regole stringenti, dal rispetto dell’indipendenza della Bce e da un ricorso a strutture sovranazionali che assicureranno un controllo burocratico dei finanziamenti del mercato e un corretto utilizzo delle garanzie di affidabilità tedesche.

Avanti al passo del gambero. Abbiamo scoperto che si può spendere ben oltre i limiti concessi dai trattati e dai cavilli elitari ma possiamo liberarci solo rimanendo in gabbia il che mi ricorda un antico detto ripreso da un vecchio professore saggio, Nando Ioppolo, “non far scoprire al contadino quanto è buono il formaggio con le pere”. Vale a dire, lo stomaco dell’élite è diverso da quello della plebe, cibi poveri possono essere bene accoppiati e usati per le nobili tavolate, con le necessarie accortezze ci si può abbuffare e godere senza condividere.
Le chiavi del benessere devono essere tenute celate, quanto basta per una corretta e oculata gestione del potere.

L’OMBRA LUNGA DELLA “FORTEZZA EUROPA”:
immagini di un arcipelago antirazzista

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Questo testo riprende alcuni spunti meglio approfonditi nel libro Quale rifugio? Razzismo di Stato e accoglienza in Italia. Una lettura antropologica, in uscita per i tipi Sensibili alle foglie alla fine di gennaio.

 

La fortezza, la tana

Il 22 Giugno del 2018 il quotidiano Il Manifesto pubblicava un inserto gratuito e interminabile: 56 pagine di nomi delle persone morte – documentate negli ultimi quindici anni – nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mar Mediterraneo. 34.361 vittime, alle quali andrebbero aggiunte le circa 4.200 degli ultimi due anni. Ovviamente i numeri reali, che considerano anche le vittime non documentate, sono molto più alti. Nel titolo della ricerca si individuava una precisa responsabile: la ‘Fortezza Europa’ [1].

Colpisce la trasversalità di questa immagine: da una parte questo appellativo viene utilizzato in senso critico da chi richiede politiche migratorie europee meno disumane; dall’altra una “fortezza ancora più fortificata” è ciò che auspicano, con tanto di bandiere e magliette a tema, molti movimenti europei di destra apertamente razzisti.

L’origine è interessante: la Festung Europa, nella propaganda del Terzo Reich, indicava la parte del continente che era sotto il dominio della Germania nazista di Adolf Hitler e che avrebbe dovuto resistere agli attacchi degli Alleati. Il piano prevedeva la completa fortificazione della costa nord-occidentale dell’Europa, il cosiddetto ‘Vallo Atlantico’, al fine di impedire lo sbarco delle forze avversarie.

Fortificazioni, muri, sbarchi da impedire, morti: temi che ritornano

Immagine chiama immagine: in un racconto di Kafka intitolato La tana, il protagonista è uno strano animale che, nel costruire la sua ‘casa’, è ossessionato dall’idea che qualcun altro possa entrarvi. La paura è tale che l’animale escogita tutti i possibili sistemi di sicurezza: trasforma la tana in un labirinto e, di fatto, una casa in una prigione.
Ma non basta, e il personaggio si fa dunque sentinella di guardia all’entrata. Anche questo non è sufficiente. L’animale decide allora di uscire lui stesso dalla tana, nascondendosi nei dintorni, per meglio controllare l’unico accesso alla sua ‘fortezza’ e, paradossalmente, esponendosi così al rischio che cercava di evitare.
Il filosofo Pier Aldo Rovatti, in un libricino di poche ma intense pagine intitolato La follia, in poche parole, ne trae la seguente conclusione: «Più impazziamo a blindare il nostro Io (tana o casa che sia) più ci esponiamo all’invasione dell’altro, ottenendo dunque l’esatto contrario. […] La follia dell’altro, così bloccata in se stessa, ci renderà folli»[2].

Chi governa la Fortezza Europa dei nostri giorni pare comportarsi in maniera molto simile al protagonista kafkiano. Almeno dagli anni ’90 in poi, il processo di fortificazione del confine europeo al fine di contrastare l’immigrazione è avanzato a ritmi costanti, fino alla recente esternalizzazione delle frontiere. Respingimenti in mare e cancellazione delle vie regolari di ingresso non bastavano, e così siamo arrivati ai campi di prigionia libici, uno sconcertante esempio del più vasto processo di subappalto della gestione delle frontiere a paesi terzi. Altra nota ‘immagine’: il campo.

La “follia dell’altro” è davanti a noi, dentro di noi, avvolta in un velo di quotidianità raccapricciante: l’Altro siamo noi di fronte ad uno specchio onesto. L’assenza di scandalo, la normalizzazione e l’assuefazione sono sintomi della follia stessa: di fronte alla negazione dell’altro-straniero ecco riemergere l’altro-noi, il volto in ombra dell’Europa stessa, quello rimosso e non elaborato, che si pone in perfetta continuità col colonialismo e con i totalitarismi, con la caccia alle streghe e con le enclosures.
Quel volto nascosto sotto gli stendardi della civiltà, dei “Diritti Umani” e del progresso. Siamo noi che ammettiamo, finanziamo e organizziamo con criterio ed efficienza la morte dell’altro, come se fosse un principio inevitabile e necessario. Siamo noi a ignorare continuamente questo crudissimo dato di fatto, tra distanza, rimozione e rabbiosa legittimazione. Non abbiamo capito davvero quanto banale possa essere il male.

Le condizioni di possibilità

Nel 1951 Albert Camus poneva una questione che ancora oggi rimbalza senza risposta nell’inconscio collettivo della “civiltà occidentale” [3]: «Ogni azione sfocia nell’omicidio, diretto o indiretto, [e quindi] non possiamo agire prima di sapere se, e perché, dobbiamo dare la morte»[4]. Mentre l’Occidente sanciva – creando un enorme rimosso – che gli stermini della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto si dovevano ad un ritorno della barbarie e del selvaggio istinto animale nella culla della civiltà, alcuni critici del tempo offrivano un’immagine ben diversa e ben più onesta: “noi” in quanto “assassini”. Adorno, Horkheimer e la Scuola di Francoforte, Hannah Arendt, mostravano chiaramente come la barbarie del ‘900 non fosse un inciampo, una regressione o un vuoto all’interno del progresso, ma il punto di caduta preciso di un mo(n)do ben specifico.

D’altronde il nesso tra Illuminismo, razionalismo, colonialismo e capitalismo aveva già mostrato, fuori dai confini occidentali, la sua capacità distruttiva. La voce di Georges Snyders, filosofo ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, aggiungeva una domanda ancora più paralizzante: «Auschwitz rappresenta forse un’eccezione nella storia del mondo? […] Si tratta piuttosto del punto culminante di una lunga catena di massacri, di guerre, di tratta di Neri, di secoli di schiavismo, di colonialismo – in fin dei conti di sfruttamento di uomini da parte di altri uomini?»[5].

Il razzismo del ‘900 fu certamente mostruoso, ma non nuovo. Averlo reso “mostruoso” in quanto inconcepibile, inspiegabile e folle, fa parte della follia stessa. Viene in mente Foucault quando dice che è molto più saggio e utile non perdere tempo a chiedersi, superficialmente, “come sia stato possibile”, quanto piuttosto andare a cercare le condizioni di possibilità di un certo avvenimento.

L’etnopsichiatra Piero Coppo ricostruisce un quadro piuttosto eloquente a riguardo: «La teoria dell’evoluzione giustificava esplicitamente l’organizzazione del dominio da parte della “razza eletta” e il meccanismo selettivo per eccellenza, la guerra. Hitler “era parlato” da ciò che molti in Europa sentivano, pensavano, facevano e lasciavano accadere […]. Non era un’improvvisa follia, ma la seria, metodica, esplicita applicazione dei principi del dominio, dell’organizzazione, dell’evoluzione, della gerarchia già operanti altrove, ma importati in Europa»[6].

La storia è ben raccontata, gli elementi sono a disposizione, l’operazione non è intellettualmente difficile. Eppure c’è qualcosa di più profondo che ci impedisce di elaborare collettivamente e consapevolmente la dimensione dell’assassinio. Forse ha a che fare con quel filo che arriva ai giorni nostri e che non si è mai reciso del tutto. Oggi come allora, la morte dell’altro non è frutto di un’improvvisa follia, ma di una cosmogonia radicata, di dinamiche che diremmo tanto materiali quanto epistemologiche, di una particolare concezione del sé, dell’identità, della “natura” umana e del suo posto nella relazione col mondo.

Un passo indietro: razzismo epistemologico

Lo storico George Fredrickson nel suo Breve storia del razzismo[7] definisce quest’ultimo a partire dal nesso tra “differenza e potere”: la differenza insormontabile di un “Altro” rispetto a un “noi” legittima un trattamento che, se applicato ai componenti del “noi”, riterremmo insopportabile. Ma il razzismo tra umani radica in qualcosa di molto più ampio. Potrebbe essere utile applicare la definizione in una prospettiva che diremmo antispecista: l’“Altro” è, prima di tutto, qualsiasi “alterità”. La “differenza” è qui una “radicale partizione” e il “potere” è, in realtà, polarizzato in forma di “dominio”.

Si tratta di ripartire dai presupposti del nostro mo(n)do, della nostra onto-epistemologia. Il quadro, con qualche semplificazione, può essere tracciato così: il pensiero occidentale si è caratterizzato, a partire almeno da 2.500 anni fa, per un approccio prevalentemente partitivo: soggetto/oggetto, natura/cultura, umano/ambiente, essere/non-essere. Uno dei perni centrali di questa partizione è l’istituzione di ciò che ancora oggi chiamiamo “natura”.

L’idea di “natura” – lungi dall’essere “naturale” – costituì nella polis greca l’ambito fondamentale per dare spiegazioni fisiche vincenti. I filosofi battagliavano: chi era più convincente aveva più allievi e quindi più prestigio e denaro. «Il modo di spiegare le cose dei naturalisti era superiore – o almeno così essi credevano – proprio perché restava esclusivamente in termini di natura. La loro spiegazione eliminava in teoria l’arbitrario, il premeditato, l’arcano in favore di ciò che era in linea di principio regolare e osservabile»[8].

L’ambito divenne progressivamente autoreferenziale ed escludente, fino a pretendere di includere tutta la realtà possibile. La “natura” in quanto alterità diventava così l’oggetto-mondo del quale poter dire la “verità”. La distinzione parmenidea tra essere e non-essere rappresenta forse l’emblema più chiaro di questa operazione: l’essere è unico, compatto, uguale a se stesso, non soggetto al divenire; ciò che è mutevole appartiene al regno dell’opinione, della non-verità. Attraverso la spiegazione razionale, la logica formale ed il principio di non-contraddizione si afferma, in definitiva, una forma di monismo: c’è un unico essere e un’unica verità su di esso.

Questa traccia non si perde nel tempo, anzi, si radicalizza con la scienza moderna: vi è un’unica natura e un unico metodo (corretto) per conoscerla, la scienza. Questa natura viene letta sotto la lente del riduzionismo: comprendiamo il mondo quantificandolo, frammentandolo in piccoli pezzi, ciascuno dei quali dotato di caratteristiche sue proprie. Il problema centrale di questo approccio è che si fonda sulla separazione. La relazionalità non è nel cuore del reale: gli enti possono intrattenere delle relazioni, ma la loro essenza non è relazionale.

Questi presupposti sono alla base di una particolare idea di “identità”. Come sottolinea Stefania Consigliere, in questo modo si «fonda la concezione atomistica dell’identità, in cui l’esistenza dipende dall’identità, e questa dipende esclusivamente dalle proprietà intrinseche dell’ente: ciascuna cosa è ciò che è in virtù delle sue qualità, indipendentemente dalle relazioni»[9].

La “natura” è spiegata in termini di natura, l’identità è definita nei termini del proprio: il campo della discussione (e la possibilità di deduzione) sono ben circoscritti – perciò controllabili – e “decisi in anticipo”.

È la stessa espressione che Horkheimer e Adorno usano nella Dialettica dell’illuminismo: questo è il più totalitario dei sistemi proprio perché in esso “il processo è deciso in anticipo”. Il ragionamento (la lettura del mondo e dell’umano) funziona molto bene se si tiene arbitrariamente fuori ciò che lo può far saltare. C’è un escluso, o meglio, ci sono molti esclusi: l’indefinibile, il non-oggettivabile, il continuo, il non-quantificabile, il contraddittorio, per certi versi quel “noi” che non si limita ad essere la somma di tanti “io”. È una forma di razzismo epistemologico: io sono io solo se pretendo di non essere anche altro; la natura è “quella cosa lì” se pretendo di poterne circoscrivere e sigillare i componenti. L’unica ragione ammessa è quella strumentale.

Questa lettura del mondo regge nella misura in cui separa ed esclude l’alterità. La storia ci mostra, però, come l’impalcatura scricchioli: “l’io non è padrone nemmeno in casa propria”, si dice con la nascita della psicoanalisi, mentre oggi l’ecologia radicale ci mostra come nulla “in natura” sia realmente circoscrivibile: il corpo umano contiene migliaia di “specie” diverse; l’Altro è in ogni “cosa”.

Assassini

«Questo è il tempo degli Assassini»[10], scrive Rimbaud alla fine del 1800. Sembra un invito a considerare onestamente il peso mortifero di buona parte della storia occidentale. Ai bambini di dieci anni nelle nostre scuole parliamo di “scoperta dell’America” quando raccontiamo il più grande genocidio della storia. Non riconosciamo nei volti dei migranti, che oggi respingiamo come illegittimi ladri, i segni della devastazione coloniale e postcoloniale. Accettiamo le scuse più banali riducendoci a distinzioni di forma inquietanti: il migrante economico no; quello di guerra sì, ma solo se… Non ci tocca minimamente che lo Stato democratico riconosca l’essere giuridico prima dell’essere umano, che i “diritti umani” valgono solo se vidimati burocraticamente. Non ci rendiamo nemmeno più conto che gli oggetti di consumo che tengono in piedi le nostre quotidianità sono intrisi di violenza, sfruttamento e morte. Se allarghiamo questa riflessione ad un’ottica antispecista la distruzione animale e vegetale in corso è annichilente. E se un dubbio sulla violenza in atto sorge, l’unica alternativa alla paralisi sembra essere il there is no alternative di thatcheriana memoria.

Separazione e assuefazione sono concetti fondamentali per accogliere la provocazione del nostro coinvolgimento omicida. Viene alla mente un’altra storia. Quella degli Assassini era una setta ismailita di cui scrive Marco Polo. I membri, cresciuti in una fortezza piena di godimenti di ogni genere, erano capaci dei peggiori assassinii pur di continuare a vivere nel loro “paradiso”. È un legame circolare tra consumo, assassinio e paradiso a far sì che il meccanismo non si fermi.

La fortezza si è espansa, l’assassinio è delegato, la dissociazione infinitamente maggiore, ma non trovo immagine più efficace per raccontare questo pezzo del nostro mo(n)do. Nel frattempo i cadaveri si posano sul fondo dei “nostri” mari e gli sfruttati si accalcano sui fili spinati delle frontiere, mentre una piattaforma interattiva su internet chiamata how many slaves work for you? ti permette di quantificare l’“impronta schiavistica” del tuo stile di vita. Chi siamo veramente?

Specchio, specchio delle mie brame

Quando lavoravo nei progetti istituzionali di accoglienza per migranti, una delle cose più interessanti era vedere come il contatto con l’alterità mostrasse prima di ogni altra cosa il nostro modo di essere. L’“Altro”, i suoi modi e le sue priorità, rimanevano per mesi un mistero; i nostri invece, con tutti i tic e le rigidità del caso, venivano subito a galla. Il primo “altro” a emergere era il nostro lato in ombra.

Abdelmalek Sayad scriveva negli anni ’90: «Abitualmente si parla di “funzione specchio” dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale»[11].

I migranti che bussano alle porte della “fortezza Europa” proiettano sul nostro specchio collettivo almeno tre storie rimosse che rappresentano le ragioni materiali del razzismo: la tratta degli schiavi; l’imperialismo e il colonialismo (passato e presente); l’odierna e taciuta “inclusione differenziale”, ovvero quel governo istituzionale delle migrazioni che crea clandestinità al fine di produrre manodopera altamente sfruttabile, sempre essenziale al capitalismo.

Ad accomunare queste tre storie mortifere è la violenza, perennemente occultata, necessaria a tutte le ondate di accumulazione e creazione di capitale. Affinché violenza e dominio siano legittimati e sopportati, l’Altro dev’essere di volta in volta collocato in quella posizione di “differenza insormontabile”. Se lo sterminio degli indigeni d’America e la tratta degli schiavi furono accompagnati dall’idea che essi fossero non-umani (si pensi alle grandi diatribe sul possesso o meno dell’anima), per quel che avvenne successivamente le parole di Hannah Arendt nel suo Il razzismo prima del razzismo sono di una chiarezza disarmante: «L’imperialismo avrebbe richiesto l’invenzione del razzismo come unica possibile “spiegazione” e giustificazione delle proprie azioni, anche se nel mondo civile non fosse mai esistito alcun pensiero razziale. Essendo però esistito, il pensiero razziale si è rivelato un potente alleato del razzismo. […] serviva a occultare la forza distruttiva della nuova dottrina […]»[12].

Ragione strumentale: la “costruzione dell’altro” è sempre stata in qualche modo funzionale a ciò che dell’altro si voleva fare. Oggi il razzismo di Stato[13] non discute dell’anima dei migranti, ma del suo equivalente statale, il riconoscimento giuridico-burocratico, che legittima o meno l’annientamento di migliaia di persone. Come in una sorta di nevrosi collettiva, l’Europa si ritrova a ripetere gli stessi gesti che da secoli ne svelano il suo lato in ombra. La sostanza è la stessa, e nemmeno la forma cambia molto. L’impalcatura retorica ci permette di non vedere la crudezza di fatti altrimenti indigeribili.
Allora, per i “buoni”, le politiche razziste sono solo quelle dei fascio-leghisti e non l’intero governo istituzionale delle migrazioni; mentre i “fascio-leghisti” nel frattempo raccontano tutte le “ragioni” per cui il buonismo, nel “regime della scarsità”, non è più sostenibile. Mentre i primi non vedono, i secondi indicano il punto che gli fa più comodo.

Un posto per Pan

Oggi la scienza non ha solo dimostrato l’inconsistenza di qualsiasi teoria razziale, ma, andando ben oltre, pone in discussione persino l’idea di specie e svela tutta l’inadeguatezza di un’identità immaginata come chiusa e autonoma. Dagli studi di neuroscienze a quelli di filogenetica, appare sempre più evidente che l’alterità è in noi, ci costituisce ed è necessaria alla vita. Non che in precedenza siano mancate cosmologie che lo sostenessero.

Pan veniva spesso considerato il dio incarnante tutto ciò che non era (o non era più) umano: la bestialità, la natura, la sessualità selvaggia; l’alterità più radicale. Se disturbato, o escluso, era in grado di emettere un urlo terrorizzante, che spaventava persino lui stesso: il panico. Eppure gli ateniesi riuscirono a sconfiggere i persiani a Maratona solo dopo averlo accolto tra le divinità onorate.

Quando De Martino indaga la “presenza” dell’umano si appunta: «il singolo è il mai solo che rischia di essere assolutamente solo, il sempre comunicante che rischia di essere l’assolutamente incomunicabile»[14]. Il rischio è la chiusura, la fissità, la rottura di una relazionalità essenziale. L’alterità porta inevitabilmente con sé il terrore di Pan, la paura della perdita e della dissolvenza. Ma strutturare la nostra identità in termini di un’individualità chiusa fa sì che il rischio si concretizzi, esattamente come nel racconto di Kafka. Pan va accolto. Oggi costituiamo una società che, da una parte, si barrica in fortezze omicide, da un’altra distrugge ogni forma di vita “altra” in un ecocidio che mina la stessa possibilità della vita sulla Terra; e parallelamente, come individui, viviamo nel nostro intimo un’epidemia di panico sempre più diffusa. In tutti questi casi l’alterità è qualcosa con cui non sappiamo più relazionarci al di là del nesso di “radicale partizione” e “dominio”. Il razzismo è una postura che va ben al di là di ciò che comunemente intendiamo: è multidimensionale, è materiale ed epistemologico, sociale e psicologico.

Il movimento di fuoriuscita difficilmente può essere dei singoli. Il mo(n)do capitalista che abbiamo costruito, seppur nelle sue diverse declinazioni, si muove sulla partizione, premessa necessaria ad ogni quantificazione e capitalizzazione. Ha bisogno di quel binomio di “differenza e dominio” proprio del razzismo. E si muove sulla menzogna, sul racconto malefico di una “naturalità” della separazione e del dominio: “è sempre stato così”, si dice. Eppure ci sono segni, contorni, di possibilità diverse. C’è una pluralità di racconti che dai miti antichi alle scienze contemporanee ci parla di un modo non-razzista di essere e di abitare la Terra. Continuamente nascosti, attaccati, quasi sempre sconfitti, questi racconti non hanno tuttavia mai smesso di essere ereditati e di trasformarsi in pratiche. Ci dicono che nel nostro profondo più intimo non troviamo noi stessi, ma tutta l’alterità che siamo, lo sfondo comune. Per non perderci nel panico che l’apertura comporta dobbiamo riconoscere e negoziare con Pan. Il mondo fuori non fa che offrirci continuamente l’occasione per iniziare a lavorare su questa nostra imprescindibile “noità”.

Note:
[1] List of 34.361 documented deaths of refugees and migrants due to the restrictive policies of “Fortress Europe”, in http://www.unitedagainstracism.org/blog/2018/06/20/press-release-unitedlist-of-34361-refugee-deaths-published-in-the-guardian/ , consultato il 31/10/2018.
[2] Pier Aldo Rovatti, La follia, in poche parole, Bompiani, Milano, 2000, pp. 39- 40.
[3] Per quanto solo con un certo grado di semplificazione si possa dare una definizione di “Occidente”, rimandiamo al quadro che ne disegna la filosofa ed antropologa Stefania Consigliere: «Una prima definizione di Occidente potrebbe indicarlo come l’asse storico-culturale che percorre e lega l’ebraismo, la Grecia classica, il cristianesimo e la modernità scientifica, coloniale e capitalista. […] Esso dispone tuttavia di una certa coerenza tassonomica conferitagli da un insieme di elementi che hanno un’aria di famiglia e si ritrovano oggi in modo ubiquo, sedimentati e variamente combinati, quasi sempre attivi: il monismo ontologico (che si declina anche in monoteismo); l’essenzialismo; l’esigenza di universalità; il prestigio della dimostrazione; il risalto dei termini individuali atomici anziché della relazione tra di essi; il risalto tutto tondo dell’individuo rispetto allo sfondo; la superiorità accordata alla vista; la propensione a privilegiare la razionalità deduttiva e la ragione strumentale; l’integralità del bene; il tempo lineare; la progressione evolutiva dei processi; l’aspirazione palingenetica; la percezione degli esseri secondo una gerarchia di valore; il nesso scarsità-valore; l’enfasi sull’attività cognitiva e sulla sua regolatività rispetto a ogni funzione psichica; la verità come rappresentazione fedele dello stato delle cose nel mondo», in Antropo-logiche, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), 2014, p. 42.
[4] Albert Camus, L’uomo in rivolta, (1951), Bompiani, Milano, 1994, p. 6.
[5] In Piero Coppo, Passaggi. Elementi di critica dell’antropologia occidentale, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), 1998, p. 93.
[6] Ibidem.
[7] George Fredrickson, Breve storia del razzismo. Dall’antisemitismo allo schiavismo dalla Shoa al Ku Klux Klan, Donzelli, Roma, 2002.
[8] Una precisazione è fondamentale: 2500 anni fa, nella Grecia antica, così come per molti secoli successivi, vi era una compresenza di modi e quindi di mondi diversi. Probabilmente ciò è vero anche oggi, benché la coazione all’Uno sia sempre più forte e pervasiva.
[9] Stefania Consigliere, La piega logicista, in Rizomi greci, Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 2014, p. 84.
[10] Arthur Rimbaud, Una stagione in inferno – Illuminazioni, (1886), Mondadori, Milano, 1990, p. 135.
[11] Abdelmalek Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, “aut aut”, 275, 1996, p. 10.
[12] Hannah Arendt, Il razzismo prima del razzismo, Castelvecchi, Roma, 2018, pp. 75-76.
[13] Per un approfondimento sul tema si veda Pietro Basso, a cura di, Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Franco Angeli, Milano, 2010.
[14] Ernesto De Martino, Scritti filosofici, Società editrice Il Mulino, Istituto Italiano per gli Studi Storici – Napoli, 2005, p. 3.

Questo contributo è uscito con altro titolo sulla rivista online Altraparola.

 

Prenotare il tampone sotto Natale?
L’odissea di una cittadina toscana vaccinata e con il Covid

Potrebbe sembrare un’esagerazione giusto per attirare l’attenzione e magari fomentare mancanza di fiducia nelle istituzioni e un dissennato dissenso e invece no, il senso ce l’ha, eccome. I medici e gli specialisti ci stanno ripetendo alla radio e ai telegiornali che “devono già scegliere a chi dare la precedenza per il ricovero, che devono rinunciare a eseguire operazioni per casi di tumore per far posto ai malati di Covid”. È un refrain martellante e insistente che ci fa saltare su, che ci colpevolizza e ci fa sentire impotenti ed egoisti. Nel mio piccolo ho registrato la disorganizzazione assoluta del Servizio Sanitario regionale, nonché Azienda sanitaria locale Toscana Centro, preso d’assalto a causa dell’ennesimo rialzo dei casi di SARS COV2, in tempi di 4° ondata pandemica, seconda in periodo natalizio.
Ed è così che ai cittadini si conferma per l’ennesima volta la sensazione di essere in uno Stato di Emergenza, ora davvero prolungato e senza fine.
E io, cittadina che è stata alle regole, mi chiedo: hanno speso già tutti i soldi per fronteggiare la pandemia? Siamo rimasti senza scorte di tamponi? E il famoso booster, nonché terza dose? Ma come si fa, se non si riesce a proteggere adeguatamente nemmeno i già bis-vaccinati, a pretendere di aggregare anche i renitenti? Chi alla guerra non vuole partecipare e non si vuole proteggere e prevenire gli effetti devastanti del virus?
Certo qualcosa è andato storto, nessuno nei mesi scorsi ha pensato che l’inverno sarebbe arrivato e con lui il nuovo proliferare e circolare dei virus, influenza compresa?
Io credo che per convincere la popolazione della bontà delle azioni messe in campo si poteva e si sarebbe dovuto fare qualcosa di più e di meglio che oberare i medici di base delle vaccinazioni e le farmacie dei tamponi veloci e farlocchi al 50%, data la bassa sensibilità, venduti, tra l’altro, al costo medio di €15,00 ciascuno.
Mi sembra che il Generale Draghi, con Capitan Speranza e il Sottotenente Figliuolo, abbiano perso su tutti i fronti, una Caporetto sanitaria! Ma quelli che veramente hanno perso, siamo noi cittadini, prima istigati a spendere e spandere per fare un bel Natale in difesa del PIL, poi presi in giro con la diffusione esagerata di tamponi costosi e poco attendibili, e poi sul più bello, a metà strada tra Natale, Capodanno e la Befana: ammalati, chiusi in casa, lasciati soli dal medico, dalle strutture, da chi ci circonda, spaventati e ormai disillusi.
 Vediamo allora di riassumere in pochi punti la disfatta:
1. la salute generale degli italiani, visti i contagi quotidiani che si sono moltiplicati proprio nel periodo festivo in cui avremmo gradito un po’ di serenità e di riposo, non certo di fare ore e ore di coda fuori dalle farmacie sotto la pioggia al freddo e umido per accaparrarsi al modico prezzo di €15,00 un responso farlocco, il più delle volte falso negativo, per andare sereni verso il contagio;
2. la credibilità anche verso chi non si è vaccinato: si sono ammalati tutti, senza tregua né ritegno. Ma non si doveva accelerare con la campagna vaccinale? Ma se gli Hub li hanno chiusi, li hanno diminuiti e poi si sono scatenati sui No Vax. Certo non è colpa loro se sono saltati i tempi, ma allora? Tutto sto puzzo per fare cosa? Per farci odiare tra sorella e fratello? Per dividere famiglie e comunità? Per dare la colpa dell’errore al diverso, strano, controcorrente?
3. In Toscana le assunzioni di personale per la Sanità sono sempre bloccate? Ma se manca il personale, se quello che c’è ha già passato un anno e più sotto stress e si ammala e non ce la fa più? Ma allora qui qualcuno l’emergenza vuole tenerla viva e vegeta: “un’emergenza è per sempre!”.
4. Come dipendenti pubblici (io lo sono), dovremmo essere contenti, perché il ministro Brunetta aveva tolto lo smart working,  in quanto lavoro ‘agile’ voleva dire ‘volontario’ (ed è proprio così, non conta cosa produci, le pratiche che porti a buon fine in un tempo ragionevole, ma le ore che stai seduto al tavolo, come i ragazzini a scuola, quante ore stai seduto, fermo, mani dietro la schiena, al banco!) e ora, con la nuova ondata, lo hanno reintrodotto. Ma sempre con la sensazione di una iattura, un’emergenza che non finisce mai, non per migliorare l’organizzazione dei tempi di lavoro, gli spazi sociali delle persone, l’organizzazione dei trasporti, ma come scappatoia da un pericolo peggiore e ‘chiusura sociale’, oltre che mentale, proposta di un ministro che arriva quando i buoi sono già scappati e la P.A. diventa la ‘cenerentola’ su cui si scaricheranno le frustrazioni e le accuse di inefficienza dei soliti privati, che invece si sacrificano in maniera dannunziana… per la Patria!
5. Emergenza continua, incapacità di dare risposte adeguate, ma anche volontà di non dare le risposte che servono e mantenimento di continuo controllo sulla popolazione spaventata e tenuta isolata per giorni e giorni, senza avere la possibilità di incontrare le persone, di fare la spesa, di andare a lavorare… perché nemmeno il tampone rapido si riesce più a fare.
E qui mi fermo, si perché devo riprovare a catturare un appuntamento online per fare un tamponcino (come chiamo io i test rapidi antigeni sars-covid-2) per vedere di anticipare il mio ‘rientro in società’. Eh già, in farmacia, a pagamento, sono riuscita a prenotare per il 18/04/22, ma stare in attesa un’altra settimana mi sembra un po’ esagerato, quindi con la ricetta del medico riprovo sul portale della sanità regionale: “Seleziona il presidio più comodo per te”. “Disponibilità esaurita”.
ULTIMA NOTIZIA che fa rizzare i capelli: in Mugello, il presidente della Società della Salute, nonché sindaco di Vicchio, nonché figlio del farmacista del paese di Vicchio, cosa fa per meritarsi la riconoscenza dei cittadini mugellani e vicchiesi?
Il sabato 8 e la domenica 9 gennaio, nel pomeriggio dalle 14,00 alle 18,00, organizza una cooperativa per fare tamponi rapidi certificati e a pagamento (€15,00) presso l’HUB di Vicchio, dove di norma vengono fatti i tamponi organizzati dalla della Regione Toscana, senza prenotazione e senza richiesta del medico. Come ha fatto a diffondere la notizia di questo servizio spot? Ha fatto circolare un vocale su whatsapp…
Evvai! L’improvvisazione al potere!

Terapia cyberpunk della bassa autostima

 

Ci sono persone talmente piene di sè, o forse arrabbiate col mondo, da pensare di essere regolarmente circondate da incapaci o imbecilli, al punto da non porsi mai la domanda più semplice: se il resto del mondo considera me uno stronzo, non è che il problema potrei essere io?

Ci sono poi persone che risentono dell’opinione degli altri al punto da costruire su di essa la loro percezione di sè. Questo tipo di persone spesso hanno talenti enormi che non riescono a dispiegare, come fossero un saltatore in alto che prima di saltare si mette alle caviglie dei pesi di cinque chili.

Ci sono infine persone che un giorno si sentono in grado di spaccare il mondo e il giorno dopo perdono interesse, piacere ed energia per l’impresa che avevano limpidamente disegnata nella testa il giorno prima. Tu potresti essere una di queste.

A parte la prima categoria di persone, per la quale non ho una ricetta – se non quella di prenderli per il culo per poi arrivare al punto di ignorarli, perchè l’indifferenza è la massima forma di canzonatura – per gli altri (e per te) il suggerimento potrebbe essere quello di circoscrivere la propria idea di rapporto col mondo alle persone veramente importanti, che sono poche, e vanno scelte. Una di queste sei tu.

“Prima di diagnosticarti depressione o bassa autostima, assicurati di non essere semplicemente circondato da stronzi.”

William Gibson

 

 

 

 

DIARIO IN PUBBLICO
La fruizione dell’arte

Che succede nel mondo dell’arte? Scorro con preoccupazione le notizie che arrivano sull’uso e la fruizione dei beni artistici. Leggo con stupore che nella città ‘artistica’ per eccellenza, Firenze, si procede con disinvoltura alla gestione del patrimonio culturale.

Si veda la lettera di Tomaso Montanari [Qui] apparsa su Emergenze culturali del 13 gennaio e dal titolo assai indicativo: Uffizi, monarchia assoluta del sovrano Eike Schmidt: «Secondo lo Statuto, il Comitato scientifico degli Uffizi è riunito dal direttore del museo con “cadenza almeno semestrale”. Ma in tutto il 2021 il Comitato non è stato convocato nemmeno una volta: così che per l’anno appena finito non esiste “la relazione annuale di valutazione annuale delle Gallerie”, e nessuno ha verificato e approvato “le politiche di prestito e di pianificazione delle mostre”: alcuni dei compiti che spettano al Comitato stesso».

A rendere ancora più problematica la situazione ecco l’altra querelle sull’uso delle scritte ‘sparate’ sui monumenti col nome dello sponsor. Sembra ormai che la diffusione della cultura non possa prescindere dalle tecniche sempre più invadenti e l’esempio fiorentino è stato anticipato dai ferraresi con le immagini proiettate sul Castello, dopo la proibizione dell’incendio del monumento.

Frattanto la politica culturale della nostra città sembra affidarsi alle iniziative del “segretario” del Cavaliere, Vittorio Sgarbi, che accumula presidenze di Musei in ogni parte d’Italia, e un sorriso viene strappato dalla lettura di un servizio di Stefano Lolli, che analizza sul Carlino Ferrara le operazioni di ‘Sgarbiland’.[Qui]

Si leggano queste righe dell’ultimo intervento del giornalista dal titolo Capre e scoiattoli: «E Ferrara? È ovvio che in caso di elezione di Berlusconi presidente, la prima visita di stato sarebbe al Teatro Comunale, in occasione di uno spettacolo già in allestimento, e di cui l’assessore Gulinelli ha già spoilerato il titolo. ‘Hasta Victorio siempre’, bipartisan e parmisan come piovesse».

Sicuramente il disagio che personalmente condivido con tanti amici ormai ‘semimuti’ delle associazioni culturali è evidente. Mai si è assistito a una più problematica indicazione (per essere generosi) di un nome per la elezione del presidente della Repubblica. E quello proposto dalle destre mi sembra veramente improponibile. Esprimo in questo caso il mio personale giudizio.

La malinconia della forzata clausura passata tra svogliate letture e ricerca affannosa di qualche film degno di essere rivisto si acuisce osservando i costumi degli italioti. Possibile che nel mondo delle canzonette ci si vesta in quel modo spaventoso di cui starlettine e starlettini danno esempi visivi sempre più terrificanti?

E quella vecchietta dai capelli blu, che da labbra enormemente gonfiate esprime giudizi e nello stesso tempo non esita a rivelare gambotte vecchie senza pudore o stile? Oppure la triste teoria di gente qualsiasi, il cui unico scopo è imitare i cosiddetti famosi? Puro orrore.

Non parliamo poi della pubblicità, che un famoso calciatore elargisce giornalmente e dove l’unico elemento gradevole rimane il peloso che gli sta a fianco. O la protagonista di una fortunata serie televisiva, che si esibirà al Festival di Sanremo, la cui fortuna va attribuita almeno per la metà dalla presenza di una magnifica cagnolona.

In altre parole, meglio le bestie che gli umani. Ma questo si sapeva da sempre!

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

L’AMORE DI NINA
… un racconto

 

Il 28 gennaio del 1944 il cielo terso di Ferrara veniva improvvisamente attraversato dalle fusoliere degli aerei alleati. Si trattava del secondo bombardamento sulla città e il fischio dell’allarme anti aerea violentava così il silenzio delle vie del centro.
Alcune bombe arrivavano anche sulle case private radendole al suolo, altre rompevano solo i vetri delle finestre, come nell’abitazione di Nina.

– Vai tu Nina, io non riesco, devo prendere servizio tra venti minuti, ma ho la gamba immobilizzata, deve essere entrata una scheggia proprio lì sopra il ginocchio. Prendi le chiavi, sono tre grossi mazzi, le trovi dentro al mio comodino in camera da letto –
– Va bene papà, vado io, prendo la tua bicicletta. Tu stai qui, non ti preoccupare, ci penso io -.
Al papà di Nina, Giuseppe, per tutti Beppino, guardia carceraria scelta più anziana, in servizio presso la casa circondariale di via Piangipane a Ferrara, solo a lui, il direttore aveva demandato il compito di poter aprire le celle dei detenuti nel caso di un bombardamento, per evitare che i prigionieri rimanessero intrappolati come topi in gabbia e così poter trovare protezione nel rifugio sistemato dietro il cortile del penitenziario.

Nina, venti anni appena compiuti, si precipitò giù dalle scale, prese la sua bicicletta e in un battibaleno arrivò alle carceri. Una bomba aveva già colpito il portone principale.
Non c’era nessuno di guardia, e Nina entrò scavalcando il corpo senza vita di quattro persone riverse per terra. C’era polvere dappertutto mescolata alle grida dei detenuti che chiedevano di poter uscire subito da quell’inferno.
La ragazza iniziò ad aprire freneticamente una dopo l’altra tutte le venti porte delle celle ancora occupate, quando un altro boato fece tremare tutto l’edificio: una seconda bomba aveva colpito anche il braccio dei detenuti politici.

Una pioggia di calcinacci scese dall’alto e in breve tempo coprì ogni cosa.
Nina impietrita dal terrore rimase ferma sotto il volto di una porta, mentre i prigionieri cercavano di porsi in salvo scavalcando travi rotte e brandelli di muro.

Dopo alcuni minuti un silenzio irreale scese dappertutto.
Nina si guardò intorno e vide solo macerie e altri morti.
I prigionieri sopravvissuti si erano immediatamente dileguati.
Ne era rimasto uno solo e, seduto proprio di fronte a lei a braccia conserte, la stava guardando con occhi spauriti.

– Come mai non sei scappato anche tu? – chiese Nina con un filo di voce – Non hai paura delle bombe?-
– Non saprei proprio dove andare – disse il prigioniero con accento chiaramente non italiano.
– Ma non sei di Ferrara…-
– No, sono tedesco –
– E come mai sei qui? –
– Sono un traditore, non ho obbedito nel corso di una rappresaglia all’ordine del comandante del plotone di esecuzione di cui facevo parte; mi sono rifiutato di sparare su donne e bambini –

Nina stava per chiedere altre spiegazioni quando sentì che il soffitto sopra la loro testa stava per crollare e con tutta la voce che aveva in corpo gridò:
– Via, via fuori da qui, dai… usciamo! –
In un attimo si trovarono all’aperto.
Sopra le loro teste si sentiva distintamente il rumore di “Pippo”, cosi veniva chiamato il pilota degli aerei anglo-americani.
– Dobbiamo toglierci subito di qua – urlò Nina – Sai andare in bicicletta? –
– No! –
Con fare deciso Nina afferrò la bici del padre.
– Dai, monta qui sul cannone! Pedalerò io, tanto non sei sicuramente più pesante di mio fratello… ah, come ti chiami? –
– Mi chiamo Felix –
– Bene Felix, cerca di farti leggero, adesso dovremo fare alcuni chilometri messi così!
E poi invece di continuare a fissarmi le gambe, guarda avanti! E dimmi se ci sono buche, se foriamo siamo fottuti! –

Spingeva su quei pedali Nina con tutta la forza data dai suoi venti anni e dalla paura.
Le vie della città erano completamente buie, così come le case, solo a sprazzi illuminate dalla luce dell’esplosione delle bombe e dai fari della contraerei.
Così vicini su quella bicicletta, i suoi capelli sfioravano il viso di Felix e il suo petto ansimante spingeva sulla schiena del prigioniero.
Poteva sentire il suo odore.
Sapeva di buono.

– Adesso viene il difficile – disse Nina mentre si lasciavano alle spalle le ultime case della città – Dobbiamo arrivare ad un fienile appena fuori di qua. Ci abitavano i miei nonni, ma adesso non ci sono più, lì potrai stare per un po’, ma per arrivarci dobbiamo attraversare un tratto all’aperto, i cecchini non aspettano altro. La strada è fiancheggiata da una scolina, se sentiamo sparare o arrivare un aereo ci dobbiamo buttare dentro, anche se c’è l’acqua! Mi hai capito bene? –
– Si, ho capito – rispose Felix.

Certo era del tutto assurdo, ma in cuor suo le sembrava già di sentire qualcosa per quel ragazzo! Subito dopo però pensava che questa sensazione fosse piuttosto dettata dal desiderio fortissimo di risentire emozioni quasi del tutto dimenticate a causa della guerra.
La guerra uccideva il corpo ma soprattutto l’anima delle persone.
Nina però i suoi venti anni non voleva rassegnarsi a lasciarli ai fascisti, e nella sua mente spesso fantasticava sul momento in cui finita la guerra, avrebbe potuto andare il sabato pomeriggio in piazza con le amiche per farsi corteggiare dai ragazzi.
Continuava a curare il suo aspetto come dovesse incontrare da un momento all’altro qualcuno che la avrebbe portata via da quell’orrore. Bella era bella, ma soprattutto aveva dipinto sul suo viso una fierezza altera. Non aveva paura di nulla, neppure di rispondere per le rime ai diversi ragazzotti in camicia nera che usavano la propria arroganza per impressionare le ragazze, per provarci.

Stava Nina pensando a tutto questo quando sentì in lontananza l’avvicinarsi del sinistro rumore del motore di “Pippo”.
Fu un attimo e l’aereo era già sopra le loro teste.
– Buttati… buttati Felix… svelto! –
Felix balzò via con un salto e Nina si rovesciò dentro il fossato assieme alla sua bicicletta.
Per fortuna la scolina era senza acqua.
Si ritrovarono uno accanto all’altro vicini in quella scura notte di bombardamenti.
Nina cercò nel buio gli occhi di Felix e vide in un attimo in quegli occhi così buoni tutto quello che la guerra le aveva tolto.
Si avvicinò e senza dire una parola lo baciò.

*******

– Facciamo piano – sussurrò Nina spingendo il portone del fienile – Vieni su, vedi quel baule là in fondo? Sotto c’è una botola; aprila e vedrai una scaletta che porta ad una stanza; c’è anche un letto. Mentre penso a cosa fare di te, potrai stare qui. Tu però non devi uscire per nessun motivo. Ci sono spie dappertutto. Ti porterò io da mangiare ogni tre giorni. Dal carcere avranno già segnalato la tua assenza. Se ti trovano sei morto! –
– Non so cosa dire – balbettò Felix – non mi conosci neppure…-
– Sst! non mi interessa, mi basta sapere cosa hai fatto, e quando eravamo ancora nel carcere non sei scappato… poi i tuoi occhi, occhi sinceri… no, non mi sbaglio su di te… sei l’unico regalo di questa terribile guerra! –
Nina lo strinse forte a sé, come si fa con le persone care quando è tanto tempo che non ci si incontra o non si è sicuri di poterle rivedere l’indomani e uscì dal fienile.

******

Fuori faceva un freddo cane, ma Nina quasi non lo avvertiva.
Prese la sua bicicletta e per la prima volta dall’inizio della guerra si sentiva felice.
Felice!
Una parola che non avrebbe mai immaginato di poter solo anche lontanamente pensare in mezzo a tutto quel fango.
Adesso spingeva ancora più forte su quei pedali e quasi morsicandosi le labbra per provare a se stessa che era tutto vero, a voce alta si ripeteva continuamente:
– Nina testa sulle spalle! Nina piedi per terra! Non può essere, non può…-
Ma dentro il suo cuore sentiva che, nonostante tutto, forse era arrivato quello che fino a quel giorno aveva solo immaginato.
E quella notte buia senza stelle adesso le sembrava meno scura.
Anche se la vita fosse finita qui, pensava Nina, dopo quel bacio era la guerra ad aver perso con lei la sua battaglia decisiva.

Nina per più di un anno una volta alla settimana con la sua bicicletta andò a trovare
Felix, portandogli cibo e vestiti puliti.
Rimaneva là con lui l’intera notte.
Quel rifugio era tutto il loro mondo, separato dal resto, sembrava quasi a star là sotto che la guerra non ci fosse mai stata.
Dopo aver fatto l’amore, parlavano per ore su come sarebbe stato bello vivere in un paese libero, sognavano un futuro insieme, in una casa tutta loro.
Poi, poco prima dell’alba, Nina prendeva la via del ritorno in sella alla sua bicicletta.
Radio Londra da settimane oramai dava per certa la liberazione del nord Italia prima della fine di aprile.

La mattina, del 23 aprile del ‘45, Nina si alzò presto per andare a prendere il pane.
– Ha sentito? I tedeschi si stanno ritirando, oltre il Po, setacciano una ad una le case di campagna in cerca di cibo, e non solo… quei bastardi! – le disse a voce alta la moglie del panettiere.
A sentir tale frase Nina trasalì, prese in fretta la sporta del pane sul bancone, inforcò la sua bici e si diresse più velocemente possibile verso il fienile.
Mancava ancora un po’ quando le parve di scorgere un gruppo di persone proprio fuori la corte del fienile, tutte intente a fare non si capiva bene che cosa.

Con il cuore in gola aumentò il più possibile l’andatura.

Purtroppo appena arrivò, poté constatare la fondatezza dei suoi timori. Vide Felix con le mani legate dietro la schiena attorniato da una decina di militari tedeschi, e due fascisti che, con sua grande sorpresa, stavano discutendo animatamente con suo padre!

– Perché non lo avete consegnato subito! Dovreste sapere chi è… avete idea vero che cosa avete fatto o no? Avete protetto un traditore della patria! –
Urlava con gli occhi fuori dalla testa, il più vecchio dei due fascisti, agitando contro il padre di Nina il suo manganello.

– Ma io non ne sapevo nulla, dovete credermi signore! – rispose con tono quasi supplichevole Giuseppe evitando di incrociare lo sguardo di Nina che esterrefatta, quasi paralizzata dal terrore, ascoltava incredula le parole di suo padre.

– Ah si, allora ci credete dei coglioni… non è vostro il fienile? e cosa ci fa vostra figlia qui?
Per fortuna a questo mondo c’è anche della brava gente… il vostro vicino per esempio ci ha chiaramente detto che da mesi vostra figlia passava allegramente le notti con questo maiale! Allora non avete nulla da dire adesso? –
– Le giuro che ero all’oscuro di tutto! Io ho sempre goduto della totale fiducia dei miei superiori, se lo avessi saputo io stesso lo avrei riportato in galera! Diglielo anche tu Duccio! – disse il padre di Nina al più giovane dei due repubblichini figlio di un suo collega di lavoro.
Nina, quasi paralizzata dal terrore, non riusciva a spiccicare una sola parola.

Gli occhi pieni di lacrime impedivano per sua fortuna di vedere bene l’espressione dei visi intorno a lei e in particolare quello di suo papà.
Il suo sguardo passava velocemente dall’immagine di Felix legato, a quella di suo padre in combutta coi fascisti, e non sapeva quale delle due scene le stesse arrecando maggior dolore.
Quello che dai gradi sembrava il comandante dei soldati tedeschi urlò alcune parole ai due italiani.
– Cosa ha detto? – chiese Duccio al suo compagno più anziano.
– Ha detto che devono procedere… non hanno più tanto tempo, gli inglesi potrebbero arrivare da un momento all’altro –
Ma appena il militare fascista più anziano ebbe finito di tradurre, il padre di Nina, mettendosi tra Felix e il plotone di esecuzione tedesco, si rivolse ai due fascisti dicendo – No fermi tutti… è vero ho sbagliato, ma desidero aver la possibilità di riscattare il mio onore… sparerò io a questo cane! – e così dicendo estrasse la pistola d’ordinanza puntandola su Felix.

Nina allora, stravolta dalla follia di quello a cui stava assistendo, provò con la forza della disperazione a correre verso suo padre per cercare di fermarlo, ma sentì una mano, la mano di Duccio, trattenerla forte per i fianchi.

Mentre avvertiva che ogni ragione di vita stava per abbandonarla, si levò in lontananza un suono sconosciuto, una musica del tutto nuova: era il suono delle cornamuse dell’esercito scozzese che faceva il suo ingresso nella città finalmente liberata dai nazi-fascisti!

Visto il rapido precipitare degli eventi il comandante dei tedeschi con un gesto secco fece capire ai due in camicia nera che a lui stava bene la proposta del padre di Nina e velocemente radunati i suoi, si diresse verso l’argine destro del fiume Po’.
– Va bene allora… ma dai, fa presto! – disse il fascista più anziano a Giuseppe.
– Papà, papà noooooo, ti prego non farlo! – furono le ultime parole di Nina prima di lasciarsi andare a terra priva di sensi.

Poi uno sparo, un unico sparo, un rumore secco, sordo, mise a tacere ogni discussione.

Il corpo di Felix cadde riverso sulla pancia, mentre una bava rossastra gli usciva dalla bocca.
Nina intanto si era ripresa, in tempo per vedere la ragione della sua vita andarsene per sempre.

– Ben fatto Giuseppe! Adesso mi sa che sia meglio non tornare in città vero? Dai, Duccio prendi la macchina, andiamo via da qui –
– Si, si. Voi andate pure. Penso io a sistemare tutto – disse con un filo di voce Giuseppe.

******

Il suono solenne delle cornamusa in lontananza riempì il silenzio innaturale su cose e persone caduto tutto attorno al fienile.

Appena lasciati soli, Giuseppe si avvicinò alla figlia mostrandole la pistola.
– A salve! Non ho mai, in tutta la mia vita, usato pallottole vere…-
Nina avrebbe voluto, ma non riuscì a cambiare così repentinamente la sua espressione di incredulità mista a quella di assoluto dolore per quello che aveva fino a quel momento visto.
Alla fine serissima disse
– Ma cosa dici papà! Vuoi dire che Felix…-
– Si Nina, sono salvo – disse Felix adesso in piedi dietro le sue spalle – Ci sono cascati, tuo padre mi ha salvato. Approfittando di un attimo di distrazione dei soldati, mentre mi legava i polsi, mi ha messo in bocca questa sacca rossastra dicendo di fidarmi, che sarebbe andato tutto bene, che non sarei morto.
Poi il buon Dio ci ha dato una mano…-
A quelle parole il viso di Nina si lasciò andare allo stesso tempo al riso e al pianto, mentre abbracciava e baciava dappertutto il suo Felix.

– È finita per sempre la notte dei bombardamenti per la città, è finita la notte scura per tutti noi –
disse Nina e mentre osservava adesso il cielo stellato, le venne alla mente che in tutti quei mesi di guerra, le stelle le aveva sempre salutate ogni sera con un bacio, mentre si tratteneva in strada sempre qualche minuto in più prima di chiudere il portone di casa, per poi andare a dormire, come se dovesse aspettare qualcuno. Qualcuno che da lontano sarebbe prima o poi venuto a portarla via da quell’inverno.

5 gennaio 2022