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di Karla Garbo

In un momento un cui la cultura fa paura e molti giornali parlano di strumenti musicali che bruciano e vignette satiriche o pseudo tali (anche se l’attenzione su di esse è leggermente calata), eccone una di qualche mese fa, simpatica ma che, tuttavia, tocca un aspetto preoccupante, quello della sparizione o, peggio, della distruzione di molte opere d’arte storiche in un paese ricco di cultura come la Libia (ma non solo).

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Vignetta che ironizza sulla sparizione della statua

La vignetta ironizza sulla sparizione della Fontana della Gazzella dal lungomare di Tripoli, con un disegno che ritrae un ufo che se la sta portando via. Era bella, soave, delicata e antica, probabilmente incompresa da molti. La fontana di bronzo era un simbolo storico della città, spesso immortalata su cartoline e fotografie. Realizzata nel 1932, durante il periodo coloniale italiano, dall’artista livornese Angiolo Vannetti (1881-1962), la statua era sopravvissuta a tutti i governi. Durante la presenza in Libia della comunità italiana (fino al 1970), la fontana era meta degli innamorati che si facevano fotografare ai bordi della vasca. Ma anche dopo la cacciata dei residenti italiani, per mano del regime militare di Gheddafi, la Gazzella era riconosciuta dai giovani libici come un luogo d’incontro e nella piazza erano stati aperti bar e ristoranti affollati che portavano il suo nome.

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La fontana oggi

La chiamavano semplicemente la Gazzella, ma era qualcosa di più. In quella statua di gazzella abbracciata da una donna seminuda, circondata dai getti d’acqua di una fontana, gli abitanti di Tripoli leggevano un ultimo ricordo del passato e il rimpianto di anni non segnati dall’incertezza, dall’inquietudine degli attuali giorni bui. La “fontana italiana”, come la chiamavano molti, oggi è sparita, puff, scomparsa nel nulla, lo scorso novembre. Al suo posto, sul basamento della fontana, spenta, triste e semivuota, resta un deforme torsolo di cemento e metallo. Un indizio, secondo alcuni, di come la statua possa non essere stata semplicemente spostata, ma più probabilmente rubata o distrutta. Le autorità non chiariscono. Anzi, piuttosto, tacciono. Anche perché, qualcuno potrà pensare, i problemi ora sono ben altri.

Si è detto che era stata rimossa per restaurarla ma la versione più ricorrente e accreditata dai cittadini di Tripoli è che quella statua italiana, quella donna seminuda odiata dagli integralisti abbia fatto la fine dei Budda di Bamyan in Afghanistan, sia stata rimossa non per essere riparata, ma per essere definitivamente distrutta. Quello che è certo, è che, già nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi, qualcuno aveva cercato di “rivestirla” avvolgendola in veli e stracci destinati a coprire le sue nudità. Alla fine, per evitare lo scontro, era stato deciso di incrementare lo zampillio della fontana in modo da nasconderne le forme dietro gli spruzzi e i giochi d’acqua. Ma quell’esile compromesso era ben lontano dal soddisfare le menti più fanatiche. Nel 2012, la statua era stata, infatti, minacciata dagli estremisti, tanto da far disporre una sorveglianza della polizia. Lo scorso agosto era stata gravemente danneggiata da un razzo che le aveva centrato il ventre lasciando un enorme squarcio.

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Cartolina d’epoca della fontana della Gazzella

Quelle stesse menti che hanno distrutto i ‘mimbar’ (storici pulpiti in legno con scalini in legno per la predica del venerdì, giudicati toppo alti), le moschee sufi e ottomane, vandalizzato l’arte preistorica del sud del paese, la necropoli greca di Cirene, la città romana di Leptis Magna (dove proiettili hanno bucherellato la scritta ‘Imp Caesare Divi’), costretto il Museo nazionale a rimanere sbarrato e a chiudere i pezzi di epoca adriana in un deposito, obbligato Leptis a farsi ricoprire dalla sabbia e a ospitare “accampamenti” improvvisati di qualche pecora. I turisti sono storia lontana, ormai. Con la sparizione (o peggio, forse, la distruzione) della Gazzella, Tripoli e tutta la Libia perdono un simbolo d’innocenza e di giovialità che caratterizza i gesti della gente semplice del paese nord-africano, per entrare in una possibile fase di oscurantismo. Speriamo bene.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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