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È l’autunno del 2001, e i riflettori di gran parte del mondo sono puntati su New York e sul World Trade Center. A circa 100 chilometri dalla “città che non dorme mai”, una band newyorchese dal nome piuttosto insolito – Interpol, come l’organizzazione internazionale di polizia – è intenta a registrare il suo disco d’esordio, che di lì a breve ridisegnerà i canoni dell’indie-rock.

Così, l’intimità dei Tarquin Studios di Bridgeport dà vita al crepuscolare Turn on the Bright Lights, nel quale gli innumerevoli riferimenti alla new wave britannica di fine anni ‘70 – perlopiù Joy Division, Wire e Chameleons – si mischiano con l’inquietudine e la disillusione del nuovo millennio.

La personalità degli Interpol è evidente fin dall’inizio: il sound tagliente e le ritmiche sincopate si adeguano ai saliscendi emotivi dettati dalla voce baritonale di Paul Banks, il cui timbro aggiunge ulteriore drammaticità a delle liriche già di per sé piuttosto cupe. Ci sono infatti rimpianti, promesse e confessioni con cui fare i conti, nonché vecchie ossessioni che riaffiorano.

A far da contorno alle liriche dello stesso Banks c’è per l’appunto New York, città natale della band a cui è dedicata l’ipnotica e trasognante NYC, che, pur nella sua semplicità, racchiude in sé un sacco di sfumature che ne impreziosiscono l’ascolto. La chitarra di Daniel Kessler è infatti precisa ed efficace, e somiglia un po’ alla mano di Mario Brega in Bianco, Rosso e Verdone: può essere ferro, può essere piuma. Al pari delle melodie vocali, i suoi riff spigolosi e i suoi fraseggi eterei suggeriscono all’ascoltatore un’ampia gamma di sensazioni, come ad esempio nell’irrequieta Obstacle 1 o nell’affascinante cavalcata di Stella Was a Diver and She Was Always Down.

Ciò che rende ancor più espressiva la musica degli Interpol, e in particolare le due suddette canzoni, è l’intensità della sezione ritmica: il duo Fogarino-Dengler dà respiro alle melodie di Paul Banks e indirizza il sound di ciascun brano con la giusta dose di aggressività e sperimentazione.

Pubblicato dall’etichetta indipendente Matador il 20 agosto del 2002, Turn on the Bright Lights si è guadagnato fin da subito lo status di “classico del nuovo millennio”, influenzando migliaia di artisti in tutto il mondo e dando il via a un filone – quello del post-punk revival – che ha rimescolato le carte del rock chitarristico. Oggi, a vent’anni dalla sua pubblicazione, il responso di un’ipotetica prova del tempo non può che essere il seguente: è invecchiato e continuerà a invecchiare bene, come un buon vino rosso dai colori scuri e dal sapore intenso.

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Paolo Moneti

Sono un pendolare incallito a cui piacciono un sacco le lingue straniere e i dialetti italiani. Tra un viaggio e l’altro passo il mio tempo a insegnare, a scrivere articoli e a parlare davanti a un microfono. Attualmente collaboro con Eleven Sports, Accordi & Spartiti, Periscopio e Web Radio Giardino.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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