Skip to main content

LA SEGNALAZIONE
In mostra sogni e inquietudini del Simbolismo europeo

di Maria Paola Forlani

Il Palazzo Reale di Milano fino al 5 giugno 2016 ospita la mostra “Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra”, promossa dal Comune di Milano e prodotta da 24 Ore Cultura e Arthemisia Group,
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet.
L’imponente rassegna (si snoda in 24 sale) mette per la prima volta a confronto i simbolisti italiani – da Segantini a Previati, da Sartorio a Chini, e molti altri – con quelli stranieri, attraverso la presenza di oltre 100 dipinti, sculture e un’eccezionale selezione di grafica, che rappresenta uno dei versanti più interessanti della produzione artistica del Simbolismo.

simbolismo
Una delle sale della mostra

Il termine Simbolismo è assai vago e serve del resto a designare un movimento dai contorni fluidi, una pluralità di tendenze eterogenee, che si caratterizzano soprattutto per una comune eccezione dell’arte e della vita. Il Simbolismo contrappone l’idea alla realtà, la fantasia alla scienza, il rifugio nel sogno alla volgarità esistenziale. L’artista simbolista assume, infatti, un atteggiamento di netta opposizione sia nei riguardi del realismo sia dell’Impressionismo, escludendo qualsiasi interferenza scientista – mentre persino gli impressionisti erano stati attratti dallo scientismo almeno a livello teorico, nell’elaborazione della loro ottica – egli pretende di agire con l’esclusivo intento di “risvegliare l’Idea con una forma sensibile”.
Le parole sono del poeta Moréas, che su “Le Figaro” del 18 settembre 1886 pubblicava appunto il “Manifesto del Simbolismo”.
Dall’Inghilterra la voce simbolista giungeva con Wordsworth e con Coleridge: “L’artista deve imitare ciò che è dentro alla cosa, ciò che agisce attraverso la forma e la figura, e parla a noi per mezzo di simboli”. Dall’America con Edgar Allan Poe; per non dire del grande Baudelaire, che vedeva l’uomo passare “à travers des forêts de symboles”.

simbolismo interno
Una delle sale della mostra

Il Simbolismo, riuscendo ad abbracciare anche da noi come nel resto d’Europa arti figurative, architettura, letteratura e musica, ha contribuito a rinnovare profondamente la cultura italiana, facendola entrare nella modernità e anticipando il Futurismo. Questo movimento si è manifestato dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento alla vigilia della Prima guerra mondiale, riuscendo a interpretare entusiasmi e inquietudini della cosiddetta Belle Époque. La forza del Simbolismo è stata quella di riuscire a rappresentare, penetrando anche nei territori dell’inconscio, i grandi valori universali dell’umanità – il senso della vita e della morte, la fantasia, il sogno, il mito, l’enigma, il mistero – in un momento in cui tali valori sembravano minacciati dall’avanzare del progresso scientifico e tecnologico. Segantini e Previati hanno rappresentato le due anime del movimento: una più legata alla dimensione della realtà naturale, l’altra a quella del sogno. Pelizza da Volpedo e Morbelli confermano invece come il Divisionismo italiano, assolutamente all’altezza delle altre avanguardie europee, abbia raggiunto i suoi risultati più alti proprio quando, creando “l’arte per l’idea”, è passato dal realismo alle istanze simboliste.
Rispetto al clima milanese, rappresentato soprattutto da Segantini, Previati, Pelizza e Morbelli, la situazione appare molto diversa a Roma, dove anche per l’influenza di d’Annunzio i grandi protagonisti, come Sartorio e De Carolis, hanno elaborato una pittura che si rifaceva alla tradizione, soprattutto del Rinascimento, e privilegiava il mito o l’allegoria, seguendo le orme dei preraffaelliti inglesi come Rossetti, Holman Hunt e Burne-Jones.
Non è mancato un proficuo rapporto con i grandi simbolisti stranieri presenti in Italia, come Böcklin, Klinger, von Stuck, Klimt, conosciuti soprattutto attraverso le Biennali di Venezia, che sono state delle straordinarie occasioni di confronto internazionale. A questo proposito, memorabile fu la famosa Sala dell’Arte Sogno allestita alla Biennale del 1907, che rappresentò la consacrazione, suggellata proprio dall’incontro tra artisti italiani e stranieri, di un movimento che si era affermato come l’interprete privilegiato dello spirito del tempo.

simbolismo mostra
Una delle sale della mostra

La presenza alla stessa rassegna dell’impressionante ciclo monumentale di Sartorio “Il Poema della vita umana”, la decorazione delle otto vele della cupola del Padiglione Centrale dei Giardini realizzata nel 1909 da Chini, con la rappresentazione allegorica de “L’Arte attraverso i tempi” (o le Allegorie dell’Arte e della Civiltà), e infine i diciotto panelli sul tema della Primavera che perennemente si rinnova – eseguiti sempre da Chini per l’edizione del 1914 e destinati alla sala che esponeva le sculture del dalmata Ivan Meštrović – sembravano consacrare il Simbolismo, declinato in due stili molto diversi, ma nella stessa trascinante dimensione eroica e visionaria, come il linguaggio figurativo in cui l’Italia potesse riconoscersi, ritrovando una sua unità e grandezza. Del resto era stato lo stesso Sartorio, designato nel ruolo di pittore vate, a interpretare attraverso un sofisticato e complesso itinerario simbolico lo spirito della nazione nel monumentale fregio realizzato tra il 1908 e il 1912 nell’aula del Parlamento a Montecitorio.
Contro il fronte indistruttibile dei tradizionalisti, si affermò una notevole avanguardia letteraria e artistica che, soprattutto sul versante del movimento simbolista, seppe farsi interprete dei problemi, del disagio non solo sociale ma anche esistenziale, dell’atmosfera contraddittoria di quel periodo pieno di entusiasmi progressisti e di fiducia nel futuro, ma dominato allo stesso tempo dalla morte.
Alle vittime del lavoro, delle rivolte sociali e delle guerre bisogna aggiungere il terrificante bilancio del terremoto che nel 1908 devastò Reggio Calabria e Messina, provocando la scomparsa di quasi centomila persone.

simbolismo

Anche sul versante figurativo si verificava il passaggio di consegne tra il naturalismo, dominante nella pittura e nella scultura più impegnate a denunciare le difficoltà e le ingiustizie della ‘nuova Italia’ che non era riuscita a realizzare gli ideali e le attese del Risorgimento, e un idealismo simbolista che cercherà di andare oltre questa spietata rappresentazione documentaria per interpretare il malessere, condividere le ragioni degli oppressi e intravedere delle possibilità di riscatto.
La volontà di andare oltre, di passare da una dimensione all’altra, di rischiare e inoltrarsi in un percorso conoscitivo che vada al di là della percezione comune, di rappresentare tutto questo con visioni e un linguaggio nuovi, caratterizza anche in Italia le poetiche e le realizzazioni dei simbolisti, se pensiamo a protagonisti come d’Annunzio e Pascoli in letteratura e a Segantini, Previati, Sartorio, Bistolfi, Martini sul versante figurativo.
Da questo altro contrasto interno nasce quella sensazione acuta di manierismo, che affiora da un capo all’altro della mostra: il manierismo tipico delle grandi crisi e delle stagioni in cui i miti passano la mano e si forma un senso di vuoto verso il quale affluiscono mescolandosi sollecitazioni, proposte e inviti diversi, da ogni direzione; dentro il quale ogni esperienza appare possibile e conveniente. Un manierismo, però, dolce e al tempo stesso aggressivo, in guaine di seta e con unghie di leopardo. Patetico, e toccante, perché colloca in primo piano, come un lume brillante che però si consuma, la coscienza della propria fragilità. Il senso della caduta, il sentimento della fine e, peggio ancora, della impossibilità di sciogliere tutti i nodi.

DIARIO IN PUBBLICO
Arte e cultura eterni antidoti al male

Non era possibile rinunciare per paura o ansia colpevole alla visione del film “Il figlio di Saul” del regista ungherese Laszlò Nemes, pur essendo preparati a subire una scossa emotiva tremenda, che si poteva intuire dai commenti più avvertiti o dal trailler che accompagna il film.
Quale lo scopo di quest’opera? La rappresentazione dell’irrappresentabile? La vergogna dei sopravvissuti, come ha sperimentato e ci ha poi raccontato Primo Levi ne “I Sommersi e i salvati” fino alla scelta finale del suicidio? O la volontà di un riscatto che riporti alla dignità della vita e quindi alla ribellione di chi vive nella condizione di morte e lavora e s’affanna per potersi garantire una manciata di giorni prima di essere a sua volta soppresso?
Lo spunto è reale. Nel 1944 ad Auschwitz si consuma e viene soffocata una rivolta armata messa in atto dai Sonderkommando, gli ebrei scelti per condurre alla camera a gas e poi al forno crematorio i loro correligionari. Tra coloro che sono costretti a diventare a loro volta aguzzini per un insopprimibile istinto vitale c’è Saul, che crede di riconoscere nel corpo martoriato di un ragazzo un figlio che forse non è suo, ma che simbolicamente rappresenta – forse – il futuro: la continuità che non può essere distrutta dalla riduzione a cosa, a “pezzo”, come urlano gli aguzzini tedeschi a loro volta coinvolti in questa banalità del male, dove l’orrore diventa consuetudine e perde il significato dell’orrore per diventare un lavoro. Un lavoro qualsiasi.
Così la sua missione sarà quella di dare al ragazzo una sepoltura umana e di trovare un rabbino che reciti il Kaddish, la preghiera dei morti e con lui dargli sepoltura sotto la terra. Questa ossessione è recitata da un attore che è un poeta e che vede continuamente la macchina da presa fissa sul suo volto o sulle sue spalle, dove una rossa X segna la sua condizione di chi lo vuole non umano. Scegliere la morte a differenza della vita, che i suoi compagni ricercano, mettendo in atto la rivolta, è l’ossessione di Saul. Il film sfuoca l’orrore rendendolo ancora più terribile perché solo intravisto. Sono i corpi incitati alla morte, la ritualità “banale” dell’eliminazione dei “pezzi”, i cadaveri, la raccolta dei piccoli averi, la scelta degli oggetti e, infine, il carico dei forni e l’eliminazione della polvere dei corpi. Saul sembra essere ormai al di là di questa spaventosa catena, teso ormai unicamente nella ricerca di procurare la sepoltura al giovane. Perde la polvere da sparo che avrebbe dovuto consegnare ai compagni rivoltosi, si vorrebbe rifiutare di aiutarli nell’impresa. La vita per lui è sinonimo di morte. Ma di una morte a cui si dia un aspetto umano. Lanzmann, il terribile raccoglitore delle memorie dei sopravvissuti nel suo “Shoah”, condanna ogni immagine che non sia la voce, ma per questo film fa un’eccezione.
La domanda è dunque: cosa si ricava da questa rappresentazione dell’irrappresentabile? Che diritto abbiamo di frugare con gli occhi del protagonista una realtà che è tanto più irreale quanto più viene sfumata nelle nebbie dell’occhio che non vuol vedere? E’ ancora vero che l’arte dopo Auschwitz non ha più diritto di rappresentanza? Come Dio?
Il filosofo Didi-Huberman ha dedicato al film un libro, “Sortir du noir”, dove il nero è quel buco irrappresentabile della Shoah da cui bisogna uscire, come ha fatto Nemes, il regista, per rappresentare visivamente l’orrore. Non so se il film otterrà, dopo tutti i riconoscimenti che ha avuto, anche l’Oscar. Non importa. Quello che importa che ormai ha sancito il diritto dello sguardo nell’orrore.
A questa immagine di morte come avrebbe potuto suggerire Dante s’innesca una vicenda che vede coinvolti i rappresentanti della frangia estrema della politica israeliana, che condanna la possibilità politica di convivenza tra i due popoli, palestinese e israeliano, nella terra promessa. Così Amos Oz, Abraham Yeoshua, David Grossman, i maggiori scrittori ebraici vengono messi alla gogna e chiamati “talpe nella cultura” per la loro mai nascosta convinzione di una possibilità di convivenza tra i due popoli.
In questo senso pericolosamente la negazione delle convinzioni espresse dai tre scrittori s’avvicina in qualche modo al comportamento proprio della posizione iraniana. Scrive Roger Cohen nel New York Times ripreso da “La Repubblica”: “L’Iran diffida dalla chiarezza […] Restando in tema di negazione della verità, l’Ayatollah Khamenei, il supremo leder iraniano, ha nuovamente messo in dubbio l’Olocausto. […] Inutile dire che questa negazione dell’Olocausto è infame, il regime dà il peggio di sé. E’ anche sintomo della disperazione dei falchi, decisi a bloccare l’apertura al resto del mondo voluta da Rouhani”.
Mi pare evidente allora che per non nascondersi dietro le bugie – riguardo l’Olocausto, come riguardo gli scrittori israeliani “talpe nella cultura – bisogna riflettere su queste considerazioni tratte dal primo romanzo di Amos Oz.
Ruben Harish è un poeta. Vive nel Kibbutz di Mezzudat Ram. Ha una vita sentimentale assai infelice, ma il suo impegno, dove ritrova il senso della sua vita e la capacità di sopportare il peso della tragedia della Shoah nella patria promessa, è quello di insegnante. Questo è il tema del primo romanzo di Amos Oz, il grandissimo scrittore israeliano che con David Grossman e Abraham Yehosua, si pone ai vertici della letteratura contemporanea. Il romanzo è ora leggibile nella edizione Feltrinelli con il titolo “Altrove”.
In una mattina straordinariamente limpida Ruben Harish porta gli allievi in un boschetto del kibbutz e racconta la vicenda e il senso per il quale questi bambini sono lì, nonostante dalle cime attorno i colpi di fucile avvertano della minaccia sempre presente in quella terra, che il lavoro ha rigenerato e resa fertile. Ruben ora parla della Shoah: “Molti fra i vostri parenti, nonni, nonne, zii, sono stati sterminati da quei malvagi. A differenza di coloro che lungo la storia hanno odiato Israele i tedeschi hanno compiuto la loro opera a sangue freddo . Secondo un progetto ben preciso. Con metodo scientifico. […] Ma non dovete pensare che tutti gli ebrei siano andati come pecore al macello, o fuggiti come topi o che si siano nascosti come talpe”. Ecco, prosegue Ruben, molti di loro “hanno preso in mano il proprio destino e sono venuti a fondare una patria ebraica”. E a questo punto Amos Oz, attraverso la voce di Ruben, esprime una convinzione di grande impatto etico e umano: “non c’è odio nei nostri cuori. Guai se così fosse, non sono gli arabi il nostro nemico, ma è l’odio. Cerchiamo tutti di non farci contagiare dall’odio”.
Tutti conoscono la vicenda esistenziale di Oz, che dopo il suicidio della madre e rifiutando la ideologia paterna, cambierà il proprio cognome da Klausner in Oz che significa ‘forza’. La sua campagna contro l’odio è già presente in questa prima prova. Leggo su “La Repubblica” un articolo Steven Erlanger ripreso dal “New York Times” in cui si riferisce della campagna implacabile condotta da autorevoli rappresentanti della destra israeliana contro i tre intellettuali, insieme a Oz, Grossman e Yehoshua, considerati “talpe nella cultura” capaci di operare contro Israele stessa. Non so quanto di vero ci sia in queste affermazioni e nella volontà politica di una difesa che sembra in qualche modo avversa a quel pensiero europeizzante che questi scrittori hanno portato con sé nel nuovo mondo. Si pensi anche alla decisione di togliere dalle letture per i licei il romanzo “Borderlife” della scrittrice Dorit Rabinyan, che narra la storia d’amore tra una donna israeliana e un palestinese, quasi che il libro possa promuovere l’assimilazione.
Sono notizie sconvolgenti e che al solito prendono di mira la forza terribile e temibile della parola-verità che inesorabilmente si afferma contro qualsiasi decisione politica e falsamente religiosa.
“Il figlio di Saul” toglie al nero l’irrappresentabilità della Shoah. I grandi scrittori israeliani tolgono all’odio la forza del male.

ECOLOGICAMENTE
Le carte dei servizi idrici si adeguano

Prosegue la determinazione per una sana e corretta applicazione delle carte dei servizi per l’acqua. Già le multe a chi non la applicava facevano ben sperare, ma ora non ci sono più dubbi: da giugno sono obbligatorie e necessarie. Lo dice la delibera dell’Aeeg (655/2015/R/idr), che prosegue nell’innovativa regolazione della qualità contrattuale del servizio idrico integrato.
Vengono definiti i livelli minimi e gli obiettivi di qualità mediante l’individuazione di indicatori quali i tempi massimi e gli standard minimi per le prestazioni da assicurare all’utenza, omogenei sul territorio nazionale, determinando anche le modalità di registrazione, comunicazione e verifica dei dati relativi alle prestazioni fornite dai gestori su richiesta degli utenti. Si applica a tutti i gestori dal 1 luglio 2016 e per questo invito a leggere il testo allegato.
Finalmente a livello nazionale sono introdotti indennizzi automatici (già presenti da tempo a livello regionale) da corrispondere agli utenti in caso di mancato rispetto degli standard specifici di qualità, prevedendo anche un meccanismo di penalità per gli standard generali non rispettati.
Sono infatti introdotti tempi di riferimento per le modalità di fatturazione, per la rateizzazione dei pagamenti, per la gestione delle pratiche telefoniche, delle richieste scritte dei reclami, degli sportelli, del servizio di pronto intervento, per l’esecuzione dei lavori, per le verifiche del misuratori, per il livello di pressione e molto altro.

Informatevi e difendete i vostri diritti.

Scarica da qui la delibera

Leggi anche
La carta dei servizi questa sconosciuta
La carta dell’informazione ambientale per affrontare i rischi

LA SEGNALAZIONE
Dogana in fotografia, scatti per un anno fra cibo e arte

Il ‘locus amoenus’, l’intreccio di storie fra sette esponenti dell’ottava arte, la voglia di stupire: ecco “Dogana in fotografia”, rassegna fotografica organizzata dall’Officina dei Bottoni e dal Lions Club Ferrara Estense, che ospiterà nel corso dell’anno sette progetti fotografici a cura di altrettanti artisti.
Il progetto, nato da una intuizione del direttore artistico del Buskers Festival Stefano Bottoni, è stato presentato nella sala principale del ristorante “La Dogana” di via della Luna dal titolare Valter Lucchini, dal fotografo Massimo Benedetti, dalla professoressa Silvia Villani, dal direttore del Lions Club Paolo Bassi e dallo stesso Bottoni.

dogana in fotografia
Gli organizzatori di Dogana in fotografia

“Fino agli anni Novanta, Palazzo Massari esponeva artisti di grande calibro in una piccola sala dedicata all’arte e alla fotografia. Da questa antica consuetudine nasce l’idea di poter tornare a esporre in un luogo intimo e raccolto – ha detto Bottoni – E ben venga l’entusiasmo e la grande disponibilità di Valter, che ha subito messo a disposizione il suo ristorante per l’occasione. Non dimentichiamo che Toulouse-Lautrec esponeva nel Café Chantant, mentre Monet e Chagall davano mostra dei loro peasaggi a tinte tenui nelle pittoresche trattorie bretoni. Dunque trovo che questo sia un luogo assolutamente adatto per avviare questo progetto, che spero di poter ripetere in futuro”.
“Per parte mia – ha spiegato Massimo Benedetti, uno degli artisti le cui opere saranno presentate nel corso della rassegna – ho aderito questo progetto  proprio perché occasioni di questo tipo in Italia sono rare, mentre all’estero sono più comuni e riconosciute. I visitatori della mostra sperimenteranno la compresenza di due ambienti, uno visivo e uno sensoriale, grazie all’ambientazione in un ristorante.”

Lacerto del ristorante La Dogana con stemma del cardinale Tommaso Ruffo e iscrizione datata 1727
Lacerto del ristorante La Dogana con stemma del cardinale Tommaso Ruffo e iscrizione datata 1727

Ristorante che, come ricorda la professoressa Silvia Villani, sorge in un luogo che ben si presta a essere ideale contenitore artistico della manifestazione. Fondato da Bernardino da Feltre, dopo quello di via Ripagrande del 1507, il Monte di Pietà vecchio era di fatto un’istituzione caritatevole pensata per aiutare i ferraresi in situazioni di difficoltà, i quali potevano impegnare beni personali, come suppellettili e biancheria, con un tasso di interesse molto basso sul denaro prestato. Questo luogo dall’impronta umana e sociale tanto importante e delicata, lasciato dal fattore degli Estensi Teodosio Brugia al primo Monte di Pietà perché vi trasferisse la sua sede, comprendeva spazi pubblici destinati alla riscossione una volta scaduto il prestito, ma anche alle aste di tutti quegli oggetti che non erano mai stati riscattati, oltre a una serie di ambienti dalle diverse destinazioni (uffici, copisteria, granaio). Il primitivo assetto di quest’istituzione, che comprendeva il palazzo su via della Rotta (attuale via Garibaldi) in angolo con Boccacanale di Santo Stefano, subì vari accorpamenti che lo portarono a comprendere l’intero isolato sino a via della Luna. Proprio nella sala che ospiterà gli scatti, si possono tutt’ora ammirare lacerti di una iscrizione sormontata dallo stemma del cardinale Tommaso Ruffo, il nobile che risanò il secondo Monte di Pietà dopo il fallimento dovuto agli incontrollati prestiti ai nobili.

La mostra sarà ufficialmente inaugurata sabato 6 febbraio alle 17 dalla vogherese Martina Rubbi, che esporrà fino al 24 marzo; il 26 marzo sarà poi la volta del ferrarese Bruno Droghetti, fino al 12 maggio; dal 14 maggio al 30 giugno sarà il turno di Roberto Del Vecchio, veterano del FotoClub Ferrara. Dal 2 luglio al 28 agosto troveranno posto Massimo Benedetti e le sue immagini in bianco e nero; lo sperimentatore italo-americano Joe Oppedisano dal 3 settembre al 20 ottobre; gli scatti del fotografo ferrarese Vincenzo Tessarin dal 22 ottobre all’8 dicembre. E, last but not least, lo stesso Stefano Bottoni dal 10 dicembre sino a data da destinarsi.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Dalle città può e deve nascere il nuovo umanesimo

L’intelligenza è quello che ci serve, che serve a tutti noi, per cercare di essere meglio di quello che siamo. Solo chi ha paura di cambiare, di aprirsi al nuovo e alle nuove sfide può temere l’intelligenza, perché l’intelligenza inquieta. Ma ben più inquietante è il prevalere degli irrazionalismi sulla razionalità, pretendere di far assurgere le proprie convinzioni religiose a legge universale, mentre allo stesso tempo l’etica, che dovrebbe guidare le nostre condotte, si fa sempre più fragile e relativa.
C’è uno iato impressionante tra il progresso della scienza e della tecnica e lo stato attuale delle convinzioni umane. Lo stesso disagio si prova a pensare di vivere in un paese nel quale, nel giro di poche ore, può accadere che non riescano a fermare un’Audi gialla che sfreccia in autostrada ai 250 all’ora, che si mobiliti l’antiterrorismo per uno che gira con un’arma giocattolo comprata per il carnevale del figlio e, infine, che si coprano le statue nude alla vista di un capo di Stato, mentre l’opinione pubblica discute se è famiglia ciò che piace o solo ciò che nasce da un uomo e una donna. In tutto ciò a nessuno, però, viene il sospetto che qualcosa non giri per il verso giusto.
Che fine ha fatto l’intelligenza? Chi l’ha calpestata in tutti questi anni, durante i quali sembra che a prevalere non sia stato altro che la gara al furto del denaro pubblico e dei poveracci?
Il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto rispetto a quello di ogni altro investimento, scriveva quasi tre secoli fa nel suo “Almanacco” Benjamin Franklin, aggiungendo che la conoscenza è la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico. Si vede che noi abbiamo investito davvero ben poco in conoscenza.
Dovremmo dire che come siamo umani oggi non ci piace: se si uccide in nome di un dio, maggiore o minore che sia, se la morte dell’altro non ci induce pietà, perché diverso o distante, se chiudiamo le porte di casa a chi ha bisogno della nostra ospitalità, se prendiamo in ostaggio i poveri beni rimasti a chi ci chiede rifugio. È successo che per difenderci dagli altri abbiamo perso noi stessi.
Il nuovo umanesimo parte di qui. E ci rendiamo subito conto che i suoi ingredienti sono cultura, conoscenza, intelligenza. Pare che il pericolo maggiore sia quello delle idee. Non degli ideali, ma delle idee: i pericoli sono quando “Io credo”, “Io penso” si fanno assoluti. Ci manca il dubbio. Noi abbiamo bisogno di conoscere non per avere certezze, ma per nutrire il dubbio. Solo il dubbio ci rende democratici, aperti, tolleranti e soprattutto continuamente desiderosi di sapere, conoscere, scoprire, ascoltare l’altro. Solo il dubbio ci libera dall’arroganza della certezza e della verità.
Il neo-umanesimo, come tutti gli umanesimi, può essere fertilizzato solo da più conoscenza, da più apprendimento. Ecco perché questi ultimi devono essere diffusi ovunque: perché l’apprendimento continuo è la grande rivoluzione del nostro tempo, non solo in quanto ci è offerto dalle opportunità della rete, delle nuove tecnologie, ma perché ci induce a ripensare le nostre vite e il nostro modo d’essere umani. L’idea di imparare per tutta la vita è antica, è sempre stata una caratteristica essenziale alla sopravvivenza dell’umanità; è profondamente radicata in tutte le culture, ma di fronte ai continui sconvolgimenti sociali, economici e politici non possiamo difenderci, se come cittadini non siamo posti nelle condizioni di acquisire nuove conoscenze, abilità e attitudini che ci aiutino a combattere i nostri pregiudizi, le nostre presunte certezze, l’idea di possedere una cultura superiore a un’altra, una dottrina religiosa più etica di ogni laicità. La nostra cassetta degli attrezzi non può essere la nostra coperta di Linus, necessita di essere costantemente rinnovata o il tempo perduto ci getterà nella cecità delle nostre presunzioni.
Come ieri, ancora oggi un nuovo umanesimo può partire solo dalle nostre città. È nelle nostre città che il nostro essere umani oggi maggiormente si manifesta, nelle città dell’accoglienza, nelle città della solidarietà, nelle città che crescono le nuove generazioni, nelle città che tutelano i loro anziani, nelle città dell’invenzione, della creazione, delle nuove imprese, del lavoro.
Basterebbe prendersi la cura di leggere i documenti dell’Unesco per capire il mondo che siamo e che dovremmo essere. Vi si legge che le città sono i principali motori della crescita economica nel mondo moderno e che l’apprendimento è uno dei combustibili più importanti di questa crescita.
Se condividiamo l’idea che un nuovo umanesimo sia necessario e che questo debba prendere vita dalle nostre città e dal loro governo, allora non possiamo più considerarci soddisfatti solo perché in esse funzionano servizi, infrastrutture ed eventi. No, non è più così, oggi è certo indispensabile, ma non è più sufficiente. Oggi abbiamo bisogno di essere umani con più pensiero, con più intelligenza, perché abbiamo un bisogno di sapere che non si esaurisce. E questo di più di pensiero, di intelligenza, di sapere dobbiamo pretenderlo a partire dalle nostre scuole, dalle nostre università, dalle nostre istituzioni che fanno cultura, da un’idea di città che permetta a tutti di accedere al sapere diffuso in forme e modi nuovi. Perché ciò di cui oggi siamo maggiormente privati sono proprio i tempi e gli spazi del pensare, dell’esercitare l’intelligenza: l’informazione non è conoscenza e la conoscenza spesso non si fa cultura.
Questi sono i nodi che il governo di una città della conoscenza, di una città che apprende oggi deve affrontare, a partire dalla volontà politica non più rinviabile di essere una città della conoscenza.

ELOGIO DEL PRESENTE
Pubblica amministrazione bloccata dalla zavorra clientelare

Si ripete da anni che la Pubblica amministrazione è un tassello importante della modernizzazione di un Paese, essenziale per un’economia competitiva come per una buona qualità della vita. Il rigore con cui sono stati trattati casi di comportamenti scorretti da parte di dipendenti pubblici offre un segnale positivo di cambiamento di clima, ma rischia di nascondere la vera questione e il problema più grave che sta sotto il funzionamento della Pa nel nostro paese. Un’Amministrazione efficiente è possibile solo a partire da un ripensamento chiaro delle funzioni e dei compiti dei diversi livelli istituzionali.
Come sottolineava qualche tempo fa Cottarelli nel suo lavoro sulla spending review, la grande parte della spesa pubblica è vincolata dalle spese per il personale, quindi non può essere compressa, se non attraverso una revisione dei compiti del pubblico, delle sue articolazioni istituzionali e delle funzioni. Esigenza difficile da affermare se persino il Cnel rivendica funzioni per contrastare il suo scioglimento.
L’esperienza indica che dove esistono funzioni utili è possibile migliorare l’efficienza. Pensiamo agli uffici anagrafe dei Comuni o ai servizi sanitari: le tecnologie digitali hanno contribuito a snellire procedure; ciò insieme a qualche intervento organizzativo ha migliorato la qualità dei servizi, consentendo ad esempio di avere documenti in tempi brevi o di ricevere i risultati delle analisi mediche sul proprio computer senza spreco di tempo e (teoricamente) risparmiando personale. Purtroppo resta l’impressione che il personale risparmiato resti parcheggiato in funzioni inutili, dietro a sportelli pressoché deserti. Ovviamente qualunque responsabile del personale sa bene che le persone non sono tutte facilmente ricollocabili per competenze, cultura, flessibilità. Certo, ma le resistenze poste alla riallocazione delle risorse non dovrebbero essere tollerate.
Vi è poi un altro aspetto ancora più serio: può essere razionalizzato un compito connesso a una funzione reale, ma quando la funzione non esiste (perché è stata inventata da una politica interessata solo ad aumentare gli spazi clientelari) nessuna razionalizzazione è possibile. Perché è stato sempre tollerato l’assenteismo? Perché non era urgente che fossero svolti i compiti assegnati al personale assente.
La riforma della Pubblica amministrazione è un aspetto cruciale dell’efficienza di uno Stato e dell’economia. Qualità eccellente dei dirigenti e degli operatori, informatizzazione diffusa che consenta l’accesso in remoto ad una gran parte di operazioni e uno stile di lavoro rigoroso rafforzerebbero nei dipendenti la convinzione di contribuire al bene comune e nei cittadini un sentimento di fiducia.
Ma a monte, si tratta di ripensare il rapporto tra pubblico e privato, tra diversi livelli dell’Amministrazione, tagliando le sovrapposizioni, eliminando funzioni obsolete o che potrebbero essere privatizzate.
Ci voleva Zalone per raccontare l’esilarante situazione dei dipendenti delle Province, spinti a una mobilità impossibile per svolgere compiti improbabilii? Cosa si aspetta in Italia ad accorpare i comuni che hanno meno di 5mila abitanti? Si tratta del 70% dei comuni italiani: non sono in grado neppure di presentare un programma agli elettori, non hanno un soldo per chiudere le buche dei marciapiedi, né per fare scelte di nessun tipo, in quanto il bilancio copre a malapena le spese del personale. E non sono forse troppe le regioni e non sono forse duplicate molte funzioni tra queste e lo Stato? E’ questo il coraggio che serve per un paese moderno. Ho l’impressione che la resistenza non venga dai fannulloni, ma dall’approccio clientelare seguito dalla politica a cui sarebbe necessario davvero cambiare verso.

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

LA STORIA
“Ho abbandonato mia figlia”: la bugia che salvò una vita

di Loredana Bondi

mamma-figliaHo provato una bella e intensa emozione ascoltando le parole dirette e chiare di una donna, Vaifra ‘Lilli’ Pesaro nata nel 1938, che ha avuto il “coraggio”, così lei sta stessa lo ha definito, di descrivere solo di recente la sua storia: quella di una bambina ebrea che ha vissuto nel periodo delle persecuzioni naziste durante la seconda guerra mondiale.
Ho potuto assistere mercoledì a questa narrazione, insieme a un folto gruppo di ragazzi e ragazze della scuola media “Bonati” dell’Itc “Perlasca” di Ferrara, che hanno affiancato a questa presenza, letture, musiche originali e canti davvero degni di esemplare esecuzione.
Ciò che mi ha commosso è stato sicuramente il ‘portato’ di profonda umanità di una storia personale che Lilli ha ripercorso, insieme a Sara Magnoli , scrittrice, ma soprattutto l’attenzione, il silenzio e la partecipazione dei ragazzi che traendo da questo testo le varie performance, ne hanno fatto un esempio di scuola attiva e responsabile.
Non si è trattato di un ‘rituale’ perché in questa commemorazione c’era il vero valore della memoria e di ciò che un giovane deve poter portare dentro e ricordare, quando è la storia ad indicare le conseguenze dei comportamenti che gli uomini scelgono di adottare e che mettono in gioco la vita e la dignità umana, come abbiamo potuto vedere con il grande dramma dell’Olocausto.
Sara Magnoli ha scritto e curato con Lilli Pesaro un libro davvero originale, “Il sogno di Lilli”, che raccoglie con parole e disegni, la memoria dei sogni e dei fatti che colpirono tragicamente la sua infanzia e che , attraverso il dolore profondo del ricordo, diventano ‘Memoria di tutti’.
La narrazione ha riempito di senso ed emozione profonda tutti coloro che hanno partecipato e ascoltato.
Credo che nel novero delle commemorazioni del 27 gennaio, Giorno della Memoria , questo incontro sia stato davvero importante per una serie di motivi. Il primo è che la testimonianza si è fatta vita vera, una pagina di storia che i ragazzi difficilmente dimenticheranno.

Si tratta di una storia narrata attraverso gli occhi di una bambina che ha sentito attorno a sé cose terribili, spesso sottaciute, a cui non sa dare una spiegazione: le dicono di non dire il suo cognome a nessuno, che non deve uscire dalla casa, non vede più il padre e la madre tenta di consolarla dicendole che deve lavorare e non può tornare, poi sarà la madre a scomparire e si ritroveranno con la fine della guerra. Questa realtà insinua la paura nella sua mente e nel suo cuore, la paura di tutto ciò che vede e sente e quella stessa paura le impedirà di ricordare, di riportare e di rivivere quella memoria e per tanti anni rimarrà sopita.

vaifra-lilli-pesaroDinnanzi ai ragazzi Lilli ora riesce a parlarne lucidamente: lei che, bambina, rimane nascosta per il periodo della guerra in casa di amici a Genova e non può sapere ciò che sta succedendo fuori, le viene nascosta la verità . Viene divisa dal padre e dalla madre perché catturati dai nazifascisti e verrà a sapere della morte del padre Canzio Pesaro, solo alla fine della guerra, perché finito in campo di concentramento ad Auschwitz, fucilato dai tedeschi in fuga, proprio pochi giorni prima della liberazione da parte dei militari sovietici. La madre ammalata, per salvare la bambina dalla cattura dichiara di averla abbandonata e la ritroverà solo dopo la guerra.

E’ una storia generata da una guerra atroce, forse come tantissime, troppe altre , ma ciò che più ha colpito nella Commemorazione di questa giornata, è stato l’atteggiamento degli alunni, che sicuramente ben preparati dai loro insegnanti , hanno dimostrato di saper ascoltare e partecipare, in una condizione socio-educativa ideale per la strutturazione del pensiero critico, della
costruzione di valori comuni alla base della dignità di un individuo.

Allora vorrei aggiungere qualche riflessione che tocca inequivocabilmente l’alto valore dell’educazione nella formazione di un individuo, fin dalla primissima infanzia e che famiglia, e scuola, istituzioni e direi ogni cittadino hanno il dovere di seguire e favorire.
Perché parlare di questo, perché portare alla memoria quanto di più terribile l’uomo può arrivare a fare contro i propri simili, altri che ritiene diversi? Cos’è in fondo la diversità? Perché l’assunto della diversità può rendere addirittura l’uomo folle e, allo stesso tempo, privo di un pensiero autonomo, per soggiacere al pensiero forte, unico e presuntuosamente superiore, che vede il diverso come qualcosa di minaccioso per l’esistenza del proprio potere?
Mi tornano alla mente molti altri testimoni a cominciare da Primo Levi che chiamava in causa anche se stesso sul piano della responsabilità di ciò che è accaduto in quel periodo, per non essere riuscito a reagire e a fermare l’orrore dell’Olocausto, pur essendone stato vittima.

La filosofa tedesca Hanna Arendt nel suo libro “La banalità del male” con intensa lucidità parla dell’orrore come di “normalità umana” che ha in fondo contraddistinto le ideologie naziste che hanno portato all’Olocausto, dopo aver assistito nel 1961 a Gerusalemme al processo al nazista Adolf Eichmann. Durante quel processo, Eichmann mostrò al mondo la sua vera personalità che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non aveva nulla di evidentemente demoniaco; in altre parole il male, secondo la Arendt, non nasce da un’innata malvagità, ma dall’assenza totale di pensiero e di idee e quel criminale nazista si rivelò una persona “banale”, mediocre e non come un demone capace di atrocità come quelle che ordinò ed eseguì contro gli ebrei e i diversi.
Le persone che come lui non riflettono, sono inclini ad eseguire gli ordini imposti dal potere senza nemmeno chiedersi se questi ordini siano giusti o sbagliati; ecco cos’è la banalità del male, nient’altro che la totale assenza di idee. Tale mancanza rende la persona un esecutore meccanico, un burattino. Furono proprio l’assenza di pensiero e l’incapacità di confutazione a rendere Eichmann un criminale.

Dal pensiero della Arendt si ricava che il bene proviene dalla mente, dalla riflessione e dal cuore; il male, al contrario, non si fonda su nulla, nemmeno sull’odio, ma è causato solo dalla totale incapacità critica.
Credo che l’appuntamento con la storia , attraverso la testimonianza diretta, il confronto, la lettura, la parola, pongano le basi del pensiero critico, delle idee di cui i giovani hanno bisogno per distinguere il bene dal male.
A un appuntamento del genere forse era augurabile una più folta partecipazione di genitori, ma la cosa davvero importante è che la scuola possa continuare a rappresentare per i ragazzi un punto fermo per costruire un futuro diverso e i ragazzi di oggi lo hanno dimostrato.

Grazie a tutti gli insegnanti, al dirigente, ai ragazzi e soprattutto a Lilli e Sara.
Quando la testimonianza offre emozione dà senso all’educazione.

 

Guarda il video di Tabloid con l’intervista a Lilli Pesaro

Carife, Mingozzi il donchisciotte accusa Bankitalia e dei politici dice: “Sparano patacche per tenerci buoni”

“L’assemblea pubblica del 30 luglio scorso dopo tre anni di silenzio e di ombre finalmente sembrava potesse segnare una svolta: in quella fase le azioni erano rischio, e sono state di fatto azzerate, ma solo di quelle si parlava, non delle obbligazioni. E ancora non si delineavano i fantasmi di Etruria, Banche Marche e Carichieti. Abbiamo firmato un patto col sangue, noi azionisti, accettando che i nostri titoli fossero svalutati da 41 euro fino a 27 centesimi. Lo abbiamo fatto perché ci avevano assicurato che con quel sacrificio la banca si sarebbe salvata. Ma ci hanno preso in giro…”

Mentre banche e fondi di investimento in questi giorni hanno presentato le loro offerte per la gestione della ‘Nuova Carife’, restano aperte e brucianti le ferite dei creditori della ‘bad bank’ e senza concrete risposte le loro richieste di risarcimento. Con Franco Mingozzi, piccolo imprenditore e titolare di un’officina meccanica in città, presidente nazionale di Unione Cna servizi, spesso interpellato dalle tv nazionali, uno fra i pochi azionisti che lo scorso luglio all’assemblea dei soci espressero senza troppi giri di parole il proprio pensiero in merito alla gestione dell’istituto di credito ferrarese, riprendiamo il filo del ragionamento facendo un passo indietro.

“Sì ci hanno proprio preso in giro – ribadisce – Avevano garantito che con il nostro sacrificio avremmo propiziato il salvataggio della banca, invece sappiamo tutti com’è andata finire…
Ma loro lo sapevano anche allora, conoscevano già il finale. Ecco vorrei almeno che quei due signori che hanno rappresentato la Banca d’Italia pagassero un po’ anche loro il conto del disastro…”

In quell’assemblea lei – con la premessa che nella vita aveva avuto tre certezze (suo padre, Berlinguer e la Carife) e due di queste non c’erano più – ha parlato chiaro e puntato l’indice, additando colpe e colpevoli, con la speranza che almeno la banca si salvasse…
Ho accusato la ‘mia’ politica ferrarese. Se non intervenivo io non diceva niente nessuno. E l’indomani diversi hanno mi hanno chiamato, mettendo in vista la loro coda di paglia. Oltretutto mi hanno dato risposte incoerente, perché non c’erano e non sapevano nemmeno bene di che cosa si era parlato. Forse non avevano nemmeno letto bene i giornali, magari si erano limitati ai titoli per non perdere tempo… Io in verità non ho accusato nessuno, ho espresso il mio parere, ma loro si sono sentiti presi in mezzo perché erano consapevoli delle responsabilità che avevano. Qualcuno ha persino provato a giustificarsi dicendo di non essere stato invitato all’assemblea… Ma come, ho obiettato, ti dovevi legare al portone della Carife per entrare! Qualcun altro ha spiegato che non aveva potuto esserci perché era impegnato altrove… Ma ti pare possibile? Con quel che stava succedendo. Eppure hanno sentito il bisogno di giustificarsi con me, perché non ero stato zitto e avevo denunciato la latitanza della politica. Io ripeto solo che quel giorno i nostri politici dovevano esserci e spendere le loro parole, mettendoci la faccia. Invece tutto è scivolato via. E poi è successo che qualche mese dopo, una bella domenica alle cinque del pomeriggio, si azzera tutto in 20 minuti, il governo decide e i risparmiatori si ritrovano con le tasche vuote. Cosa poteva capitare di peggio? Secondo me hanno agito con leggerezza, senza soppesare bene le conseguenze. E questo comportamento scriteriato sta determinando ora una fuga generalizzata dal sistema bancario. Oltretutto adesso è uscito fuori tutto e si è capito che i problemi non sono solo per le quattro banche fallite, ma anche per tanti altri istituti, da Popolare Vicenza a Veneto banca a molti altri…

Quali peccati di gestione sono stati commessi in Carife?
Siamo passati improvvisamente da un sistema di riferimento provinciale a uno nazionale, allargando gli orizzonti di azione. Forse non avevamo le competenze sufficienti o forse ci si è affidati troppo ai consulenti. Il risultato è che ci siamo impantanati in cose che non ci appartenevano. La nostra è sempre stata una banca del territorio, una vera istituzione per la città, un punto di riferimento importante. Forse gli amministratori sono stati indotti a credere a cose che erano valide solo sulla carta. Ma fra la teoria e la pratica si sa bene che c’è una grossa differenza e le scelte compiute – alla luce di ciò che accaduto dopo – sono state indubbiamente tragiche. Disastrose. Se fatti così succedono in una famiglia, quando ci si accorge di aver sbagliato si torna indietro. Qui invece si è perseverato, si è andati ostinatamente avanti a dispetto di tutti i segnali. Così fra il 2009 e il 2012 la Cassa ha progressivamente perso la propria autonomia fino a passare nel 2013 dal controllo al commissariamento della Banca d’Italia.

E che valutazione dà dell’operato della Banca d’Italia?
Banca d’Italia, direttamente o indirettamente, è stata vari anni dentro a Carife. Mi rendo conto che ci siano problemi per rivoluzionare gli assetti, le prassi organizzative e cambiare il management. Apparentemente qualche segnale di inversione di rotta c’è anche stato, tant’è che a un certo punto la Banca d’Italia ha chiesto – non semplicemente autorizzato ma chiesto – un aumento di capitale di 150 milioni. Una somma precisa, predeterminata quella che evidentemente, secondo i loro calcoli, doveva servire per sanare il deficit. I soldi sono stati raccolti, ma a raccolta finita sono arrivati i commissari. Perché? Avevano visto male? Avevano contato male? Se se l’esito era incerto, allora perché richiedere l’aumento di capitale che ha determinato un ulteriore indubbio impoverimento di un territorio che già aveva sopportato negli anni recenti il peso del crack della Costruttori e di altre importanti imprese del territorio, oltre al terremoto, alla siccità e alle alluvioni… Colpi durissimi, e quello della Carife è stato un acceleratore dell’agonia del territorio, ci ha praticamente ammazzati.

Gli affidamenti bancari, alcuni dei quali fatti forse senza le necessarie cautele, quanto hanno inciso?
Parecchio. È vero che Carife in quanto banca del territorio doveva avere un occhio di riguardo per le imprese locali, ma alcune hanno usufruito di finanziamenti importanti senza offrire le necessarie garanzie. E persino grandi imprese non ferraresi hanno goduto di un metro di misura piuttosto elastico, come Caltagirone e Siano. Ribadisco il concetto: siamo usciti dal nostro territorio seguendo una tendenza e ci siamo trovati invischiati in un terreno paludoso. Siamo stati polli, per non dire di peggio… Ripeto: la banca del territorio deve essere vicino alle imprese locali ma chi chiede troppo e tutto in una volta va guardato con molta circospezione. Invece qualcuno è stato trattato con speciale riguardo.

Abbiamo parlato dei peccati. I peccatori hanno nome?
Non c’è dubbio che il problema nasca dentro Carife. Credo che molti guai siano sorti con la gestione Murolo. Poi magari le carte dei giudici diranno altro, ma io la penso così. Il Cda? Evidentemente responsabilità ce ne sono state anche lì. Alla base forse anche una certa impreparazione al ruolo: c’era gente abituata a fare altro, senza esperienza nella gestione degli istituti di credito, che magari ha valutato l’importanza di chi aveva davanti piuttosto che le garanzie che poteva offrire. Poi c’è da dire che quando il direttore generale afferma con convinzione la propria linea i consiglieri sono indotti ad assecondarlo.

Santini?
Era un duca sui generis, avallava anche cose sconvenienti. Tutto di lui si può pensare tranne che sia un ingenuo, come egli stesso invece ha cercato di dipingersi.

E adesso?
Ora il problema è la Banca d’Italia. E’ stata partecipe in modo incredibilmente importante, non solo controllando in maniera forse non appropriata, ma contribuendo all’aumento del deficit. Il patrimonio – accresciuto con l’aumento di capitale di 150 milioni di euro sollecitato proprio Bankitalia – dopo due anni si era completamente azzerato, non c’era più nulla. Di tutto ciò che si erano impegnati a fare nulla si è avverato. Solo sui prepensionamenti sono stati di parola, bei fenomeni! Non sapevano nulla del territorio, ma hanno messo lì i loro geni della finanza altamente pagati a comandare. La Banca d’Italia ha contribuito a peggiorare la situazione. E noi creditori siamo stati fregati da loro e dalla politica.

Confida nei risarcimenti? Ha intrapreso iniziative per tutelarsi?
Nessuna. Non credo più a nulla, sparano patacche solo per tenerci buoni.

 

Leggi anche: “Suicidio di una banca…”

VIDEOCONFERENZA
N-€uro: politica monetaria e politica industriale, le strade per uscire dalla crisi

IMG_0343Dopo il successo riscontrato nel 2015, sono tornati in biblioteca Ariostea gli appuntamenti con il ciclo di incontri “Chiavi di lettura” organizzati dal nostro giornale. “N-€uro – Lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche” è stato il primo dei cinque eventi che si susseguiranno fino a maggio con cadenza mensile, svoltosi lunedì e caratterizzato da una folta presenza di pubblico; d’altronde, causa la complicata situazione economico-finanziaria odierna e con la nota vicenda Carife ancora assoluta protagonista della vita pubblica ferrarese, tutto ciò che ruota attorno a banche e moneta non può che suscitare interesse e necessità di chiarezza da parte dei cittadini.

Chiarezza, appunto, è il termine migliore per definire gli interventi dei relatori chiamati ad animare il dibattito: il professor Lucio Poma del dipartimento di Economia dell’Università di Ferrara e Claudio Pisapia con Fabio Conditi del Gruppo Cittadini Economia hanno infatti cercato di illustrare in modalità a larghi tratti didascaliche, quasi scolastiche, come funziona il nostro sistema economico, qual è il ruolo della moneta, quali i numeri e le statistiche che caratterizzano questo complicato mondo troppo spesso permeato di concetti astrusi e difficilmente intuibili dai non addetti ai lavori. Solo dopo queste doverose introduzioni, all’apparenza scontate ma oggi appunto quantomai necessarie per meglio comprendere dinamiche e protagonisti, sono state poi argomentate le diverse tesi, perlopiù opposte ma con diversi punti di accordo individuati durante i ragionamenti.

IMG_0352Parti in gioco messe sul tavolo del dibattito le problematiche legate alla moneta e al sistema economico, il ruolo della Cina all’interno del mercato finanziario, quello della Bce e la mancanza di un’economia politica industriale sufficientemente forte: da un lato le considerazioni di Conditi e Pisapia, convinti della continua incapacità di risolvere un’economia monetaria debole, causa principale di una pronosticata previsione che vede la prossima generazione più povera dell’attuale (per la prima volta nella storia), oltre che una forbice di disuguaglianze relativa alla distribuzione della ricchezza in costante e vertiginoso aumento (confermate le recenti statistiche che attribuiscono il possesso del 50% della ricchezza distribuita nel globo all’1% della popolazione mondiale), e ancora il ruolo smaccatamente speculativo della Bce, considerata tra le principali cause della difficoltà di immissione di ricchezza all’interno dell’economia reale; dall’altro quelle di Poma, il quale individua il nodo della questione nella difficoltà di creare una politica economica europea sufficientemente omogenea e in grado di garantire la giusta stabilità ad ognuno dei paesi dell’Unione, così come la grande problematica legata ai beni primari che ogni paese non è in grado di produrre e quindi alla relativa necessità di una netta revisione soprattutto delle politiche economiche industriali, in modo tale da essere così in grado di puntare sulle materie prime già a disposizione.

Il prossimo appuntamento è per lunedì 29 febbraio, sempre alle 17, per il secondo evento della rassegna dal titolo “Solidali e felici, un altro mondo è possibile: dal mutualismo alla sharing economy”.

Guarda il video integrale dell’incontro “N-€uro – Lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche” (durata 18 minuti circa ogni filmato)

Parte 1

Parte 2

Parte 3

Parte 4

Parte 5

IL FATTO
Per qualcuno è indigesto il premio McDonald’s alla scuola

Solo qualche giorno fa a Rabat, capitale del Marocco, migliaia di insegnanti, di tirocinanti e di studenti si sono riversati in piazza, protestando nei pressi del Parlamento per i continui tagli alla scuola. Una protesta che va avanti da mesi, i docenti di numerose città alzano la testa e tentano di difendere il diritto di istruire e di essere istruiti nel miglior modo possibile. Una storia che non ci riguarda direttamente, ma che richiama la triste realtà italiana: continui tagli programmati, supplenti che non possono essere assunti, strumentazioni di base assenti e una scuola che di “buono” ha ormai solo il corpo insegnanti. Le scuole del nostro Paese, con le dovute eccezioni, si ritrovano in situazioni precarie e spesso è solo la forza di volontà e il senso civico di famiglie ed insegnanti a far sì che i problemi quotidiani vengano risolti.

Qualche mese fa, ad esempio, i genitori, il preside ed il corpo docenti della scuola primaria “Biagio Rossetti” si autotassarono per rinfrescare gli ambienti scolastici (trovi l’articolo qui). A meno di un anno di distanza, l’Istituto comprensivo Statale Dante Alighieri si ritrova a doversi difendere dalle accuse di “istigazione a disvalori all’interno dell’istituzione pubblica scolastica”, come afferma il comunicato stampa diffuso dal Movimento Cinque Stelle.

La causa scatenante di queste affermazioni è stata la vittoria dell’Istituto a un concorso a premi a livello nazionale bandito dalla multinazionale McDonald’s chiamato, appunto, McDonald’s premia la scuola”. Partecipare era facile, infatti si chiedeva ai consumatori di conservare lo scontrino di un qualsiasi acquisto fatto in uno dei punti della catena che aderiva al concorso, per poi inserire un codice trovato su di esso sul portale online. Ogni euro speso sarebbe valso un punto da assegnare ad una scuola primaria o secondaria di primo grado a scelta. Scorrendo la classifica, si nota l’alto numero di scuole partecipanti, richiamati anche dal valore del premio in palio. I vincitori del concorso, infatti, sono stati due per ogni regione: i primi classificati  hanno avuto un premio di 8000 euro spendibili per acquistare tecnologia e supporti per la didattica, i secondi, sorteggiati tra tutte le scuole regionali, un premio minore ma ugualmente significativo di 2000 euro.

Dopo l’annuncio della scuola vincitrice, arriva l’accusa arrivata dal Movimento che segnala come “se ogni famiglia avesse versato direttamente come contributo volontario il costo di un paio di ‘Happy Meal’, si sarebbe arrivati allo stesso risultato senza regalare alla multinazionale 50mila euro a fronte di una donazione di 8mila! E con quella cifra si sarebbe potuto finanziare un bel progetto di educazione alimentare, al posto di materiale didattico e tecnologico che dovrebbe essere già in dotazione alla stessa scuola pubblica, se veramente fosse ‘Buona scuola’ “. La raccolta sarebbe stata in effetti assai più sostanziosa.

Il preside dell’Istituto, Massimiliano Urbinati, sottolinea che dalla scuola non è partita alcuna iniziativa né è stato incoraggiata la partecipazione al concorso, a cui hanno aderito alcuni genitori, nonni e amici degli studenti in maniera autonoma e personale.

“La nostra idea di scuola si ispira ad un altro genere di idee – afferma il preside durante la conferenza stampa – infatti il nostro motto è “prima i valori, poi il resto”, riscontrabile nel nostro progetto “Habitat”. Non avrei mai spinto i miei studenti o le loro famiglie a partecipare a questo concorso, chi ha deciso di farlo ha agito personalmente”. Genitori che si sentono parte di un progetto di sviluppo, che partecipano attivamente alla vita scolastica e che  puntano alla valorizzazione del rapporto scuola-famiglia. Un legame in cui in molti credono, tanto che i primi a rispondere alle accuse lanciate all’Istituto sono proprio i genitori e i nonni degli studenti, che sottolineano anche la natura del concorso, che non richiedeva la consumazione di un menù completo ma anche quella di un semplice caffè, o di una brioche. 

Il concorso non è stato pubblicizzato, contrariamente a quanto è stato detto, ma la sua esistenza è stata resa nota attraverso il passaparola, per chi avesse già l’abitudine di frequentare i punti di ristoro della catena e avesse voglia di partecipare al concorso.

Il premio ricevuto dall’Istituto Comprensivo 5 sarà investito per migliorare le strutture sportive utilizzate dai ragazzi, ai quali docenti e famiglie insegnano l’importanza di una corretta alimentazione e del movimento fisico, e per l’acquisto di materiale tecnologico. L’Istituto utilizza 52 Lim, lavagne interattive multimediali, e, come afferma il preside Urbinati, si vorrebbero acquistare dei tablet.

“Abbiamo già delle classi totalmente 2.0, in cui i ragazzi usano un device, il tablet, per interfacciarsi con la lavagna e per implementare le modalità attive di apprendimento. Vorremmo che tutte le classi avessero pari opportunità, in modo da sfruttare al massimo ciò che la scuola offre”.

Nessuna corsa all’ultimo panino, quindi, le famiglie hanno continuato ad insegnare ai loro bambini la corretta alimentazione permettendo uno strappo alla regola ogni tanto, senza trasformare il concorso nella disperata ricerca al “biglietto dorato” come nel “la fabbrica di cioccolato”. Certo, non possiamo negare che bandire un concorso del genere sia un’ottima pubblicità per una grande multinazionale come McDonald’s, che in numerose occasioni associa il brand a campagne per la salute e la salvaguardia dei più piccoli (basti pensare alla fondazione per l’infanzia nei pressi dei centri pediatrici italiani). Le scuole italiane, sempre più impoverite da uno Stato che non si cura della cultura e dell’istruzione dei suoi figli, sono probabilmente un bersaglio facile per una possibile campagna di Brand Reputation Washing, attuata in un momento particolarmente delicato per l’azienda, che ha visto la chiusura di 700 punti vendita solo durante lo scorso anno.

Che sia etico o meno mangiare da McDonald’s è ancora una questione ‘calda’, da discutere ed analizzare, inserendo il problema in contesti diversificati, che possono comprendere ambienti in cui esiste una cultura alimentare e una conoscenza adeguata dell’importanza di una buona nutrizione, ma anche ambienti in cui la disinformazione è ancora forte e l’obesità infantile un problema da combattere.

Quello che invece non si può più chiedere alle famiglie italiane è di contribuire alle spese dell’istruzione dei loro figli, iscritti in scuole statali che, in alcuni casi, non possono garantire neanche il corretto funzionamento dei termosifoni nei mesi più freddi. Come ha sottolineato Cristina Pellicioni, presidentessa del Consiglio d’Istituto e del Comitato genitori-insegnanti, ogni anno, oltre le tasse e le spese per libri e materiale didattico, i genitori dell’Istituto donano un contributo volontario aggiuntivo, così come avviene nelle altre scuole del territorio. In più, insieme a nonni e parenti, continuano a ideare progetti e a finanziarli, anche con l’aiuto del Comune di Ferrara, ‘sporcandosi’ le mani in prima persona, come sta accadendo per il progetto ambiente che permetterà l’istallazione di una serra. Non sarebbe stato corretto chiedere un ulteriore donazione alle famiglie per permettere ai ragazzi quello che la scuola statale dovrebbe, invece, garantire.

LA NOTA
Rispettare i vivi

In questi giorni del ” Ricordo” abbondano eventi, convegni, visite nei lager, conferenze al grido di :” Mai più”. Mai più, mai più…
Sembrerebbe un’ipocrisia visto il dilagare, in Europa, di un antisemitismo pericolosissimo. Difatti, a causa di questo, oggi in Europa circa 700.000 ebrei vogliono lasciarla, ovvero un terzo degli ebrei. Oserei dire che la situazione è gravissima.
A questo punto sarebbe il caso di dire che non ha più senso rivolgere il pensiero esclusivamente a coloro che da oltre 70 anni furono vittime del più atroce genocidio che la storia ricordi, ma bisognerebbe anche rispettare tutti gli ebrei che sono fra noi, combattendo per distruggere l’antisemitismo. Il rispetto per i vivi è l’unica via d’uscita, non ne vedo altre.
Credo che questo sia l’unico modo per Ricordare degnamente e onestamente il 27 gennaio.

Misericordia è la nuova postura della Chiesa nel mondo

Fanno discutere le numerose prese di posizione della Chiesa cattolica a proposito del ddl sulle unioni civili, che porta la firma della senatrice Pd, Monica Cirinnà.
La stessa organizzazione del Family day il 30 gennaio al Circo Massimo, sembra riportare indietro le lancette della Chiesa e del cattolicesimo italiano ai tempi dello scontro etico sui principi non negoziabili.
Le dichiarazioni in proposito del presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, unitamente a quelle di tanti altri (dal segretario della Conferenza episcopale, Nunzio Galantino, fino al neo vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, la cui elezione pure è stata salutata con entusiasmo da tanti “cattolici adulti”), parrebbero non lasciare dubbi su questo ritorno nei ranghi stile vecchia maniera.
Persino le parole di Papa Francesco rivolte il 22 gennaio scorso al tribunale della Rota Romana (“Non può esserci nessuna confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione” e “I bambini hanno diritto di crescere con un papà e una mamma”), sono sembrate l’espressione di un’ortodossia che al dunque riemerge tale e quale, al di là di ogni apertura misericordiosa o “rivoluzione della tenerezza”.
A ben guardare, però, alcuni particolari della questione possono solcare una diversità che non andrebbe liquidata in pure coincidenze fortuite, o in aspetti formali che lascerebbero immutata la sostanza.
Non è sfuggita a più di un osservatore attento la cancellazione dell’udienza del cardinal Bagnasco con il Papa, proprio alla vigilia del Consiglio permanente della Cei, iniziato il 25 gennaio.
Al di là del motivo ufficiale (dare precedenza ad alcuni nunzi apostolici sul piede di ritorno per le rispettive sedi), c’è chi ha letto il mancato appuntamento come la volontà di Papa Francesco di non essere coinvolto in prima persona sulla delicata questione, perché siano i laici direttamente a intervenire nel dibattito politico su un disegno di legge.
Una lettura che farebbe il paio con la decisione di Bergoglio, fin dall’inizio, di lasciare alla Conferenza episcopale il rapporto con la politica italiana.
Se si aggiunge che Francesco al V Convegno ecclesiale a Firenze (lo scorso 10 novembre) alla domanda rivolta al cattolicesimo italiano: “Cosa ci sta chiedendo il Papa?”, ha risposto: “Spetta a voi decidere”, il quadro della discussione si arricchisce di elementi che non paiono di contorno, perché sono parsi fuori dalla logica del mandato, che ha sempre caratterizzato il rapporto gerarchia-laici. Verrebbe così meno, qualcuno dice, la regia dei vescovi-pilota che dirigono dietro le quinte, benedicendo i loro passi.
Se questo è il contesto, quello del Circo Massimo sarebbe il primo Family day senza il copyright vaticano.
E se così è, pur esseno stati riaffermati alla Rota Romana (il 22 gennaio) i principi della Chiesa sul matrimonio sacramentale, niente escluderebbe che, su un altro piano, lo Stato non possa regolare alti tipi di unione.
Una lettura che troverebbe un rinforzo, secondo alcuni, nelle parole che Bergoglio ha scritto per la giornata delle comunicazioni sociali (lo stesso 22 gennaio, un caso?), chiedendo che ogni livello di comunicazione costruisca ponti e non fomenti l’odio e rivolgendo poi l’invito al mondo cattolico di evitare la presunzione, la divisione, il linciaggio morale.
Alla luce di questo contesto, le stesse parole di Bagnasco nella sua prolusione di apertura ai lavori della Cei è parsa a taluni più prudente rispetto alle premesse delle scorse settimane. Pur citando alla lettera le parole del pontefice sul matrimonio cattolico, ha anche aggiunto: “Ogni nostra parola, come sempre, vuole essere rispettosa dei ruoli” e successivamente ha detto che i vescovi sognano “un paese a dimensione di famiglia” dove “il rispetto per tutti sia stile di vita e i diritti di ciascuno vengano garantiti su piani diversi secondo giustizia”.
Ciascuno è libero di valutare quanto sia, o resti, vuoto o pieno il bicchiere, ma è difficile non cogliere in queste parole tutta la temperatura del dibattito in atto nel paese sulle unioni civili.
Possono sembrare sfumature di poco conto rispetto ad una sostanza riaffermata con immutata formulazione o, secondo altri, chiusura.
Eppure per chi è abituato a seguire il passo della Chiesa con tutto il carico di una tradizione che pesa inevitabilmente sul presente, oltre a rappresentare una fonte di pensiero ed esperienza, è spesso nei dettagli che si delineano le operazioni di sostanza.
E in questo si confermerebbe il passo di un Papa che ha puntato sulla priorità di mettere in moto dei processi, piuttosto che distillare nuove sintesi dottrinali, oppure che ha affermato l’importanza del tempo sullo spazio.
Così si confermerebbe anche il metro della misericordia, intesa non come l’espressione di una semplice benevolenza di toni esteriori, ma come l’unità di misura di una nuova postura della Chiesa nel mondo che, proprio perché consapevole della portata della sfida, sa che ha bisogno del tempo necessario per un cambio di mentalità e per resistere ad ogni nostalgia di occupare spazi.

Onde anomale nel mare dei big data

Tutti sono convinti di vivere nella società dell’informazione, pochi riescono a coglierne le caratteristiche profonde, pochissimi sono in grado di capire fino a che punto potrà spingersi il processo di informatizzazione e quali conseguenze potrà comportare per la società e la cultura del futuro. Fatto è che, parlando di informazione, quasi tutti pensano ai contenuti che vengono trasmessi dai vecchi e dai nuovi media, pochi riflettono sugli scopi che gli attori sociali perseguono nel produrli e nel diffonderli, e ancor meno pensano ai significati che essi veicolano e generano nell’interazione con i fruitori. Certo è che viviamo immersi in un mare di informazioni e che la soglia da superare per catturare l’attenzione delle persone diventa sempre più alta proprio perché ognuno elabora meccanismi di selezione e di difesa indispensabili per dare senso al proprio ambiente di vita. Vivere in questo ambiente ci mette di fronte per esperienza diretta al rumore e all’ambiguità caratteristica della società dell’informazione; ci rende consapevoli nostro malgrado dei limiti che abbiamo come sistemi biologici di elaborazione di informazione nell’affrontare questa complessità caratteristica dei nuovi ambienti di vita.
In tale situazione possiamo pensare il mondo come un’enorme biblioteca, un archivio che si autoalimenta per le azioni stesse dei suoi utilizzatori, un deposito culturale che contiene in forma digitale infinite informazioni che nessuno potrà mai attingere e dominare completamente. Contrariamente all’inquietante biblioteca fisica di Borges la digitalizzazione consente a tutti e ad ognuno di essere sia produttori che consumatori in un processo che ne fa aumentare esponenzialmente l’ampiezza. In linea di principio la mega biblioteca digitale che si alimenta è un prodotto collettivo su scala planetaria, un potenziale bene comune di cui allo stato attuale si ignorano ancora i limiti e i reali utilizzi. E’ un bene utilizzabile allo stesso modo del linguaggio che ognuno di noi impara quando viene al mondo.

Questa prospettiva rappresenta tuttavia solo una piccola parte del problema e, a ben vedere, neppure la più importante. Accanto e dietro a questi flussi di informazioni palesi (almeno potenzialmente) esistono giganteschi depositi di informazioni incorporate nei manufatti, nelle tecnologie, nelle organizzazioni, nelle istituzioni, nei reperti storici ed archeologici, nelle istituzioni deputate alla scienza e alla conoscenza, nelle grandi burocrazie. Soprattutto esistono e crescono esponenzialmente le informazioni che noi stessi produciamo senza averne precisa coscienza: ogni interazione che abbiamo con qualsiasi dispositivo digitale, ogni clic sulla tastiera del pc, ogni uso della carta di credito, ogni fotografia o videoclip, è informazione che viene restituita al sistema tecnologico: in internet nulla va perduto e si sta creando dunque un enorme deposito dinamico di informazioni che continua a crescere e a svilupparsi in seguito alle azioni quotidiane svolte da miliardi di persone, milioni di aziende e Amministrazioni, decine di miliardi di dispositivi connessi nel cosiddetto internet delle cose (Iot) che è in grado di raccogliere informazioni in modo automatico. Non si tratta più dei meri contenuti ai quali siamo abituati a pensare ma di bit, tracce, processi, segni, localizzazioni, data point granulari che consentono di qualificare e posizionare nel tempo e nello spazio ogni tipo di contenuto, in grado di gestire qualsiasi tipo di processo: è il tipo di informazione che consente il funzionamento del navigatore dell’auto, il riconoscimento automatico delle nostre preferenze in qualsiasi negozio digitale, la precisione micidiale di un missile militare…
In quest’ottica possiamo immaginare il mondo come un’immensa matrice digitale alimentata da una enorme e crescente rete di connessione materiali che, poco alla volta, si sovrappone e per certi versi sostituisce l’ambiente naturale.

Questa colossale disponibilità di informazioni è davvero rivoluzionaria anche se l’impulso dal quale scaturisce ha radici molto antiche. L’esigenza di dati è nata con l’affermarsi dei grandi imperi e con le necessità di controllo delle burocrazie statali; con l’età moderna e la nascita della scienza fondata sull’osservazione, l’esperimento e la matematica, l’importanza dei dati è andata crescendo: proprio la difficoltà e il costo della raccolta di buone informazioni rappresentava (e in molti casi rappresenta ancora) un vincolo sostanziale per la produzione scientifica, l’amministrazione statale e la gestione di grandi imprese. Non a caso per aggirare questa difficolta i primi statistici avevano messo a punto le tecniche di campionamento che consentono a tutt’oggi di individuare pochi casi, studiarli ed estendere le conclusioni all’intero universo con un ristretto e prevedibile margine di errore.

Anche in questi contesti la digitalizzazione irrompe con una potenza devastante e rivoluzionaria: per la prima volta nella storia il problema non è più solamente quello di produrre direttamente le informazioni che servono strappandole con fatica dai contesti naturali ma, piuttosto, quello di selezionare e combinare informazioni già esistenti per generare qualcosa di nuovo. La straordinaria quantità di dati disponibili cambia radicalmente il panorama: le scienze sociali per prime sono messe in crisi da questi sconvolgimenti che aprono grandi opportunità e per certi versi ne mettono in discussione l’utilità se non proprio il fondamento. Questo passaggio dall’analogico al digitale, dal qualitativo al quantitativo, dai chilogrammi ai bit, è una rivoluzione paragonabile a quella di Gutenberg che passa incredibilmente sotto silenzio; big data è il termine con cui si etichetta questo fenomeno di abbondanza informativa assolutamente nuovo nella storia umana. Con tale termine si designa da un lato l’infinita disponibilità di dati utilizzabili direttamente attraverso i calcolatori e, dall’altro, le operazioni che si possono fare su di essi attraverso potenti algoritmi di calcolo. Queste operazioni consistono nell’applicare la matematica e la statistica ad un universo di informazioni in crescita esponenziale per estrapolare tendenze e probabilità, scoprire strutture sottostanti ed eccezioni, individuare regolarità e storie ricorrenti, trovare nicchie e casi estremi, generare e testare ipotesi e teorie, in modi inaccessibili al costoso campionamento e sicuramente molto più rapidi ed economici.
Potenzialmente non c’è limite alle informazioni che possono essere estratte attraverso gli algoritmi di calcolo; queste possibilità mettono in discussione il nostro modo di vivere e di interagire con il mondo, creano nuove indicazioni o nuove forme di valore con modalità che vengono a modificare i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi, il lavoro. Armati delle interpretazioni prodotte dagli algoritmi digitali possiamo rileggere il nostro mondo con modalità che si stanno appena cominciando ad apprezzare.

Tutti i dati raccolti per uno scopo si prestano ad essere utilizzati anche in altri modi e in questa flessibilità risiede la loro capacità di generare valore. Proprio su questa possibilità si regge la sfida centrata sulla competizione per scoprire il valore intrinseco non ancora espresso dei dati, nel farli parlare. Un valore economico e commerciale enorme che risiede in potenza negli archivi digitali che proprio in questo momento stiamo contribuendo ad alimentare: un valore che attualmente spetta in via quasi esclusiva ai proprietari dei contenitori digitali (basti pensare a Facebook o Google) che possono usare a titolo gratuito i contributi dei miliardi di persone connesse in rete direttamente (ad esempio tramite i social) o indirettamente (tramite i comportamenti rilevati dai sistemi di sensori, i chip etc.).

Nel mondo di big data la noiosa statistica diventa improvvisamente sexy e l’analista di dati (data scientist) diventa la nuova figura di scienziato costantemente impegnato nella ricerca di correlazioni e nella messa a punto di algoritmi matematici sempre più potenti e raffinati. Nel paradiso degli statistici ognuno potrebbe esplorare la matrice digitale per inventarsi un nuovo modo di vivere e di dar senso alla propria vita.
Ma anche gli statistici più visionari già vedono il loro successo minacciato da nuove generazioni di macchine molto più “intelligenti” di loro…

ELOGIO DEL PRESENTE
Perché le notizie false circolano così velocemente sui social network

In un tempo ricco di fonti di informazione, come mai la gente crede così facilmente a notizie infondate? Ciò è dovuto ai pregiudizi di conferma (confirmation bias): la tendenza a trovare informazioni che confermino le nostre idee su un certo tema, e a rifiutare le notizie che potrebbero invece contraddirle. In sostanza tendiamo a far parte di comunità che la pensano come noi, convincendoci reciprocamente di essere nel giusto.
Uno studio sul comportamento delle persone su Facebook (“Social determinants of content selection in the age of (mis)information”) ha analizzato il comportamento di un gruppo di utenti Facebook dal 2010 al 2014 con l’obiettivo di rispondere ad una domanda: navigando online le persone si confrontano con idee opposte alle loro, oppure tendono a formare gruppi chiusi dove confermarsi a vicenda le proprie posizioni? I ricercatori concludono che le persone tendono a frequentare comunità omogenee e a dare più valore alle notizie filtrate dagli amici. In sostanza gli utenti di Facebook tendono a condividere notizie che contengano un messaggio con cui concordano e a rigettare quelle che contengano messaggi contrari. Il risultato è la formazione di “gruppi omogenei e radicalizzati”. All’interno di questi gruppi le nuove informazioni si diffondono velocemente: l’esito è la proliferazione di teorie basate su informazioni infondate e paranoie.
Si tratta di un fenomeno noto come “polarizzazione collettiva”: persone con le stesse idee su uno stesso argomento tendono a parlare tra loro e finiscono con sviluppare delle convinzioni più forti di quelle che avevano in partenza sull’argomento stesso. La spiegazione psicologica è intuibile: attraverso il consenso degli altri tendiamo ad accrescere la nostra autostima, il pregiudizio di conferma si auto-rinforza, producendo un circolo vizioso: si inizia con una credenza e si trovano poi informazioni che la suffragano, ciò finisce con il rafforzare quella credenza e a radicalizzarla proprio in virtù della unanimità percepita. Se pensiamo al dibattito politico o a fatti di cronaca che suscitano emozioni forti, comprendiamo facilmente: su Facebook le opinioni altrui sono spesso ignorate e, quando vengono considerate, finiscono per rafforzare in ognuno le proprie convinzioni.
Si può concludere che i social producono disinformazione? Si dovrebbe in ogni caso avere maggiore cautela rispetto alla presunta democraticità della rete e alla sua efficacia rispetto all’espressione della volontà popolare. Si conferma la necessità di un’informazione riflessiva che non chieda schieramenti, ma solleciti un approccio critico, ricordando che la società di massa tende pericolosamente alla convergenza delle opinioni.
Una riflessione ancora più seria riguarda l’apprendimento: la necessità di mantenere il valore di uno studio individuale, di promuovere una cultura aperta che tratti ogni convinzione come provvisoria, di insegnare l’interesse alle confutazioni piuttosto che alle conferme. Se non siamo consapevoli delle dinamiche inevitabili che muovono la formazione dei nostri giudizi e del valore delle emozioni rispetto a questi, la rete finirà per essere un luogo assai meno libero di come possa apparirci.

Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

LA RECENSIONE
Erri De Luca, un’elegante jam session fra parole e musica

Un mix perfettamente armonico di parole e musica, un gruppo di amici che in uno scantinato o in un salotto si divertono a costruire un percorso poetico e musicale: è “La musica provata”, performance di e con Erri De Luca, tratta dal suo libro (Feltrinelli, 2014) e andata in scena sabato sera al Teatro Comunale De Micheli di Copparo.
De Luca, seduto davanti a un buon calice di vino rosso, come se fosse nel suo salotto di casa, battendo il tempo con il piede o tamburellando sullo schienale con la mano, ascolta le sue parole diventare musica, grazie ai virtuosismi della splendida voce jazz di Nicky Nicolai e della band composta da Aldo Bassi alla tromba, Daniele Sorrentino al basso, Andrea Rea al pianoforte e Roberto Pistolesi alla batteria.
Fra un brano e l’altro lo scrittore che ha venduto milioni di copie in trenta lingue, il conoscitore delle Sacre Scritture, si alza in piedi e diventa un aedo, un cantastorie: trasforma lo scritto in racconto e guida il pubblico in un viaggio fra le parole e i ricordi sul “tappeto volante della musica”.
Nella Galilea dell’Annunciazione e della Natività, con Miriam/Maria scintilla dell’accoglienza senza obiezioni e Giuseppe/Joseph, “colui che aggiunge” in ebraico. Quest’uomo ha aggiunto la propria fede in una “verità inverosimile”, il proprio amore contro ogni legge del tempo e il proprio nome, facendo entrare di diritto Jeshua ben Joseph nella stirpe di Davide.
Nella sua Napoli, con quel golfo straripante di bellezza, una bellezza temporanea se consideriamo i tempi della geologia, nata contrastando la forza di gravità, dal basso verso l’alto, dalla terra tumultuosa al cielo. E mentre racconta della canzone napoletana “alleanza fra poeti e musicisti”, con l’unico difetto che è fatta solo di maschi, o di quando “San Gennaro è stato destituito” da santo protettore della città per opera dei francesi nel 1799, non può trattenere il suo accento partenopeo: nulla di strano, in fondo “il napoletano è la sua lingua madre”, “l’italiano è una seconda lingua, imparata in un secondo tempo, mi è piaciuto perché è educato, se ne stava zitto dentro i libri di mio padre”.
Poi parla di e con Chisciotte, fra i suoi libri preferiti, letto due volte a 18 e a 50 anni, ma che ha compreso solo quando lo ha guardato attraverso gli occhi del poeta turco Nazim Hikmet, secondo cui egli è “il cavaliere invincibile degli assetati”: “battuto continuamente, non si dà per vinto, ma si rialza per continuare a combattere”.
Infine l’Italia e il Mar Mediterraneo, “mare nostro che non sei nei cieli”, campo seminato con i corpi di “cavalieri erranti trascinati al Nord”. Tutto ciò che abbiamo è arrivato dal mare: la matematica, la filosofia, i cibi. “Nulla di paragonabile è arrivato dal Nord, forse solo il baccalà, che prontamente abbiamo condiviso e che ora si cucina e si gusta lungo tutti i porti del Mediterraneo”. “Siamo una terra di passaggio”, “una terra aperta”; a scuola ci insegnano che l’Italia è uno stivale, ma in realtà “è un braccio teso che si allunga in mezzo al Mediterraneo” e la Sicilia “è un fazzoletto che saluta”.
Ne “La musica provata” ci sono lo stile e l’eleganza discreti, ma indiscutibili e inconfondibili di Erri De Luca, una splendida band che dà il suono alle parole, la potenza della parola e la forza della musica, la dolcezza di una nanna e il sogno di una fiaba.

petrolchimico-ferrara

PUNTO DI VISTA
Petrolchimico, ambiente e salute sacrificati all’altare dell’occupazione

di Marzia Marchi

C’è una miopia congenita nel modo di valutare la situazione del petrolchimico ferrarese. Una realtà che da tempo presentava conti rilevanti dal punto di vista ambientale e che ora sta presentando anche quelli sotto il profilo lavorativo. Miopia che ha fatto comodo a tutti, sindacati compresi. Da anni come ambientalista volontaria prima in Rete Lilliput e poi in Legambiente, ora in Greenpeace vado denunciando un sistema nefasto di silenzi e commistioni che ora si traduce nel disastro ambientale delle torce d’emergenza troppo spesso accese, di una situazione irrespirabile dell’aria di Ferrara, delle falde acquifere compromesse e da ultimo di un sito inquinato che perde via via produttività. Due accordi di programma sono a testimoniare quanto affermo, il primo del 2001 e il secondo del 2008. Accordi sottoscritti dalle imprese congiuntamente alle associazioni di categoria, sindacati e istituzioni (l’accordo di programma 2001 sulla riqualificazione e la compatibilità ambientale del polo chimico di Ferrara è stato sottoscritto dal Ministro dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato Enrico Letta, il Presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco Errani, il Presidente della Provincia di Ferrara Pier Giorgio Dall’Acqua, il Sindaco del Comune di Ferrara Gaetano Sateriale, l’Osservatorio Chimico Nazionale, l’Unindustria di Ferrara, la Federchimica, le Organizzazioni Sindacali Confederali (CGIL, CISL, UIL) e di Categoria (FILCEA, FEMCA, UILCEM), l’EniChem S.p.A., la Basell Poliolefins S.p.A., la Hydro Agri Italia S.p.A., la Polimeri Europa S.r.l., la P-Group S.r.l., la Crion Produzioni Sapio S.r.l., la S.E.F. S.r.l., la C.E.F. S.p.A., la ENIPOWER S.p.A., l’Ambiente S.p.A., la SIPRO S.p.A. Nel secondo accordo, che di fatto rinnovava il primo senza che i punti salienti fossero stati realizzati, cambiano i nomi dei rappresentanti istituzionali e quelli di alcune aziende nel frattempo subentrate).
Il secondo accordo recita in premessa: “le parti firmatarie hanno individuato nel 2001 con l’accordo di programma la necessità di riqualificare il polo chimico di Ferrara e di promuoverne lo sviluppo compatibile”.

Il 26 gennaio prossimo in Prefettura sono convocate le aziende del Polo chimico per dare conto di un uso inconsueto e preoccupante delle torce di emergenza!
Che resta dei propositi dell’Accordo di programma del 2008? La valutazione è già contenuta in questa convocazione e nell’atteggiamento antisindacale che occupa le pagine dei giornali, non solo locali, in merito alle scelte aziendali in essere. Invece del rilancio e della conversione ‘green’, troppo superficialmente sostenuta dai rappresentanti politici istituzionali locali, anche di alto livello, accade che un’azienda partecipata dallo Stato come Eni voglia dismettere la propria quota in Versalis, azienda protagonista dei sinistri e ingiustificati boati di luglio scorso e dell’8 gennaio, per riversarla nelle mani di un non meglio precisato fondo di investimento internazionale. Quali gli effetti di due accordi di programma? Che l’azienda Solvay produttrice del Cvm (cloruro di vinile monomero) riconosciuto responsabile dell’inquinamento delle falde acquifere, della morte e malattia di un centinaio di ex dipendenti sia rimasta impunita con un processo in cui giudici, non evidentemente all’altezza di un Casson o di un Guariniello, hanno assolto i vertici perché “il fatto non sussiste”, complici prescrizioni e cavilli burocratici e – aggiungo io – un devastante silenzio politico. Mentre con 41.000 euro di oblazione se la sono cavata i vertici di Basell e Yara chiamati a rispondere di emissioni non autorizzate in atmosfera, avvenute dal 2007 fino al 15 ottobre 2010 e per aver utilizzato le torce pur in assenza di situazioni di emergenza dal 16 ottobre 2010 fino al 19 luglio 2011. I due vertici Basell erano inoltre imputati di aver provocato emissioni pericolose che causarono molestie agli abitanti della zona. Stessa imputazione (dal 2007 fino al 12 maggio 2011) per i vertici Yara.

Sempre in base all’accordo di programma si fece passare la costruzione della centrale turbogas Sef da 800 Mw – nonostante un forte movimento sociale contrario – come una panacea per lo sviluppo del Polo chimico salvo ammettere, due anni dopo la sua entrata a regime, che l’energia di Sef costava alle aziende interne circa il 10 % in più. Un fallimento ampiamente previsto.
Ora, leggendo il Piano di emergenza esterno del 2015, sul sito Ifm, alla voce scenario di rischio per Yara, principale “imputata” sull’accensione torce, situazione B1 si legge: “rilascio di gas di processo dalla sezione di sintesi”, sostanze pericolose ammoniaca, area di danno 22 addetti, area di attenzione 20.705 persone , elementi di vulnerabilità: strade, autostrada, canali, ferrovia, 4 asili nido, 11 scuole d’infanzia… insomma il disastro. E stiamo parlando di una sola tipologia di incidente, poi c’è lo scenario Versalis, prendiamo solo il caso C (torcia), : “irraggiamento a terra da torcia B/7 a seguito di eventi anomali (i famosi dischi di rottura?), sostanze pericolose: etilene, propano, propilene e altri gas infiammabili. Scenario Jet fire.
Il testo è pubblico, basta aver voglia di sapere.

Il petrolchimico, come amaramente profetizzato, non ha compiuto né una conversione ecocompatibile, né un processo di innovazione tecnologica anche perché è mancata una vera opposizione al suo funzionamento. Il tabù dei posti di lavoro ha fatto convergere sulle posizioni delle aziende chi doveva vigilare e condannare (vedi vicenda Solvay). Ora i nodi vengono al pettine e spiace per le vicende umane ma una battaglia per la salvaguardia dei posti di lavoro non può prescindere dall’analisi dei rischi ambientali che la presenza del polo chimico comporta per la città e dalla costruzione di una vera alleanza tra le istituzioni, i sindacati e i cittadini che, variamente costituiti, negli anni hanno avanzato dubbi e domande rimaste senza risposte. Questi cittadini avrebbero tutto il diritto di trovare una loro rappresentanza all’incontro in Prefettura del 26 gennaio.

27 GENNAIO GIORNO DELLA MEMORIA
Francine e il cioccolato

enhanced-12673-1443602695-5Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. (Primo Levi)

Francine Christophe è una scrittrice e poetessa francese, nata il 18 Agosto 1933, anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, come lei stessa ricorda. Oggi molto attiva nelle conferenze tenute davanti a giovani di collegi e licei, dove riporta la sua testimonianza, Francine viene arrestata, con la madre, nel 1942 nel Comune di La Rochefoucauld, nel sud-ovest della Francia, mentre tentano di oltrepassare la “linea di demarcazione” (Demarkationslinie, limite tra la zona occupata tedesca e la zona libera, chiamata zona sud dal novembre 1942, fissata dall’armistizio del 22 giugno 1940) e successivamente rinchiusa nella prigione di La Rochefoucauld e di Angoulême. Fino ai campi di Poitiers, Drancy, di Pithiviers, Beaune-la-Rolande. Ella fu poi deportata, con la madre e altre donne e bambini mogli o figli di prigionieri di guerra francesi ebrei, il 2 maggio 1944, al campo di concentramento di Bergen-Belsen, diventando una degli “ebrei di scambio”. Evacuata dal campo nell’aprile 1945, liberata dalla truppe britanniche, Francine è rimasta “protetta” dallo statuto di figlia di prigioniera di guerra ai sensi della Convenzione di Ginevra. Oggi ottantaduenne, la storia di Francine viene conosciuta soprattutto quando, lo scorso 12 settembre, il celebre fotografo Yann Arthus-Bertrand ha presentato al pubblico il suo film “Human”, 3 anni di lavoro, 2500 ore di riprese nel mondo intero per “difendere i cittadini del mondo”: panorami mozzafiato, interviste ed esperienze-storie di vita sorprendenti e toccanti.

HUMAN-mostra_lFra queste quella di Francine, appunto, che racconta. Un vero pugno nello stomaco, una testimonianza sconvolgente, struggente e incredibile, commovente fino alle lacrime. Il racconto della bambina Francine (all’epoca di solo 8 anni) parte dalla stella di David cucita sul petto, sempre enorme e troppo grande per quello di un bambino, terribile e temibile nel suo giallo e nero inquietante. Come privilegiati per lo statuto di figli di prigionieri di guerra, racconta ancora Francine, avevano il diritto di portare un piccolo sacco con 2 o 3 cose dalla Francia, durante il viaggio verso l’ignoto. In quel sacco, la madre aveva racchiuso un pezzetto di cioccolata, che l’avrebbe aiutata a “tirarsi su” nei momenti difficili. Quell’unico tesoro sarebbe, quindi, stato custodito con attenzione, per gli attimi bui. Questo pezzettino di dolce felicità non sarebbe servita a Francine ma a Helene, che avrebbe partorito nel campo di Bergen-Belsen, salvando la vita a lei e alla fragile neonata, con quel poco di energia che ancora poteva infondere. Alla richiesta della madre di poter donare quel regalo alla partoriente, Francine avrebbe detto subito di sì, garantendo così la sopravvivenza a due fragili e indifese persone che sei mesi più tardi sarebbero state liberate con lei. Quella creatura che non aveva mai pianto, e che solo al momento della liberazione, nel 1945, dalle sue povere, sgretolate e umide fasce avrebbe gridato. Ella sarebbe veramente nata solo allora. Alla luce della libertà. Dopo una conversazione con la figlia, Francine decide, qualche anno fa, di tenere una conferenza sul tema del ritorno dai campi di concentramento, e di dibattere sul ruolo che avrebbero potuto avere gli psicologi, all’epoca, se solo ve ne fossero stati. Alla fine delle discussioni, una donna di Marsiglia, fra il pubblico, si era avvicinata a Francine, tirando fuori un pezzo di cioccolato dalla tasca, piano piano, per offrirglielo. “Io sono il bambino” avrebbe detto, quasi sussurrando. Fra la commozione generale. Una storia incredibile.

fotonoticia_20151001174758-15101455959_640
Francine da piccola

Video (in francese con titoli inglese): https://www.youtube.com/watch?v=gXGfngjmwLA

Altre testimonianze: Human le film.

I fumi sulla città

E alla fine si è dovuto attivare il prefetto. Magari sollecitato, probabilmente indotto a convocare un tavolo di confronto che vedrà riunite istituzioni, aziende e organi di controllo per capire cosa sta succedendo al petrolchimico e quali sono i rischi per la popolazione. L’accensione delle torce e le alte colonne di cupi fumi sono ormai uno spettacolo quotidiano tutt’altro che edificante. Fra il 19 e il 30 novembre e poi ancora fra il 7 e il 9 dicembre, quindi il 14 dello stesso mese e infine l’8 e il 10 di gennaio le lingue di fuoco fuoriuscivano dalle ciminiere degli stabilimenti. Si tratta di un’emergenza, poiché l’accensione delle torce è consentita solo in casi straordinari. Il problema ora è comprenderne le ragioni e stabilire i pericoli. Yara e Versalis sono le imprese più attentamente monitorate. Loro per prime dovranno fornire spiegazioni.
Le istituzioni per ora si sono limitate a generiche rassicurazione. Non c’è stata una presa di posizione netta. La scelta è stata forse quella di trasferire al rappresentante del governo l’impegno di mediare e sollecitare i chiarimenti. Una strategia accorta, improntata alla prudenza, per qualcuno finanche eccessiva. E’ il caso del Movimento 5 stelle, per esempio, che sollecita una presa di posizione politica e snocciola fondate ragioni di inquietudine.
Peraltro le inquietudini destate dal petrolchimico a Ferrara si assommano all’emergenza che in questi ultimi due mesi ha interessato tutto il Paese e in particolare la pianura padana a seguito del drammatico aumento del livello di polveri sottili presenti nell’aria.
“E’ piovuto un po’ e questo ha indotto qualcuno a considerare sbrigativamente risolto il problema, ma non è così e lo sappiamo bene – commenta il deputato 5 stelle, Vittorio Ferraresi – Gli ultimi dati sono molto preoccupanti. Per affrontare la situazione servono interventi strutturali e misure mirate. Non si tratta di allarmismo ma di rischi reali. A Gela di recente il tribunale ha emesso una sentenza che presuppone il nesso causale fra morti e miasmi petrolchimici. Teniamone conto. Ferrara in questa fase è simultaneamente oppressa da problemi sindacali e rischi per la salute. Il prefetto si è mosso giustamente e lo ha fatto per primo”.

Il Movimento 5 stelle punta l’indice sul ricatto occupazionale. “Si è perennemente in bilico fra produttività e sicurezza. Su questo terreno la politica non fornisce alcuna risposta. E’ ovvio che le aziende, nei limiti posti dalla legge, facciano tutto ciò che conviene loro per trarre il massimo”. Sono entità economiche e tutelano i loro interessi. E’ la politica – sostiene Ferraresi in conferenza stampa – che dovrebbe condizionarne l’operato “incentivando chi attua comportamenti virtuosi e sanzionando pesantemente chi inquina”. Tali non si possono certo considerare, per esempio, le ammende inflitte in passato a Yara e Basell per una serie di ripetute infrazioni: emissioni non autorizzate (fra il 2007 e il 2010) e improprio utilizzo torce (fra 2010 e 2011). In totale 41 mila euro: una sanzione ridicola, un regalo.

Manca un piano economico energetico-produttivo che abbia valenza strategica, fa notare anche il deputato ferrarese del Movimento 5 stelle. Denuncia come per estrarre petrolio, allettati da una manciata di euro, si vogliano violare il paradiso delle isole Tremiti. E addita Ferrara come capitale delle Pm10, le terribili polveri sottili. All’inquinamento altissimo certificato dai dati Istat corrisponde un alto tasso di mortalità. Si è registrato un aumento dei casi di tumore, ben 2980 in più. E le risposte sono insufficienti. Alle nostre latitudini – riferisce – l’aspettativa di vita è di tre anni inferiore al resto del Paese. Vergognoso e allarmante il silenzio. Il problema riguarda prima di tutto la salute dei cittadini. Ma ha anche ricadute economiche, sottolineano ancora i 5 stelle. In Emilia Romagna c’è un costo di tremila euro procapite che gravano sulle spalle di ognuno di noi, dovuto ai danni arrecati all’ambiente e agli interventi attuati per attenuarne gli effetti.

Servono interventi mirati a livello nazionale, con specifico riguardo per la pianura padana. Che fare? “Incentivare la raccolta differenziata. Stop ai propellenti fossili (invece si punta ancora sugli idrocarburi). Per contrastare l’inquinamento ambientale, stop ai veicoli diesel. Favorire la diffusione di vetture a gpl, metano e ibride. M5s ha proposto incentivi solo per questo tipo di auto. Invece hanno incentivato tutti”.
Poi c’è il dito puntato sulle infrastrutture e l’ostilità per la Cispadana. “Stiamo per costruire una strada assolutamente inutile fra Ferrara e Reggiolo, proprio quando l’Europa chiede un potenziamento del trasporto ferroviario. Serve la sensibilità del governo”.

Alle questioni prettamente locali torna il neoconsigliere comunale Sergio Simeone: “Chiediamo che il tavolo convocato per martedì dal prefetto sia allargato alla presenza di un organismo terzo indipendente e rappresentante società civile”. Il soggetto proposto è l’associazione Isde di cui è esponente il medico Luigi Gasparini, simpatizzante del Movimento 5 stelle, anch’egli presente in conferenza stampa. “Chiediamo all’Amministrazione comunale cosa fatto per migliore la qualità aria. Sul problema torce noi ci siamo mossi tempestivamente senza ottenere risposte. E’ stata ignorata da Arpa la nostra richiesta di chiarimento. Sono arrivate generica rassicurazioni ed eluse le reali problematiche. Ferrara subisce tutte le problematiche proprie della pianura padana. In aggiunta ci sono petrolchimico e inceneritore: la situazione è particolarmente pesante”.

Simeone solleva poi una questione non secondaria: Arpa ha fornito dati rilevati da Yara, sono stampati sulla loro carta intestata. Possiamo fidarci? Chi controlla il controllore. Di questi tempi ci vorrebbero verifiche scrupolose, al di sopra di ogni sospetto. La situazione del petrolchimico è preoccupante. Oltretutto Versalis è in fase di vendita e potrebbe esserci un allentamento controlli… Per questo, pur apprezzando l’iniziativa del prefetto che ha invitato aziende, organismi di controllo e istituzioni, sosteniamo che sia importante coinvolgere la società civile. Quella di Iside è una proposta, ma siamo aperti ad altre soluzioni. La nostra è una richiesta non polemica, un contributo costruttivo. Speriamo si possa dare questo segnale importante.
E in tema di contributi fattivi, Simeone aggiunge un’annotazione e la conseguente proposta: “l’inquinamento delle caldaie incide più di quello delle auto. Spesso negli uffici pubblici le temperature sono eccessive. sarebbe il caso di verificare e intervenire. Se si iniziasse dagli uffici pubblici a dare il buon esempio forse poi si sarebbe più autorevoli a chiedere l’impegno dei cittadini. Servirebbe anche un fondo pubblico per la mobilità sostenibile, immediatamente disponibile. E, al riguardo, a livello di comportamenti virtuosi bisognerebbe per esempio che tutti quanti spegnessimo il motore ai semafori. Tante piccole cose utili che sommate possono contribuire a migliorare la situazione…”.

Infine Luigi Gasparini, in attesa del nulla osta per partecipare al vertice in prefettura di martedì, snocciola i dati delle polveri sottili rilevati in città. E fa notare come i valori non siano rassicuranti. “La situazione epidemiologica di Ferrara conferma vecchie tendenze. L’eccesso di micropolveri causa malattie cardiocircolatori e tumori. “Ieri le pm10 in corso Isonzo erano a 74 microgrammi di media. I danni alla salute, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità, iniziano già dai 20 microgrammi per metro cubo. E poi, analizzando la serie storica del 2015 ci si accorge che i valori più alti e il maggior numero di sforamenti 2015 sono al Barco non in città”. Alla radice del problema, dunque, più che il traffico automobilistico ci sarebbe proprio il petrolchimico.

IL FATTO
Ferrara perde il festival di Altroconsumo ma lancia quello della Sharing economy

Ferrara perde il festival di Altroconsumo. La quarta edizione non sarà ospitata dalla città estense ma si terrà a Milano in autunno. Il vicesindaco Massimo Maisto non nasconde il rammarico: “Dispiace molto, era una stimolante occasione di confronto e conoscenza, proponeva interessanti temi di discussione e stava crescendo”. In effetti i numeri indicando un trend positivo: 15.000 spettatori nel 2013, 25.000 nel 2014, mentre non furono ufficializzati quelli dello scorso anno, un particolare questo che riletto a posteriori appare come un potenziale indizio. “Nonostante il meteo non sia stato favorevole abbiamo registrato una buona affluenza di pubblico”, si limitò ad osservare a consuntivo il responsabile delle relazioni esterne Marco Pierani, senza snocciolare dati. Una soddisfazione evidentemente di facciata, insufficiente per convincere gli organizzatori a confermare una scelta sulla quale da tempo gravavano perplessità. Così, ecco il radicale cambio di rotta per abbracciare le lusinghe della grande città. Decisione controcorrente, se si considera che quasi tutti i più importanti festival hanno le loro sedi in località di medie o piccole dimensioni: oltre a Ferrara (che già ospita Buskers, Internazionale e Libro ebraico) Mantova, Modena, Trento, Rimini, Pesaro, Perugia, Sarzana… La scelta interna è stata sofferta e contrastata, e a dolersene è anche la direttrice della rivista che promuove prassi di consumo consapevole, sostenibile e intelligente secondo il modello del cosiddetto consumerismo: Rosanna Massarenti era e resta convinta che la nostra città rappresentasse un’ottima soluzione per coltivare questi ragionamenti e sviluppare le idealità proprie di un associazione attiva fin dal 1973. “Diritti dei consumatori, consapevolezza, trasparenza sono questioni importanti e di grande interesse – commenta Maisto -. Anche questa è cultura e la sua diffusione favorisce la crescita di una comunità edotta e responsabile”.

Il disappunto lascia comunque spazio a un’interessante novità. A fine maggio, fra dal 20 al 22, proprio nel periodo riservato all’appuntamento con i consumatori, Ferrara quest’anno lancerà un nuovo accattivante festival: quello della sharing economy. Un tema peraltro al centro dell’edizione 2015 di Altroconsumo, quasi un ideale passaggio di testimone. Troveranno spazio ed espressione tutte le tipiche forme del nuovo modello di condivisione: si discuterà delle piattaforme web che consentono di mettere in comune case, auto, disponibilità di oggetti. Ma soprattutto si rifletterà sugli orizzonti sociali di riassetto delle forme aggregative che queste pratiche sollecitano, espressione proprio di un nuovo modo di concepire i consumi e della capacità dei cittadini di fare rete nel mondo e di farsi parte attiva del mercato, mettendo in comune cose, servizi, idee.

BORDO PAGINA
La ‘Street art poetry’ di Pier Francesco Betteloni

betteloni
Pier Francesco Betteloni

Pier Francesco Betteloni, originario di Bonn (Germania) e discendente da una famiglia antica di poeti, da diversi anni a Ferrara, è noto letteralmente come poeta di strada, una sorta di on the road 2.0. Da oltre un decennio anima periodicamente la città estense con numerose azioni poetiche performative, che mette in scena anche nel resto d’Italia. Una ‘tour-vita’ poetante non stop, che evoca la grande stagione della beat generation o dei contemporanei poeti-writers.
Ha partecipato e partecipa a vari Festival e inaugurazioni culturali: Buskers Festival, Festival Celtici, Festival Medioevali. La Nuova Ferrara l’ha definito “il poeta della gente”.

Da alcuni anni protagonista a Ferrara, come poeta contemporaneo e animatore, gli proponiamo uno zoom retrospettivo. “Da quindici anni vivo a Ferrara, città che amo molto – afferma -. Da undici anni cerco di far vivere nei cuori dei ferraresi, la poesia. Sono discendente di una antica famiglia di poeti, ho avuto nonno, bisnonno e trisnonno poeti, amici di Carducci, Aleardo Aleardi, Govoni, e di altri poeti. Sin da piccolo creo poesie e da undici anni vivo creando poesie per la gente, attraverso le quali cerco sempre di dare un poco di speranza, di positività, di felicità. Ho partecipato a molte iniziative a Ferrara e nei dintorni, dal Buskers Festival al Bundan, alla Giostra del Monaco, al Made in Fe: con i molteplici significati dei colori, di carte e inchiostri, che faccio sceglier, abbinati alla fisiognomica, estrapolo i vari significati, e con empatia, creo una poesia in cui gioie, sofferenze, dolori, speranze, delle persone, prendan vita in modo… felice, per crear un sorriso, una speranza, una lacrima di gioia”.

La sua poetica e il suo stile di vita poetico evocano la leggendaria stagione della Beat Generation… “L’arte della Street Art Poetry nacque in America attorno agli anni Cinquanta – precisa – con artisti del livello di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, io non posso esser paragonato a loro, ma come loro amo crear la poesia per chiunque. In Italia, come ben sapranno i lettori, fino al 1800 e anche oltre, i poeti erano anche in strada, pronti a creare emozioni, io cerco da molti anni di far lo stesso, facendo tornar in vita una delle cose più belle: la poesia di strada. Comunque, ai poeti americani degli anni Cinquanta si deve la creazione di alcune delle più belle poesie, sociali, di lotta, come fossero una rivoluzione, vorrei avvicinarmi a quanto facevano con il mio stile. Uno dei poeti che amo di più dell’epoca era senz’altro Jack Kerouac”.

Info: http://it.blastingnews.com/cultura-spettacoli/2016/01/pierfrancesco-betteloni-la-poesia-delle-citta-aperte-00726685.html

LA LETTURA
Un Iran sempre più letterario e femminile

Fariba Vafi
Fariba Vafi

Vincitore in patria del prestigioso premio Golshiri (lo Strega iraniano), assegnato dalla Fondazione Golshiri, la più importante istituzione letteraria dell’Iran contemporaneo, e del premio Yalda, uno dei principali riconoscimenti letterari iraniani, Come un uccello in volo, di Fariba Vafi (uscito in Iran nel 2002), è un romanzo diverso, coinvolgente e toccante, lontano dagli stereotipi sull’universo femminile mediorientale cui la stampa e la propaganda ci hanno nel tempo abituati.

Nata nel 1962 a Tabriz, nel nord del paese, e formatasi alla scuola della polizia femminile islamica a Teheran (rientrata a Tabriz, viene impiegata come guardia carceraria ma abbandona il servizio dopo tre mesi), Fariba Vafi è oggi una delle scrittrici di maggior successo in Iran: ha pubblicato una raccolta di racconti (il primo racconto Rohat shodi pedar, Ora sei in pace, papà, risale al 1988) e quattro romanzi diventati dei best seller in breve tempo e rappresenta una nuova generazione di scrittori (in gran parte scrittrici, per la precisione) apparsi sulla ribalta letteraria dopo la Rivoluzione islamica del 1979 (da allora molte donne tornano sulla scena).

Come il precedente libro di altra bella scoperta letteraria iraniana (A quarant’anni, di Nahid Tabatabai, vedi), siamo immersi ancora una volta in un mondo femminile delicato e complesso, quello di una giovane donna come tamte (il cui nome non compare ma che ha molte somiglianze con l’autrice), alla ricerca della propria identità di casalinga stretta fra quattro strette mura che cerca di ridefinire il proprio ruolo di madre riluttante, di moglie stanca e di figlia insofferente, cui difficilmente ormai si riconosce. Siamo in Iran, lo si immagina, considerata la nazionalità dell’autrice e i nomi dei protagonisti (i figli Shadi e Shahin, le sorelle Shahla e Mahin e il marito Amir), anche se questo non viene mai scritto chiaramente. Questo il segno di una storia che potrebbe ancora una volta, essere universale, quella di molte donne nel mondo. Come lo era stato per Alaleh (vedi).

In una realtà che non è in bianco e nero, almeno non più. Fossilizzata in una condizione di inerzia, soggezione e insoddisfazione alla quale pare condannata dal suo difficile passato familiare rimasto avvolto nel mistero e nella paura (“io avevo paura del buio, delle cantine, delle ombre, di zio Qadir e perfono di mamma e di zia Mahbub e perciò non mi usciva la voce”), la protagonista comincia a prendere coscienza di sé stessa nel confronto con un marito sempre inquieto, la cui unica risposta al malcontento e alle difficoltà del vivere quotidiane pare fossilizzata nel sogno ossessivo di emigrare lontano, in Canada, terra di speranze, per tutti. E che, a un certo punto, se ne va a lavorare in Azerbaigian, a Baku. E’ stanca di combattere con la vita di ogni giorno e un marito indifferente (“sono stufa di dovermi occupare costantemente dei bambini, del muro scrostato, dello scaldabagno rotto, degli scarafaggi che non scompaiono con nessun insetticida”), si sente un po’ come “un uccello migratore”, “rinchiuso in gabbia”, finché trova dentro di sé la via per uscirne, cantando (Alaleh vi era riuscita riprendendo a suonare il violoncello. Ah, la musica!). Una donna che non si guarda allo specchio, che si rifugia nel silenzio, che, tuttavia, non è passivo né aggressivo. È un silenzio critico, pieno di domande. Nel suo silenzio, la protagonista guarda gli altri, osserva, s’interroga, e infine trova sé stessa. È una sorta di riflessione che le serve per valutare la sua vita, per capire come proseguire. Viaggia in sé stessa, con sé stessa e attraverso sé stessa. Devota e lavoratrice ma stanca, davanti a una calda tazza di caffè o a un intenso e aromatico the odoroso.

uccello in voloIl libro ha uno stile asciutto e denso, le immagini colorate e le descrizioni vive dei quartieri e della vita che vi ruota intorno sono di forte impatto ed empatia; tutto mi ricorda i colori, le sensazioni, i rumori, gli oggetti, le cianfrusaglie, i negozi, i fiori, il brusio, il rumore e gli odori di molti quartieri sovraffollati di paesi nord-africani. Mi vengono in mente Tripoli, Algeri o Il Cairo, i loro vecchietti sdentati per le strade, i giovani che chiacchierano, le donne che fanno acquisti, i venditori di verdure, i fornai che fanno il pane. Come dimenticarle. Una storia toccante e coinvolgente, per tutti.

Fariba Vafi, Come un uccello in volo, Ponte33, 2010, 136 p.

L’APPUNTAMENTO
N€uro, lo schizofrenico dibattito sulla moneta e le banche

Dentro o fuori dall’euro? L’interrogativo ricorre quotidianamente nei dibattiti politici ma anche nelle chiacchierate che si fanno al bar o al mercato rionale. Il tema divide partiti e cittadini. E non è l’unico dilemma insoluto. Oggi più che mai è forte la preoccupazione relativa alla tutela del risparmio e alle garanzie offerte dalle banche. La crisi ha diminuito la ricchezza e aumentato i dubbi, dilatando i margini di insicurezza su molti fronti, anche perché economia e finanza sono temi ostici, difficili da maneggiare.
‘Chiavi di lettura’, il ciclo di incontri organizzato da FerraraItalia, ritorna in bliblioteca Ariostea lunedì prossimo, 25 gennaio, alle 17, con un appuntamento dedicato proprio all’euro e alle banche. A dipanare la matassa saranno un docente universitario, il professor Lucio Poma, del dipartimento di Economia dell’ateneo di Ferrara, e due storici esponenti del Gruppo Cittadini Economia, Claudio Pisapia con l’ausilio di Fabio Conditi.
Il tema della moneta unica e il ruolo degli istituti di credito sono elementi centrali nella riflessione relativa alle cause della crisi che ci attanaglia: quanto ha inciso l’euro, quanto pesa il ruolo della Bce e l’assenza in Italia di un banca centrale dello Stato? Da più parti si richiama l’esigenza di ricostituire una banca pubblica e qualcuno invoca il ritorno alla lira… Altri osservatori ritengono invece dannosa un’eventuale fuoriuscita dall’euro e non considerano sostanziale il ruolo che potrebbe svolgere la Banca d’Italia, neppure se fosse ricondotta sotto il controllo statale. Insomma su questi argomenti si dice tutto e il suo contrario.
Lunedì il confronto sarà estremamente lineare: i due interlocutori esporranno con chiarezza i loro punti di vista. In principio ciascuno puntualizzerà in maniera facilmente comprensibile il quadro di riferimento e illustrerà la proprie opinioni. Seguirà un breve dibattito fra Poma e Pisapia. E poi il pubblico potrà porre le proprie domande. Obiettivo di questi incontri, come sempre, è favorire una maggiore conoscenza e comprensione delle variabili in gioco, affinché ciascuno possa maturare un’edotta e autonoma opinione in proposito.

IL DIBATTITO
Se la Sinistra facesse la Sinistra

La Sinistra, per essere almeno un po’ di sinistra, dovrebbe prestare meno attenzione agli interessi del potere delle imprese e degli affari. Come si fa ad essere di sinistra e citare come esempio di successo chi delocalizza, chiede maggiore libertà di licenziamento, allarga la forbice della diseguaglianza, vive di finanza deregolarizzata e poi aumenta l’Iva e diminuisce le aliquote Irpef?

E la Sinistra dovrebbe prestare attenzione alla gestione democratica dello Stato, ad una distribuzione leale e condivisa del potere, piuttosto che aumentare le distanze tra chi gestisce la cosa pubblica e i cittadini. Quella che conosciamo promuove invece riforme elettorali e contemporaneamente riforme costituzionali che accentrano il potere.

La Sinistra dovrebbe lottare per una equa distribuzione del reddito, anche attraverso politiche sociali di sostegno alle classi meno agiate o in difficoltà. Promuovere assistenza e non tagliarla, garantire abbastanza posti letto negli ospedali, aiutare i disabili con interventi ad hoc e le vecchiette ad attraversare la strada.

Darsi da fare per diminuire la disoccupazione ma senza diminuire diritti pretendendo magari, come dice la prof. Pennacchi dalle righe del Manifesto, che lo Stato diventi “employer of last resort” e promuovendo opere e spesa pubblica per rimettere in moto l’economia quando si blocca.

E la competizione? In quali termini dovrebbe occuparsene la Sinistra, o dovrebbe invece inseguire la cooperazione e lo sviluppo sostenibile rifiutando gli schemi di una globalizzazione malata, che fa vincere chi produce peggio e a minor costi, chi delocalizza dove si pagano meno tasse e si sfrutta lavoro non sufficientemente garantito?

Gaber diceva “il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra” quindi chi privatizza e dà in gestione pezzi di Stato ai privati non è di sinistra. Eliminati allora Prodi, Amato, Andreatta e Renzi che a volte hanno fatto finta di esserlo. E poi come si fa ad essere di sinistra ed essere in armonia con l’interesse economico predominante? È una contraddizione in termini, specialmente se poi limiti apertamente il sindacato che dovrebbe aiutarla, in un mondo perfetto, per diminuire la forbice della diseguaglianza tra operai e capitalisti.

Allora di sinistra ci resta “la mortadella”, Guccini e quella sensazione strana che ci fa indignare quando i bambini muoiono nel Mediterraneo perché scacciati dalle loro terre dalle guerre e dal debito creati dagli interessi finanzcapitalisti che a volte vincono premi Nobel.

Il dibattito sulla proprietà della moneta di Giacinto Auriti è di destra come la critica dell’usura di Ezra Pound, ma le implicazioni, le conseguenze e le soluzioni sono di sinistra. Perché l’una implica la proprietà condivisa, popolare e democratica dello strumento di scambio e l’altra l’abbattimento del debito che crea schiavitù. E chi decanta la fine delle ideologie in favore del pensiero unico, liberista e conformista, non è di sinistra.

La Sinistra oggi non è rappresentata perché il suo impegno non è la gente, e la società che intende realizzare è una società divisa tra ricchi e poveri. E i poveri di oggi sono quelli che vivono di stipendi troppo bassi e di “tutele crescenti”. Hanno poco tempo per riflettere di politica e ragionare sul loro futuro perché devono sbattersi per arrivare a fine mese mentre i loro figli frequentano una scuola che non dà strumenti ma voti e detta le differenze tra bravi e poco bravi, una scuola costretta ad inseguire la competizione e non ha tempo né strumenti per insegnare accoglienza, condivisione e cooperazione.

dibattito-sinistraInvitiamo i lettori a sviluppare il confronto, incardinato su alcuni nodi politici: cos’è diventata oggi la Sinistra, quali valori esprime, quale personale politico la rappresenta, a quali aree sociali fa riferimento, per quali obiettivi sviluppa il proprio impegno, quali sono la visione e il progetto di società che intende realizzare.
Il tentativo è di andare oltre l’analisi, spingendosi sul terreno della proposta.
Attendiamo i vostri contributi. Scrivete a: direttore@ferraraitalia.it

LA CITTÀ DELLA CONOSCENZA
Formazione: Italia sempre alla rincorsa, è ora di confessarci il perché

Lo scadere di ogni anno porta con sé il tempo dei bilanci. Sul terreno dell’istruzione e della formazione ci forniscono spunti di riflessione l’annuale rapporto dell’Ocse “Education at a Glance” e, in casa nostra, il “Rapporto sul benessere equo e sostenibile” dell’Istat. Da tempo le ricerche internazionali utilizzano il livello di istruzione come misura indiretta del capitale umano, hanno dimostrato che le persone con un alto livello di istruzione in genere godono di una salute migliore, sono socialmente più impegnate, il loro tasso di occupazione è maggiore e i guadagni più elevati. Da questo punto di vista dovremmo essere davvero preoccupati del nostro 41% di popolazione, tra i 25 e i 64 anni, con un livello di istruzione al di sotto della secondaria superiore, contro la media Ocse del 24%. Per non parlare del nostro esiguo 17% con un livello di istruzione terziario contro la media Ocse del 34%, esattamente la metà. Nel conto va considerato che l’accesso all’università da noi è ostacolato dal numero chiuso e dai test di ammissione, non è gratuito come in Germania e i nostri studenti non godono di supporti economici.
Ma guardiamo le cose in positivo, il rapporto dell’Istat in materia di istruzione esordisce con un titolo rassicurante: “Migliorano i livelli di formazione e si riduce il divario con l’Europa”. Non dice però che, da dieci anni a questa parte, tutti i paesi dell’Ocse registrano un progressivo miglioramento, ma i tassi di incremento nel nostro paese sono tra i più bassi, pertanto inadeguati a colmare la distanza accumulata.
Si ha l’impressione che gli ‘zero virgola’ più che una tendenza al miglioramento registrino gli effetti del naturale avvicendarsi generazionale. Man mano che nei rilevamenti statistici ci si approssima a popolazioni che hanno beneficiato dell’istruzione di massa, anche gli indici di percentuale sono destinati a mutare. A non mutare invece è la capacità di aggredire ciò che del nostro sistema formativo continua a non funzionare. L’Italia si conferma un paese che in materia di cultura e istruzione ha due velocità tra Nord e Sud, un paese in cui le condizioni di partenza per censo e cultura fanno ancora la differenza.
I dati non ci dicono nulla di diverso da quanto già non sapessimo; ci saranno anche quelli che spasimano per uno zero virgola in più o in meno, ma il dato di fondo non cambia: ci troviamo di fronte a politiche formative mal disegnate, incapaci di garantire equità e mobilità sociale.
Siamo lontano dall’obiettivo, uscito dal summit mondiale sull’istruzione tenutosi a novembre a New York, di garantire entro il 2030 un’istruzione di qualità, inclusiva ed equa per tutti, accrescendo le opportunità di apprendimento permanente per le persone di ogni età.
Una cosa, per esempio, che non viene detta nei rapporti statistici di casa nostra, è che l’Italia non partecipa alle indagini Ocse sui livelli di competenza della popolazione adulta, il Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). L’istruzione degli adulti, che incide sui livelli culturali complessivi del paese, è un capitolo da noi ancora ampiamente trascurato. L’Italia, tanto per incominciare, non fornisce dati circa la padronanza delle tecnologie informatiche e la capacità di problem solving da parte della sua popolazione adulta, su questo terreno preferiamo non confrontarci con gli altri paesi dell’Ocse. Misuriamo invece i nostri livelli culturali computando i libri che leggiamo, con quanta frequenza andiamo al cinema e a teatro, per non parlare della lettura dei giornali, che pare essere crollata. Insomma nei casi migliori rimaniamo aggrappati ai cliché culturali della tradizione, disdegnando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione.
Quando si arranca per recuperare strada, per raggiungere gli altri, difficilmente si è in grado di vedere cosa c’è oltre la linea d’arrivo dei nostri sforzi. E questo è l’errore che ci manterrà sempre in ritardo, perché mentre noi siamo impegnati nella rincorsa, gli altri partono per traguardi più avanzati, lasciandoci così sempre più indietro. Allora, forse, cambiando la macchina anche noi potremmo darci obiettivi nuovi e più ambiziosi, anziché continuare a inseguire quelli ormai mancati.
Fotografare il presente resta una buona pratica, registrare gli output del nostro sistema formativo è utile per dirci quanta distanza ci separa dagli altri, ma non ci aiuta a guardare più lontano. Se il sistema formativo non cambia non possiamo attenderci performance molto differenti da quelle che ormai da anni registrano sia i dati Ocse che i dati Istat.
Inseguire indicatori come il numero di diplomati, di laureati, di abbandoni scolastici, eccetera è come il serpente che si morde la coda, perché si continuano a rilevare e misurare i sintomi senza mai aggredirne le cause. Alla narrazione degli output dovremmo imparare ad accompagnare la narrazione degli input e degli indicatori di processo, quelli che potrebbero davvero cambiare la trama dei racconti e assicurare un finale una volta tanto diverso da quelli già conosciuti. Quali sono questi indicatori? La qualità degli insegnamenti e di chi insegna, la qualità degli ambienti dove si impara e come si impara. Attori e politiche dell’istruzione, questo è il nostro teatro dei pupi che ogni anno mette in scena il copione della formazione nel nostro paese.

STORIE
Progetto Rondine: e chi non ha gambe può volare

Volare nonostante le difficoltà, nonostante le diversità, nonostante le avversità. Ma volare, anche senza l’uso delle gambe, anche in un mondo per molti difficile e diverso. LOGO PROGETTO RONDINE

Il volo da sempre ha significato libertà, curiosità, coraggio, sfida, voglia di tiepida primavera. La rondine ha sempre simboleggiato felicità e prosperità, salute, speranza, purezza, messaggi dagli altri mondi, rinascita e anch’essa libertà. Cosa li unisce, allora? Ancora l’onlus Vola nel Cuore (vedi il sito internet e la pagina facebook) e il suo “progetto Rondine” (vedi): una nuova iniziativa, dopo il “progetti Cipolla” di cui abbiamo parlato (vedi). L’iniziativa nasce insieme al Gruppo Volo di Aguscello (GVA), associazione sportiva dilettantistica aggregata all’Aeroclub d’Italia e titolare della scuola di volo da diporto sportivo (vedi), con lo scopo di far volare bambini in difficoltà in modo totalmente gratuito e dare, quindi, la possibilità a persone diversamente abili di prendere il brevetto di volo, passando dalla carrozzina al cielo.

DSC_0238

Il progetto è articolato e toccherà importanti temi sociali importanti:

– La nascita della scuola di volo per disabili;

– L’acquisto di un velivolo specifico opportunamente modificato per il pilotaggio da parte di disabili con disabilità limitata agli arti inferiori;

– La possibilità di far volare gratuitamente bambini disabili o con problematiche che possano avere giovamento da un’esperienza simile;

– La messa a disposizione del velivolo in caso di emergenze (ricerca persone, sorveglianza…).

Il progetto sarà portato avanti in memoria del Generale Mario Renzo Ottone, che, nell’agosto del 2010, aveva assunto il comando del Comando operazioni aeree Coa e Caoc 5 della Nato presso la base di Poggio Renatico. Avendo questo doppio incarico nel 2012, all’epoca del terremoto, Ottone si era fatto promotore della raccolta fondi e aiuti a favore delle famiglie colpite dal sisma nel cratere ferrarese. Nel suo periodo in terra estense, aveva anche supportato molte iniziative benefiche, rivolte in particolare ai bambini in condizioni di bisogno: iniziative ancora attive tramite “Le streghe di Smirne”, mogli di subalterni che resiedono ancora in zona, che fondarono l’associazione fin da quando, insieme all’alto ufficiale erano con le famiglie dislocati nella base in Turchia. In sua memoria questo gruppo si sta attivando per promuovere azioni a favore dell’associazione Vola nel Cuore, fra cui Progetto Rondine.

In ossequio al testamento spirituale del pilota della Raf, Douglas Bader, privato di entrambi gli arti inferiori a causa di un incidente aereo, suo testimonial sarà Lorenzo Major, l’atleta disabile che ha incantato con le sue avventure in canoa, scherma, tiro a segno, basket in carrozzina, nuoto e arrampicata (vedi).

Lorenzo Major
Lorenzo Major

Tutto per reagire al dolore e “rialzarsi in piedi” attraverso un percorso nuovo: Ultra Asperitates Volare, anche senza l’uso delle gambe, perché il corpo non sia un ostacolo.

D’altra parte, la rondine è l’annunciatrice della primavera, una creatura che ama sfrecciare sulle acque dei fiumi, tuffandovisi di tanto in tanto, una gioia per gli occhi e per il suo bizzarro chiacchiericcio che fa sorridere e intenerire. In Cina, si narra che la rondine trascorra l’inverno all’interno di una conchiglia in fondo al mare (yin), per poi ridiventare un uccello e accompagnare il movimento ascendente del sole (yang). La presenza dei suoi nidi sotto i tetti delle case annuncia vita matrimoniale serena, salute dei figli, felicità e successo.
Anche da noi è così, quante volte ci siamo rallegrati di un nido sotto il tetto della casa di campagna. Anticamente, i contadini appendevano agli usci delle gallette in forma di rondine e nel giorno del ritorno di questi delicati uccellini, l’Equinozio, si svolgevano i riti di fecondità. Come annunciatrice della primavera, divenne nel Cristianesimo l’emblema della speranza, data anche la sua forma ad àncora, che fin dalle catacombe è stata il simbolo di questa virtù teologale. I simbolisti cristiani elessero poi il volatile ad annunciatore della resurrezione di Cristo, che si festeggia, non a caso, quando le rondini compaiono nei nostri cieli. Una leggenda armena narra che le rondini della Giudea si riunirono intorno alla tomba di Gesù e all’alba della Pasqua, quando egli resuscitò, partirono tutte insieme in coppia e ad ali spiegate verso il mondo, per diffondere la buona novella.
Divenne infine, il simbolo della libertà, poiché non sopporta la gabbia, dell’unione fraterna, in quanto nel pericolo le rondini si soccorrono vicendevolmente, e della dignità, che induce a rifiutare compagnie riprovevoli.

guida-agli-uccelli-migratori_7c12252b0fbf226592cd94b2dbf7efe5

Non dimentichiamo, infine, Icaro o Leonardo da Vinci: quest’ultimo spiegava la sua passione per il volo raccontando di averne ricevuto il presagio fin dall’infanzia, quando un uccello lo aveva visitato nella culla… il primo ricordo che il genio fiorentino serbava nel cuore e nella mente, un ricordo, un sogno, che non abbandonerà mai. Per “mettere le ali” all’uomo, permettergli di andare lontano anche senza gambe, proprio come il nostro Progetto Rondine.

 

INSOLITE NOTE
Gli Orizzonti celtic rock dei Sunset

Per il loro secondo album “Orizzonti” i Sunset sono andati fino in Scozia a cercare il quintetto folk tradizionale The Blazin’ Filddles. La rock band lombarda propone undici brani firmati da Simon “Byron” Locatelli, cantante e compositore, insieme con Demetrio “Axe” Caracciolo, chitarrista e produttore. Completa la track list “Il lupo e il bracconiere”, la favola per bambini e adulti scritta da Ivan Graziani: “Curiosi aveva gli occhi il lupo mentre lo guardava, l’uomo puntò invece il fucile pietà non provava, sparò una sola volta, sparò per ammazzare, svanì nel nulla il lupo davanti al bracconiere”.

copertina-album
La copertina dell’album Orizzonti

In tempi di note “scontate” e banalità musicali fa piacere imbattersi in un gruppo che unisce tradizioni rock e contaminazioni etniche per il gusto di ballare e scatenarsi magnificando corpo e pensieri.
Apre il disco il misticismo di “Uno spazio per pensare”, con un travolgente assolo di violino in stile celtic rock, in cui passione ed energia accompagnano le riflessioni sulle occasioni offerte dalla vita: “Ricomincerò a raccontare di vecchie sfide vinte, di nuove strade”.
“Tornerò, tornerò da te desiderando un peccato impossibile”, recita l’inciso dell’omonimo brano, una dichiarazione d’amore scandita dal ritmo, privo di artefici da post-produzione, di chitarra e batteria.
“Orizzonti” è un disco di frontiera, come suggerisce il brano “Verso Timbuctù”, alla scoperta dell’ignoto in compagnia di un amico e dei propri pensieri. “Al di là delle nuvole” viaggia in sella a una favola, esplorando territori sconosciuti dove potere vivere e mettersi alla prova. “Oltre il confine” è un omaggio al Kit Carson dei fumetti d’antan: ambientato in un deserto senza regole, dove il caldo tormenta l’anima dell’uomo di frontiera, intento a raggiungere il Rio Grande, simbolo della speranza dell’emigrante, per varcarne il confine.

foto di gruppo Sunset
Foto di gruppo

L’atmosfera country del brano “Le tue verità” si discosta solo apparentemente dal contesto del disco. Il filo rosso che li lega è la voce di Locatelli, che in alcune tonalità ricorda Pelù, inequivocabilmente Rock! Il ritmo riprende con “Rebelde”, dedicata al lato umano e allo spirito ribelle di Gesù Cristo: “Io vi libererò dalla schiavitù del buio, sulla scia del mio pensero vi solleverò”.
“Danger Zone” chiude, in inglese e con qualche traccia di blues, questo secondo lavoro dei Sunset, diviso tra desiderio e peccato, attraversando deserti e autostrade, dove attenzione e adrenalina si confondono e rendono più vulnerabili.
“Orizzonti” contiene 38 minuti di rock, con contaminazioni folk e blues, ma soprattutto propone una ricerca interiore delle proprie emozioni, una sosta per ripensare al passato prima di ripartire verso nuove vite. Voce, chitarra e batteria suonano quasi senza soluzione di continuità, con ritmi forse già conosciuti ma resi unici dalla metafora del viaggio, visto come allontanamento da tutto ciò che è conosciuto, un po’ come “Bateau livre”, il poema di geografia immaginaria di Arthur Rimbaud.

Guarda il video di “Nuovo Orizzonte”

LA SEGNALAZIONE
Galleria primaluce, scrigno d’arte nel magico giardino di palazzo Scroffa

Quando, anni fa, mi trasferii a Ferrara alcuni amici mi consigliarono di spiare attraverso i portoni delle vie del centro. La cosa mi stupì non poco ma loro, osservando la mia espressione dubbiosa, mi spiegarono che i veri gioielli nascosti della città erano le corti interne dei palazzi storici, dove si celano giardini degni di una favola, ma di proprietà privata e difficilmente visitabili. Col passare del tempo ho avuto la fortuna di scoprire anche io alcuni di questi splendidi cortili, che attraggono coloro che li scoprono,facendo sì che venga dimenticata la città, distante solo un portone. Così ho scoperto la bellezza del palazzo Scroffa, edificio rinascimentale in via Terranuova, e la magia del suo giardino, incantevole anche in pieno inverno.
All’interno di questa cornice senza tempo, una porta finestra spalancata ti invita a scoprire un altro genere di bellezza. Il palazzo, infatti, ospita la Galleria d’Artè Primaluce, associazione culturale nata a Milano e trasferitasi a Ferrara, che con esposizioni, corsi e visite guidate, desidera diffondere l’arte come elemento di crescita del territorio. Il sole sta calando, le ombre nel giardino si allungano e i punti più nascosti sono già avvolti dall’oscurità della sera: la luce proveniente dalla sala più ampia della galleria colpisce i colori sulle tele e illumina le istallazioni, richiamando i curiosi all’interno delle sale, perché le opere possano mostrarsi. Venerdì, infatti, è stata inaugurata la nuova esposizione, curata dal critico d’arte Nadia Celi, visitabile fino al 12 febbraio. Sarà possibile ammirare non solo la collettiva, che ospita artisti emergenti e altri di fama internazionale, ma anche la personale “Le mie donne” del pittore ferrarese Enrico Gherardi.
La curatrice Nadia Celi accompagna i visitatori all’interno delle sale, segna il percorso soffermandosi su ogni opera, per mostrarla al meglio, raccontandone l’essenza. Così le creazioni di Stefania Bertini Cavelti, artista di origini fiorentine trasferitasi in Svizzera, acquistano vita, evidenziando la potenza dell’unione dei quattro elementi, del sacro e del profano, le differenze tra i sessi, in un’unica opera. Ci vuole attenzione per scoprirne tutti i dettagli ma anche pazienza, come se l’artista volesse che ciò che ha creato si sveli lentamente, lasciando che colui che osserva si faccia trasportare dai sensi. L’artista fiorentina divide la sala con altre due donne che hanno trovato nel colore travolgente e nel simbolismo la base con cui esprimersi.
Le opere di Gabriella Teresi, pittrice napoletana di fama internazionale, hanno un impatto più diretto con chi guarda, sembrano volerlo avvolgere, trasmettendo, con l’esplosione di colori, una visione complessa e personale del mondo che ci circonda. Ultima artista raccontata dalla curatrice è Serena Martelli, bolognese, che, giocando con i materiali, crea riflessi di luce e giochi di colore.

Forza, spiritualità e contrasti sono anche i temi degli artisti scelti per la collettiva del mese, in cui gli aspetti più contrastanti dell’essere umano vengono esposti con fare di sfida. Di grande impatto l’opera di Simonetta Barini, che rappresenta due giovani, con corpi atletici, intenti a stringersi, cercando però, in questa spirale infinita, una via di fuga. Totalmente diverse, invece, le sculture di Donato Ungaro, ricavate da tronchi d’ulivo, blocchi da cui non è l’opera ad uscire ma è lo spazio ad entrare in essi.

L’ultima sala, dedicata all’artista Gherardi, ospita cinque delle sue opere, che rappresentano donne dai corpi minuti e dagli sguardi taglienti che pretendono la dovuta attenzione, invitano ad unirsi a loro nei momenti d’intimità, ma anche nelle sfide.

“L’artista obbedisce all’ispirazione- afferma Enrico Gherardi, presente all’inaugurazione- non può fare altro. Anche io a volte, dopo aver finito un’opera, la riguardo con attenzione, per capirla meglio. “Le mie donne” non sempre hanno successo, o si amano o si odiato. C’è chi vede in questi corpi troppo magri uno stereotipo culturale, altri non apprezzano l’intimità che c’è tra loro. Secondo me il mondo femminile è sacro,sempre, anche nel suo lato più oscuro. Questo perché le donne hanno una complessità a cui noi uomini possiamo solo aspirare. In tutto ciò che fanno c’è un insieme di sentimenti: dove c’è invidia c’è ammirazione, dove c’è attrazione non manca la paura, dov’è presente l’odio, c’è l’amore”.

La mostra sarà visitabile sino al 12 febbraio alla Galleria Artè Primaluce, in via Terranuova 25.

AUDIOCONFERENZA
Non sono solo parole: Baratelli illustra l’alfabeto della democrazia

“Nel Dna della democrazia c’è la promessa di emancipazione per tutti i cittadini, ai quali vengono attribuiti gli stessi diritti e i medesimi doveri. Tale premessa si regge su due pilastri: legalità e giustizia sociale. E’ un regime, quello democratico, che sfiora l’utopia. Alle spalle abbiamo due secoli di aspre lotte combattute per rendere concreto questo obiettivo. Ma evidente che se la democrazia ha questa connotazione la sua condizione sarà di crisi perenne perché l’ideale non sarà mai compitamente realizzato e al riparo da insidie. L’impegno di ognuno è prodigarsi in un continuo sforzo per ridurre la distanza fra i ideale e realtà. Accettando la crisi come necessaria eviteremmo il pendolarismo fra eccessi di entusiasmo e di scoramento”.

La si potrebbe definire a buon titolo una ‘lectio magistralis’ quella tenuta ieri in biblioteca Ariostea dal direttore dell’istituto Gramsci Fiorenzo Baratelli per illustrare il senso del ciclo di conferenze “Le parole della democrazia” organizzato in collaborazione con l’Istituto di storia contemporanea e il contributo del Comune di Ferrara e di Archibiblio Ferrara. Quattordici imperdibili appuntamenti per riflettere sui valori che danno senso e sostanza al modello di Stato e alle forme di governo.
Nella sua ‘prefazione’ Baratelli si è soffermato sulle peculiari ragioni della crisi attuale, connesse ai fenomeni di globalizzazione e al conseguente superamento del tradizionale concetto di Stato nazionale, per poi accennare alle ragioni di scelta dei termini attorno ai quali i conferenzieri svilupperanno la loro interpretazione del lessico della democrazia: fra i più noti, Gianfranco Pasquino, Laura Pennacchi, Vittoria Franco, Giuseppe De Rita.

Il prossimo incontro sarà con un maestro del pensiero filosofico, Remo Bodei, direttore scientifico del festival di Filosofica di Modena che venerdì 29 gennaio alle 17, sembra alla sala Agnelli dell’Ariostea tesserà l’ “Elogio della democrazia: ragioni e passioni”. Miglior avvio non sarebbe immaginabile.

 

Ascolta l’audio integrale della conferenza di Fiorenzo Baratelli

 

Leggi la presentazione del ciclo “La parole della democrazia”