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Al dibattito pubblico su “euro sì – euro no” mancava una base di dati, uno studio su cui elucubrare, o magari fare acrobazie sul trapezio delle ipotesi, e finalmente … ’20 Years of the Euro: Winners and Losers’.
Ma, nonostante i dati e come ricorda l’economista Giovanni Zibordi, in economia non esiste una metodologia standard come nelle scienze per cui ai report, ai paper e agli studi econometrici “si possono trovare approcci totalmente diversi e da qui discussioni infinite che lasciano il pubblico perplesso”. E allora ben vengano i prospetti e gli studi sull’argomento per aiutare la discussione, l’importante però è tener presente che le ipotesi restano ipotesi.
Del resto che l’euro abbia funzionato male e continui a farlo è la vita reale a dircelo, ma questo è tanto vero quanto è vero che è tutta l’impalcatura dell’eurozona a funzionare male e non sarà certo ad uno studio concentrato sul dato finanziario che cederemo l’onere di dimostrarlo.
A dirci che l’impianto non funziona è l’alta disoccupazione, le aziende che chiudono, i giovani che emigrano, il sistema pensionistico che viene messo in discussione, i salari che ristagnano da vent’anni, la disuguaglianza che cresce insieme al conflitto sociale e persino il fatto che la gente è costretta ad affidarsi alle promesse della Lega e del M5s per sentirsi meno sola. Un partito liberista da una parte, e quindi naturalmente contrario al primato politico rispetto all’economia, e dall’altra un movimento che confonde la democrazia popolare con il voto on line.
Fatti gravissimi nel loro insieme, e già di per sé sufficienti a dimostrare che le cose proprio non vanno nel verso giusto, aggravati dal fatto che la sinistra è incapace di ritrovare il suo spirito anti capitalista e soprattutto di antitesi all’attuale costruzione finanziaria e globalista.
I dati (finanziari)
È appena uscito il report del think tank tedesco CepStudy intitolato ’20 Years of the Euro: Winners and Losers’ che prova a quantificare quanto hanno guadagnato o perso gli stati che hanno aderito all’euro. Ebbene la Germania avrebbe complessivamente guadagnato dal 1999 al 2017 ben 1.893 miliardi di euro, ovvero 23.116 euro per abitante mentre quella che una volta avremmo chiamato “l’economia dei puffi”, ovvero i Paesi Bassi, che con l’euro sono diventati persino più influenti dell’Italia, avrebbero guadagnato 346 miliardi ovvero 21.000 euro per abitante.
L’Italia è, invece, quella a cui è andata peggio. Avrebbe perso, in questi 18 anni, qualcosa come 4.300 miliardi e 73.605 euro pro capite e l’effetto grafico è il seguente:
Le considerazioni politiche e di politica economica
Se l’economia fosse una scienza esatta, o anche solo una scienza, allora queste sarebbero le prove di un disastro. Ma, come dicevamo in premessa, nell’economia non c’è niente che non sia opinabile, tranne ovviamente in eurozona dove esistono addirittura le sacre tavole che impongono un tetto al deficit e uno al debito pubblico. Disastro di sicuro c’è stato, ma non per colpa dell’economia, che è incapace di far male se non lasciata agli impulsi primordiali del profitto, né per colpa della valuta euro, che come tutte le valute esiste se qualcuno decide che debba esistere.
Keynes diceva che l’economia va pianificata e a farlo deve essere lo Stato. Cioè lo Stato deve fare quello che un individuo non può fare. Cioè, appunto, pianificare l’economia in maniera democratica e che possa dare frutti per tutti.
La ratio dell’affermazione di Keynes, spiegata anche dallo stesso economista, è che lo Stato deve tenere in mano i controlli centrali per modificare e plasmare l’ambiente in cui deve operare l’individuo perché, se decide di non intervenire, allora l’economia perde la sua parte politica e quindi prende il sopravvento e la società comincia rincorrere la concorrenza, la privatizzazione e il profitto. Quindi una struttura in cui il più forte inevitabilmente vince. Tesi ripresa magistralmente anche dal prof. Ha-Joon Chang dell’Università di Cambridge per spiegare che l’economia funziona se è politica, cioè se è controllata e pianificata.
Sulla spoliticizzazione dell’economia e sui riflessi sulla società e sulla democrazia ha scritto, magistralmente e senza andare troppo lontano, anche il prof. Alessandro Somma dell’Università di Ferrara nel suo libro ‘Sovranismi‘ che avrò il piacere di presentare, insieme ad altri, il prossimo 12 marzo presso l’Ibs+Libraccio di Ferrara.
Ma ritorniamo al nostro report. I dati mostrano che nella struttura liberista dell’eurozona emergono i più forti, a danno dei Paesi che hanno modelli di sviluppo più partecipativi e improntati al “sociale”. Questi dati in realtà, e a ben vedere, non parlano di euro, di valuta, ma di un disastro sociale che viviamo tutti i giorni nella nostra quotidianità. Parlano di scelte che hanno portato all’abbandono delle persone a vantaggio di una élite disposta a vivere di esportazioni e vogliosa di plasmare le élite degli altri paesi europei sulle proprie linee guida.
Parlo di élite e non di stati perché il pil non mostra realmente o necessariamente il benessere di una nazione, perché il pil non è democratico né tantomeno il suo rapporto percentuale con il debito. Ed infatti in Germania, e nonostante il pil, il welfare non è più quello di una volta che è stato sacrificato alla competitività e alla deflazione salariale. L’export non porta benessere per tutto il paese ma solo alle aziende che lo praticano e agli operai che vi lavorano per il tempo che ne possono usufruire, perché l’export, si sa, dipende dalla domanda estera che per definizione non è controllabile dallo stato esportatore.
E forse per questo la Germania ha fortemente voluto il progetto europeo, per avere una domanda costante dagli stati satelliti (cioè dall’Unione Europea) e una domanda accomodante mondiale grazie al fatto che il valore dell’euro viene tenuto basso dai PIIGS (maiali) del sud. In pratica vendono almeno al 20% in meno rispetto ad un ipotetico marco, cioè la Bmw e la Mercedes costano almeno il 20% in meno ad un acquirente americano o italiano.
L’Italia in questo studio è stata paragonata a paesi ritenuti simili, Uk e Australia in primis.
E non a caso questi paesi dopo il 2008 hanno fatto una enorme spesa in deficit, cosa che gli ha permesso di risollevarsi prima e meglio dalla crisi post Lehman Brothers e senza cadere nella superstizione di problemi quali il debito pubblico e i limiti al deficit, superstizioni tutte da eurozona e in particolare italiane. Mentre noi perdevamo il 20% della produzione industriale e, secondo questo studio, un 40% di pil, i paesi “simili” agganciavano la crescita del debito semplicemente facendo crescere il pil che a sua volta cresceva perché si pompavano soldi nell’economia.
In questo studio si scopre che la Spagna è un loser meno perdente dell’Italia avendo lasciato sul terreno “solo” 224 miliardi di euro per 5.000 euro pro capite. Insomma la Spagna ha reagito molto meglio dell’Italia e quindi per qualcuno potrebbe essere la controprova che se l’Italia perde è semplicemente perché è poco competitiva rispetto agli altri. In realtà, come riportato anche da Giovanni Zibordi in un suo articolo che riprende a sua volta argomentazioni di economisti spagnoli, questo (molto) parziale successo è dovuto all’aumento della spesa per consumo. Infatti gli spagnoli hanno aumentato il loro debito privato fino ad un picco del 260% del pil, tornando poi al 210%, mentre l’Italia ha contenuto il debito privato intorno al 160%.
La contromossa spagnola alla crisi è stata di aumentare il debito pubblico che nel 2008 era al 45% fino al 100%. Questo per non aumentare le tasse e permettere alle banche di continuare a fare credito. Quindi se non puoi permetterti un surplus germanico delle partite correnti dovresti quanto meno permettere ai cittadini di spendere di più in altro modo evitando politiche recessive in un momento di crisi generale.
La Spagna, inoltre, ha mantenuto per anni deficit molto alti e ben al di sopra del fatidico 3% permesso dai trattati europei, almeno lì la ragion di stato ha evidentemente un senso.
Le conclusioni logiche
Quindi se le cose vanno male la colpa non è dell’euro, come non è delle bombe se esplodono o dei proiettili se uccidono. La colpa del disastro economico è la mancanza di attivismo politico da parte dei nostri rappresentanti e della perdita della visione dell’interesse primario della politica stessa: l’essere umano.
Un report interessante, ma vietato fermarsi alle considerazioni finanziarie. Da utilizzare per ravvivare il dibattito politico e un argomento in più per auspicare un allargamento alle ragioni dei cittadini, del sovranismo democratico come cornice e confine per la difesa dei primi 12 articoli della costituzione italiana (per iniziare) e per superare i limiti imposti dai Trattati Europei ad una sana, generale e reale ripresa economica.
in copertina illustrazione di Carlo Tassi
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Nato quasi otto anni fa con il nome ferraraitalia [2], Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Conta oggi 300.000 lettori in ogni parte d’Italia e vuole crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma anche e soprattutto da chi lo legge e lo condivide con altri che ancora non lo conoscono. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante. Buona navigazione a tutti.
Francesco Monini
[1] La storia del giornale è piuttosto lunga. Il primo quotidiano della storia uscì a Lipsia, grande centro culturale e commerciale della Germania, nel 1660, con il titolo Leipziger Zeitung e il sottotitolo: Notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo. Da allora ha cambiato molte facce, ha aggiunto pagine, foto, colori, infine è asceso al cielo del web. In quasi 363 anni di storia non sono mancate novità ed esperimenti, ma senza esagerare, perché “un quotidiano si occupa di notizie, non può confondersi con la letteratura”.
[2] Non ci dimentichiamo di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno il giornale si confeziona. Così Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto.
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L'INFORMAZIONE VERTICALE