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12 Giugno 2016

Fedeli alla linea

Tempo di lettura: 4 minuti


(pubblicato il 17 giugno 2014)

Come narrano antiche leggende di un mondo che fu, c’era una volta un orribile mostro che senza pietà soffocava il libero confronto delle idee nel più grande partito della sinistra italiana. Si chiamava “centralismo democratico” ed era così spaventoso e temuto che il solo evocarlo quasi sempre convinceva al silenzio chiunque, dalle assemblee delle più sperdute sezioni alle riunioni del comitato centrale, azzardasse di voler reiterare una critica, perché semmai di qualcosa non era proprio del tutto convinto, o di proporre un approccio ad un problema che non fosse fra quelli prescelti. Se poi si trattava di esprimere una posizione in pubblico, dall’intervista al giornale di provincia all’intervento in Parlamento, il timore era tale che nessuno si azzardava a dire nulla di più di quanto recitasse “la linea”, di cui l’orribile belva era poi lo spietato custode. Fra il popolo, la mitica “base”, la creatura aveva nomi diversi e più suggestivi, soprattutto fra i suoi adoratori. C’era chi lo invocava come “Disciplina di Partito” ed anche, i più mistici, come “Fedeltà alla Linea”. Ogni tanto, raramente in verità, il mostro mordeva e qualcuno spariva di colpo, per subito riapparire, all’inizio un po’ frastornato, su una qualche isoletta di quel grande e mutevole arcipelago che si chiama sinistra.
Da allora tanto tempo è passato, il mostro è sparito ed i suoi adoratori dispersi; come sempre succede in questi casi, c’è chi lo rimpiange e chi nega di averlo mai servito. Chi allora non c’era e lo conosce per i racconti dei vecchi tipicamente lo aborre, come retaggio di un mondo passato e diverso, fatto di miti potenti e di certezze assolute.
La povera bestia non era in realtà del tutto cattiva; come si dice, seguiva il suo istinto. Che altro non era che di tenere e di far apparire unito il partito. Il problema semmai era “la linea”, una specie di blob gigantesco che conteneva le risposte a tutti i problemi del mondo e di cui solo pochissimi esperti esegeti conoscevano l’articolazione arcana e le mille astuzie dialettiche che la tenevano assieme. Se ci si pensa un attimo, il vero mostro era questo. Sia per il voler raccontare una visione del mondo per forza unitaria, sia per la sua genesi in realtà misteriosa, sia anche per l’arrivare in periferia non già tutta intera, ma come precotta e divisa in comodi bocconi già pronti.
Poi se n’è andata, anche lei rifugiata su qualcuna delle isole, senza che però nessuno l’abbia mai troppo rimpianta. Meglio così.
Supponiamo invece di avere adesso, nel senso di oggi, un partito ed una grande questione, non l’universo, ma un cosa realmente importante come, per esempio, riformare il lavoro, la scuola o la costituzione. Se si discutono a fondo le diverse posizioni che liberamente si confrontano, coinvolgendo e ascoltando quanta più gente possibile ed alla fine non ci si trova tutti d’accordo su nessuna di queste, che cosa bisogna fare? Non ci sono molte alternative. O si decide di aspettare e di continuare a discutere finché, in un qualche modo si trovi una posizione che accontenti tutti, oppure si vota sulle diverse opzioni per verificare quale sia quella che riscuote il maggior gradimento. Spesso, negli ultimi anni, si è preferito continuare a discutere, tant’è che per molte questioni stiamo ancora aspettando che la magia si compia. Se avessimo davanti tutto il tempo del mondo e non ci fossero invece questioni che richiedono interventi urgenti sarebbe forse poco male; in fondo in Italia talmente tanti anni che si discute su come cambiare le tante cose che non vanno, che aspettare ancora non pare a molti una cosa poi grave. Ma, come spero sia evidente a tutti, non siamo in queste condizioni.
Non rimane quindi che l’altra opzione, ovvero decidere a maggioranza quale sia la scelta che il partito decide di fare propria. E qui, inevitabilmente, torna in ballo l’antico mostro, perché se un partito decide a maggioranza di assumere una determinata posizione su un problema specifico, dopo, come si dice, ampio ed articolato dibattito, dando a tutti la possibilità di parlare e decidendo sulla base di regole democratiche da tutti condivise, quella scelta deve essere vincolante anche per chi la pensava diversamente. Non per dire che deve cambiare idea ed abiurare alle proprie convinzioni, ma che dovrebbe essere impegnato, se non a sostenere a spada tratta la posizione decisa a maggioranza, almeno a non ostacolarla, se è nelle condizioni di poterlo fare, nel suo percorso istituzionale. Vogliamo chiamare anche questa semplice regola di democrazia “centralismo democratico”? Personalmente non direi, se non altro perché il contesto rispetto ai tempi che furono è troppo diverso; se qualcuno però vuole farlo o per nostalgia o per spregio faccia pure: come ho già detto quel “mostro” non era in realtà così cattivo. Però spieghi oltre al suo sdegno come secondo lui dovrebbe funzionare un partito che non sia un monolite in cui tutti e sempre la pensano allo stesso modo. Possibilmente considerando con ugual onestà intellettuale sia il caso in cui siano le sue idee ad essere maggioranza sia quello in cui invece siano quelle altrui. Sembra infatti, a sentire qualcuno, che realmente “democratiche” siano alla fine solo le decisioni che accolgono i suoi punti di vista.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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