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L’Emilia Romagna prima in Italia: la tutela vaccinale diventa legge

E’ l’Emilia Romagna la prima regione in Italia ad aver reso obbligatorio, per legge, la vaccinazione dei bambini per l’iscrizione alla scuola d’infanzia. Lo prevede il progetto di riforma dei servizi educativi per la prima infanzia della Giunta regionale, approvato dall’Assemblea legislativa. Nel ridisegnare i servizi 0-3 anni, la norma introduce come requisito d’accesso ai servizi «l’avere assolto gli obblighi vaccinali prescritti dalla normativa vigente», La percentuale di vaccinati che garantisce la migliore protezione a tutta la popolazione deve essere superiore al 95%, limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità: in Emilia-Romagna tale copertura è stata del 93,4% nel 2015 dopo essere scesa al di sotto di quella richiesta nel 2014, quando arrivò al 94,5%.

Il Comunicato trasmesso dalla Regione Emilia Romagna agli operatori sanitari, parla chiaramente di una soglia percentuale di bambini vaccinati scesa pericolosamente sotto la soglia minima raccomandata e sottolinea l’importanza di iniziare le vaccinazioni fin dalla primissima età del bambino. Si legge infatti che “A due mesi di vita il sistema immunitario del bambino è già in grado di rispondere alla vaccinazione; ogni ritardo nell’inizio delle vaccinazioni prolunga solo il periodo in cui è esposto alle infezioni che si possono prevenire. Inoltre alcune malattie come la pertosse e la meningite da emofilo b sono particolarmente gravi proprio nel primo anno di vita: è quindi indispensabile che i bambini vengano vaccinati tempestivamente affinché siano protetti il prima possibile”.

Rimarca l’importanza della legge appena approvata anche la dott.ssa Marisa Cova, Responsabile M.O. Prevenzione e Controllo delle Malattie trasmissibili – Dipartimento vaccinazioni della Ausl di Ferrara- sommersa di telefonate e richieste di vaccinazioni dopo i recenti casi di mortalità a causa della meningite in Toscana. “I vaccini rappresentano uno strumento fondamentale di tutela per la nostra società. Non dobbiamo dimenticare che malattie ora quasi dimenticate, come la poliomielite, fino agli anni’60 era ancora molto diffusa. Si deve ad una capillare campagna di vaccinazione condotta in passato in Italia se oggi possiamo beneficiare di una buona situazione sanitaria. L’impegno era stato quello di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”, cioè l’immunità che si ottiene quando la vaccinazione di una porzione della popolazione offre una protezione agli individui non protetti”. L’abbassarsi della soglia di immunità comporta il comparire di malattie ormai ritenute scomparse come la pertosse o la difterite. “Non dobbiamo mai dimenticare- continua la dott.ssa Cova- che le vaccinazioni sono importanti non solo per gli individui che ad esse si sottopongono ma anche per tutelare la salute di bambini incolpevoli che, per immunodeficienze o altri gravi motivi medici, non possono vaccinarsi. Se la soglia di bambini vaccinati si abbassa i primi a rischiare la vita sono proprio loro”.

Di fatto la legge appena approvata ripristina quella che era la situazione prima che, negli anni ’90, l’allora Ministro della Sanità Maria Pia Garavaglia stabilisse che non si potesse rifiutare l’iscrizione a scuola di un alunno che non forniva il proprio libretto dei vaccini. Il diritto allo studio veniva fatto prevalere sul diritto alla salute e da quel momento, pur essendoci dei vaccini obbligatori per legge, di fatto il non farli non precludeva la frequentazione del bambino a scuola.

La raccomandazione della dott.ssa Cova è quella di non abbassare mai la guardia: “ Se è vero che nell’ultimo secolo la morbosità e la mortalità per malattie infettive sono notevolmente diminuite, è anche vero che negli ultimi decenni, la nostra società è molto cambiata. Ci si muove sempre più spesso da un paese ad un altro motivo per cui la copertura vaccinale rimane fondamentale. Basti pensare che noi confiniamo con il Veneto, la prima regione in Italia ad aver abolito l’obbligatorietà dei vaccini”. E’ innegabile che negli ultimi anni il livello vaccinale si sia abbassato anche a seguito di una sempre più diffusa aderenza a delle teorie “mediche” prive di alcun fondamento scientifico o “complottiste” che vedono le industrie farmaceutiche colpevoli di voler lucrare con la vendita dei vaccini sulla vita dei bambini.

“ A parte tutte le teorie che circolano intorno ai vaccini, io credo che la ragione per cui, in questi ultimi anni, sia così calato il numero dei bambini vaccinati sia anche di livello psicologico – dice la dott.ssa Cova- Molti genitori appartengono alla fortunata generazione che non ha mai conosciuto la poliomielite o casi mortali di morbillo. La percezione quindi che tali malattie quasi non esistano più disincentiva molti a non far vaccinare i propri figli. L’errore è proprio questo: non riconoscere nel vaccino l’unico strumento scientificamente efficace per tutelare la salute dei nostri bambini e la salute di chi non ha la possibilità di vaccinarsi”.

Salvador Dalì: il padre del surrealismo tra Pisa e Bologna

“Ogni mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio, provo sempre lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì”.

Che fosse un personaggio eclettico, sicuro di sé e sopra le righe era di pubblico dominio. Ma quanti sanno che già in tenera età, Salvador Dalì si autoproclamò un genio e decise che, in un modo o nell’altro, chiunque nel mondo lo avrebbe riconosciuto come tale?

In attesa dell’inaugurazione della mostra “Dalì experience” che, dal 25 novembre al  7 maggio sarà ospitata nelle sale di Palazzo Belloni a Bologna e vedrà le opere dell’artista catalano combinarsi con esperienze interattive e di realtà aumentata, siamo andati a visitare la mostra del Palazzo Blu di Pisa, “Dalì. Il sogno del classico“.

In collaborazione con MondoMostre e con la Fundaciòn Gaòa-Salvador Dalì, il percorso espositivo, curato da Montse Aguer, direttrice dei Musei Dalì, svela alcuni capolavori meno noti dell’artista, ispirati dalla tradizione italiana e dai Maestri del Rinascimento, tra cui Michelangelo e Raffaello.

Le opere, in cui la musa ispiratrice e moglie Gala è spesso ritratta, mostrano i classici dell’arte rinascimentale, come il Mosè o il Cristo della Pietà di Palestina di Michelangelo, reinterpretati in chiave onirica surrealista.

Centrale nel percorso l’intera serie di xilografie della Divina Commedia, commissionate nel 1950 dal Ministro della Pubblica Istruzione.  Salvador Dalì dipinse, nel giro di due anni, 102 acquerelli che illustravano tutti i canti principali dell’opera dantesca, riproducendo il percorso del Poeta dall’inferno al paradiso.

L’opposizione politica italiana, però, contraria all’idea che fosse uno spagnolo ad occuparsi di una tra le più grandi opere nostrane, impedì la pubblicazione degli splendidi acquerelli che vennero infine esposti a Parigi nel 1960. Il successo di questa mostra fu tale che, nel 1963, venne pubblicata un’edizione speciale della Divina Commedia contenente gli acquerelli.

Secondo Dalì creare delle illustrazioni per i testi non era altro che una forma d’arte, non meno importante della creazione di un quadro o di una statua. Dopo la Divina Commedia, infatti, continuò a realizzarne dedicandosi a “L’Autobiografia di Benvenuto Cellini“.  Furono realizzate 41 illustrazioni dedicate alla vita dell’orafo fiorentino, di cui ne sono esposte 27.

Tutto il percorso espositivo è un vero e proprio confronto tra l’artista catalano e gli artisti del Rinascimento italiano, a cui lui dichiarò di essersi spesso ispirato nella ricerca della “vera tecnica”, così come De Chirico, interpretando la realtà attraverso il metodo paranoico-critico da lui ideato.

La mostra, inaugurata il 1° di ottobre e visitabile fino al 5 di febbraio, conta oltre i 30mila visitatori ed è accompagnata da laboratori didattici ed incontri paralleli. Che piaccia o meno lo stile del discusso artista catalano, non può che essere considerato il padre del surrealismo o, come dichiarò lui stesso, “l’essenza del surrealismo”.

 

Secondo live per la Tjco. ‘Che razza di musica’ di Stefano Zenni apre la serata

Da: Jazz Club Ferrara

Venerdì 25 novembre spazio al secondo live di stagione dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara. Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, proporranno composizioni originali e accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana. In apertura di serata il docente e critico musicale Stefano Zenni presenterà ‘Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore’, edito da EDT. Media Francesco Bettini.

Venerdì 25 novembre, a partire dalle ore 21.30, spazio al secondo live di stagione dell’apprezzata Tower Jazz Composers Orchestra, l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara.
Gli oltre 20 venti elementi che la compongono, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, alterneranno composizioni originali ad accattivanti rivistazioni di brani della tradizione afroamericana che andranno ad infoltirne il repertorio, dando spazio ai talentuosi elementi di sperimentare e mettere in gioco le proprie idee musicali con creatività e sorprendente empatia.
In apertura di serata il docente e critico musicale Stefano Zenni presenterà ‘Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore’, edito da EDT, con la mediazione di Francesco Bettini.
Musica ‘nera’, ‘jazz bianco’, cantanti neri che possiedono il senso del ‘soul’, lo swing come attitudine ‘naturale’ dei neri americani: quale fondamento hanno espressioni come queste, spesso ripetute acriticamente dal pubblico e degli addetti ai lavori? Se si spinge lo sguardo con attenzione al di là del mito della ‘black music’, la storia della musica e la ricerca scientifica dimostrano una realtà molto più complessa e contraddittoria. Da uno dei più seri e preparati musicologi italiani, Stefano Zenni, giunge un libro che, anche facendo ricorso alle più recenti acquisizioni della genetica, porta alla luce le tante trappole del concetto di ‘identità’ e conduce una critica profonda e documentata al cosiddetto ‘essenzialismo’ jazz – la teoria neoconservatrice americana, molto diffusa, che vuole un jazz radicalmente ‘nero’ – in favore di una nuova concezione di continuità tra le culture.

L’ingresso a offerta libera è riservato ai soci Endas. È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30). La prossima performance della Tower Jazz Composers Orchestra è in programma per venerdì 16 dicembre.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15.30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Se si riscontrano difficoltà con dispositivi GPS impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI

Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas.
Tessera Endas € 15
Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Incontro con l’autore 21.30
Concerto 22.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

Turismo. Dalla Regione 750 mila euro per la sicurezza e il rilancio dei porti turistici. Gli Interventi nel ferrarese

Da: Regione Emilia-Romagna

Le risorse stanziate dalla Giunta regionale per finanziare dieci interventi nel ferrarese, nel parmense, nel reggiano e nel riminese. L’assessore Corsini: “Un contributo importante per il dragaggio dei porti regionali”

Via libera a 750 mila euro per finanziare dieci interventi di messa in sicurezza in porti regionali, comunali e approdi fluviali dell’Emilia-Romagna. A tanto ammontano le risorse messe a disposizione della Giunta regionale per il 2016. I primi finanziamenti, 400 mila euro, erano stati impiegati per interventi di dragaggio e scavo nei fondali per scongiurare rischi e danni alle imbarcazioni, all’attività ittica e al diportismo turistico nei porti regionali di Cattolica, nel riminese, in quelli di Goro e Porto Garibaldi nel ferrarese e in quelli comunali di Gorino, sempre nel ferrarese, di Riccione, nel riminese, di Boretto, nel reggiano e di Sissa-Trecasali, nel parmense. Grazie a nuove risorse, per 350 mila euro, impiegate in assestamento di bilancio, sono stati finanziati altri interventi urgenti nei porti di Comacchio (Porto Garibaldi), Cattolica e Goro.

“Con questo ulteriore stanziamento rendiamo disponibili 750 mila euro per i porti dell’Emilia-Romagna- commenta l’assessore regionale al Turismo, Andrea Corsini-. Sono risorse che permetteranno ai Comuni beneficiari di sviluppare le funzioni dei loro porti e di risolvere criticità ed emergenze. In questo modo si può portare a compimento un quadro di interventi significativo”.

In particolare, nel ferrarese, sono 390 mila euro le risorse stanziate dalla Regione Emilia-Romagna. A Porto Garibaldi, con una prima tranche di 70 mila euro è stato finanziato il dragaggio del porto canale a rischio chiusura per motivi di sicurezza della navigazione e con una seconda tranche, di 80 mila euro, è stato finanziato il secondo stralcio per il dragaggio del porto di accesso. A Goro sono due gli interventi finanziati per la sicurezza della navigazione e per scongiurare il rischio di chiusura, il primo di 50 mila euro per lo scavo dei fondali di atterraggio al porto e il secondo, di 150 mila euro per l’innalzamento della banchina. A Gorino, infine, sono 40 mila euro i contributi regionali per lo scavo dei fondali del bacino a rischio ingressione sull’abitato.

Infine, tutti gli interventi programmati per il mantenimento della navigazione dei fondali hanno anche il vantaggio di rendere disponibile i materiali sabbiosi che si possono utilizzare per il ripascimento delle zone costiere a rischio erosione./BB

La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina

Da: Organizzatori

Sabato 26 novembre, alle ore 17.00 (con replica alle 21.30 su invito per i clienti di Banca Fideuram), nel Salone d’Onore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara, in occasione delle celebrazioni per i 500 anni dalla prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, Bal’danza in collaborazione con la Pinacoteca Nazionale di Ferrara e i Conservatori ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara e ‘N. Piccinni’ di Bari, presentano La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, prologo e tre scene di Francesca Caccini.
Direttore e maestro concertatore Elena Sartori.
Maestro del Coro Maria Elena Mazzella.
Maestra di danza storica Laura Fusaroli Pedrielli.

Lo spettacolo è l’esito finale di un progetto multidisciplinare che vede coinvolte molte realtà cittadine e si compone di una fase laboratoriale, rivolta agli artisti coinvolti nell’allestimento e aperta al pubblico, e una fase di studio, con conferenze realizzate con la collaborazione dell’Università degli Studi di Ferrara sullo stato dell’arte e del teatro musicale del primo Seicento.

La scelta del luogo – la Pinacoteca Nazionale di Ferrara, che ha appena riaperto le sale dedicate alla pittura del Cinquecento ferrarese, e che è situata al piano nobile di Palazzo dei Diamanti – è caduta non a caso su uno dei luoghi più significativi della città estense, simbolo della potenza e della magnificenza del casato che rese Ferrara famosa nel mondo.

La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, prima opera italiana ad essere stata rappresentata all’estero, venne commissionata a Francesca Caccini (1587-1640) dall’allora Reggitrice di Firenze, l’Arciduchessa Maria Maddalena d’Austria, per il Carnevale del 1625 con lo scopo di affermare l’autorità e lo stile del suo governo. E’ perciò uno dei primissimi esempi di scrittura operistica al femminile e presenta una lettura mitologica attuale e potente, intessuta di spunti simbolici profondi e visionari sui temi dell’appartenenza, dell’identità e del potere di genere. Alcina è anche la prima opera musicale scritta sui temi dell’Orlando Furioso. Il libretto, redatto dal poeta di corte Ferdinando Saracinelli, è tratto da un episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e fa riferimento alla nascita della dinastia estense da Bradamante e Ruggiero.

Su proposta di Elena Sartori, già docente presso il Conservatorio ‘N. Piccinni’ di Bari, Bal’danza ha deciso di offrire ai giovani artisti coinvolti nello spettacolo la possibilità di realizzare un laboratorio didattico che si concretizza in uno spettacolo, legando così il momento formativo alla performance pubblica, per capitalizzare al meglio tutte le energie profuse, nell’ottica professionalizzante.
Il laboratorio, che sarà aperto al pubblico, si svolgerà da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre negli orari di apertura della Pinacoteca.

Nel progetto è stato successivamente coinvolto anche il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara, con la collaborazione della cattedra di Storia dell’Arte Moderna, che ha organizzato una conferenza aperta alla cittadinanza sui temi del teatro musicale del primo Seicento. La conferenze, che si terrà presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara venerdì 25 novembre alle ore 17.30, sarà tenuta da Alessandro Roccatagliati e avrà come titolo Leggere, immaginare, rappresentare. Ariosto cantato in scena. Conversazione con Alessandro Roccatagliati”.
Inoltre, sarà offerta un’altra conferenza giovedì 24 novembre alle ore 17.30 a cura di Daniela Fratti, Presidente del Club Soroptimist di Ferrara, dal titolo La figura femminile nella società ferrarese del primo 600, al tempo dell’Alcina della Caccini.

Il progetto, che è l’espressione di un ‘fare condiviso’ ampio e decisivo al tempo stesso, è organizzato e promosso da Bal’danza in collaborazione con la Pinacoteca Nazionale di Ferrara, i Conservatori ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara e ‘N. Piccinni’ di Bari, dall’Ensemble vocale ‘San Giorgio’, dal Gruppo Danza l’Unicorno – Contrada di S. Maria in Vado, dal Rione S. Spirito e si avvale della collaborazione e del sostegno del Soroptimist International Club di Ferrara, dell’Università di Ferrara e di Banca FIDEURAM di Ferrara.

L’ingresso allo spettacolo è di 4 euro biglietto intero, 2 euro biglietto ridotto sino ad esaurimento dei posti disponibili.

Pallacanestro Ferrara: delitto, castigo e resurrezione

Estate 2015. Dopo un’esaltante stagione di Serie A2 conclusasi soltanto ai play-off contro la più quotata Trieste, per la Ferrara dei canestri il futuro sembra comunque essere roseo. Guidata dal coach udinese Alberto Martelossi, Ferrara ha saputo risalire la classifica arrivando fino al secondo posto, dietro alla corazzata Treviso. Quello è un grande gruppo: il playmaker pesarese Michele Ferri, arrivato in terra estense nel 2011, ne è il capitano. Al suo fianco il pivot Michele Benfatto, l’ala Alessandro Amici, con i suoi atteggiamenti sempre fuori dagli schemi… E poi Daniele Casadei e Kenny Hasbrouck, probabilmente l’americano più forte passato da Ferrara dopo gli anni di Andrè Collins, Allan Ray e della Serie A1. E’ un gruppo di uomini prima che di giocatori, e i tifosi lo hanno capito, ricreando al palasport un entusiasmo che non si vedeva da anni: più di 3000 persone per le sfide contro Ravenna e Treviso.

Dopo la fine della stagione, i supporters si aspettano la conferma di quella squadra che tanto li ha fatti sognare. Molti addetti ai lavori sono convinti che per fare un campionato ancora più positivo di quello appena concluso bastino un paio di correttivi.
La Società presieduta da Fabio Bulgarelli (che prima dichiara di voler vendere perché non ha abbastanza risorse, poi dichiara che non vende più e afferma che farà una squadra di vertice) annuncia l’ingaggio di John Ebeling, stella del basket ferrarese tra gli anni ’80 e ’90, come nuovo direttore sportivo al posto di Andrea Pulidori. E’ l’inizio di una rivoluzione di cui nessuno ha ancora compreso il senso. Le trattative tra il nuovo ds e coach Martelossi per il rinnovo sono un continuo tira e molla. I tifosi vogliono con forza la permanenza a Ferrara dell’allenatore che li ha portati dalla zona play-out a quella play-off, ma la Società pare non sentirli. E’ così che, in un pomeriggio piovoso di inizio estate, la notizia della non conferma di Alberto Martelossi per la stagione successiva piomba come un macigno in un ambiente che già stava cominciando a ribollire. E’ un domino: dopo Martelossi se ne vanno il capitano di mille battaglie Michele Ferri, che passa a Forlì, il baby Vincenzo Pipitone (a Trieste), l’ala Riccardo Castelli (a Udine), il totem Michele Benfatto (a Cento) ed infine Alessandro Amici (a Mantova). Alcuni vengono “scaricati” senza troppi complimenti. Quella squadra che tanto bene aveva fatto era stata completamente smembrata in un mese, apparentemente senza alcun motivo logico.
Stupisce ancor di più la scelta del nuovo allenatore: è Alberto Morea, esonerato due anni e mezzo prima da Bulgarelli dopo che la allora Mobyt navigava in cattive acque sotto la guida dello stesso coach tarantino. Tuttavia, i primi due acquisti dell’era-Ebeling sono due nomi sulla carta altisonanti: la guardia Ryan Bucci e il centro David Brkic.

La tifoseria è però sul piede di guerra: non accetta questa rivoluzione, non accetta il tipo di trattamento riservato dalla Società a giocatori che nel tempo trascorso sotto l’ombra del Castello Estense si sono fatti apprezzare per le loro qualità tecniche ed umane. La nuova Pallacanestro Ferrara targata Bondi, azienda subentrata a Mobyt come main sponsor, nasce sotto un clima turbolento.
Il presidente Bulgarelli viene contestato dalla maggior parte della tifoseria, che lo accusa di mancanza di rispetto e di chiarezza. L’ambiente è una pentola a pressione: ad agosto alcuni ragazzi decidono di fondare la “Curva Nord”, con il preciso intento di sostenere i nuovi giocatori ma di contestare duramente la Società. Striscioni di protesta vengono affissi per tutta la città, sui social network si scatena il dibattito tra chi difende (“è il presidente e ha tutto il diritto di cambiare quando vuole”) e chi attacca.
I battibecchi continuano, la squadra non entusiasma, il palasport si svuota: nel giro di pochi mesi il clima attorno alla palla a spicchi ferrarese è totalmente cambiato. In negativo.
Il giorno di Natale il calendario offre il derby contro la Fortitudo Bologna, in diretta Sky. I tifosi ferraresi al Paladozza sono pochi, l’entusiasmo è sottozero. Sulle balaustre appare uno striscione, “Bulgarelli vattene”. E’ il culmine della protesta dei tifosi biancoazzurri.

Lo stesso striscione, pochi giorni dopo, viene affisso in Piazzale Medaglie d’Oro. Ormai sui giornali non si parla più dell’andamento della squadra ma del rapporto, ai minimi storici, tra la Società e i suoi tifosi.
I ragazzi della “Curva Nord” raccontano poi di essere stati apostrofati in malo modo nel dopopartita con la “Effe” da alcuni rappresentanti della Società. Minacciano di disertare il palazzetto. Il rapporto sembra irrecuperabile.

E invece… Invece le due parti decidono di trovare un compromesso: il presidente e una rappresentanza di tifosi si incontrano in un noto ristorante cittadino per lasciare da parte questa stucchevole e imbarazzante situazione e trovare un punto d’incontro per il bene della Pallacanestro a Ferrara. Le divergenze vengono appianate, anche se i tifosi ricordano sempre di “non averle dimenticate”, e la seconda parte di stagione vede un ritrovato entusiasmo al palazzetto, nonostante la squadra navighi nell’anonimato della metà classifica. Ciononostante la “Curva Nord” sostiene i propri giocatori per tutti i 40 minuti, trascinando anche il resto del palasport.
A quattro giornate dalla fine coach Morea viene esonerato. Fatale la sconfitta in casa con la Dinamica Mantova degli ex Martelossi, Seravalli e Amici. Uno scherzo del destino o un epilogo simbolico…

Ferrara conclude la stagione fuori dai play-off.
La sintonia tra tifosi e Società sembra però ritrovata. Il presidente, memore degli errori dell’anno precedente, fa il possibile per accontentarli. Il nuovo allenatore è Tony Trullo, già a Ferrara una quindicina di anni fa, reduce da positivissime stagioni nella sua Roseto, dove ha raggiunto i play-off nonostante un budget limitato. Vengono richiamate figure storiche del basket ferrarese, come Maurizio Menatti e Sandro Tamisari.
Il primo tassello della “Bondi 2.0” è Yankiel Moreno, playmaker italo-cubano che Trullo ha portato con sé da Roseto. Arrivano poi l’ala Riccardo Cortese, con trascorsi in Serie A1, e il centro Francesco Pellegrino, di proprietà di Sassari. Si respira un’aria diversa.
Il giovane Martino Mastellari, classe ’96, viene soffiato alla feroce concorrenza di moltissime altre squadre. Dall’anno passato restano soltanto il play argentino Matias Ibarra e il ferrarese Mattia Soloperto, che viene nominato capitano.
I veri crack sono i due americani: l’ala grande Laurence Bowers, già in doppia cifra in A1 a Capo d’Orlando, e la guardia Terrence Roderick, più di 20 punti di media ad Agropoli (A2) nella stagione precedente.
C’è la sensazione che si sia costruita una squadra con grandi potenzialità. La nuova stagione è alle porte e tutti, dopo le delusioni dell’anno passato, non vedono l’ora cominci.
Società e “Curva Nord” raggiungono nel frattempo un importante accordo sul fronte merchandising: saranno infatti gli stessi tifosi ad occuparsi della vendita di magliette, sciarpe, felpe e gadget vari. Un altro segno di una sinergia ritrovata.
Ferrara perde le prime due di campionato, a Forlì in volata (72-71) e con Chieti in casa (72-84). Ma la squadra ha soltanto bisogno di allenarsi il più possibile insieme, e i risultati infatti arrivano. Quattro vittorie consecutive. Roseto, Mantova, Virtus Bologna e Imola. Le ultime tre da “infarto”. A Mantova e con la Virtus dopo un overtime, a Imola grazie ad una tripla all’ultimo secondo. Poco importa la sconfitta nell’ultimo turno a Treviso, perché Ferrara, pur priva di Bowers infortunato e con Cortese e Pellegrino febbricitanti, ha saputo lottare fino all’ultimo e tener testa ai veneti. E adesso due sfide sentitissime entrambe al PalaHiltonPharma. La Ferrara del basket è tornata.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La luce impropria della top ten scolastica

In concomitanza con la stagione degli open day per tutti gli istituti superiori impegnati a conquistarsi l’iscrizione dei tredicenni giunti al momento di dover scegliere dove e come proseguire gli studi, la stampa nazionale ha dato grande rilievo agli esiti della ricerca condotta dalla Fondazione Agnelli sui migliori licei, istituti tecnici e professionali delle città capoluogo di regione.
Il cliché è dei più tradizionali, d’altra parte questo è il sistema formativo nel nostro paese, per cui da un lato ci sono i licei senza altro sbocco che l’università, dall’altro gli istituti tecnici e professionali che possono aprire le porte del mondo del lavoro.
L’indagine, pubblicata come servizio alle famiglie e agli studenti dal portale Eduscopio della Fondazione Agnelli, riporta la classifica dei migliori licei valutati sulla base del numero di allievi che, concluse le superiori, si iscrivono all’università, unitamente al numero di esami sostenuti e ai risultati ottenuti. Per i tecnici e professionali la valutazione è compiuta sul numero di alunni che trovano lavoro ad un anno dall’esame di stato.
È possibile, vista l’incertezza del futuro dei nostri giovani per i tempi che corrono, che le famiglie prendano per buoni i dati offerti dalla Fondazione Agnelli e che si avvii la corsa all’istituto che pare dare garanzie migliori.
Anche il nostro paese si adegua alle mode d’oltre oceano dove fiorisco i siti delle Champion schools, ma un dubbio però resta e cioè se è proprio la scelta di questo o di quel liceo a fare la differenza.
Ad occhio e croce l’indagine della Fondazione Agnelli non ci dice nulla di quello che già non sapessimo e cioè che i licei più degli istituti tecnici e professionali aprono le porte dell’università, che gli istituti alberghieri più di altri offrono l’opportunità di trovare lavoro, mentre gli istituti per geometri e ragionieri, figure professionali in via di estinzione, non garantiscono più un’uscita sul mercato del lavoro.
Ma la cosa che di questa indagine più inquieta, e che meriterebbe forse una presa di posizione da parte del ministro dell’istruzione, è suggerire l’idea che esistano scuole di serie A e scuole di serie B se non addirittura di serie Z. L’idea di un sistema formativo a macchie di leopardo, per cui tutti paghiamo le tasse ma non è sicuro che la scuola che sceglieremo per nostro figlio o figlia darà le stesse garanzie di riuscita che a detta della ricerca della Fondazione Agnelli darebbero gli istituti scolastici al top della sua classifica.
Sarebbe stato più utile che la ricerca della Fondazione Agnelli ci dicesse che cosa fa la differenza tra le scuole campione individuate e le altre, cosa fa di questi licei, istituti tecnici e professionali delle scuole migliori.
Perché il sospetto è che queste scuole ben poco incidano come ascensore sociale, che siano scuole d’élite, che confermino i vantaggi di chi già parte avvantaggiato. Più che scuole campione sembrano scuole copione della condizione sociale della loro utenza. È sufficiente prendersi il tempo per visitare i siti web dei licei in testa alla classifica della Fondazione Agnelli per rendersi conto che poco differiscono dai portali delle scuole superiori che di questa classifica non fanno parte.
A meno che non si ritenga che “Accendere la domanda, la curiosità, l’apertura al reale, destare nei giovani il desiderio di conoscere: tutto ciò appare, oggi più che mai, il presupposto fondamentale per un cammino educativo credibile” come riporta il portale del liceo scientifico Sacro Cuore di Milano, al vertice della classifica della Fondazione Agnelli, sia di per sé un programma sufficiente a garantire la qualità della scuola e il successo dei suoi studenti.
L’impressione è che a fare la differenza non siano le scuole ma le persone e le condizioni di partenza. L’impegno di ragazze e ragazzi oltre ai loro contesti di vita. La questione di una scuola in grado di recuperare gli svantaggi, di rimediare alle differenze di status sociale, alle iniquità di partenza resta tutta aperta nel nostro paese
Non a caso diminuiscono le iscrizioni all’università di quanti escono dagli istituti tecnici e professionali. Non a caso queste scuole vengono scelte da chi oltre allo svantaggio per condizione sociale ha accumulato svantaggi nello studio che la scuola non è riuscita a colmare.
Del resto dietro la paludata classifica della Fondazione Agnelli il nostro paese resta in Europa quello con il minor numero di laureati, con la più alta percentuale di giovani neet, non impegnati nello studio, nella formazione e nel lavoro, per non dire che il nostro paese si distingue in Europa per la maggior percentuale di adolescenti che non amano la scuola.
Allora ai giovani che in uscita dalla terza media si trovano di fronte alla scelta del percorso di studi da intraprendere non c’è consiglio migliore da suggerire che scegliere ciò che a loro più piace, perché non c’è motivazione più forte per riuscire nella vita.

Il Pirellone compie sessant’anni

È il 1956, sessant’anni fà, esattamente il 12 luglio quando viene posta la prima pietra del grattacielo Pirelli: per tutti il Pirellone. Con i suoi 127 metri di altezza per 31 piani è l`edificio più alto dell’Unione europea fino al 1966, anno di costruzione della Tour du Midi di Bruxelles.
Il simbolo del riscatto di Milano, o meglio di una Nazione intera, dopo il devastante evento della Seconda Guerra Mondiale e l`inizio di una vera rinascita economica e sociale: il “boom economico” che caratterizzerà per almeno i vent` anni successivi la vita e le abitudini degli italiani.
Il grattacielo viene costruito tra il 1956 e il 1961 sui terreni degli stabilimenti Pirelli affossati dai bombardamenti. Il progettista incaricato è il milanese Giovanni Ponti detto Giὸ, che dirige anche tutte le fasi costruttive, con la collaborazione di altri importanti progettisti Giuseppe Valtolina, Pier Luigi Nervi, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, Giuseppe Rinardi e Egidio Dell’Orto, e per l`ambito strutturale i consulenti Pier Luigi Nervi, Arturo Danusso, Piero Locatelli e Guglielmo Meardi.
E` uno degli edifici in calcestruzzo armato più alti al mondo.
La costruzione terminerà nel 1961.

Ma perché un cristallo? Giὸ Ponti ricorre al rivestimento in vetro e alluminio della stuttura in calcetruzzo armato. Scrive nel 1941 “ ..l`architettura è come un cristallo, è metafora per inseguire una immagine di purezza, di ordine , di slancio e di immobilità, di perennità, di silenzio e di canto (di incanto) nello stesso tempo: di forme chiuse, dove tutto fosse consumato nel rigore dei volume e d`un pensiero”.
Giὸ Ponti interpreta in Italia quel movimento architettonico (anche speculativo) che spinge le architetture in altezza secondo i canoni architettonici espressi dall’International Style. I caposcuola sono oltreoceano: Mies van der Rohe dopo vari falliti tentativi di costruire grattacieli nella Germania del terzo Reich completa nel 1958 il Seagram Building, capolavoro in acciaio e vetro a New York, preceduto da un altro simbolo di New York il Lever House dello studio d’architettura statunitense Skidmore, Owings and Merrill del 1952; di William van Allen il fantasioso Chrysler building del 1938 ed ancora l`Empire state building o il Rockfeller Center sempre a New York degli anni 30 del XX secolo solo per citarne alcuni, preceduti dal “goticheggiante” Woolworth building del 1913 di Cass Gilbert ancora a New York.
Le vetrazioni utilizzate sono innovative e rivoluzionarie considerato che siamo negli anni Cinquanta; per la prima volta questa tecnologia raggiunge l`Italia dall`America. Le vetrate sono funzionali al tema termico, acustico, alla riduzione dei consumi, sono sostenibili e migliorano in modo incomparabile il comfort interno.
Si tratta di una vetrata isolante del tipo Thermopane: due lastre di cristallo (vetro) di spessore 6 mm prodotte dalla società belga UniverGlav, saldate fra loro perimetralmente da un giunto metallico quale distanziatore formante una intercapedine con aria disidratata di 15 mm; le parti a copertura dei solai portano un solo vetro esterno e un materiale isolante retrostante fissato all`interno di un vassoio metallico.
Una assoluta novità per l`Italia che fa immediatamente scuola; infatti di li a poco anche la torre Galfa, innalzata a fianco, utilizzerà la stessa tecnologia di rivestimento vetrario.

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Un’immagine dell’incidente

Il 18 aprile 2002 però un piccolo aereo da turismo pilotato dall’italo-svizzero Luigi Fasulo si schiantò contro il 26º piano del palazzo causando due vittime, dipendenti della Regione, oltre allo stesso pilota. Iniziὸ immediatamente il lungo lavoro di ricerca dei materiali per riparare la ferita e soprattutto del vetro di rivestimento per un intervento di restauro conservativo unico nel suo genere in Italia e che avrebbe avuto da un lato la necessità di mantenere il più possibile la presenza cromatica storica e dall`altro di adeguare il fabbricato alle nuove normative di sicurezza ed energetiche nazionali ed europee in vigore.
Un lungo e attento processo di selezione dei materiali e il lavoro di smontaggio recupero e rimontaggio dei componenti metallici delle pareti esterne originali (salvo la ricostruzione delle parti distrutte dall`impatto aereo) ha consentito ai determinati sostenitori del restauro conservativo di prevalere nell`aver mantenuto sostanzialmente inalterato l`aspetto di questo gigante verso chi avrebbe voluto al contrario un restyling totale della torre. Le operazioni dopo circa due anni di intenso impegno di maestranze, progettisti, esperti del restauro hanno riconsegnato nel rispetto del progetto originario un`opera di ingegneria ardita, un unicum, un simbolo insostituibile, un omaggio dovuto a Giὸ Ponti famoso nel mondo dai milanesi e dall`Italia intera.

“Noi pompieri del barcone dell’orrore”
L’inchiesta di Luca Cari sull’immigrazione vince il premio ‘Franco Giustolisi 2016’

La seconda edizione del premio “Franco Giustolisi- Giustizia e verità- ed. 2016” vede vincitore il giornalista Luca Cari e la sua inchiesta “Noi pompieri del barcone dell’orrore”.

di Diego Stellino

Roberto Montanari si presenta come un vecchio giornalista in cui non crede più in nulla, ma viene smentito dalla sua carica di presidente onorario di un premio dedicato a Franco Giustolisi.
il premio, dedicato alla ricerca e alla riconoscimento del lavoro di giornalisti “con la schiena dritta” e, come più volte ha citato lo stesso Presidente Pietro Grasso “senza padroni ne padrini”, è alla seconda edizione.
La prima si è svolta a Sant’Anna di Stazzema, la seconda, sabato 19 novembre, a Marzabotto, luogo simbolo dei crimini di guerra perpetrati sul territorio italiano durante la seconda guerra mondiale. Un tema caro a Franco Giustolisi che con il suo “L’armadio della Vergogna” portò alla luce tutti quelli fascicoli legati alle stragi del “dopo 8 settembre”, per decenni rimasti archiviati in un armadio con “le ante ben appoggiate al muro”

Il premio “Premio Franco Giustolisi ‘Giustizia e verità’ – edizione 2016” va ad un emozionato Luca Cari con l’inchiesta “Noi pompieri del barcone dell’orrore” che vuole condividere il premio con tutto lo staff dei Vigili del Fuoco che, insieme a lui, hanno partecipato a quegli eventi e hanno potuto raccontare ciò che era realmente accaduto a quei migranti in fondo al mare.

Gaetano Pecoraro, delle Iene, non si è lasciato sfuggire l’occasione di rinnovare la richiesta dell’impegno dello Stato al Presidente Grasso quando gli è stato conferito il premio speciale “Franco Giustolisi – Fuori dall’Armadio” per il suo “La strage di Militari che lo Stato non vuole vedere, in cui viene raccontato il dramma dei soldati ammalatisi a seguito del contatto con munizioni armate con uranio impoverito.

Ad Andrea Greco, di Repubblica, e Giuseppe Oddo, del Sole 24 Ore, il premio della sezione editoria “Lo Stato parallelo” per la loro imponente inchiesta sull’Eni.

Premiati anche Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo per l’impegno dedicato alla pubblicazione di un’inchiesta a settimana su argomenti di attualità e di cronaca ed in particolare per l’inchiesta sulle moschee italiane alla ricerca di fondi.

Angelo De Luca che, con il reportage “Nera la Notte”, ha regalato a tutti la concretezza della possibilità che anche da una piccola emittente in una area remota del nostro Paese, può emergere e concretizzarsi il lavoro di chi lo fa con passione, dedizione e capacità.

Grandi presenze sono state quelle di Lucia Goracci e Bernardo Valli che hanno contribuito con i loro interventi a dire che il mestiere di giornalista non è (e non deve) essere banale, non è per tutti, sicuramente faticoso per quanto illuminante e in qualche modo “missionario”.

L’EVENTO
“Cinque Pagine Bianche”: cultura, passione ed economia in musical

Talvolta possono stare assieme anche cose tra loro lontane come la cultura, la passione e l’economia, soprattutto se legate tra loro da uno spirito di volontariato sociale. E’ successo per una bella iniziativa che vorrei raccontare. Per semplificare potrei dire che si tratta di un musical dal titolo “Cinque pagine bianche” che verrà proposto al Teatro Nuovo giovedì 24 alle 21, se non fosse che il regista è Demetrio Pedace (direttore di banca) e che le persone che hanno collaborato con lui sono tutti volontari di grande professionalità e che l’incasso verrà interamente destinato al miglioramento della sede dell’associazione Ferrara Off.

La storia è attuale e toccante. L’iniziativa di grande valore umano. Preferisco incuriosirvi utilizzando le parole di Demetrio e ci vediamo a teatro: “Mattia….che tutti chiamano “Gelo” è un tipo alla “Brad Pitt, Jude Law, Cesare Cremonini, Stefano Accorsi…” non è tanto una questione di bellezza (certo che è bello, e lo sa…), quanto di faccia “da sberle”. Se una ragazza va con uno del genere, sa fin da subito (o dovrebbe sapere…) che i guai presto o tardi arriveranno… Lalla…. è una straordinaria ballerina: dolce, solare, bella, brillante. E intelligente: in condizioni normali uno come Gelo nemmeno lo prende in considerazione. In condizioni normali però…. Ma siccome non sempre siamo “normali”, può benissimo accadere anche ad una “sveglia” come lei di aver voglia di avventura, e di lasciarsi avvicinare da un “poco di buono” come Gelo.

E può succedere allora che una sera, in un locale, i due si conoscano, si attraggano e lascino “correre” la passione, con tutto ciò che – inevitabilmente – ne deriverà… Eh si, perché Gelo è e resta uno da cui era meglio stare alla larga, e Lalla dovrà affrontare le conseguenze dell’aver conosciuto un poco di buono… “Cinque Pagine Bianche” si è dovuto anche confrontare con il tema dei soprusi, degli amori sbagliati, complicati, ed allora ci siamo chiesti: cose ce ne facciamo di un tipo come Gelo? Facciamo come ad Hollywood, in cui l’eroina lo “attende” finchè lui si “redime”? Tempo proprio di no… Forse perché abbiamo figlie piccole che crescono, ci piaceva di più un altro messaggio: Lalla è abbastanza forte da superare tutto, Lalla “Non ha paura”. Lalla ha una sorella maggiore, Michela, ballerina come lei che la aiuta (altro messaggio che ci piaceva: occorre una rete di affetti “forti”: sorelle, madri, amiche, non importa, per affrontare questo genere di guai, perché da sole forse diventa troppo difficile) Ci piaceva che, piano piano, Lalla (anche grazie a sua sorella) capisse che in realtà un grande amore non può mai nascere sulla prevaricazione. E se il desiderio di riprovare, di perdonare, di ricominciare insidia i pensieri di Lalla, è perché il cuore ci inganna e spesso altera i ricordi, facendoci ricordare solo ciò che più gli pare e piace. Dopo di che basta. E’ e resta un musical, e quindi lo spazio e l’attenzione del pubblico dovranno andare ai ballerini, alle scenografie e – in sintesi – alla magia che vorremmo creare.

Se tutto andrà come speriamo, il pubblico uscirà dal teatro con gli occhi ancora pieni di balletti e di immagini, le orecchie piene di buona musica, il tutto tenuto insieme da una trama d’amore che ha sì un lieto fine, ma un po’ meno scontato del solito.”

LA RIFLESSIONE
Bassani cala il sipario.
Il ‘Convegnone’ tra grandi nomi e ingombranti assenze

Allora. Si chiude il sipario o lo si alza? Alla fine del tunnel cosa troveremo? Che senso hanno avuto queste celebrazioni?
Domande legittime e forse banali. Scontri e incontri. Il superfluo additus al necessario o viceversa?
Il cosiddetto ‘Convegnone’: “Giorgio Bassani 1916-2016” si è svolto dall’11 al 19 novembre tra Roma e Ferrara e ha rappresentato il più concreto ed esaustivo contributo alle celebrazioni indette dal Mibact per il centenario della nascita dell’illustre scrittore. E basterebbe vedere i loghi che appaiono nella locandina e nel programma: del Comitato Nazionale per le celebrazioni; del Ministero; della Fondazione Giorgio Bassani; del Centro Studi Bassaniani, del Comune di Ferrara, dell’Università La Sapienza di Roma e di Ferrara; di Italia Nostra; del Centro sperimentale di cinematografia; di RAI cultura. Si è voluto cioè intervenire con contributi scientifici, didattici e sociali alla ri-costruzione e alla rivisitazione della poliedrica personalità di Giorgio Bassani scrittore, docente, sceneggiatore, saggista, e non ultimo, fondatore di Italia Nostra.

L’anno bassaniano si è svolto nei luoghi disparati e ha attraversato l’oceano e l’emisfero: dall’Australia, alle Americhe, dai luoghi consacrati della cultura europea fino a raggiungere isole culturali dove il nome dello scrittore è diventato il simbolo di un incontro con una cultura italiana non sempre conosciuta o mal interpretata.
Il Convegnone ha avuto una splendida anticipazione nell’appuntamento a Firenze diretto da Anna Dolfi, emerita studiosa di Bassani, sul ruolo degli scrittori/intellettuali ebrei e il dovere della testimonianza di cui abbiamo riferito in un articolo apparso in questo giornale il 15 novembre (leggi qui). La figura di Bassani si presentava dunque non solo nel suo ruolo di testimone-interprete, ma preludeva nella sua indubbia poliedricità alle sezioni che si sarebbero svolte tra Roma e Ferrara. Così quella dedicata alla letteratura che ha occupato l’intera giornata romana di apertura doverosamente affrontava la prima e insostituibile sostanza dell’opera bassaniana, specie per indagare il primo degli interrogativi, quello che riguardava la riscrittura di ciò che è stata chiamata ‘l’opera-mondo’ di Bassani, “Il romanzo di Ferrara”. Raffaele Manica ne ha dato una convincente e complessa spiegazione. Si è proseguiti il giorno dopo con l’analisi del rapporto di Bassani con il cinema e il teatro: una complessa operazione affidata all’esperta mano di Emiliano Monreale che ha saputo cogliere gli snodi più difficili dell’attività bassaniana legata al cinema. Torna al proposito alla mente l’omaggio che il circolo del tennis Marfisa di Ferrara rese allo scrittore con l’installazione di bacheche intorno ai campi di terra rossa da cui, nella storia, fu allontanato lo scrittore-tennista in cui si citano i luoghi più importanti in cui Bassani scrisse del tennis nelle sue opere e la magica notte di giugno in cui sulle pareti dei palazzi che circondano il complesso della palazzina di Marfisa furono proiettati in contemporanea “Il giardino dei Finzi-Contini”, “La lunga notte del ’43”, “Gli occhiali d’oro”.

La parte romana del Convegnone si conclude con la sezione “Bassani in redazione”, in cui si passano in rassegna i rapporti con gli scrittori che più furono vicini allo scrittore: Sereni, Bertolucci, Gadda, Soldati, Fortini e coloro che vennero descritti nella prima opera pubblicata da Bassani, “Una città di pianura”, pubblicata a causa delle leggi razziali con lo pseudonimo di Giacomo Marchi: Claudio Varese e Giuseppe Dessì, due sardi diventati ferraresi.
L’arrivo del Convegnone a Ferrara infittisce le attività di contorno: una mostra a Casa Ariosto di Eric Finzi sul tema del “Ritorno al Giardino”; l’esposizione finalmente resa pubblica del manoscritto del “Giardino dei Finzi-Contini” alla Biblioteca Ariostea nei giorni del Convegno e presentata dunque alla cittadinanza legittima ‘proprietaria’ delle preziose carte, dopo che furono esibite pochi giorni fa per la visita del presidente Mattarella in Israele, quando fu presentato il progetto del Meis ferrarese. Una mostra a palazzo Turchi di Bagno su “I libri di Giorgio Bassani” e infine l’apertura straordinaria del Centro Studi Bassaniani in attesa della prossima, e si spera, imminente apertura definitiva della Casa Minerbi Dal Sale con le sue importantissime istituzioni.
Il Convegnone prosegue poi con la sezione “I libri di Giorgio Bassani” al termine della quale sono stati proclamati i due vincitori del Premio Roberto Nissim Haggiag, l’uno studioso di filologia, l’altro di problemi ambientali.

Il giovedì 17 finalmente la presentazione ufficiale alla città della donazione del manoscritto del romanzo. Tra comprensibili ritardi dovuti all’apertura degli ascensori (non tutti son giovinetti, compreso chi scrive, per affrontare a passo di carica lo scalone elicoidale dove gli Estensi salivano naturalmente a cavallo), tra alcuni incontri-scontri e finalmente l’apertura fatta dal sindaco che doveva ben presto lasciarci per salire su Italo, il treno veloce che fermerà a Ferrara e i cui dirigenti l’aspettavano in Camera di Commercio. Notevoli le belle parole del presidente del Meis, Dario Disegni, quindi Ferigo Foscari racconta della donazione del manoscritto, di come la nonna Teresa l’aveva a lui affidato per farne poi l’uso che credeva meglio dopo la sua morte e la decisione presa con i famigliari di donarlo al Comune di Ferrara. Ricordavo poi al padre, l’architetto Tonci Foscari, come i legami con Ferrara fossero già da tempo attivi con la sua famiglia, possedendo lui il bellissimo quadro di Hayez della ferrarese famiglia di Leopoldo Cicognara, l’amico di Canova, e il busto sempre di Canova. Le relazioni della mattinata sono state di altissimo livello critico e tutte ruotanti sui problemi filologici storici e cinematografici che il romanzo esige e che ora potranno essere in parte risolti con la possibilità di consultazione del manoscritto.
Al pomeriggio, la sezione è dedicata ai problemi di traduzione e di edizione dei testi bassaniani in altre lingue e paesi.
Il giorno successivo la complessità dei temi ha reso la giornata indimenticabile. Nella prima parte è stata affrontato il difficile problema dei rapporti tra “Bassani e l’arte” (nume tutelare il mai dimenticato rapporto con un ‘vero Maestro’ come suona un celebre saggio di Bassani dedicato a Roberto Longhi). In apertura una testimonianza della figlia Paola Bassani, poi gli interventi che hanno avuto il vertice nella splendida testimonianza-riflessione di Andrea Emiliani; degni di nota anche gli interventi di Riccardo Donati, Stefano Marson, Andrea Baravelli e immodestamente anche di chi scrive queste note.
Mentre per uno strano fenomeno che ancora non mi riesco a spiegare la sala stentava a riempirsi per l’avvenimento clou della giornata, quella che avrebbe visto la partecipazione di alcuni famosissimi esponenti del Gruppo ’63 e quella dello scrittore ferrarese per eccellenza e molto amato dalla città, Roberto Pazzi, dialogante con il presidente del Comitato celebrativo, il professor Giulio Ferroni, mi accorgevo che né un fotografo né un rappresentante della tv locale erano presenti. Solo alcuni eroici giornalisti delle testate locali. Naturalmente nessun rappresentante delle istituzioni o dei giovani che studiano queste cose. Ai miei tempi forse sarei corso per vedere che faccia avevano e che cosa avrebbero detto monumenti culturali quali Fausto Curi o Renato Barilli.
Ma Ferrara come si sa è città dalle cento meraviglie anche in negativo e spesso sa diventare ‘Ferara, stazione di Ferara’. Comunque i numerosi presenti hanno reso il dovuto riconoscimento ai relatori.

Tutto questo può essere ripetuto per il momento forse più atteso del Convegnone “Bassani e l’impegno civile” organizzato dalla sezione ferrarese di Italia Nostra. Due straordinarie conferenze: quella di Piero Craveri, nipote di Benedetto Croce, che ha illustrato le ragioni e il contesto da cui nascerà Italia Nostra e il rapporto d’amicizia che legava sua madre Elena Croce Craveri allo scrittore Bassani; e quella di Andrea Emiliani sulla funzione e il senso della difesa del paesaggio e del ruolo delle istituzioni premesse alla difesa e alla cultura dell’ambiente. Entrambe sono state intervallate dagli scritti di Bassani sull’impegno civile letti in maniera egregia da Alberto Rossatti.
Un raggiungimento dei fini che ci eravamo proposti veramente alto. Peccato per le assenze. Ma anche queste testimoniano i segni del tempo.

Nella mattinata di sabato anche la proclamazione del Premio Bassani, già alla sua quarta edizione, che ha laureato illustri e ora famosi giornalisti, vinto dal bravissimo Paolo Conti del Corriere della Sera e con i due premi della Giuria dati a Roberto Saviano e a Radio Radicale.

Premio della Giuria a Roberto Saviano
Nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita di Giorgio Bassani, che tra i primi, come fondatore e presidente di Italia Nostra, ha posto come scopo essenziale dell’Associazione quello di difendere il valore culturale e etico del paesaggio, la Giuria  riconosce all’unanimità una analoga finalità di intenti a Roberto Saviano, eroe moderno capace di battersi, in una situazione difficilissima, per i valori e i diritti della legalità, a cui è  indissolubilmente connessa la protezione dell’ambiente e del paesaggio.

Menzione Speciale alla trasmissione “Fatto in Italia”, di Radio Radicale
La Giuria intende all’unanimità sottolineare la costante presenza e attività di Radio Radicale a sostegno delle battaglie di Italia Nostra per la difesa del patrimonio culturale e del paesaggio, in particolare l’azione incisiva di divulgazione del programmma radiofonico “Fatto in Italia”.

Premio nazionale “Giorgio Bassani” di Italia Nostra
La Giuria riconosce all’unanimità all’editorialista del “Corriere della Sera” Paolo Conti una attenzione costante e puntuale alle battaglie di Italia Nostra. Seguendo l’insegnamento di Cederna, Paolo Conti è diventato nei decenni un cronista attento, “un inviato speciale nei Beni Culturali”, e un acuto commentatore militante dell’impegno mai troppo perseguito del salvataggio del nostro patrimonio culturale e paesaggistico.

LA MOSTRA
“Le muse quietanti” di Flavia Franceschini

Prendere persone, metterle in posa davanti a una scenografia, scattare una foto-ritratto. E’ quello che si faceva una volta quando non c’erano i selfie, ma soprattutto quando la macchina fotografica era qualcosa di ingombrante, costoso, da manovrare con perizia da parte di un addetto ai lavori. Adesso che le foto impazzano ovunque e vengono scattate un po’ da chiunque, è interessante rimettere in scena la cerimonia della fotografia. Se poi gli amici e i parenti sono persone conosciute, il risultato è una carrellata di personaggi che non può non suscitare curiosità. L’idea è alla base della nuova mostra intitolata “Le muse quietanti” con le immagini scattate da Flavia Franceschini e allestita tra la casa-galleria Mlb di corso Ercole I d’Este e gli spazi dell’hotel Annunziata che si affaccia sul cannone davanti al castello in piazza della Repubblica.

Maria Livia Brunelli con Flavia e Dario Franceschini all'inaugurazione della mostra "Le muse quietanti"
Maria Livia Brunelli con Flavia e Dario Franceschini all’inaugurazione della mostra “Le muse quietanti”

A ideare la rassegna espositiva è Maria Livia Brunelli, gallerista ferrarese che dell’arte ha fatto uno stile di vita e che nella sua casa-galleria di corso Ercole d’Este da anni propone esposizioni di artisti contemporanei che con la città di Ferrara hanno un legame. La connessione può consistere nel fatto che l’artista a Ferrara ci è nato o ci vive ma, soprattutto, di solito sta nel fatto che su indicazione di Maria Livia l’artista prescelto lavora di volta in volta attorno a qualche elemento ferrarese per trasformarlo nel filo conduttore di un insieme di opere. Può essere una presa di possesso dei luoghi fisici della città, come è successo con le installazioni di animali a grandezza naturale di Stefano Bombardieri esposti per strade e piazze tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Oppure può essere un’elaborazione personale attorno alle opere in mostra in quel momento a palazzo dei Diamanti, come è successo con lo scultore e video artista Maurizio Camerani che nel 2014 ha ripreso con il suo segno a matita dettagli ricorrenti nell’opera di Henri Matisse, o Mustafa Sabbagh che sempre nel 2014 dal maestro fauve è partito per rimetterne in scena le figure nella sue fotografie di segno opposto, con posizioni e gesti paralleli a quelli dei quadri ma resi con la crudezza fotografica dei suoi colori scarni, quasi monocromi.

Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini ritratti da Flavia Franceschini per la mostra "Le muse quietanti"
Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini ritratti da Flavia Franceschini per la mostra “Le muse quietanti”

Adesso è la volta di Flavia Franceschini, scultrice, ma più in generale artista con una particolare propensione per una visione teatrale e ludica della creatività. Presenza attenta in quasi tutte le iniziative culturali della città – che siano artistiche, musicali e letterarie – Flavia fa dell’arte un mezzo di espressione continuo che sembra rendere più sognante e interessante tutto ciò che la circonda.

Ecco allora il titolo “Le muse quietanti” che – come dichiara lei stessa – è stato scelto dal fratello scrittore e ministro dei beni culturali, Dario Franceschini. Una parafrasi che riprende il nome di uno dei capolavori più noti di Giorgio de Chirico, quelle “Muse inquietanti” composte dai manichini in posa proprio nella piazza di Ferrara davanti al castello estense, simulacri di un’umanità immersa in un silenzio minaccioso e circondata da quel senso di vuoto opprimente che ritorna un po’ in tutti i dipinti metafisici.

Con le opere fotografiche di Flavia Franceschini l’inquietudine si dissolve e lascia spazio – appunto – alla quiete celeste del cielo di un fondale scenografico. Davanti a quelle nuvole dipinte si alternano in posa il giovane regista Massimo Alì Mohammed con la fidanzata scultrice Elisa Leonini, il gallerista Paolo Volta in sella con la moglie sulla moto enorme che si è voluto portare appresso nello studio, il disegnatore Claudio Gualandi con la consorte grafica Linda Mazzoni. Un’altra serie di immagini è scattata davanti a un pannello dove Flavia stessa ha dipinto uno scaffale pieno di libri, che fa da sfondo ai ritratti di chi sente di rappresentare la propria identità con la scrittura: il fratello Dario Franceschini con la moglie consigliera romana del Pd Michela De Biase, la giovane giornalista Anja Rossi e, in un altro scatto, il collega di penna Andrea Musacci. Particolarmente riuscita l’immagine della figlia di Flavia, Aurora Bollettinari, ritratta in un abito che sembra uscito dal dipinto della “Signora in rosa” di Giovanni Boldini accanto al fidanzato, l’artista romano Pietro Moretti con basco da pittore. Divertimento e coinvolgimento evidente, infine, nel ritratto che vede la stessa Maria Livia Brunelli in posa con abiti d’epoca e l’immancabile cappellino insieme con il marito Fabrizio Casetti e la bambina Lucrezia in tutù rosa in piedi sulla sedia per potere reggere l’ombrello di pizzo sopra la famiglia. Per una carrellata completa non resta che visitare la mostra

“Le muse quietanti” di Flavia Franceschini a Ferrara fino al 5 febbraio 2017 nelle due sedi: MLB home gallery, corso Ercole I° d’Este 3 (dalle 15 alle 19) e Art gallery dell’hotel Annunziata, piazza della Repubblica 5 (dalle 10 alle 24)

Flavia Franceschini davanti al ritratto della figlia Aurora con Pietro Moretti per la mostra su "Le muse quietanti" (foto Giorgia Mazzotti)
Flavia davanti al ritratto della figlia Aurora e Pietro Moretti (foto Giorgia Mazzotti)
“La signora in rosa” di Giovanni Boldini, olio su tela 1916 (Gallerie civiche di arte moderna di Ferrara)
Pietro Moretti con la musicista Laura Trapani
Lucrezia con i genitori Fabrizio Casetti e Maria Livia Brunelli (foto Flavia Franceschini)

 

IN PRIMA LINEA
Quando la guerra ti guarda negli occhi

di Diego Stellino

L’inatteso colpisce, deve colpire, sempre di più di ogni previsione di incontro. Questo accade quando la ‘guardia si abbassa’ e quello che è l’ordinario ti proietta invece tra le fauci della realtà. Tutte quelle barriere che si creano, spesso involontariamente, se non inconsciamente, quando veniamo travolti dalle notizie dalle ‘zone calde’ della terra, ci portano alla compassione da spettatore assuefatto, abituato alla ‘prossima notizia’, alla storia vera accanto alla fiction di stagione che potrebbe anche trattare dello stesso tema, se non, comunque, quasi certamente di violenza.

Qui siamo semplicemente ai margini di una di quelle zone, è il confine turco-siriano, nella città di Kilis. Questa foto non è niente di speciale: una donna, vestita con burqa, insieme alla figlia di qualche anno; è stata scattata al termine del viaggio in autobus tra Kirikhan e Kilis, una bella stazione degli autobus.
Il viaggio è stato fatto su un piccolo pulmino da una quindicina di posti, io ero quello con la valigia più grande (lo zaino con l’attrezzatura foto e un cambio), non c’erano fermate: si rallenta quando si vede una persona ferma al margine della strada e con un cenno si capisce se serve il passaggio o meno.

La ragazza è in difficoltà: deve chiamare qualcuno a casa, ma non ha modo (non so se per mancanza di credito o del telefono stesso). I ragazzi che ho appena conosciuto notano la situazione, parlano un po’ con lei e le offrono il loro telefono. Poi Ali mi guarda e mi spiega con grande semplicità che la ragazza è sola, sta cercando di raggiungere a Gaziantep la sua famiglia con la figlia: viene da Aleppo, suo marito è morto in un bombardamento dieci giorni fa.

L’accompagnano al prossimo pulmino per l’ultima tratta del suo viaggio per tornare dai suoi genitori, che, non è scontato, la accolgono nuovamente tra di loro.

Eccola qui la guerra, davanti a me: fotografata “in pace” e prima di sapere che davanti avessi proprio lei.

Tradizionale o sperimentale? Giorgio Bassani ieri, oggi, domani

Si dice spesso che un classico, in letteratura come in altri compi dell’arte, è veramente tale solo se mantiene un’attualità al di là del passare del tempo, solo se è in grado di continuare a dialogare con le generazioni che si susseguono, trasmettendo lo stesso messaggio a tutti oppure permettendo a ciascuno di trovare sempre un diverso punto in comune con la storia e i personaggi narrati. Ecco perché uno degli incontri della cinque giornate “Giorgio Bassani 1916-2016” è stato dedicato a “Bassani ieri, oggi, domani”.

bassani-ieri-oggi-domani

Organizzata da Portia Prebys per il Centro Studi Bassaniani e coordinata dal professor Gianni Venturi, la tavola rotonda è tornata su una querelle letteraria che a suo tempo suscitò diverse polemiche e che oppose il Gruppo ’63 a Giorgio Bassani, definito una “Liala degli anni Sessanta”, insieme a lui altri ‘mostri sacri’ come Cassola e Pratolini. Perché celebrare un autore significa anche dare spazio a chi lo critica, per mantenere vivo il dibattito sulle sue opere e far sì che continuino a essere lette.
La polemica letteraria Neoavanguardia contro Bassani potrebbe sembrare materia da salotti letterari, se non fosse che alcuni membri del Gruppo 63 diventeranno fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento: Alberto Arbasino, Luciano Anceschi, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti, Luigi Malerba, Umberto Eco, sono solo alcuni nomi.
Insieme a Venturi, venerdì sera nella Sala dei Comuni del Castello Estense c’erano Giulio Ferroni, critico letterario e storico della letteratura italiano, Alberto Bertoni, docente bolognese di letteratura italiana contemporanea, Roberto Pazzi, unico scrittore al tavolo dei relatori, ma soprattutto due esponenti di quel Gruppo ’63 che fece così scalpore: Fausto Curi e Renato Barilli, due pilastri dell’Alma Mater Studiorum.

Quella definizione sprezzante, “Liala degli anni Sessanta”, spiacque non poco a Bassani che replicò prontamente e per le rime: “I più presi di mira siamo noi, gli scrittori della generazione di mezzo, noi che siamo usciti dalla Resistenza conservandone la tensione morale e l’impegno politico. Quelli che ci attaccano sono le anime belle della letteratura (…) Che si possa incontrarli qui a Roma nei caffè di piazza del Popolo, o in qualche ristorantuccio di via della Croce o di piazza Sforza Cesarini, tutti aggiornati anche fisicamente, nel taglio dei capelli e delle barbe, nelle giacche e nelle brache di velluto, nei camiciotti a quadrettoni, tutti così “artisti, così “irresponsabili”, così innocuamente “arrabbiati” o gelidi, comunque sempre chic, non aiuta davvero a chiarire l’enigma sulla loro reale identità (…) Il mio parere è che dei letterati della neoavanguardia si potrà cominciare a occuparsi soltanto quando avranno prodotto qualcosa di oggettivamente accettabile”.
Quando si dice che può ferire più la penna che la spada…

A cinquant’anni di distanza Curi e Barilli non sembrano retrocedere dalle loro posizioni. C’è però un elemento nuovo: “Quella frase su Liala noi non l’abbiamo mai pronunciata. Ciò che ci era proprio era l’accusa, non l’offesa”, afferma Renato Barilli, che subito dopo puntualizza: “quello che abbiamo fatto è bocciare questi autori, non abbiamo dato loro la sufficienza”. In fondo, ironizza lo storico della letteratura e dell’arte, “eravamo professorini” o meglio, come diceva lo stesso Umberto Eco, “un’avanguardia da vagone letto”.
“Non eravamo nati sotto un cavolo, avevamo dei padri, anzi di alcuni eravamo molto orgogliosi e non abbiamo nascosto queste paternità”, ha detto Curi, prima fra tutte quella di Anceschi, che nel 1956 aveva fondato quella rivista “Il Verri” che divenne l’incubatrice del Gruppo. “Noi sapevamo di venire da altri, non abbiamo mai pensato di creare una letteratura nuova: abbiamo cercato di mettere a frutto sollecitazioni e insegnamenti in modo nuovo, elaborando ipotesi, idee perché credevamo che l’arte avesse bisogno di nuova linfa”, ha continuato Curi.
“Avevamo dei padri, ma non erano loro”, gli fa eco Barilli riferendosi a Bassani e Cassola: “questi autori venivano dagli anni Trenta e non andavano bene per la nuova Italia del Boom economico, non corrispondevano più alle esigenze dei tempi, questa narrativa non ci soddisfava perché era datata e tardiva, per quella sua volontà di essere corretta e scorrevole, noi volevamo una prosa ruvida, che seguisse i meandri di una società in divenire”.
Giulio Ferroni non pensa affatto che un’opera d’arte, o meglio l’arte in generale, debba essere in linea con le strutture storiche, sociali ed economiche del suo tempo, anzi la grandezza di uno scrittore come Bassani sta proprio nel suo essere “contro la storia”, nel “guardare indietro perché le contraddizioni del passato non continuino a pesare sul presente”. Non è certo un caso, sottolinea Ferroni, che si debba proprio alla sua consulenza per Feltrinelli la pubblicazione del “romanzo anti-storico” “Il Gattopardo”.

Lungi dall’essere “tradizionale e calligrafico”, per Alberto Bertoni Bassani è un “narratore sperimentale” che con il “Romanzo di Ferrara” ha composto “una delle poche opere-mondo del Novecento”: vi si descrive “una città altra” con “una narrazione polifonica e un punto di vista collettivo”. Secondo il “bassaniano” Bertoni, come lui stesso si è definito, la sperimentalità dello scrittore ferrarese è nella capacità di usare “il discorso indiretto libero in un libro che sia leggibile ai più e non per specialisti”.
Ultima parola a Roberto Pazzi, l’unico relatore che esercita la scrittura creativa e non la critica: “Non è facile scrivere rimanendo a Ferrara con l’ombra di Bassani che costringe sempre al confronto”, ha confessato l’autore. Quello che, a suo parere, ne fa un grande autore è “la religione della laica parola: ho sempre sentito in Bassani il culto della parola poetica che salva la vita del nulla”. “La morte è il tema di Bassani”, ha concluso Pazzi, e “Il Giardino dei Finzi Contini è la tomba di parole per chi non ne ha avuta una di pietra, noi passiamo mentre le parole scritte restano”.

Bassani, il Premio Haggiag alla fatica dello scrivere

“Faccio, cancello, rifaccio ancora. All’infinito”. E’ così che Giorgio Bassani descrive il suo modo di scrivere, la fatica e la ricerca delle parole nelle sue opere. A settant’anni di distanza anagrafica e centinaia di chilometri dalla città di Ferrara, che è al centro di un po’ tutta la sua scrittura, arrivano qui le elaborazioni di due giovani studiosi sul lavoro che c’è dietro a tanta capacità narrativa dell’autore de “Il Giardino dei Finzi Contini”. E’ stato infatti assegnato in questi giorni il premio Robert Nissim Haggiag per il “migliore Essay su Giorgio Bassani”. Arrivato alla terza edizione, il riconoscimento per il 2016 è attribuito a pari merito a due neo laureati. Palermitana lei, Luana Comparetto, nata nel 1986, e barese lui, Angelo Alessandro Tartarelli, nato nel 1989, gli autori degli studi che si sono divisi onore e ricompensa in denaro di tremila euro.

Angelo Tartarelli, Mirella Haggiag, Paola Bassani, Giulio Ferroni e Luana Comparetto (foto Giorgia Mazzotti)
Angelo Tartarelli, Mirella Haggiag, Paola Bassani, Giulio Ferroni e Luana Comparetto (foto Giorgia Mazzotti)

A ospitare l’assegnazione della terza edizione del premio internazionale è stata (giovedì 17 novembre 2016) la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea nell’ambito delle iniziative messe in campo dal Comitato nazionale per il centenario della nascita. Un ciclo di iniziative su “Giorgio Bassani 1916-2016” con mostre, convegni e proiezioni cinematografiche, partite a Roma il 14 e 15 novembre per proseguire a Ferrara da martedì 15 a sabato 19 novembre 2016.

Cos’è che ha portato questi ragazzi sulle pagine bassaniane? “In casa – racconta Angelo Alessandro Tartarelli – mia madre aveva “Gli occhiali d’oro” e dalla passione per quel romanzo sono partito, incoraggiato poi dal fatto di avere un professore alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Bari che è Vito Santoro, studioso ed esperto della sua opera”. Il risultato è stata la tesi su “Giorgio Bassani ambientalista” dedicata al lavoro fatto dallo scrittore per Italia Nostra (di cui fu presidente dal 1965 al 1980) e culminato nella pubblicazione del volume “Italia da salvare” (2005) che mette insieme i suoi scritti dedicati al patrimonio artistico e naturalistico.

Attratta dall’ossessione per la perfezione stilistica, invece, Luana Comparetto, che per la tesi della laurea magistrale in filologia moderna all’Università di Palermo si è dedicata ad analizzare “l’iter redazionale molto tormentato, fatto di dubbi, correzioni, ripensamenti” di uno dei romanzi meno noti dello scrittore, che è “Dietro la porta”. Il titolo parte dalla descrizione che Bassani fa del suo approccio alla scrittura: “’Faccio, cancello, rifaccio ancora. All’infinito’. Giorgio Bassani artigiano dello stile” e va a cercare queste modifiche, limature, riscritture attraverso le tre edizioni del libro, pubblicato nel 1964, 1974 fino alla riedizione del 1980. Il suo sogno, ora, sarebbe quello di potere studiare il manoscritto o le bozze originali del libro, che però – al momento – non sono reperibili.

A consegnare la busta con motivazioni e premio è Mirella Petteni Haggiag, vedova di Roberto Nissim Haggiag insieme con il presidente del Comitato nazionale per il centenario Giulio FerroniPaola Bassani, presidente della Fondazione Giorgio Bassani. E’ la figlia del romanziere che spiega: “Roberto Nissim Haggiag è stato un grande produttore cinematografico e un profondo conoscitore e amante della letteratura di mio padre. Con il premio a lui intitolato e grazie alla generosità di Mirella Haggiag, vogliamo riportare all’attenzione delle giovani generazioni, e non solo, la cura stilistica e l’impegno civile di Giorgio Bassani attraverso le interazioni tra l’opera letteraria e il mondo circostante, riconoscendo il valore dei lavori critici più originali legati alla sua figura e alla sua opera, e realizzati da giovani studiosi meritevoli”. A sua volta Mirella Haggiag ricorda: “Dieci anni fa Susanna Agnelli mi ha portata nella Fondazione e da allora mi sono adoperata per onorare e mantenere viva la memoria di Bassani. Mio marito Roberto aveva deciso di istituire questo Premio a favore dei giovani, perché era convinto che dare un giusto riconoscimento a chi è ancora all’inizio valga molto di più che osannare chi si è già affermato. Oggi anche grazie al supporto del Museo dell’ebraismo di Ferrara (Meis) e all’attenzione del Ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, festeggiamo un momento positivo e gioioso, perché siamo finalmente in grado di dare a questo appuntamento una cadenza annuale. Del resto, Giorgio Bassani se lo merita: Ferrara gli deve molta della propria notorietà internazionale”.

La poesia,”ricerca della bellezza”
Il percorso lirico di Massimo Scrignòli nel volume Regesto 1979-2009

di Eleonora Rossi

“La poesia è un’esigenza. Si sente dentro – risponde senza esitare Massimo Scrignòli -. Credo che la poesia sia prima di tutto un discorso con se stessi, un gesto: tracciare sulla carta un segno e continuare a lavorare sulla parola. Digitata sul computer, quella parola non avrebbe lo stesso esito: sulla carta invece, anche se la si corregge, o la si riscrive, lascia la sua traccia indelebile”. Ho tra le mani un volume raffinato, la copertina ruvida, essenziale, nuda: un confine liquido taglia il colore della terra e della sabbia, della luce e dell’ombra. L’immagine è l’elaborazione di un’opera d’arte, “Posizione”, di Nina Nasilli, nome al quale è riservato “un ringraziamento particolare” nel colophon che suggella una pubblicazione di pregio, rilegata “con la cura di mani femminili”.

Il titolo è “Regesto”, seguito da due date, 1979-2009: un registro, una raccolta ordinata senza omettere alcun dato. L’autore è Massimo Scrignòli: la sua è considerata una delle voci più significative nel panorama della poesia contemporanea. Bolognese di adozione, classe 1953, l’autore vive in provincia di Ferrara, sulle rive del Grande Fiume. Presente in numerose pubblicazioni antologiche e didattiche in Italia e all’estero, sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, portoghese, croato. Ha partecipato ad autorevoli festival internazionali di poesia e letteratura; nel 2006 e nel 2009 ha rappresentato l’Italia all’International Poetry Festival di Zagabria. “Regesto raccoglie (ricollocandole cronologicamente, in un percorso organico lungo un trentennio), le poesie pubblicate in volume dal 1979 al 2009”, spiega l’autore nel preludio al volume. Nove libri “da tempo esauriti o non reperibili”, a cui si unisce la pubblicazione di “Lieve a portare”, “un quaderno di traduzione che prende il titolo da una poesia di René Char”; qui un verso di Eliot, “nel mio principio è la mia fine”, sembra porgerci la sintesi di questo “progetto d’insieme”. Poesie allineate sulla striscia del tempo, un segmento morbido i cui estremi finiscono per toccarsi, alfa e omega, in un disegno circolare. Si legge nel risvolto di copertina: “c’è un filo sottile che, nell’andamento poematico, lega tra loro i diversi libri e le trasposizioni poetiche disvelando l’ostinata e virile interrogazione di una voce che segue il movimento del pensiero, ordinando via via un sostanziale ‘dizionario di sensi’ e di accadimenti…”.

Mi accosto con riverenza a questa pubblicazione: basta sfogliare l’apparato critico per scorgere, tra i prefatori o postfatori delle singole raccolte, firme del calibro di Giovanni Raboni, Geno Pampaloni, Roberto Sanesi, Silvio Ramat, Vincenzo Guarracino, Alberto Bertoni. E non appena ci si addentra nella sapienza e nella bellezza e della poesia di Scrignòli, si percepisce come questo libro rappresenti un capitolo considerevole della storia della lirica italiana. Regesto è stato presentato l’11 novembre 2016 al circolo letterario “Il Patio dei Poeti” a Bondeno. Lo sto leggendo da alcuni giorni, ma continuerò a leggerlo, senza fretta, per sentirne l’eco e le onde emotive, perché l’intensità di questa poesia merita un silenzio rispettoso, e certamente più di una rilettura. L’autore mi suggerisce, con un sorriso, di “prenderlo a piccole dosi”. Ne parliamo con lui.

“Regesto”. Può introdurci al significato di quest’opera?
Ho raccolto in questa pubblicazione i testi integrali dei miei libri composti nell’arco di trenta anni, dal mio esordio “Notiziario Tendenzioso”, nel 1979, con la prefazione di Giovanni Raboni a “Vista sull’Angelo”, del 2009, silloge che io considero la chiusura di un ideale percorso. Non si tratta di un’antologia, ma di un “progetto d’insieme”. Come ho scritto nel volume, il percorso temporale in cui si ritrovano insieme i dieci titoli che compongono questo “regesto” coincide oggettivamente con la presa d’atto della conclusione di un “ciclo”, una sorta di involontario e non previsto unicum che (comunque) si compie nelle pagine finali di “Vista sull’Angelo”. E nella successiva rivelazione. Un segno che è inciso sulla pagina e nel tempo; forse a voler riunire, ancora una volta, “fine e inizio”.

Dal 2009 non ha più scritto poesie?
All’ultima silloge è seguito un momento di silenzio, di non scrittura. Per questo lo considero un punto fermo, di compimento di un percorso. Ora scrivo qualcosa di diverso. È come se fosse iniziato un nuovo tratto di strada per me. In generale ho sempre scritto poche parole, perché tendo a selezionare, a ‘buttare via’ molto, correggo e ricorreggo, compio un lavoro personale molto intenso sulla parola. Inoltre credo sia importante lasciar decantare un testo, distaccarsene. Rileggerlo a distanza di tempo.

È fondamentale dunque per lei il labor limae?
Personalmente credo molto nello studio e nella ricerca intorno alla parola, nella sua riscrittura. La parola deve diventare inattaccabile, resistere al tempo. La lingua della creatività è un gesto di responsabilità immensa, essa diviene oggetto di confronto e di dialogo. Per scrivere serve la coscienza di aver compiuto un atto di perfezione, di ricerca della bellezza. C’è qualcosa che sollecita l’urgenza di scrivere, poi interviene un accurato lavoro di limatura. Potrebbe anche accadere che il testo sfugga all’intenzionalità di chi scrive. Conosco autori brillanti che scrivono di getto, senza correggere le intuizioni originali. Io personalmente condivido l’osservazione di Alfredo Giuliani: credo che “i sentimenti debbano passare attraverso la tecnica”. Anche se la poesia oggi è abitata dal verso libero, non vuol dire che non debba avere ‘meccanismi’. Perché la poesia non s’improvvisa. Scrivere poesia è una fatica estenuante.

Quando ha iniziato a scrivere?
Negli Anni Settanta, nel periodo della Neoavanguardia. In un’epoca in cui non si scriveva in maniera così disastrata come accade oggi. Ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare alcuni dei più importanti critici e poeti italiani del secondo Novecento.

Quali incontri hanno lasciato il segno?
Sicuramente l’incontro con Giovanni Raboni, al quale sono riconoscente per la prefazione alla mia prima silloge del 1979. Devo molto a Edoardo Sanguineti e a Roberto Sanesi, un poeta, un traduttore, ma soprattutto un amico. Inoltre, a testimonianza di una costante attività letteraria e culturale, anche come “compagno di viaggio” di artisti contemporanei, vi sono prestigiose edizioni d’arte in cui miei testi vengono affiancati da opere di pittori di fama internazionale come Baj, Benati, Pozzati, Bonalumi.

Che cosa rappresenta la poesia per lei?
È l’urgenza di esprimere alcune ‘cose’ che devono essere pronunciate. Ciò che vale davvero è la parola scritta: tutto – lo stupore, la meraviglia – accade tra il testo poetico e il lettore.

Perché scrivere poesia oggi? Perché leggerla?
C’è tantissima scrittura in versi oggi. La poesia stenta a farsi notare, a fronte di una produzione vasta: è tempo di fare selezione, ma forse manca una certa critica che possa garantire punti di riferimento. Tutti sono disorientati e liberi di scrivere. Da un lato la libertà offre un respiro, dall’altro crea confusione. Nel libro l’autore dovrebbe creare una sorta di laboratorio personale, un approccio originale alla lingua. Leggere poesia risponde a un bisogno di aperture vere, di immagini e risonanze che ci rimangono dentro. È un’esigenza che andrebbe filtrata da un’umiltà verso se stessi.

Da molti anni lei svolge un’intensa attività nel campo dell’editoria, curando e coordinando collane di poesia, critica letteraria, filosofia, in cui sono stati pubblicati, tra gli altri, scritti di Leopardi, Poggioli, Sanesi, Crovi, Porta, e in cui hanno visto la luce anche nuove traduzioni di Auerbach, Eliot, Tagore, Yeats, Bauchau, Flaminien, Char; sue sono la versione e l’introduzione critica di Relazione per un’accademia e altri racconti di Franz Kafka (1997). È un lavoro complesso, che richiede una motivazione profonda. Secondo le statistiche, gli italiani leggono sempre meno, soprattutto i libri di poesia. Qual è la sua sensazione?
È un paradosso tipico italiano: tutti credono di poter ‘fare poesia’, ma quasi nessuno legge o compra libri di poeti. Bisognerebbe ritornare a leggere, non è scontato ripeterlo. Inoltre in campo editoriale sono venuti a mancare i ‘grossi editori’, quelli che potevano permettersi di pubblicare poesia perfino “in perdita”. Quelle case editrici rappresentavano un marchio, una garanzia: se un autore veniva selezionato per la Collana Bianca Einaudi, significava che c’era un fondamento di verità nella sua parola. La piccola editoria deve operare scelte: serve una passione profonda per fare questo lavoro, oggi sempre più complesso. Un piccolo editore non ha l’impostazione né la disponibilità del mecenate, ma ha la necessità di coprire le spese, di tenere in piedi una ‘bottega’; ogni piccolo editore deve fare i conti con il fatto che non si guadagna con la poesia. Ma è fondamentale a questo punto fare una distinzione tra ‘stampare’ – è molto diffuso oggi il self publishing – e il ‘pubblicare’, che sottintende una progettualità, un dialogo tra persone diverse, una rilettura approfondita di quanto si è scritto. Questa è ancora la scommessa della piccola, seria editoria.

Nonostante le perplessità, condivisibili, mi sembra di avvertire comunque una fiducia, un legame viscerale con la poesia…
Il linguaggio poetico sta prevalendo su tutti gli altri linguaggi. Basti pensare al rapporto con la conoscenza, con la filosofia, come affermava Heidegger. Il linguaggio della filosofia, da solo, mostra un limite: non riesce a spiegare quello che si può unicamente sentire. Lì comincia la poesia, che non si nutre solo di parole, ma di musica e di silenzio. Di vita. Se c’è un’ultima parola, è quella della poesia. “Tutto questo ha valore solamente se accade/ là dove la parola non si spegne”, scrive Scrignòli in un componimento di “Vista sull’Angelo”. Bisogna ascoltare a questo punto la potenza di alcuni suoi versi, nella lirica che chiude questa nona raccolta: “Il vento adesso è il confine/ illude in avanti i giorni/ li risveglia in altre case/. Da mille anni l’albero delle pagode/ osserva l’Angelo seduto nel silenzio/ abbracciato alle ginocchia, arenato/ nel segreto delle sue ali. Ma quali sono i limiti di un segreto?/ Né ombra né inverno. Forse soltanto/ l’alfabeto infedele perduto/ a nord, un soffio antico/ dolce trasumanar della vista/ su questa terribile felicità”.

L’ultimo verso si chiude con un ossimoro sublime, “terribile felicità”. Queste parole, coltivate come rose, accarezzate come creature, sono un esempio di quello che Scrignòli ha definito “un atto di perfezione, di ricerca della bellezza”. “Il dolore invecchia presto/ ma non muore/ e poi tutto ciò che è terribile/ è una fonte del sublime”. Versi cesellati come “ordire intrighi/ di sabbia” brillano di luce propria in un universo poetico nel quale ci si può specchiare: “Adesso però dimmi di Penelope, racconta/ delle parole che crescono dal pavimento / al cielo, dimmi di una tela sfibrata/ che salpa sul canto di un tordo verso il mare./ Si ripiega ma non si arrende, si rialza/ e distende al sole le tinte della memoria./ (…)

C’è vera differenza fra attesa e abbandono?”. Ne sono assaggio ulteriore i quattro versi scelti per chiudere Regesto, che appaiono due volte nel volume. Parole assolute, chiodi che si piantano nel bianco della pagina:

“Non c’è morte. Soltanto
un cambiamento di mondi.

Ogni perduta occasione
è un peccato commesso”

ECOLOGICAMENTE
Accordo Anci-Conai sulla raccolta differenziata

da Rifiutilab del 02/11/2016

È stato presentato lo scorso 24 ottobre a Roma il VI Rapporto Banca Dati Anci-Conai su raccolta differenziata e riciclo dei rifiuti. Dal rapporto emerge una costante crescita della percentuale di raccolta differenziata con nove Regioni italiane hanno raggiunto, con ben 5 anni di anticipo, l’obiettivo UE del 50% di avvio a riciclo fissato per il 2020. Permangono differenze sulle percentuali tra nord e sud anche se, rispetto agli anni scorsi, in queste aree migliora la raccolta differenziata. Al crescere della quantità di rifiuti differenziati raccolta non cresce la qualità dei materiali conferiti sinonimo di costante necessità di informazione ai cittadini. Dal rapporto in sintesi emerge che:
• 3.549 Comuni hanno già superato l’obiettivo della Direttiva Europea in aumento del 13% rispetto al 2014 e del 58,29% rispetto al 2013;
• lieve aumento (+0,78%) della produzione dei rifiuti urbani nel 2015, 512 kg per abitante;
• percentuale di raccolta differenziata (+3,32%) che cresce più velocemente rispetto a quella di avvio al riciclo (+1,77%), differenza dovuta alla qualità dei materiali raccolti;
• Le Regioni che nel 2015 hanno già superato la percentuale del 50% di materiali avviati a riciclo sono Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Sardegna e la “new entry” Valle D’Aosta; la Campania, la Toscana e l’Abruzzo sono invece prossime al raggiungimento dell’obiettivo;
• L’intercettazione pro capite di raccolta differenziata segna un +7,90% con 253 kg per abitante, sia pur con grandi differenze fra Regione e Regione: si passa dai 357 kg della Liguria ai 54,81 della Sicilia;
• Grazie all’incremento delle quantità di rifiuti avviati al riciclo, si sono evitate emissioni di CO2 equivalenti pari a 1.792.064 tonnellate, un dato in aumento del 32,75%;
• un aumento della quantità dei materiali conferiti ai Consorzi del Conai e reimmesso nei cicli produttivi, ma anche un leggero peggioramento della qualità dei materiali raccolti sinonimo di costante necessità di informazione ai cittadini.
Il rapporto completo è disponibile al seguente link: http://www.conai.org/notizie/presentazione-del-vi-rapporto-anci-conai

Referendum, l’affondo di Dibba:
“Se vince il sì, al Senato solo lecchini o delinquenti”

di Lorenzo Bissi

È giunto anche a Ferrara il ‘treNo’, che sta percorrendo tutta Italia carico di grillini, ma il loro rappresentate dov’è?
Beppe Grillo non ha mostrato il suo volto a Ferrara in piazza Trento Trieste ieri pomeriggio alle 5, ma i suoi portavoce sì.
Il tour #IoDicoNo del Movimento Cinque Stelle è arrivato anche nella nostra piazza come una delle tappe incluse fra le 47 prestabilite (una per ogni articolo della Costituzione modificato dalla “schiforma”).

Nonostante il freddo e l’umidità, i cittadini hanno riempito il Listone e gli esponenti e parlamentari pentastellati hanno espresso a gran voce le loro motivazioni per il ‘no’ alla riforma proposta da Renzi, e magari per convincere gli indecisi passanti della loro opinione.
Paola Taverna, Alessandro di Battista, Roberto Fico, Riccardo Nuti, Vittorio Ferraresi, Matteo Dall’Osso, Roberta Lombardi e molti altri, provenienti da tutte le parti d’Italia, accomunati dalla voglia di spiegare i motivi per cui esprimersi contrari alla riforma costituzionale parlando direttamente alle persone, sono saliti sul palco e hanno trasmesso un messaggio di rabbia contro l’establishment, di voglia di cambiamento, e più volte hanno ribadito che non ci deve essere alcuna differenza fra loro sul palco e tutti gli altri al di fuori di esso. “Al Senato ci andranno i leccac**o, cioè i fedelissimi alle direttive del partito, o i delinquenti, per avere l’immunità parlamentare e rimanere impuniti”: queste le pungenti parole di Di Battista al microfono. E continua fino a esaurire il fiato: “di più di girare le piazze noi non possiamo fare, ora tocca a voi votare no il 4 dicembre”.
C’è chi dal palco afferma con fervore che “Il 4 dicembre è Repubblica contro Monarchia”. E i pareri contro la riforma, e più ampiamente il Governo Renzi sicuramente non scarseggiano: la propaganda sulla riforma non ha niente a che fare con il testo in sé, ormai “siamo arrivati alla ‘Repubblica dei bonus’ dove, per tenere buoni i cittadini, si elargiscono 500€ qua, 500€ là”.

Foto di Chiara Argelli [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Eppure, forse può stupire, ma fra il pubblico c’è anche chi non è così convinto dal Movimento Cinque Stelle. Per esempio Mario, di diciotto anni, che voterà per la prima volta a dicembre, era già convinto di votare ‘no’: è d’accordo con i pentastellati sul nuovo Senato, ma trova che alle volte “abbiano una retorica da piazza, spiccia, che non approfondisce la materia del diritto”.
Anche Laura ed Ester sono in piazza già convinte del loro ‘no’, ma vogliono rafforzare le loro posizioni e trovare nuovi argomenti. La prima appoggia il Movimento, la seconda dice di amare la “sua Costituzione”, e di non trovare motivo di cambiarla.
Infine, fra il pubblico c’è anche chi è indeciso, come Francesco, che è venuto ad ascoltare il comizio per avere un’informazione più diretta: “trovo che i Cinque Stelle possano sembrare un po’ troppo sempliciotti e un po’ troppo contrari alle posizioni politiche a cui siamo abituati, però secondo me possono fare bene. Sinceramente avevo più fiducia in loro tempo fa. Sono l’unica alternativa nuova che ci rimane”, sottolinea.

Di certo il movimento di Grillo non ha convinto tutti, e tutti coloro che voteranno ‘no’ non sono stati per forza convinti da loro, ma la censura della parola ‘sì’ durante il comizio, e le dichiarazioni fatte – “Il no vincerà” – mostrano la speranza che anima i pentastellati, che anche questa volta non si sono tirati indietro e hanno preso una forte posizione sul futuro del nostro Paese.

giorgio-bassani

Bassani, quelle indicibili ferite che iniziano a guarire…

In questi giorni mi trovavo a Firenze per prendere parte al grande convegno organizzato dall’amica Anna Dolfi, tappa importante delle celebrazioni bassaniane. Il titolo era: “Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. Per Giorgio Bassani, “Di la dal cuore””. La tre giorni fiorentina si è svolta nei palazzi prestigiosi della città toscana: il Rettorato di Piazza San Marco, Palazzo Medici-Riccardi, Palazzo Strozzi. Ogni giornata comprendeva 16 relazioni di quaranta minuti l’una con una scansione calibratissima tra interventi di critici notissimi e di giovanissimi studiosi. Talmente fitto il programma da non lasciare spazio né al classico ‘lavarsi le mani’, né alle pause caffè, anche se non di proporzioni simili alle uscite dei lavoratori di certe istituzioni pubbliche. Eppure i ragazzi non mollavano: accampati per terra se le sedie erano finite o ammucchiati negli angoli dove attenti non si concedevano i doverosi bisbigli concessi alla loro età ma di cui invece approfittavano i maturi relatori. E proprio nella Sala Ferri di Palazzo Strozzi, la mitica sala di tanti convegni, dove ancora il ricordo indugiava sulla presentazione che feci di Andrea Camilleri che proprio in quell’occasione rivelò il suo netto distinguo da Berlusconi al potere, mi accingevo a parlare con un nodo alla gola poiché sapevo dalla televisione che da poche ore Donald Trump era stato eletto presidente degli Usa.
E allora decisi di non seguire la traccia della conferenza che tra pochi mesi sarà pubblicata negli atti, ma di portare una testimonianza, quella che comportava il ricordo di una conoscenza dell’ebraismo nata e scandita nel tempo e che mi portò alla comprensione di quel particolare strumento critico che è il dovere della testimonianza nella storia e per la storia: per quel che può valere la mia personale esperienza. Il giorno avanti un giovane studioso Dario Collini, che ringrazio per la generosa disponibilità del testo da lui studiato, citava una frase dal manoscritto di Otto ebrei , il celebre racconto di Giacomo Debenedetti, poi cancellata nell’edizione a stampa: “Quello che […] può addolorare [gli ebrei] nel profondo, è proprio questo: di rimanere un “caso” che graffia sottilmente, come una vellutata zampa di gatto, l’epitelio della ferita recente non del tutto rimarginata […]”.
La coincidenza con il titolo del saggio di Roberto Cotroneo che ha curato l’edizione dei Meridiani delle “Opere” di Bassani, La ferita indicibile salta dunque agli occhi. Ma perché, se questa è la condizione del testimone, i disguidi della storia hanno permesso che la rammentassi proprio nel giorno delle elezioni del più incomprensibile tra i probabili candidati al trono del mondo?
Quindi decisi che il mio intervento poteva e doveva diventare testimonianza da dedicare a chi per primo mi fece conoscere le fondamenta dell’ebraismo: Guido Fink. Con una serie di date:
1938 sono nato nell’anno delle leggi razziali da una famiglia assai numerosa che comprendeva tra gli zii materni, sei, due future medaglie d’oro, un potentissimo gerarca amico di Italo e di Lino Balbo e un altro, mai conosciuto, accoltellato nel 1924, lui fascista della prim’ora da un gruppo di comunisti. Alla fine della guerra ricordo il nonno che ci trascina al Cimitero per scalpellare dalla facciata della cappella di famiglia i fasci che troneggiavano sul timpano. I bombardamenti di Ferrara portano al fallimento l’attività edilizia del nonno e da una solida agiatezza piombiamo in una quasi miseria. La mamma s’impiega al consorzio canapa.
1948 Ci riuniamo nella casa di Guido Fink di fronte alla Sinagoga di via Mazzini. Guido è compagno di mio fratello e ha scritto una commedia che dovremmo recitare: una serie di cavalieri il cui status è rappresentato dalle mutande lunghe di fustagno dei nonni ed io il più piccolo e dalla voce ‘scirlenta’ ero naturalmente la principessa da conquistare con in testa una parrucca di lana blu che la mamma di Fink aveva confezionato da una matassa di lana. Dopo le prime battute siamo presi da un ‘fou rire’ e ci trasferiamo nella camera di Guido dove troneggiano meravigliosi giocattoli. Chiedo a Guido chi gli dava tali bellissimi doni. Mi risponde che era il suo papà. Alla richiesta di sapere dove si trovava un tale padre Guido risponde: “viaggia sempre”. Scendiamo le scale e mio fratello mi fa leggere dove si trovava il padre di Guido, il cui nome era scolpito nella lapide in via Mazzini accanto alla Sinagoga in cui erano ricordati tutti gli ebrei ferraresi che non sono tornati dai campi di concentramento.
E da quel momento nel mio immaginario il nome di Fink, legato a quello di Bassani che fu suo insegnante nella scuola ebraica di Via Vignatagliata quando le leggi razziali li espulsero da quelle pubbliche, si connette con quello di Claudio Varese che mi presta i libri dello scrittore ferrarese fino al 1962 quando, benché febbricitante, assisto alla presentazione del Giardino dei Finzi-Contini con la conseguente polemica sulla figura della ‘vera’ Micòl. Apprendo a distinguere tra diverse anime degli ebrei, alcuni legati a una specie di ferraresità che si fa rancore, altri invece che operano culturalmente nella città per portarla ad un ruolo culturale eccezionale. E basterebbe citare figure come Paolo Ravenna, Giuseppe Minerbi, Renzo Ida e Geri Bonfiglioli tra gli altri che operano nella piccolissima comunità ferrarese mai più ripresasi dopo la Shoah. La conoscenza diretta di Bassani avviene dopo il 1968 quando, ormai inserito nel mondo accademico fiorentino, partecipo alle lezioni che Claudio Varese organizza al Magistero di Firenze per presentare la figura dello scrittore il quale vanta una lunga e straordinaria conoscenza della città già dai tempi della guerra quando fuggito da Ferrara dopo il ’43 si reca con la famiglia a Firenze dove collabora con Carlo Ludovico Ragghianti alla nascita del Partito d’azione e svolge una importante azione resistenziale. Di lì a poco l’arrivo a Roma che diverrà la sua città fino alla morte.

I ferraresi a Firenze sono davvero decisivi per la vita culturale di quella città che ancora si presenta come il luogo determinante per la cultura del Novecento: da Lanfranco Caretti che detiene la cattedra di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere a quella di Claudio Varese che la occupa a Magistero. E i ferraresi che Bassani descrisse nel racconto Omaggio che apre il suo primo romanzo, Una città di pianura, apparso in “Letteratura” nel 1938 e pubblicato nel 1940 sotto lo pseudonimo Giacomo Marchi in parte si riuniscono nella casa di Varese. Sono Guido Fink e sua moglie Daniela, Lina Dessì, il poeta Rinaldi e ancora Giovannelli o Pinna i compagni di studio e di vita del giovanissimo Bassani a Ferrara. Nel frattempo la mia casa fiorentina per 25 anni diventa quella sui colli di Bellosguardo, dove incontro non solo i protagonisti della stagione dei cosiddetti anglo-beceri ma anche i personaggi legati alla vita dello scrittore ferrarese. L’architetto Berardi, tra i progettisti della stazione di Santa Maria Novella, che costruisce a Bassani la sua casa di Maratea e che gli offre nella sua casa di Fiesole un bune retiro, sposerà la figlia di Arnoldo Mondadori, Mimma, per cui tra le ragioni della pubblicazione finale del Romanzo di Ferrara presso Mondadori sta questa amicizia. A Firenze vivono anche i figli di Jenny Bassani Liscia, l’amata sorella dello scrittore, che s’imparenteranno con la mia vice-madre fiorentina. Frattanto a Ferrara nascono le occasioni di un doveroso e importante omaggio all’autore che ha reso celebre Ferrara. La laurea honoris causa in scienze naturali del 1992; il convegno “Bassani e Ferrara, le intermittenze del cuore”, curato da Alessandra Chiappini e da chi scrive queste note, tenuto l’anno successivo alla Biblioteca Ariostea, che voleva essere l’atto riparatorio che la biblioteca intendeva fare nei confronti dello scrittore allontanato nel 1938 dalla stessa biblioteca a causa delle leggi razziali.
In quegli anni Francesco Guzzinati invita il suo antico compagno di banco al Liceo Ariosto di Ferrara, Giorgio Bassani, a parlare al Rotary di Ferrara della sua vita liceale . Al Liceo Bassani ebbe come compagni di banco e Lanfranco Caretti e lo stesso Francesco Guzzinati, due persone che fino alla fine furono legati di amicizia ‘ferrarese’ con il grande scrittore.
Un’altra intermittenza del cuore è legata alla celebrazione nel 2002 presso la Sinagoga italiana di via Mazzini del quarantennale dell’edizione del Giardino dei Finzi-Contini. In quell’occasione la sorella Jenny racconta e spiega i ‘bocconi’ che si gustano alla cena della Pasqua ebraica ed Enrico Fink, figlio di Guido, ingegnere spaziale che ha scelto di dedicarsi al teatro canta la filastrocca rituale in dialetto ferrarese del Caprét ch’avea comperà il signor Padre.
Ora si stanno per aprire le grandi celebrazioni bassaniane che occuperanno un’intera settimana e si concluderanno con la proclamazione dell’importante premio Bassani voluto da Italia Nostra.

L’inizio dei lavori del Meis, la Fondazione Bassani, la donazione del manoscritto del Giardino dei Finzi-Contini, la ristrutturazione della meravigliosa casa Minerbi, luogo di riunione tra Bassani, Paolo Ravenna e il proprietario della casa Beppe Minerbi, a cui lo scrittore dedicherà la prima edizione de L’airone, che è diventata sede dell’Istituto di Studi Rinascimentali e del Centro studi bassaniani, voluto quest’ultimo dalla generosissima donazione che Portia Prebys ha fatto al Comune di Ferrara e dove si potrà studiare tutto ciò che è stato scritto di e su Giorgio Bassani. Questo è ciò che per ora la città protagonista del suo romanzo ha voluto dedicare al suo illustre figlio.
Ferrara sta per rimarginare la ferita indicibile.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La pedagogia del difficile

C’è sempre un occhio severo, un poco calvinista, pronto a dichiarare che difficile è meglio. Che difficile è più merito, è più formativo. È la pedagogia degli aggettivi che non si sa da che parte ripongano i loro significati, se non nella mente di chi li usa.
Io preferisco la pedagogia dei sostantivi e dei predicati. Tipo il sostantivo “studio” e il predicato “studiare”, cosa si studia e come si studia.
Quando si dice che lo studio e l’apprendimento devono essere difficili, cosa si intende? Si tratta di scegliere tra i vari aggettivi che fornisce il dizionario. Lo studio e l’apprendimento devono essere malagevoli, faticosi, incomodi, pericolosi, scabrosi, calamitosi (addirittura), indocili, intrattabili, angolosi, irritabili?
Vi rendete conto, se studiare ed apprendere comportassero tutti i sinonimi dell’aggettivo difficile, bisognerebbe apprestarsi come per affrontare una guerra.
Certo che facile è tutto un altro approccio. Facile ti viene incontro, facile si presta ad essere fatto, è agevole, pieghevole, trattabile, condiscendente, probabile, verosimile, dichiara il dizionario.
Allora studiare deve essere difficile? Perché rende virili nello studio, perché difficile è democratico e chi ha più virilità d’approccio potrà emergere sugli altri?
È l’idea che la fatica premia, con questa logica i facchini dovrebbero essere in cima alla scala della riuscita sociale.
Ma fatica intanto è un sostantivo e non un aggettivo come difficile. È sostanza e non qualità. Fatica è anche un predicato dello studio, quello serio, impegnativo per raggiungere un obbiettivo di apprendimento o una competenza. «Lo studio è fatica»: soggetto e predicato. È vero, non esistono scorciatoie per lo studio, stare ore sui libri, arrovellarsi per apprendere, per comprendere, per memorizzare, per progredire è davvero fatica. Fatica è patos, è partecipazione, è attendere con assiduità a qualcosa, è sforzo, è emozione. Ma cosa c’entra con tutto ciò il difficile, non è assolutamente detto che fatica significhi malagevole, scabroso, calamitoso.
C’è un bellissimo libro, forse un poco datato, ma ancora valido di Benjamin Bloom, di cui consiglierei la lettura o rilettura ai pedagogisti del difficile, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, in cui l’autore tratta delle variabili dell’apprendimento: motivazione, tempo, caratteristiche del compito, il “difficile” come si noterà non è considerato. L’esito di ogni apprendimento umano dipende dalla natura di queste tre variabili.
La pedagogia del difficile scarica minacciosamente e moralmente ogni responsabilità sul singolo soggetto, senza tenere conto di storie e contesti.
Le nostre scuole e le nostre università vivono di compromessi didattici al ribasso, per cui i pedagogisti del difficile morale e gratuito spersonalizzano ogni storia personale ed ogni contesto.
Ogni individuo non è solo un’isola ma una situazione, una somma di situazioni, una narrazione. Entrando a scuola o all’università non è possibile che ogni studente lasci fuori dalla porta la sua storia, come hanno sempre preteso i sistemi scolastici tradizionali, con le classi e le aule, ogni individuo è se stesso con le proprie variabili la cui natura dipende dalle storie personali e le variabili sono proprio quelle di Bloom: la motivazione a, l’interesse per il compito, il tempo necessario. Sono queste le armi che sconfiggono il difficile che lo svuotano di significato, sono queste le armi che fanno di uno studente non qualcuno che cerca scorciatoie o il voto facile, ma qualcuno che apprende ad apprendere perché motivato, perché coinvolto dal compito, perché disposto a impegnare tutto il suo tempo e anche di più.
È più facile che sia la scuola a tradire il tempo d’apprendimento dei suo studenti che viceversa, perché ancora indifferente alla forza rivoluzionaria delle motivazioni, del coinvolgimento, del suscitare interesse e passione, perché spesso la natura dei compiti è incomprensibile ed estranea alle aspettative dei suoi alunni, perché i tempi sono contingentati, sincopati dalla dittatura dei programmi e degli orari.
Il difficile non è rivoluzionario, perché accresce la zavorra di chi è già carico di suo del peso degli svantaggi sociali. Altra cosa è accogliere ed accompagnare, altra cosa è incontrare le storie nel viaggio verso i saperi.
Ma tutto questo è un terreno troppo “difficile” per scuola e università che preferiscono, anziché affrontare le proprie responsabilità, imboccare la scorciatoia della pedagogia del difficile o il disimpegno del facile.

A Ferrara grande successo per la cannabis
Oltre 1400 firme per la legalizzazione.

Da: Organizzatori

Cannabis: consegnate le firme per la legalizzazione alla Camera, oltre 1400 da Ferrara
La proposta di legge di iniziativa popolare ha raggiunto il quorum richiesto. Ora tocca al Parlamento.

Ieri Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni, promotori di Legalizziamo!, insieme alle altre organizzazioni che sostengono la campagna, hanno consegnato alla Camera dei deputati le oltre 60 mila firme raccolte in sei mesi sulla legge popolare per la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dell’uso personale di tutte le sostanze. Alle 11 si è formata un corteo in fila indiana, con gli scatoloni pieni di firme, dalla sede radicale di via di Torre Argentina in direzione Montecitorio, dove si è tenuta la conferenza stampa prima del deposito presso gli uffici della Camera. Erano presenti, tra gli altri, Riccardo Magi (segretario di Radicali Italiani), Marco Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni), Marco Perduca (coordinatore della campagna Legalizziamo), Filomena Gallo (segretario dell’Associazione Luca Coscioni), Antonella Soldo (presidente di Radicali Italiani), Luigi Manconi (Senatore del PD), Pippo Civati (Deputato e leader di Possibile), Hassan Bassi (Forum Droghe), Leonardo Fiorentini (FuoriLuogo e Società della Ragione), Andrea Trisciuoglio (La PiantiAmo), Luca Marola (coordinamento nazionale e portavoce growshop italiani).
Per Fiorentini, rappresentante anche del Comitato promotore locale ferrarese, “è stato un grande successo. Si tratta della più grande campagna antiproibizionista da quella del referendum del ‘93 sulla Jervolino–Vassalli. A Ferrara abbiamo raccolto oltre 1400 firme (1414 per l’esattezza) superando in scioltezza l’obiettivo iniziale delle 1000 firme. Vanno ringraziati tutti i volontari che da Ferrara a Roma hanno permesso di raccogliere le firme ai banchetti e poi ottenere i certificati elettorali per un procedimento democratico di partecipazione popolare imbrigliato da una inaccettabile, nel 2016, burocrazia.”
“La strada della regolamentazione legale della cannabis è la via maestra per la riforma delle politiche sulle droghe. – continua Fiorentini ricordando i recenti risultati dei referendum in USA – Una via intrapresa ormai con convinzione anche nella patria della War on Drugs, gli Stati Uniti d’America, dove questo martedì altri 4 stati (fra cui la California) hanno legalizzato la cannabis per gli adulti, mentre sono ormai più di 30 gli stati in cui è legale la marijuana terapeutica”.
“È evidente che anche il nostro paese, dove tuttora oltre il 50% dei reati per droga e delle operazioni di polizia è legato ai cannabinoidi, è maturo per arrivare alla regolamentazione legale di una sostanza molto meno dannosa di alcol e tabacco. Essa avrebbe solo effetti positivi. Sui consumi in primis, che sarebbero più sicuri e controllati, e nel medio-lungo termine tenderebbero a calare, come avvenuto ovunque si è proceduto a depenalizzazioni e legalizzazioni. Ma anche sul sistema della sicurezza e della giustizia ora appesantito da una mole incredibile di lavoro che impegna in una inutile repressione le forze dell’ordine (come recentemente ribadito dalla Direzione Nazionale Antimafia) e intasa i tribunali (quasi 200.000 i processi penali pendenti per fatti di droga). E oltre a liberare risorse utili a garantire veramente la sicurezza dei cittadini – invece che stanare coltivatori di qualche piantina di cannabis per uso personale – la regolamentazione legale della cannabis renderebbe disponibili nella casse dello Stato una enorme quantità di denaro – dai 5 ai 10 miliardi di euro – ora appannaggio della criminalità organizzata.”

Incontro sulla riforma costituzionale

Da: Gruppo Cittadini Economia Ferrara

Sabato 19 novembre alle 17, nella sala teatro del Centro di Promozione Sociale ‘Il Parco’ in via della Canapa 4, il Gruppo Cittadini Economia di Ferrara ha organizzato un incontro con l’avvocato Giuseppe Palma dal titolo ‘Riforma Costituzionale. Diciamo NO per cambiare!’.

Gli organizzatori hanno l’obiettivo di spiegare perché sia importante esprimersi per il NO ma che questo vada fatto con la consapevolezza che la nostra Costituzione è già stata ampiamente accantonata. E’ già stata messa in condizione di non tutelare il lavoro, la dignità del cittadino, il credito, lo sviluppo sociale, la tutela della sovranità, la nostra indipendenza dai mercati finanziari e dai grandi interessi di multinazionali e autorità sovranazionali. Quindi il messaggio è: un semplice NO non basta. Deve essere il NO di chi vuole un reale cambiamento e non la certificazione dell’impotenza della nostra Carta Costituzionale. Un NO che sia un No a quegli interessi che palesemente non sono gli interessi della gente. Un NO che ci faccia crescere come cittadini, un NO per il cambiamento reale, prima di tutto della nostra coscienza nei confronti delle Istituzioni. Un NO per cambiare.

Le Schede:

Il Gruppo Cittadini Economia di Ferrara è una libera associazione di cittadini impegnati sul territorio ferrarese a studiare e approfondire i temi dell’economia. Per comunicazioni e informazioni scrivere a gruppoeconomia.fe@gmail.com

L’Avv. Giuseppe Palma vive e lavora a Milano dove svolge la sua professione di avvocato, ha scritto diversi libri (ad oggi 19) tra cui ‘Il tradimento della Costituzione’ e ‘Figli destituenti’, vari articoli e papers non solo su argomenti giuridici e costituzionali e ha pubblicato un progetto di riforma del codice di procedura civile (Diritti & Diritti, 2014) e due papers, l’uno sull’incompatibilità tra la Costituzione e i Trattati dell’Unione Europea (Diritto e Diritti, 2015), l’altro sull’incompatibilità tra la Costituzione e l’eventuale costruzione degli ‘Stati Uniti d’Europa’ (Diritto Italiano, 2015). Scrive per il blog scenarieconomici.it e per le riviste Diritto & Diritti, Diritto Italiano, Diritto e Processo e Fanpage.it.

Un anno dopo al Bataclan
La testimonianza di Alexandra Dadier :” A Parigi vince la vita”

Se il 13 novembre 2015 a Parigi non fosse successo ciò che è tragicamente successo, non in così tante persone, in Italia, avrebbero conosciuto il nome del locale parigino “Bataclan”. A Parigi invece il Bataclan è un luogo di culto e generazioni di francesi sono cresciute ascoltando i concerti che lì si organizzano. Il 13 novembre dello scorso anno, a Parigi, era una serata mite, il clima dolce invogliava i parigini a stare fuori per bere un calice di vino, consumare una cena, guardare una partita di calcio o ascoltare della buona musica appunto. Era una bella serata, fino alle 21.20, ora in cui c’è stata la prima delle numerose esplosioni che avrebbero cambiato il corso della storia. Parigi è sotto assedio e la Francia in guerra: una serie di attacchi terroristici di matrice islamica vengono sferrati quasi in contemporanea da un commando armato collegato all’autoproclamato Stato Islamico, comunemente denominato ISIS.

Gli attacchi armati si concentrano nel I, X e XI arrondissement della capitale francese e allo Stade De France a Saint Denis e al Bataclan, appunto, dove centinaia di persone assistono al concerto della band californiana Eagles of Death Metal. E’ una strage, la fine dell’innocenza per una intera generazioni di giovani: 130 persone perdono la vita, quasi tutti avranno un conoscente, un amico, un parente colpito dalla strage. Alexandra Dadier, laureata in Storia a La Sorbonne, attrice e registra teatrale da oltre vent’anni, docente alla Universitè Paris Dauphine, ha vissuto dal 1997 al 2002 a Ferrara dove si occupava di regia teatrale. Alexandra era a Parigi il 13 Novembre e non potrà mai dimenticare: “Ero a casa mia, vicino all’Arco di Trionfo, in cucina, e poco dopo le 21 ho sentito passare un elicottero a bassa quota. Ho capito subito che fosse successo qualcosa di grave. Conosco il mio cielo e quell’elicottero era messaggero di tragedia. Poi ho acceso la tv e le immagini che ho visto mi hanno confermato che la mia sensazione era giusta, purtroppo. E’ stato uno shock, non posso definire in altro modo lo stato d’animo di quella notte. Insegno all’università e il mio pensiero è andato ai miei studenti e ai giovani come loro che so affollare le vie del centro per bere qualcosa e stare insieme. Il clima era stupendo, dovevano essere fuori di sicuro. Si sono salvati perché c’era così tanta gente che sono dovuti andare da un’altra parte. E’ stata questione di dieci minuti”.

Il Presidente Hollande parla in tv: la Francia è in guerra e le frontiere vengono chiuse. Dopo lo stadio e i ristoranti viene colpito il Bataclan ed è una strage. Persone ferite che si calano dalla finestra o escono zoppicando dalle porte di sicurezza in cerca di salvezza mentre dentro il locale il pubblico inerme di un concerto rock cade sotto i colpi di kalashnicov degli attentatori. “Il Bataclan è un posto mitico per noi parigini: un luogo dove assistere a magnifici concerti. Quante volte ci sono andata – ricorda Alexandra – E’ un posto con un’anima. Le immagini della strage mi sono rimaste dentro e sono rimasta chiusa in casa tutto il weekend pensando a cosa dire e come far parlare i miei studenti di ciò che era capitato. Il ritorno all’università il lunedì successivo alla strage è stato surreale: ci guardavamo, i loro volti erano spettrali, le espressioni tirate”. Il ritorno alla “normalità” è stato graduale: “Per mesi ho evitato i luoghi eccessivamente affollati e nel prendere la metro si faceva tanta attenzione: si osservava tutto, una borsa, un particolare fuori posto. In giro c’erano diverse forze armate ma non abbiamo mai avuto la sensazione di una città militarizzata. Il messaggio che si voleva dare ai cittadini era di normalità ma, di sicuro, dovevano esserci diversi poliziotti in borghese per non dare nell’occhio.

Poi la vita ha preso il sopravvento e siamo andati avanti, non potevamo fare diversamente”. Proprio oggi, simbolicamente, il Bataclan verrà riaperto al pubblico con un concerto di Sting. La scelta della data, ad un anno esatto dalla strage di Parigi, non è casuale; è la riprova che, a fronte della tragedia vissuta, il popolo francese vuole fronteggiare il terrore con la celebrazione della vita. Per la Dadier “I terroristi hanno voluto colpire i nostri valori fondanti: Egalité, Fraternité e Liberté. Prima Charlie Hebdo e la libertà di espressione, poi il Bataclan, i ristoranti, lo stadio: tutti i luoghi di socialità e divertimento. Poi c’è stata Nizza e siamo ripiombati nel terrore puro. Non ne siamo usciti, abbiamo pensato tutti. Mi trovavo a pochi chilometri da Nizza durante la strage. Un mio caro amico è stato coinvolto direttamente: è uno psicologo e si trovava lì, quando famiglie, anziani, donne e bambini venivano falcidiate sulla Promenade des Anglais. Ha prestato soccorso fornendo assistenza psicologica ai sopravvissuti”.

Ad un anno dalla vittoria della morte sulla vita, questa sera a Parigi si celebra la vita con la musica.

Da Venezia all’Apollo, il film con attori ferraresi

Da: Organizzatori

Mercoledì 16 novembre alle ore 21.15 presso la sala 1 del cinema multisala Apollo sarà proiettato il film La madre distratta del regista rodigino Ferdinando de Laurentis, tratto dall’omonimo libro di Nicoletta Canazza.

Un film prettamente ambientato nel Polesine, ma alcune riprese sono state girate a Vigarano Mainarda, che vede sia nel cast degli attori che nello staff a fianco del regista numerose figure ferraresi. Infatti i personaggi su cui si articola l’intera storia sono interpretati da due professionisti ferraresi che fanno del teatro e del cinema la loro passione:Rita Lovato e Paolo Garbini. Ferraresi sono anche Daniela Patroncini e Lea Maioli e le tante comparse tutte in egual modo importanti e altre persone che sono state dietro la macchina da presa o a fianco del regista come la segretaria di produzione Catia Pignatti, la costumista Daniela Campaci, il fotografo Fabio Possanza, Alessandro De Luigi e Francesco d’Avossa nel ruolo di operatori e assistenti alla regia e Erika Vincenzi make up and hair style.
Figuranti d’eccellenza in questo lungometraggio sono stati Iarin Munar (batterista degli Stadio), Sergio Ballo (scenografo vincitore di un David di Donatello e costumista per il serial I Borgia ), la senatrice Emanuela Munerato, il campione di pugilato Marcello Matano e l’attore-regista Giuliano Scaranello.

La madre distratta porta sul grande schermo un argomento di grande attualità come quello della maternità, ma una maternità vista ai tempi nostri, quando una donna può anche essere tanto distratta dal suo futuro, dalla sua carriera da perdere il senso della maternità, una donna che non si fa coinvolgere dai sentimentalismi delle altre mamme anche se amiche, che non si emoziona  davanti ai bambini, una donna consapevole delle difficoltà che il mondo attuale presenta a chi vuole essere madre, una donna che comunque prova ad accontentare il suo uomo e a non deludere le aspettative della famiglia, e alla fine però di un doloroso percorso fatto di medici, delusioni, frustrazioni, rinunce, scopre  quello che veramente vuole e riesce a scegliere per se stessa andando oltre le consuetudini della vita cosiddetta normale.
Domenica 4 settembre 2016 il film La madre distratta ha ricevuto all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia(spazio Regione del Veneto durante la 73esima Mostra del Cinema di Venezia) il ‘Premio Speciale della Critica’, un riconoscimento alla sua prima edizione, patrocinato dalla Ferrara Film Commission, che è stato consegnato al regista Ferdinando De Laurentis dal Presidente onorario della Ferrara Film Commission, il giornalista, critico e storico del cinema,Paolo Micalizzi. La motivazione della giuria di tecnici che ha avuto il compito di valutare quale opera fosse meritevole di rappresentare il territorio della provincia padana, è stata la seguente: ‘La madre distratta’ di Ferdinando De Laurentis è un film che ha la capacità di raccontare la provincia padana focalizzando l’attenzione su un tema di alto valore sociale, di particolare attualità – la procreazione assistita – ricreando le atmosfere del neorealismo degli arbori in piena tradizione cinematograficaitaliana, e ha inoltre il merito di citare Federico Fellini proponendo un’intervista inedita di Tonino Guerra realizzata dal regista De Laurentis nel 1989”.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=LJik7DrwShI
Evento facebook: https://www.facebook.com/events/520991874763181/

Per informazioni: info@ferrarafilmcommission.it
Tel. 349.3607852

LA RECENSIONE
Il Paradiso ai piedi delle madri

Può il linguaggio della danza essere così universale e interculturale da permettere a un uomo di interpretare il principio femminile e renderlo comprensibile al di là dei ruoli di genere nelle diverse società?
A questa domanda ha tentato di rispondere il coreografo e danzatore di origini tunisine Radhouane El Meddeb, che ha portato a Ferrara in prima nazionale e in esclusiva per l’Italia il suo “Sous leurs pieds, le paradis”, ultimo appuntamento del ciclo Focus Mediterraneo, dedicato dalla Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado ai linguaggi della danza di questo Mare Nostrum.

Già ospite della città estense nel 2012 con “Je danse et je vous en donne à bouffer”, pièce coreutica e gastronomica insieme, Radhouane El Meddeb in questo lavoro affronta il tema della donna, della maternità e della femminilità, partendo dallo statuto speciale assegnatole dalla tradizione profetica islamica, che pone “il Paradiso ai piedi delle madri”: perché l’uomo diventa padre semplicemente assecondando il proprio istinto, mentre la donna dà la vita rischiando la propria vita, con generosità nutre il corpo che cresce dentro di lei con il proprio corpo e poi assolve al proprio compito di cura con generosità e sacrificio.
Nell’incontro con il pubblico al termine dello spettacolo, coordinato dal critico di danza Elisa Guzzo Vaccarino, El Meddeb spiega che la performance è nata nel 2009, dopo la perdita del padre al quale era molto legato: “in quel periodo ho passato molto tempo con mia madre, l’ho conosciuta, l’ho osservata ed è nato il desiderio di danzarla”. Il risultato è questa coreografia, scritta a quattro mani con Thomas Lebrun, esponente della nouveau dance d’Oltralpe, un omaggio “a mia madre, alle mie sorelle, a tutte le donne arabe, molto attive al giorno d’oggi nelle battaglie sociali, ma nello stesso tempo sempre a latere”, mai al centro della scena, come invece accade nello spettacolo. Contemporaneamente, ha continuato El Meddeb, “danzo la mia parte femminile” e in questo modo “la mostro e la accetto come parte di me”: “grazie alla danza si può ballare e incarnare tutto ciò che vogliamo essere e che vogliamo dire, perché la danza racconta l’essere umano”.
Per questo, che vuole un omaggio alla figura femminile anche nella sua forza e complessità, ha scelto una figura simbolica, “la diva” per eccellenza del mondo arabo: la cantante egiziana Oum Kalthoum. È la sua voce potente e struggente ad accompagnare la danza di El Meddeb, nell’interpretazione dal vivo di “Al Atlal”, poema d’amore in lingua araba classica, scritto appositamente per lei dal poeta egiziano Ibrahim Naji. Oum “è un esempio di femminilità”, ha spiegato al pubblico il coreografo tunisino, ma nello stesso tempo di forza, indipendenza, al di fuori dei ruoli di genere tradizionali: “da giovane leggeva il Corano vestita da uomo nelle moschee”, “si dice addirittura che amasse le donne”.

Sul palco il coreo-danzatore alterna la danza a momenti di pausa, quasi volesse dare allo spettatore il tempo di metabolizzare ciò che sta vedendo; invoca il paradiso alzando le mani al cielo e offre qualcosa di sé al pubblico con ampi movimenti che partono dal suo corpo, gira su sé stesso come un derviscio. El Meddeb usa la danza mediorientale, ma epurata di stereotipi e riferimenti etnici puntuali, raggiungendo un notevole grado di astrazione, aiutato in questo anche dalla sobrietà dell’allestimento: semplice, nero, con le luci a vista. In un tempo che è come sospeso, questa coreografia è un’intuizione, una messa in contatto con qualcosa che è in ognuno di noi, che ci è famigliare, ma che non riusciamo a cogliere razionalmente.
Sul fondo della scena spicca per candore e morbidezza un enorme telo bianco: come un grembo materno e come un sudario avvolgerà il corpo nudo del danzatore, abbandonatosi a quell’amore puro e incondizionato che solo una madre può offrire.

Folla in facoltà per Pepe Mujica, il presidente ‘rock’: “Lottate per la vostra felicità”. E Trump? “Aiuto”

Josè “Pepe” Mujica arriva nel pomeriggio di ieri, poco prima delle 16, alla Facoltà di Economia di Ferrara, ed è accolto da grida e applausi degni di una rockstar. D’altra parte come lui stesso dice: “Sono come i Rolling Stones: sono vecchio ma attraggo tanti giovani”.
Sono centinaia le persone che si accalcano lungo la scalinata e nell’androne della facoltà e acclamano a gran voce una conferenza in piazza, tanti coloro che aspettano di sentire Pepe. Tantissimi giovani, a riprova che il pensiero controcorrente, rispetto alla società capitalista e tecnologizzata di cui sono i figli, trova anche in loro terreno fertile. Pensiero controcorrente di un ex Presidente dell’Uruguay sicuramente diverso da qualsiasi idea si abbia di un Capo di Stato. Mujica, ex guerrigliero e carcerato per motivi politici, è diventato famoso come il ‘Presidente più povero del mondo’, avendo deciso di rinunciare all’80% del suo stipendio per donarlo a numerose associazioni non governative e a tante persone bisognose.
Allo stesso modo decise di continuare a vivere nella sua fattoria poco fuori Montevideo invece che nella residenza presidenziale.

Josè Mujica è in Italia per una serie di conferenze e per promuovere il libro di Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz ‘Una pecora nera al potere’. L’accoglienza del pubblico ferrarese è calorosa e oltre l’Aula Magna, e le tre sale messe a disposizione per il collegamento streaming, è stato organizzato anche un mega schermo nell’androne della facoltà, per cercare di non scontentare le tantissime persone che non erano comunque riuscite a trovare posto a sedere.
Pepe Mujica parla ed incanta la platea con parole semplici che vanno dritte al punto della questione : L’uomo, come lo definiva Aristotele, è un animale politico. Come esseri umani abbiamo bisogno gli uni degli altri ed è per questo motivo che l’uomo si è riunito a formare una società, che a sua volta ha creato la civiltà. Le civiltà cambiano a seconda del periodo storico, dal feudalesimo alla rivoluzione francese fino alla borghesia industrializzata, fino ai nostri giorni: la civiltà del consumismo. La nuova religione è il mercato e noi siamo drogati di consumismo, anche se si tratta di una droga leggera e dolce”. Mujica è fermo nel suo ragionamento: “Più aumentano le nostre necessità, più aumenta il bisogno di guadagnare per soddisfarle. La roba costosa la compriamo pagandola con il nostro tempo. Non si tratta di una apologia della povertà ma di chiedersi chi siamo e cosa vogliamo”.

Mujica ci invita a considerare che il tempo libero non più sacrificato sull’altare del materialismo ci servirebbe per coltivare ciò che nella vita ha reale valore: gli affetti. L’amore, l’amicizia, la vita. Insiste: “Quale sarà il nostro premio finale? Il buco nero dove finiremo tutti? Il premio è la vita. Non possiamo comprare la vita al mercato. Dobbiamo lottare per la nostra felicità, come gli uccelli che si svegliano al mattino e sono pronti a lottare fino allo sfinimento per una briciola di pane. Noi dobbiamo lottare per una vita felice. Le condizioni esterne non possono determinare il corso della nostra vita: dobbiamo vivere come pensiamo e non viceversa”.
Piovono applausi diretti a questo uomo, nonno dei giovani come si definisce lui stesso, dall’aspetto mite ma dal grande carisma. Chiara e diretta è la disamina storica e sociale: “I robot, le macchine, sostituiranno le persone. Potrebbe sembrare un’idea felice pensando che avremo più tempo libero mentre qualcun’altro lavora per noi. Ci sarà più ricchezza perché i robot, a differenza dei lavoratori, producono ma non consumano. Non sarà così: i robot lavoreranno per i loro padroni. Il progresso è inevitabile ma non è esente da drammi: penso sempre ai lavoratori di Chicago che, nel secolo scorso, morirono per difendere il diritto alle otto ore di lavoro. Ora il lavoro è dato per scontato, ma per tante cose ora scontate le persone hanno lottato e perso la vita. La Repubblica si fonda sul concetto che i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, ma ora dobbiamo essere tutti uguali anche a casa propria”.

Per Mujica gli uomini devono riscoprire il senso di comunione sociale in un periodo storico che vedo il ritorno di antichi nazionalismi:”L’America ha scelto Trump? Aiuto! E in Europa si sente dire la Francia ai francesi da Marine Le Pen.La Germania invece ha aperto le porte all’immigrazione: la Merkel non è certo una benefattrice ma ha giustamente pensato ad evitare la crisi dello stato sociale”.

Cambiare se stessi per cambiare il mondo. Ecco il messaggio con cui Pepe Mujica si congeda dal suo pubblico, e nel volto delle persone che alla fine della conferenza si riversa in strada sembra quasi di vederlo uno sguardo nuovo. Forse un inizio di cambiamento.

Il palio parte alla conquista del mondo

Per Ferrara il palio è da sempre un momento di unione, ma soprattutto di orgoglio in quanto “è uno degli elementi tipici e rievoca un periodo storico dove la nostra città era sicuramente una delle capitali del mondo sia economico che culturale”. A parlare è il Presidente dell’Ente Palio Stefano Di Brindisi, alla conferenza stampa che si è svolta questa mattina presso la Sala dei Comuni del Castello Estense.
L’intento della conferenza era promuovere ‘Cittadino nel mondo’ l’iniziativa che vede come fulcro principale uno scambio di opinioni e di vedute fra le Istituzioni di Ferrara e il Corpo Consolare dell’Emilia Romagna che si terrà sabato 12 alle 10.30 presso la Sala dei Comuni.
Prosegue il Dott. Di Brindisi “l’intento di questo evento è dare la possibilità al mondo del palio di iniziare quel percorso di internazionalizzazione per far conoscere questa bellissima realtà al di fuori delle nostre mura”
Il palio è risultato l’argomento di principale rilevanza, in quanto ha grandi potenzialità e sta a cuore ai cittadini ferraresi.

Il Corpo Consolare è un’associazione no-profit con lo scopo di promuovere ed incrementare le relazioni fra i Consoli operanti in Emilia-Romagna con i Corpi Consolari esistenti in Italia, e favorisce iniziative sociali, culturali ed umanitarie atte ad incrementare un proficuo collegamento fra i Consoli e a valorizzarne la figura e l’ opera in qualsiasi settore.
A parlare alla conferenza è intervenuto anche il Dott. Gianni Baravelli, Console di Norvegia, di Svezia e decano dell’Associazione, nonché ex sbandieratore al palio.
“Il Corpo Consolare dell’Emilia-Romagna oggi rappresenta 27 stati – prosegue Baravelli in riferimento alla giornata di sabato -. Lo scopo di questo evento è quello di dare una panoramica di quello che il Corpo Consolare potrebbe fare per la città. Ad esempio la possibilità di scambi culturali, di scambi di studio, opportunità di business. Vogliamo quindi metterci a disposizione di Ferrara affinchè diventi sempre più internazionale. ‘Cittadino nel mondo’ è la prima manifestazione che facciamo in questo format”
Non sarà possibile far convergere tutti e 27 i Consolati nella giornata di sabato, per questo ne sono stati selezionati 5, ovvero Norvegia, Svezia, Francia, Montenegro, Paesi Bassi e Portogallo”
A chiudere la conferenza, le parole del Dott. Giuseppe Landini, Segretario Generale del Corpo Consolare “Non bisogna guardare solo il proprio ‘orticello’, ma bisogna guardare sempre anche al di là e questo Ferrara l’ha fatto”.

Oriana è sempre Oriana

oriana-e-alekos-593x443Ti rifugi in una stanza, penna, carta e calamaio. Una luce. Forse oggi un notebook. Tu e la scrittura. Soli. In una simbiosi perfetta. Fuori il mondo, semplicemente. La passione dello scrittore, non del giornalista. La differenza. Ma uno scrittore e il suo sogno. Capisci, comprendi, senti condividi. L’empatia, rimanendo in uno spazio chiuso, confinato. Oriana, questo era, questo voleva essere, uno scrittore. Nel suo libro Solo io posso scrivere la mia storia, Autoritratto di una donna scomoda, questa passione permea ogni pagina, ogni riga, ogni parola, ogni singola sillaba. Ogni fatto ha la sua anima, ogni descrizione il suo respiro, una sensazione. E Oriana crede che il racconto sia la sostanza di ogni evento.

Dai suoi incontri del periodo della Resistenza, quando da bambina, di nascosto dal padre, aveva visto sfilare, a Firenze, Hitler e Mussolini, con una zia sposata a un fascista, a quelli con Soraya, Khomeini e Kissinger fino alle fangose trincee del Vietnam e alla tenda discussa di Gheddafi, emerge sempre l’anima di uno scrittore. Forse un po’ la distinzione che l’inglese riesce a fare bene, con la sua precisione: non history ma story. Un’avventura che si vive fino in fondo. E se un giornalista deve stare in strada per scrivere, vivere l’asfalto, uno scrittore ha invece bisogno del silenzio, di uno spazio chiuso dove raccogliersi e isolarsi. Oriana così ha fatto, nel tempo, per scrivere pagine memorabili come quelle dedicate ad Alekos Panagoulis, in una ricerca spasmodica della perfezione della lingua. Scrivere bene, come diceva Hemingway, è come un campo di neve privo di buche, sassi o inciampi, accarezzare gli occhi di chi legge, farlo sentire come portato via dal vento, scivolando delicatamente.

7294252_1953448Ogni parte di questo bel libro riporta nella storia, in quella vissuta emozionandosi, con la consapevolezza di avere la fortuna di fare parte. Anche l’amore, non solo quello per la scrittura, pervade l’inchiostro della penna di Oriana, quell’amore intenso per un uomo rimasto solo, il suo Alekos, dal volto di un Gesù crocifisso, un compagno di vita ucciso dai nemici del Watergate greco, incontro anche politico e intellettuale, grido d’amore e disperazione, inno alla libertà. Ma cos’è mai la libertà? “Una somma di idee non riconducibili a una singola idea, un mosaico di interpretazioni, quindi contraddizioni implicite. Forse perché, più che un concetto, la libertà è un sentimento e razionalizzare un sentimento è impossibile. … ho visto libertà ferite, anzi assassinate, in nome di quella libertà. Ho visto apostoli della libertà trasformarsi in carnefici della libertà, in nome di quella libertà. Ho visto promuovere e fare guerre ingiuste, rivoluzioni false, in nome di quella libertà”. Se poi non abbiamo anche la libertà di scegliere se nascere o meno, perché qualcun altro sceglie per noi, cosa significa veramente questa parola? La libertà in assoluto, in fondo, non esiste.

“Nella mia vita ho visto molte brutte cose. Molte. Sono nata in una tirannia, sono cresciuta in una guerra, e per gran parte della mia esistenza ho fatto il corrispondente di guerra. Per anni (in Vietnam, otto) ho vissuto al fronte. Ho seguito battaglie, ho subito sparatorie e cannoneggiamenti e bombardamenti, ho testimoniato l’umana crudeltà e imbecillità”. Questo il filo conduttore di una biografia che mai Oriana avrebbe autorizzato. Eppure questa donna scomoda, come lei stessa si definisce, non ha fatto altro che scrivere e raccontare la sua storia incredibile e straordinaria, fino alla malattia che non l’ha fermata. Queste pagine la delineano nella sua più intensa profondità, pensieri trancianti e precisi tratti dai suoi quaderni che utilizzava per preparare meticolosamente ogni intervista: i numerosi, fitti e concitati appunti autobiografici, note che utilizzava ampliate nei suoi libri. E anche bozze di letture pubbliche o di interventi in cui si metteva nei panni dell’intervistatore che avrebbe incontrato provando a rispondere a domande su di sé e la propria vita. Questi scritti, che trattano anche di temi come malattia, matrimonio e figli mai nati, restituiscono con precisione il carattere e il pensiero di una donna unica, capace di maltrattare grandi leader politici e famosi ed eleganti divi di Hollywood, consegnando ai suoi lettori il testamento di una vita leggendaria. Solo lei poteva raccontarsi. E così intensamente. Nessun altro.

Oriana Fallaci, Solo io posso scrivere la mia storia, Autoritratto di una donna scomoda, Rizzoli, 2016, 272 p.