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Ho dormito a fianco del Velino con il Terminillo per sfondo. Ho percorso la città sotterranea che si snoda lungo il viadotto costruito nel III secolo a. C. dai Romani per consentire alla via Salaria, l’antica via del sale, di superare il fiume Velino e di raggiungere la città. Ho visitato il teatro Tito Flavio Vespasiano, unico per la sua acustica, e la Biblioteca Paroniana con la sua preziosa collezione di atlanti antichi come l’Atlas sive Cosmographicae Meditationes di Gerardo Mercatore, l’olandese Gerhard Kremer, e l’Italia di Antonio Magini, pubblicato a Bologna nel 1620.
Sono stato invitato a Rieti dall’associazione Nuovi Percorsi per parlare di Città della Conoscenza. Quando ci si interroga sul futuro, la prima cosa che una città oggi ha necessità di apprendere è quella di sapersi porre le domande giuste per evitare di sbagliare la strada nella ricerca delle risposte.
E le domande giuste le ho trovate nelle parole chiave con cui gli amici di Rieti hanno preparato il nostro incontro. Quattro: territorio, società, cultura, identità. Ma non perché siano nuove, semplicemente perché sono “le parole chiave”.
Cosa significa territorio, cos’è territorio? Una parola, preceduta dal suo articolo determinativo “il”, “il territorio”, di cui abbiamo abusato nel secolo scorso e che la globalizzazione anziché dilatare ha ristretto, fino a farlo scomparire. Il territorio si è ammalato. Il territorio è stato soppiantato dall’ambiente. Non dagli ambienti, ma dall’ambiente e ce n’è solo uno in tutto il mondo: l’ambiente. La sua difesa, la sua tutela, pena la sopravvivenza della specie umana.
E mentre il territorio si faceva “iper” per perdersi nell’ambiente, la storia, le migrazioni si appropriavano dei luoghi della nostra stanzialità. Così dal territorio siamo regrediti al luogo, da chiudere tra paratie per impedire che l’onda del fiume in piena di una umanità in movimento ci travolga. Col mutare della geografia degli spazi è mutata anche la geografia dei pensieri.
Le pietre che limitano gli spazi, che consentono di riconoscere le aree comuni sono state divelte. Società è parola destrutturata. L’abitare insieme tutti differenti per età, culture, occupazioni, redditi, stili di vita, l’interagire di ogni individuo continuamente con un numero di altri individui per le ragioni più disparate, tutto è stato ridotto ad un unico comune denominatore: il popolo. Socio, compagno, amico, alleato, relazione, organizzazione, interagire per obiettivi comuni inaspettatamente non appartengono più al lessico della polis, come se improvvisamente avessero bruciato i loro significati.
Non viviamo più entro i limiti dei nostri confini, vale a dire entro lo spazio dei fini condivisi, ma abbiamo innalzato le frontiere. La comunità che innalza le frontiere non è più “socievole”, “abile socialmente”, ma al contrario si fa “tribù”. Troppo difficile da reggere la società aperta e i suoi nemici, meglio la società chiusa con pochi amici.
La cultura, il coltivare insieme il sapere non si fa più. Non c’è un sapere comune, del sapere si è giunti a diffidare. La cultura è il passato. Dinamicità e processualità della cultura sono i nemici del sistema di senso dominante che ha soppiantato ricerca, cultura scientifica e competenze. La cultura è l’élite che si contrappone al popolo, che ha il sapere della pancia che va celebrato a folklore e salsicce. La cultura sono le radici ancestrali di un popolo da contrapporre alle culture dei popoli che lo vogliono invadere e ridurre alla fame.
La cosa peggiore che può accadere è perdere la propria identità, annullata dall’etichetta posticcia e indefinita di popolo. Cancellare l’identità di una persona è negarne l’esistenza, privarla del diritto di essere persona, con la sua storia, le sue emozioni, le sue memorie.
La riconoscibilità, cancellare la riconoscibilità che non sia l’identificarsi con il popolo o con il “cittadino” di lontano ripescaggio.
I nuovi soggetti al governo del paese hanno cassato significato e futuro di parole che sono la chiave della convivenza, della crescita, dello sviluppo, della democrazia: territorio, società, cultura, identità.
Parole rispetto alle quali abbiamo invece l’urgente bisogno di apprendere a dare risposte nuove, a indagarne la complessità e le sfide a partire da dove stiamo insieme, da dove condividiamo le vite: le nostre città. Fare delle nostre città i sistemi complessi che apprendono, l’opera della “rinascita” come è stato nella storia e nella cultura del nostro paese. In un sistema sociale maturo gli attributi che consentono agli individui di essere cittadini attori interagenti sono l’apprendimento, l’invenzione e l’adattamento. Non ciò che conosciamo ma ciò che ancora non sappiamo.
Si tratta di uno spostamento nel nostro modo di pensare che comporta la partenza verso terre non ancora esplorate, pertanto non possiamo permetterci di perdere la bussola dei quattro punti cardinali: territorio, società, cultura e identità.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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