Skip to main content

Il 2019 sarà fondamentale dal punto di vista della tenuta dei conti pubblici futuri principalmente in ordine a due questioni: le clausole di salvaguardia e il Fiscal Compact.
Nel primo caso sarà necessario trovare 20 miliardi al fine di bloccare l’aumento dell’iva mentre nel secondo un po’ più di 1.200 miliardi distribuiti sui prossimi 20 anni se il Fiscal Compact dovesse essere incorporato, come previsto, nell’ordinamento giuridico dell’Ue entro il primo semestre del 2019.
Tutto questo non per colpa di questo Governo ma semplicemente perché “ce lo chiede l’Europa”.

Le storie
Di clausole di salvaguardia si comincia a parlare molto tempo fa, addirittura durante l’estate del 2011 cioè nel periodo della manovra finanziaria dell’allora Governo Berlusconi.
In quel periodo, come qualcuno ricorderà, andava molto di moda la parola default, si parlava cioè del pericolo che lo Stato italiano potesse dichiarare l’impossibilità di rimborsare i Titoli del debito pubblico causa aumento eccezionale dello spread che, ad Agosto 2011, era arrivato quasi a toccare i 400 punti dai circa 100 registrati a inizio anno. Al 10 novembre sarebbe poi arrivato a 572, data del memorabile “Fate presto” del sole 24 ore.
Il sen. Mario Monti, in un’intervista televisiva a inizio 2013, dichiarò che 100 punti di spread costavano allo Stato, e quindi ai cittadini italiani, 20 miliardi di risparmi. In realtà l’affermazione era frutto di un calcolo abbastanza grossolano (sicuramente “voluto” e per semplificare) in quanto non teneva conto che l’aumento del tasso di rendimento conseguente all’aumento dello spread non andava applicato su tutto il debito pubblico ma solo sulla parte in btp, titoli a lunga scadenza, e quindi su circa (allora) 1.500 miliardi. Inoltre, non veniva detto che ovviamente si parlava di nuovo debito in scadenza e da rinnovare e che sarebbe stato spalmato sugli anni a venire e quindi che i costi maggiori si sarebbero palesati almeno dopo 4-5 anni.
In conclusione una cifra plausibile di quanto sia potuto costare la democrazia potrebbe essere circa 40 miliardi spalmati su un decennio. E questo per un Paese che conta un pil di circa 1.700 miliardi ed è tra le prime 9 potenze economiche mondiali.
In ogni caso il momento era grave, e Berlusconi non poté fare altro che stringere un patto con l’Unione Europea al fine di poter approvare le misure previste nella sua manovra. Pena la crisi dei conti pubblici, un po’ quello che è successo con l’ultimo Governo quando è andato a chiedere un deficit del 2,4% ma stavolta risoltosi in maniera meno drammatico e con un accordo tra le parti.
All’epoca Berlusconi dovette invece capitolare all’attacco orchestrato dai mercati, anche perché Il “wathever it takes” di Mario Draghi era ancora lontano da venire. L’intervento della Bce arrivò solo un paio di anni dopo (a differenza degli interventi più tempestivi della Fed, della Boj e della Banca Centrale inglese), a suggello della constatazione dell’ovvio: non serviva l’austerity ma un intervento di politica monetaria per riequilibrare i conti.
Con le clausole di salvaguardia il Governo si impegnava a reperire entro il 30 settembre 2012 ben 20 miliardi di euro, pena l’obbligo di tagli alla spesa pubblica, aumento delle aliquote Iva e delle accise e un taglio lineare alle agevolazioni fiscali.
Il Governo Berlusconi resse fino a novembre quando il picco dello spread e la minaccia del default sul debito pubblico (che senza una Banca centrale di proprietà non era gestibile, come abbiamo visto) presero il sopravvento, poi lasciò il governo del Paese a Mario Monti e alla sua schiera di “tecnici”, ad anni di tagli e di riforme lacrime e sangue, tra cui la riforma delle pensioni del Ministro Fornero, che potrebbe essere arrivata al capolinea nel caso l’attuale governo giallo-verde sopravvivesse a se stesso, cosa non scontata.
Ed è dunque dall’insediamento di Monti che i governi cercano, annualmente, di reperire i fondi necessari per disinnescare e sterilizzare parzialmente e temporaneamente le clausole di salvaguardia Iva. Un regalo indigesto che si rinnova di anno in anno e che ogni Governo fatica sempre più a passare a quello successivo.
Ma se 20 miliardi possono sembrare tanti pensate a quelli che bisognerà sborsare per il Fiscal Compact. Il Trattato, denominato appunto Fiscal Compact, è entrato in vigore il 1° gennaio 2013, quando cioè fu ratificato da dodici Paesi dell’Eurozona (Austria, Cipro, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Slovenia). L’Italia lo ha ratificato con la legge n. 114 del 23 luglio 2012. In seguito fu ratificato da tutti gli altri.
L’art. 16 del Fiscal Compact prevede che, al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del Trattato stesso (e dunque, entro il 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, siano adottate le misure necessarie per incorporarne il contenuto nella cornice giuridica dell’Ue.
Quest’anno, come si legge sul sito della Camera dei Deputati, il Parlamento europeo e il Consiglio sono invitati ad adottare la proposta di incorporazione del Fiscal Compact nell’ordinamento giuridico dell’Ue entro il primo semestre del 2019. Insomma bisogna sbrigarsi, darsi da fare per… aumentare i nostri problemi dicendo però che li stiamo risolvendo.
Il Fiscal Compact prevede che i debiti pubblici non debbano eccedere il 60% del rapporto con il pil e per l’Italia, che è al di là del doppio consentito e registra un debito pubblico di oltre 2.300 miliardi, significa dover restituire qualcosa come 50-60 miliardi di euro all’anno (in misura decrescente) per 20 anni che ovviamente ogni Documento di Economia e Finanza dovrà prevedere e ogni legge di bilancio dovrà sostenere.
Sommati Clausole di Salvaguardia + Fiscal Compact fanno dunque circa 70-80 miliardi all’anno da aggiungere ai nostri saldi primari, ovvero al bilancio dello Stato prima degli interessi. Attività reali che dovranno essere oggetto di tagli ad uso di attività finanziarie.

Riflessioni
Il punto non è ovviamente, e spero che non vi sia sfuggito, dove trovare tali risorse. A tutti è chiaro che saranno i cittadini a pagare il prezzo delle decisioni prese ai tavoli di Bruxelless e Francoforte e dovremo farlo accettando aumenti di tasse e contenimento delle spese da parte della Pubblica Amministrazione, cioè meno ospedali, scuole, strade, investimenti, pensioni e salari. E anche meno democrazia, visto che il Movimento 5 Stelle si sta affrettando a promuovere la sua ricetta del risparmio anche nei confronti del numero dei parlamentari che porterà ad un astronomico risparmio di 500 milioni. Come tentare di svuotare il mare con un cucchiaio.
Nel 2011 l’Italia era sotto attacco della speculazione e per un possibile aumento del debito futuro di (forse) 40 miliardi ci siamo addossati l’onere di trovarne 20 subito. Nel 2013 si accettò il Fiscal Compact perché gli interessi sui debiti sovrani non cessavano di crescere e questo portò a pensare che l’euro come valuta stesse arrivando al capolinea.
Ma risolto il perché e chiarito che tutto quello che ci viene tramandato come un dogma è solo il frutto avvelenato di trattati di cui molti firmatari si stanno in larga parte pentendo (Il fiscal compact l’ha definito sbagliato Berlusconi, Fassina, Renzi, Grillo, Meloni e Salvini ma stranamente non si registrano azioni concrete sulla strada della sua cancellazione), perché non cominciare a discutere dell’opportunità di queste regole piuttosto del come trovare i soldi?
Sia le clausole di salvaguardia che il Fiscal Compact sono accordi che derivano in larga parte dalla paura dei debiti pubblici instillata in Europa dalla Germania. Una paura che serve sostanzialmente per imporre a paesi come l’Italia riforme strutturali che servono a far funzionare in maniera autonoma mercati e finanza, non certo a ricercare il benessere per i cittadini europei.
Un’Europa politica non esiste come non esiste una condivisione di valori sui quali costruire un nuovo Stato che sostituisca quelli esistenti. Questa Europa che si fonda sulla competizione tra gli Stati è tenuta insieme esclusivamente da una politica monetaria completamente disgiunta dagli interessi dei popoli, ma accomunati dal terrore del debito pubblico che permette la ratifica di richieste inutili ed assurde.
Fuori da questo schema tutto nostro non esiste un Paese normale che sia stato chiamato a ripagare il debito pubblico. Ciò che l’anomalia dei principi su cui si basano i Trattati Europei ci sta’ regalando è solo un futuro peggiore del presente, per la prima volta nella storia dal secondo dopoguerra. Un futuro di disoccupazione e di diritti negati.
In altri stati il debito pubblico si affronta come si conviene e per quello che è. Ci si preoccupa sostanzialmente di rinnovare i Titoli di Stato in scadenza e si riesce ancora a fare un minimo di distinzione tra contabilità e vita reale. Rinnovare il debito è una cosa sempre possibile anche se hai un debito che sfiora il 260% come in Giappone, perché il debito pubblico è un fatto contabile e così viene affrontato nel mondo. Quando lo Stato spende costruisce ospedali e scuole o paga pensioni e stipendi e quindi la sua spesa diventa un credito per i cittadini che lo ricevono. Senza un debito contabile di qualcuno non ci potrebbe essere il credito contabile di qualcun altro. Una Nazione per sopravvivere in dignità ha bisogno di una costante spesa da parte dello Stato.
Nei Paesi dell’eurozona si sono firmati accordi che prevedono il governo dei mercati finanziari, accordi che certo conoscono bene anche gli altri paesi nel mondo. Ma da noi abbiamo anche reso indipendente la Banca Centrale Europea dopo avere declassato le nostre banche centrali nazionali, rendendo di fatto incontrollabile spread e interessi sul debito, fenomeni che solo a casa nostra, indubbiamente, sono diventati per questo un problema.
Un problema creato ad arte e non fisiologico o naturale, un problema dovuto alla natura distorta della normativa europea intenta a tutelare interessi diversi da quelli dei cittadini. E se l’Europa è indubbiamente la nostra casa non vuol dire che debba esserlo anche l’Unione Europea.

In copertina: illustrazione di Carlo Tassi

tag:

Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it