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Ho letto recentemente che all’articolo 37 del decreto cosiddetto Aiuti bis si prevede che fra 10 anni l’1% dei docenti italiani, dopo aver compiuto 3 percorsi formativi di 3 anni ciascuno, diventeranno esperti e guadagneranno 5.650 euro in più degli altri.

Potrà diventare esperto solo 1 insegnante su circa 100; in pratica, uno per istituto scolastico.

Il decreto non chiarisce il ruolo di questo docente ma precisa che “la qualifica di docente esperto non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento”.

A questo punto viene da chiedersi: a cosa serviranno questi pochi docenti e, soprattutto, a chi?
A quale idea di scuola saranno funzionali se non al modello competitivo? E in una simile gerarchia, che prevede alla sommità i dirigenti scolastici ed un gradino più in basso i “docenti esperti”, quelli che stanno alla base saranno da considerarsi docenti “inesperti”? Si prevede forse di risparmiare non rinnovando i contratti di lavoro degli insegnanti preferendo pagarne bene solo alcuni? Un simile provvedimento è stato infilato in un decreto chiamato “aiuti” perché viene considerato un aiuto alla scuola? Perché questo decreto non è stato discusso in maniera democratica?

Tale scelta preoccupante trova il gradimento solo di chi, già in passato (Letizia Moratti, Valentina Aprea e Matteo Renzi), aveva provato ad inserire la competizione in un contesto scolastico che, per sua natura costituzionale, dovrebbe essere di cooperazione .

Chi si occupa di insegnamento e di educazione fa un mestiere potente perché può influenzare la crescita degli studenti e delle studentesse in modo importante o irrilevante e in maniera positiva o negativa. Per questo  fare scuola è un mestiere difficile e delicato, in cui oltre alle conoscenze occorre la capacità di saperle tramettere, ma soprattutto c’è bisogno di passione per il proprio lavoro e dell’abilità nel saper appassionare le alunne e gli alunni coinvolgendoli fino a farli diventare una classe cooperativa.

Non tutti noi insegnanti siamo empatici allo stesso modo ed è normale che sia così: alcuni sono più coinvolgenti e altri più equilibrati, alcuni sono più tecnici e altri più creativi, alcuni sono più pesanti ed altri più leggeri.
Allo stesso modo in cui la classe non esiste ma si costruisce a partire da un insieme di ragazzi e ragazze, anche la scuola si fa mettendo insieme docenti, collaboratori, personale amministrativo e dirigenti diversi fra loro.
È il saper creare mettendo insieme persone, passione, competenze, perché sono le diversità che fanno la differenza, nella vita come in classe e a scuola.

Personalmente, credo che il saper fare scuola sia un po’ come saper preparare il ragù.

Gli ingredienti sono vari, diversi, ognuno con le sue caratteristiche. Se li prendiamo da soli possono fare la loro bella o brutta figura grazie al loro sapore e al loro odore, ma se li mescoliamo insieme con buona competenza, con la progressione dovuta, dosando le opportuna quantità, per il tempo opportuno, con il giusto calore, non saranno più solo se stessi ma si trasformeranno a tal punto da diventare parte di qualcosa di originale e di specifico che non sarà più la somma dei singoli ma un insieme unico e prezioso.

Per fare un buon ragù non bisogna essere chef ma bisogna sapere come si fa, bisogna essere appassionati, serve conoscere gli ingredienti ed i condimenti, sapere quello che possono e non possono dare da soli e insieme agli altri in modo da riuscire ad ottenere il meglio da loro. Solo allora, grazie al sapere e al saper fare ma anche al saper essere di chi cucina, si potranno anche fare sperimentazioni.

La metafora del ragù per parlare del fare scuola mi serve per affermare che, nelle nostre classi, non abbiamo bisogno di pochissimi docenti esperti (i master chef) ma di tantissimi insegnanti appassionati, preparati e volenterosi (i cuochi).

A scuola, abbiamo bisogno di tanti bravi artigiani e non di pochi artisti eccezionali.

A scuola, abbiamo bisogno di ripensare seriamente ad una formazione iniziale che prepari i futuri insegnanti ad operare in una comunità in cui il sapersi relazionare è importante tanto quanto il saper trasmettere conoscenze.

A scuola, abbiamo bisogno che tutti gli insegnanti siano esperti nell’arte dell’ascoltare, dell’accogliere, dell’incuriosire, dell’appassionare, del raccontare, dello spiegare, del far capire, dell’inventare.

A scuola, abbiamo bisogno di insegnanti che siano operai della conoscenza, allevatori di speranze e coltivatori di futuro. Solo così avremo una ‘buona scuola’ e non una ‘cattiva scuola’ abbandonata a se stessa.

A scuola, abbiamo bisogno di sentire qualche politico al governo a cui interessa la scuola perché crede in un Paese migliore.

A scuola, abbiamo bisogno di ministri dell’istruzione “esperti” di scuola.

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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