Una continua fluttuazione di stato, fra giovinezza e vecchiaia, autonomia e inettitudine, dovere e bisogno. E quattro giovani attori a rappresentare i personaggi che si inseguono sul palco, vestendo idealmente i panni ora degli uni, ora degli altri, in un continuo carnevale di emozioni, vivendo e trasferendo al pubblico la costante tenerezza che si genera – e talora sconfina in tensione – fra il bisognoso, non sempre consapevole del proprio stato (o disponibile ad accettarlo), e il soccorritore che presta assistenza e talvolta, per frustrazione e sconforto, si intristisce o va in collera.
In platea si ride, si sorride e si riflette.
E’ uno spaccato di vita quotidiana quella messa in scena al teatro Off di Ferrara, un’opera che affronta il delicato tema della vecchiaia, della perdita di autonomia e della conseguente necessità di accudimento che genera tensioni emotive fra chi avverte il dovere di prestare aiuto e colui che talvolta, per inconsapevolezza o rifiuto della propria condizione, quel soccorso respinge. Fra il pubblico, con un sorriso velato di malinconia, si assiste alla perdita di coscienza dell’anziano e alla perdita di pazienza del giovane.
Ma i ruoli si scambiano di continuo sul palco, fra gli interpreti, e si ribaltano le situazioni, con l’anziano che rinsavisce e il giovane che repentinamente invecchia, a emulare l’imprevedibilità della vita, il continuo ribaltamento di stati a cui ciascuno è esposto e dunque a sottolineare anche l’instabilità – oltre alla caducità – del nostro essere e insieme la fragilità della vita.
E’ stata davvero convincente la prima messa in scena di “Futuro anteriore”, opera prodotta dal Teatro Off di Ferrara, con il sostegno del Mibac e Siae, che ha debuttato ieri sera nello spazio-laboratorio al baluardo del montagnone e che ha già fatto il tutto esaurito anche per le due repliche odierne.
Merita però attenzione questa proposta. Il tema, delicato, è affrontato con una garbata ironia che non urta la sensibilità, ma anzi la amplifica, poiché in questo sarabanda di ruoli interscambiabili e di situazioni continuamente incerte e mutevoli, lo spettatore viene coinvolto e avviluppato senza la possibilità di identificarsi in una specifica figura, ma, anzi, indotto a calarsi nei panni di ogni personaggio.
Il copione riproduce precarietà e alternanza di stati assumendoli come peculiarità proprie della vita, che non garantisce certezza ad alcuno e che ci rende oggi re e un attimo dopo schiavi, ora felici e domani affranti, ieri migranti e adesso signori…
Bravi e convincenti Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto, Gloria Giacopini, Matilde Vigna guidati dal regista Giulio Costa che ha lavorato su un testo originale di Margherita Mauro. Con la loro recita hanno saputo significare e sottolineare la caducità della nostra umana condizione, alludendo al destino incerto che ognuno deve affrontare. Abili e convincenti nel passare a scena aperta, nel tempo di una battuta, e in una sorta di recita a soggetto, a interpretare contrapposte situazioni sempre ben caratterizzate nei toni, nei gesti, nella mimica peculiare delle figure evocate (figli e genitori, individui autonomi e soggetti non autosufficienti), rendendo credibili i propri personaggi. Il pubblico ha più volte sottolineato il proprio apprezzamento, durante e al termine della recita.
LA SICUREZZA E’ UN DIRITTO. E’ UNA COSA SERIA. SI COSTRUISCE ASSIEME.
NON FACCIAMOCI IMBROGLIARE DA CHI PENSA SOLO A DIFFONDERE PAURA E ODIO PER INTERESSE ELETTORALE
Repressione della criminalità, non delle comunità.
Ferrara è una città aperta e sicura, ma ancora una volta viene dipinta come “città sotto
assedio”, “città della guerriglia urbana” e perfino “città della guerra”. Questo è l’uso che sta
facendo la politica dei nostri disagi. Cercano di guadagnare voti con promesse di soluzioni semplici e radicali come l’uso dell’esercito, scelta rarissima persino nei quartieri più violenti
delle metropoli europee. Tante promesse urlate nessun progetto realistico o realizzabile.
Anche se i reati complessivi sono in calo, in certe zone della nostra città alcuni atti criminali
sono in aumento. I problemi che esistono nella zona GAD vanno contrastati con maggiori investimenti, maggior coinvolgimento delle comunità, maggior formazione delle forze dell’ordine, e maggiore conoscenza dei contesti multiculturali.
Spacciatori e comportamenti scorretti vanno perseguiti, la legge va applicata. Questa
criminalità va contrastata dai professionisti delle forze dell’ordine, che devono avere tutte le
risorse e le competenze necessarie per svolgere il lavoro. Non esistono soluzioni a basso
costo. Non esistono soluzioni semplicistiche e militaristiche.
In un contesto di crescente povertà, le prime vittime della criminalità sono sempre i più
poveri, i più vulnerabili. In Italia, e in tutto il mondo, la povertà è sempre stato terreno
fertile per l’instaurarsi della cultura dell’illegalità. Uno dei primi doveri delle autorità
cittadine è quello di proteggere i cittadini più disagiati, per il bene di tutti.
Le esperienze di centinaia di città in tutto il mondo ci insegnano che questo lavoro si basa
anche sulla creazione di canali di comunicazione e di legami di fiducia con le comunità più
a rischio. Se ci sono bambini che hanno difficoltà ad andare a scuola vanno aiutati, se ci
sono donne che hanno bisogno di uno spazio, cerchiamolo insieme. Le barriere linguistiche
e culturali vanno superate puntando anche sulla collaborazione delle famiglie, dei figli
scolarizzati in Italia. Il rapporto di fiducia con i giovani della prima generazione dell’Italia
multietnica è molto importante. Il quartiere va rivalutato incentivando l’apertura di esercizi commerciali, l’uso dei locali vuoti, promuovendo attività culturali.
La demagogia non serve. Crea solo danni. Più di qualsiasi altra cosa, le famiglie, immigrate o non, desiderano un futuro sereno per i propri figli, come tutti. E’ la nostra città! Ne vogliamo perdere un pezzo?
Spaventano le parole che sentiamo circolare, anche da soggetti pubblici. Dove portano? Ad una battaglia razziale?
Un quartiere militarizzato è un quartiere perso per tutti.
Ferrara è una città aperta e sicura, e deve rimanere tale per le prossime generazioni.
Guardiamo al futuro con ansia, desiderio, aspettative, speranze, disillusioni, inquietudine, preoccupazione, a volte anche gioia, perché costruire visioni dà alle nostre azioni una qualche direzione. Il futuro, così come lo cerchiamo nelle nostre raffigurazioni mentali, nelle proiezioni o nella letteratura d’anticipazione è un’astrazione, l’astrazione di un desiderio o di una paura che abbiamo oggi e che diventa una presenza impalpabile. Nel nostro sistema cognitivo siamo costretti a immaginare il futuro ed è ciò che ha reso grandi i nostri progenitori: preconizzare un tempo a venire è ciò che dà forma al presente.
Abbiamo bisogno di profeti e profezie; i media chiedono previsioni di esperti e siamo intransigenti quando falliscono, anche se sappiamo che la complessità rende tutte le previsioni inevitabilmente difficili, a volte impossibili. Abbiamo bisogno che il futuro possa essere predetto per scienza o magia, da una maga affabulante o dagli algoritmi sofisticati della supertecnologia informatica.
Gli scrittori del passato come Verne, Abbott, Wells, si avventuravano nel futuro con le loro narrazioni affascinanti e straordinarie, ma si tratta di un divenire in cui persone e personaggi rimangono immutabili, mentre tutto intorno a loro cambia, presupponendo che le percezioni culturali e i valori sociali rimangano costanti, mentre ciò che cambia è la tecnologia, che contribuisce a cambiare cultura e valori, accompagnata anche dalla casualità. Oggi il futuro non è più un tempo ‘ulteriore’ ma è diventato un tempo ‘che sta dopo’ diventando una procedura, una mera amministrazione del presente applicata nel futuro, sottoposta a controlli che convalidino la correttezza dell’intero processo. Studi sul futuro e metodologie di previsione da parte del mondo accademico sono state sviluppate per informare i politici sugli scenari ipotizzati, rassicurare o allertare investitori e imprenditori, tracciare linee previsionali in merito a ciò che deve ancora accadere a breve, medio e lungo periodo, sulle tematiche più diverse.
Nelle opere letterarie delle varie epoche passate, in cui dominano l’aspetto onirico, l’attesa, la scoperta, la conoscenza e la straordinarietà di un futuro, ciò che colpisce profondamente sono i dettagli, spesso incredibilmente esatti, che accompagnano le profezie visionarie che a volte richiamano a un ritorno darwiniano, altre volte sono di rottura totale col presente e con il conosciuto. Romanzi che contengono verità e realtà accostabili alla nostra epoca e rendono il futuro di allora, ormai il nostro passato. Già nel 1818Mary Shelley nel suo capolavoro ‘Frankenstein’ anticipa il trapianto di organi, proprio quando la scienza dell’epoca stava appena iniziando a esplorare le nuove possibilità della rianimazione di tessuti morti attraverso l’elettricità, e qualche decennio più tardi, Michel Verne, figlio di Jules, descriveva nel suo romanzo ‘Un espresso per il futuro’ (1888), un sistema di trasporto simile ai treni ad alta velocità, in grado di viaggiare a 1000 km/h: lo stesso Hyperloop in fase di realizzazione che collegherà, entro il 2025, San Francisco a Los Angeles. Nello stesso anno, Edward Bellamy introduceva il concetto di carta di credito nel suo romanzo utopico ‘Guardando indietro: 2000-1887’, mezzo di pagamento che acquista diffusione solo a partire dal 1950. Nel romanzo di Herbert George Wells del 1899, ‘Il risveglio del dormiente’, esistono porte automatiche scorrevoli che funzionano tramite sensori, scoperta che sarà realizzata nel 1960. Lo scrittore americano Mark Twain, in ‘From ‘The London Times’ in 1904’, un breve racconto del tempo, immagina un dispositivo capace di collegarsi alla rete telefonica per creare un sistema mondiale di condivisione di informazioni, chiamato telectroscopio, attraverso il quale le persone rendono pubbliche e commentano le proprie azioni quotidiane, pur essendo molto lontane. I social di oggi. Scrive: “La connessione fu fatta con la stazione telefonica internazionale e giorno per giorno parlò con la sua gente, e si rese conto che per grazia di questo meraviglioso strumento, era quasi libero come gli uccelli del cielo, sebbene prigioniero sotto serrature e sbarre”. E sempre a proposito di tecnologia, Hugo Gernsback descrive senza esitazione l’impiego dell’energia solare, la tv, i registratori a nastro, i film sonori e i viaggi nello spazio, nel suo romanzo ‘Ralph R4 C 41+’ del 1911.
Intuizioni, visioni, immagini, grande slancio creativo fantastico che accompagna anche l’immancabile ‘Farenheit 451’ di Bradbury (1953), popolato di nuovi congegni e scoperte come la tv a schermo piatto e le ‘conchiglie’, dispositivi portabili non molto diversi dagli attuali auricolari. Ambientato nel 2540, il romanzo di Aldous Huxley ‘Il mondo nuovo’ (1931) anticipa la nascita degli antidepressivi o ‘pillole dell’umore’, che i personaggi chiamano ‘Soma’ e che gli scienziati non iniziarono a studiare prima degli anni Cinquanta. Il ritratto di una società capitalistica dipendente dalle droghe, che dà più valore alla libertà sessuale che alla monogamia ed è strutturata in caste. Un cult del romanzo anticipatorio è naturalmente ‘2001 Odissea nello spazio’ di Arthur C. Clarcke (1968), dove si scrive di vita intelligente, guerra nucleare, evoluzione e pericoli dell’intelligenza artificiale, super computer. Ma la previsione più accurata riguarda i fogli elettronici o ‘newspad’, che assomigliano molto all’iPad. In tempi più recenti, ‘Neuromante’ di William Gibson (1984) anticipa quello che negli anni Novanta diventerà popolare: la diffusione del World Wide Web e la nascita degli hackers. La maggioranza della gente stava ancora esplorando il funzionamento del computer, mentre i personaggi di Gibson lo utilizzavano agevolmente e altrerttanto agevolmente rubavano i dati agli altri utenti. ‘Tutti a Zanzibar’ è il romanzo di John Brunner del 1968, uno dei libri con il maggior numero di spoiler: si parla di tv on demand (che acquisterà diffusione nel 2009), tv satellitare, stampante laser, auto elettriche, legalizzazione della marijuana in molte nazioni ed Unione Europea. Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti, governati dal Presidente Oboni.
Sogni, deliri, profonde intuizioni o cos’altro? Scriveva Karl Popper: “Il futuro è molto aperto, dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero, dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.
In una stagione in cui le ‘piazze’ virtuali stanno prendendo il sopravvento su quelle fisiche e reali, e in cui c’è quindi il rischio che le interazioni e le comunicazioni umane prendano le sembianze di gare narcisistiche a chi crea l’identità più incisiva e attraente, oppure di discussioni aggressive senza preoccuparsi troppo di conoscere l’altra persona, gli spazi e le occasioni di creare confronto più genuino e riflessione comune sulle tematiche più disparate costituiscono nuovi catalizzatori di connessione umana ed empatia.
A Ferrara si è provato a fare un esperimento per esplorare queste potenzialità utilizzando la ‘cassetta degli attrezzi’ che ci siamo costruite negli anni, quella da psicoterapeute, unendola alla passione per il cinema. Il binomio psicologia e cinema non costituisce una gran novità: da sempre il cinema ‘attinge’ dall’inesauribile bacino costituto dalle emozioni e si sporca le mani infilandole nel torbido delle passioni. Comprensibilissimo, essendo il cinema una modalità di raccontare il quotidiano, che risponde pertanto a un bisogno, quello della narrazione, che l’essere umano ha da sempre. Narrare storie, da quelle fittizie a quelle più realistiche, aiuta a spiegare, a dare un senso, ma anche creare e consolidare un senso di identità e di comunità. Allo stesso tempo, immaginare scenari alternativi può anche servire a sperimentare un nuovo punto di vista nei confronti del già conosciuto e vissuto quotidiano: a tal proposito si pensi al fatto che le primissime scene girate dai fratelli Lumiére hanno ripreso proprio momenti di vita quotidiana, e per di più personali: gli operai all’uscita della fabbrica dove loro stessi lavorano, una petit dejeneur con moglie e figlia di uno dei registi…
La necessità insomma di provare a guardare il conosciuto con un paio di occhiali diversi. In questi termini, prezioso è il parallelismo tra i meccanismi psicologici messi in moto dal cinema (inteso sia come sua creazione che come sua fruizione) e quelli messi in moto dalla psicoterapia, che tra gli obbiettivi principali ha proprio quello di far “decentrare” la persona dalla narrazione della vita in cui è immerso e alla quale è profondamente attaccato e osservare con consapevolezza le caratteristiche del proprio personalissimo “paio di occhiali per guardare il mondo”.
Desiderando proseguire con tale parallelismo tra cinema e psicoterapia, meccanismi cognitivo-emotivi potentissimi che si attivano nella visione di un film sono quelli dell’empatia e dell’immedesimazione: pur consapevoli che ciò che vediamo sullo schermo è fittizio, inevitabilmente cediamo alla “suspension of disbelief” (Coleridge) che consente di immedesimarsi nei personaggi e nelle storie raccontate e provare emozioni reali, e fare riflessioni, siano essi parallelismi o prese di distanza, tra ciò che vediamo e la vita vissuta. E ancora, il riconoscimento sullo schermo di emozioni o situazioni simili a quelle da noi vissute nella realtà ha un potente effetto di validazione, ovvero la conferma del fatto che un particolare vissuto è comprensibile, normale, e, potenzialmente universale (soprattutto tenendo in considerazione il contesto e gli antecedenti nei quali è prodotto). Validare un’emozione aiuta a sentirsi meno soli, alieni o diversi da ciò che ci circonda (sensazioni che spesso possono essere all’origine del malessere interiore).
Nel primo esperimento di questo Cineforum sulle emozioni – intitolato ‘CINEMozioni‘ – abbiamo affrontate tre tematiche: ‘Connessioni Pericolose, il ruolo della Rete nel plasmare il quotidiano’; ‘Imbarazzo ed estraneità, 100 sfumature di timidezza’; ‘Il re è nudo! la coesistenza di grandiosità e fragilità nel Narcisismo’. Tali tematiche sono state affrontate proponendo una breve introduzione iniziale ai temi trattati, la visione di alcuni spezzoni di film (per esempio per la serata sulle Connessioni Pericolose il film ‘Her’ di S. Jonze e l’episodio ‘Caduta Libera’ della serie Black Mirror; per la serata sulla timidezza pezzi di ‘Il riccio’ di M. Achache, ‘I sogni segreti di Walter Mitty’ di B. Stiller ed ‘Emotivi anonimi’ di J. Ameris; per la serata sul narcisismo i film ‘E’ solo la fine del mondo’ di X. Dolan e ‘Anomalisa’ di C. Kaufman), seguita da un confronto libero finale.
Cosa è successo in queste serate? Ci siamo ritrovati circa in una ventina di persone complessivamente e dopo le visioni proposte si sono creati momenti di confronto e discussione sui temi proposti ed i vissuti attivati, spaziando da tonalità di piacevolezza, a sfumature di fastidio e bisogno di rimarcare la distanza o il non accordo con i vissuti rappresentati. Attimi e fenomeni, noi crediamo, molto preziosi. Vorremmo ripetere questa esperienza aumentando ancor di più la dose di partecipazione, partendo per esempio proprio da una progettazione partecipata: quali tematiche affrontare? Attraverso quali pellicole? E’ possibile creare momenti e spazi di condivisione e di ‘ri-alfabetizzazione’ emotiva attraverso il cinema, anche per promuovere una visione della psicologia non basata sulla demarcazione tra salute e malattia, ma su un continuum tra benessere e malessere che caratterizza la condizione umana?
L’interesse inatteso, la telefonata al momento giusto e la condivisione di una passione comune erano segnali che le facevano pensare a qualcosa di diverso, finalmente.
L’età matura di entrambi sembrava una garanzia di rispetto dell’altro, di un gioco finito, di un tempo più adatto all’equilibrio che ai rapporti di forza.
Per settimane si erano sentiti e visti tra amici, nella quotidianità di lei lui era entrato esibendo da subito la sua patente: sono sposato ma con mia moglie è finita da anni, frequentiamoci.
La presenza e il fare garbato l’avevano persuasa a vivere quella conoscenza con fiducia e sguardo avanti, da tempo non riceveva tante attenzioni.
Il primo appuntamento era fissato per una domenica pomeriggio d’inverno: cinema e pizza. Ma dal mattino di quella domenica il telefono era rimasto inspiegabilmente muto, nessun saluto, nessuna conferma.
Poco prima dell’orario stabilito per l’appuntamento, lei prova a contattarlo, vuole sapere.
“Sto tornando dal pranzo della suocera, ho mangiato troppo. Alla prossima”.
Lei è una donna solida e non permette che ci sia una prossima volta, non così. Coglie immediatamente la verità, non cade nella dipendenza, non gli offre la sua attesa né intende mettersi in coda. È finita l’indulgenza che scusa sempre tutto, non è vero che tanto è lo stesso e può capitare. Crede invece che non serva lui ne faccia un’altra e che la prossima volta diventi l’ennesima volta. Può bastare la prima. Non è arrabbiata, ha visto cosa potrà esserci (e non esserci) davanti e preferisce di no.
Prende la macchina, esce lo stesso e cena da sola, festeggiando buona la prima.
A voi è mai successo di intuire, dai segnali, che un rapporto non sarebbe andato e avete lasciato perdere o vi siete accaniti, provandoci a tutti i costi?
Ferrara andrà presto a elezioni. Onde per cui, dopo i fatti di sabato sera, non potendoli schierare contro i Gilet Jaunes francesi che piacciono tanto a Di Maio, Matteo Salvini manderà altri militari in Gad.
E’ così che la nostra povera città sale agli onori delle cronache. Siamo dunque allo stato di guerra? Scusate, ma io non ci credo. La ‘soluzione militare’ è la peggior soluzione possibile, è pura follia: un buon modo per attizzare il fuoco invece di spegnerlo. Forse però bisogna alzare gli occhi da Ferrara, guardare il quadro da un po’ più lontano. Altrimenti non si capisce.
Prologo western
Tutte le volte che incontro il ministro Salvini – e lo incontro almeno 20 volte al giorno, data la sua sapienza a materializzarsi in qualsivoglia media. Tutte le volte che lo vedo – e lo riconosco all’istante, anche se lui cerca di disorientarmi cambiandosi la felpa e travestendosi da sceriffo, poliziotto, militare, pompiere, militante di Casa Pound o volontario della protezione civile. Tutte le volte che lo ascolto parlare – usando carezze e promesse, minacce o avvertimenti – mi viene in mente il Vecchio West .
Ho sempre avuto un debole per i film western. Dai classici in bianco e nero come “Ombre rosse” ai capolavori di Sergio Leone, dagli spaghetti western pieni di salsa di pomodoro a quelli dalla parte degli indiani come “Piccolo grande uomo”, da “Kill Bill Volume 1” di Quentin Tarantino, a “Il Grinta” dei fratelli Coen.
Anche il genere western è epica, ancorché un’epica minore rispetto a quella che si studia a scuola. Così, non si dà western senza un eroe in primo piano. Senza uno sceriffo e un fuorilegge. Un buono e un cattivo.
La strategia dello sceriffo furbo
In America – nel Vecchio West, ma anche oggi in molti Stati dell’Unione – la carica dello sceriffo è elettiva. Per diventare sceriffo devi convincere i tuoi concittadini che sei tu l’uomo giusto, il più fottutamente duro, l’unico in grado, quando arrivano i cattivi, di “mettere le cose a posto”.
Matteo Salvini è uno sceriffo particolarmente furbo. La sua nuova Lega, meno nordista e più nazionalpopolare, ha sostituito il rito dell’ampolla del fiume Po con il formidabile algoritmo ‘Bestia’, basando molte delle sue fortune sul martellamento mediatico: viva la sicurezza e addosso gli immigrati.
Che poi in Italia, dati ministeriali alla mano, non ci sia né un’emergenza sicurezza (nel Belpaese si delinque più o meno come ieri o l’altro ieri) né tantomeno una emergenza sbarchi (calati di oltre l’80% nell’ultimo anno), ha poca importanza. Né ha importanza che l’Italia (quella in carne e ossa) sia afflitta da ben altre emergenze: poveri in aumento esponenziale, disoccupazione al palo, aziende che chiudono, produzione industriale a picco, ambiente disastrato, periferie abbandonate a se stesse, scuole col tetto pericolante e senza termosifoni .
L’elenco potrebbe continuare, ma sarebbe davvero inutile. Il superlavoro mediatico, l’infinita campagna elettorale dello sceriffo furbo è tutta concentrata sulla paura. La paura degli immigrati: che ci portano via il lavoro, abitano nelle nostre case, mangiano il nostro pane a ufo, vendono droga agli angoli delle strade. E soprattutto delinquono: a tutto spiano: da mane a sera: di giorno e di notte.
La insicurezza non è un’invenzione, però…
Bisogna intendersi. La insicurezza non se l’è inventata Salvini. In Italia sono insicuri i giovani, senza prospettive e che scappano all’estero. Sono insicuri i 6 milioni di italiani sotto la soglia di povertà. E’ insicura una classe media sempre meno media e sempre più impoverita. Sono insicuri i milioni di lavoratori precari senza alcuna protezione. Gli operai che perdono il lavoro. I vecchi sempre più soli. L’insicurezza esiste eccome, ma il capolavoro del leader leghista, la sua idea geniale, è quella di aver ‘scovato il colpevole’, di aver offerto agli italiani un capro espiatorio (nero, per giunta) a cui addossare la colpa di tutti i mali.
Per vincere – anzi, per trionfare, visti gli ultimi sondaggi – lo sceriffo d’Italia ha bisogno di aver di fronte un pericoloso fuorilegge. E se il cattivo non c’è, lo sceriffo furbo se lo inventa. Così Salvini ha incanalato tutta la insicurezza che gli italiani vivono ogni giorno, gli ha dato un nome e un cognome: i clandestini, gli africani, gli invasori.
Il cerchio si chiude. Sarà poi lo stesso sceriffo, sfidando a duello il cattivo, a riportarci la pace e la sicurezza perduta.
Decreto Sicurezza? Aou contraire
C’è però qualcosa di peggio, di più furbo – e di più cinico – nella strategia di Matteo Salvini (sul cinismo leggete “M” di Antonio Scurati e vi chiarirà molte cose). Nei panni del Grande Comunicatore, il leader maximo della Lega alimenta una formidabile macchina mediatica contro profughi, immigrati e stranieri in genere. E sempre lui, questa volta come Ministro degli Interni e domus del governo giallo-verde, si impegna concretamente per aumentare il tasso di insicurezza in circolazione nel Paese. Perché, come si sa, le parole non bastano: ci vogliono i fatti.
Il fatto più eclatante, il provvedimento più gravido di conseguenze nefaste è il D.L. 113, meglio conosciuto come ‘Decreto Sicurezza’, voluto fortissimamente da Matteo Salvini e votato con la fiducia da un Parlamento silenziato. Un decreto che sembra fatto a bella posta per mettere in circolo altra insicurezza, altra paura, altro razzismo.
Il decreto dimezza i fondi per l’accoglienza, segnando la probabile morte dell’esperienza degli SPRAR, un esperimento forse imperfetto, a volte mal gestito, ma sicuramente il progetto più avanzato e intelligente per l’integrazione. Chiudono gli SPRAR e vengono ‘liberati sul territorio’ migliaia di profughi: a stazionare nelle piazze e nelle stazioni, a ingrossare l’esercito dei lavoratori schiavi, alcuni ad arruolarsi nelle fila della malavita organizzata.
L’articolo 13 del Decreto reca invece le “Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica”. Bastano poche righe e il permesso di soggiorno non costituisce più un titolo per aver diritto al certificato di residenza. E’ una misura assurda, lesiva dei diritti più elementari della persona, ma – vista dalla parte dello sceriffo Salvini – è un modo perfetto per fabbricare nuovi clandestini. Un sistema per creare più disagio, più precarietà, più insicurezza.
Il monello e il vetraio
Alla fine, non ci vuol molto a scoprire il gioco di Matteo Salvini. La sua strategia si basa su un trucco vecchio come il mondo. Ce lo racconta Charlie Chaplin, senza bisogno di parole, nel suo capolavoro “Il Monello” (1921). Il monello passa per la strada, tira sassi e rompe i vetri delle finestre. Appena dietro di lui, arriva un omino con il suo carretto: è il vetraio che offre il suo servizio ai poveri abitanti con le finestre rotte.
Il monello e il vetraio – ma gli abitanti della via non lo sanno – lavorano assieme, fanno parte della stessa ditta: uno rompe e l’altro si offre di aggiustare. Salvini però è ancora più bravo, recita entrambe le parti in commedia: il monello e il vetraio. Fabbrica ogni giorno più insicurezza e contemporaneamente appare come colui che ci porterà in dono la sicurezza perduta.
Ma se il giochino della ‘fabbrica della insicurezza’ è così elementare, perché gli italiani (compresi i tanti con le finestre rotte) non hanno ancora mangiato la foglia?
Evidentemente non è così semplice.
Infatti la fabbrica della insicurezza lavora senza sosta. In tutto il mondo. Di qua come di là dell’oceano, dove, per finanziare il suo Muro contro un nemico inesistente, Donald Trump bypassa Congresso e Costituzione americana e proclama lo stato di emergenza nazionale.
La fabbrica della insicurezza non è una novità. L’abbiamo già vista in passato in piena produzione. Anche in Italia, con un esito tragico. Quella volta ci sono voluti più di vent’anni e una guerra orrenda, perché noi italiani aprissimo gli occhi. La speranza è che questa volta ce ne possiamo accorgere un po’ prima.
Voglio essere estremamente chiaro a proposito dei fatti accaduti a Ferrara sabato notte.
Quel che è successo è gravissimo e non ha precedenti nella nostra città.
Siamo di fronte a una pericolosa banda di criminali e spacciatori.
Gli artefici dei disordini sfruttano la loro nazionalità e il colore della pelle come alibi.
Nazionalità e colore della pelle non sono un’attenuante. Diritti e doveri sono gli stessi per tutti. Questo pone sullo stesso piano chiunque, di qualunque razza o credo religioso e politico sia. Le attenuanti valgono solo in ragione (per esempio) di uno stato di necessità o di estrema indigenza. E valgono per tutti alla stessa maniera. C’è una differenza abissale tra chi ruba o delinque per lucro e chi lo fa per sopravvivenza.
I delinquenti che hanno creato una situazione di forte allarme sabato sera nell’area del grattacielo non agivano in stato di necessità, ma mossi dai loro loschi interessi e per la tutela dei loro traffici illeciti. Non meritano alcuna indulgenza.
Chi sui social minimizza o esorta il ministro Salvini ‘a guardare piuttosto a quel che succede a Napoli’, usa un espediente arrugginito: non è cercando di spostare l’attenzione altrove che si risolvono i problemi. E, anzi, in questa maniera si inaspriscono gli animi e si inducono reazioni altrettanto insensate, come quelle di chi, esasperato, finisce per assimilare indiscriminatamente tutti i migranti ai criminali.
Va ribadito che la distinzione fra persone perbene e delinquenti è trasversale alle razze, alle religioni, alle ideologie. Ciascuno per sé è chiamato a rispondere di ciò che fa e di ciò che non fa. E nessuno può essere accusato di correità semplicemente per il fatto di condividere il colore della pelle oppure un credo politico o religioso.
Per contrastare il fenomeno della criminalità è necessario creare un coordinamento tra le forze dell’ordine sotto il patrocinio della Prefettura, così come avvenne a Ferrara, con ottimi risultati, già una dozzina di anni fa fra Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, quando, fra l’altro, fu sgominato lo spaccio di droga nel sottomura.
L’Amministrazione comunale è chiamata prioritariamente a intervenire su due fronti: quello della mediazione culturale attraverso i propri operatori e quello dell’ascolto dei cittadini e delle loro esigenze, per fornire risposte concrete tenendo conto anche delle soggettive ‘percezioni di insicurezza’, ed evitando sterili predicozzi sociologici.
In conclusione: un gruppo di delinquenti ha tenuto in ostaggio la città per qualche ora, come mai era accaduto prima, minacciando, creando impedimenti al traffico, ostruendo l’accesso alla stazione e generando un situazione di evidente pericolo. Se si nega questa evidenza (paradigmatica rappresentazione di altre, meno drammatiche ma analoghe quotidiane situazioni di pericolo), si finisce inevitabilmente per suscitare una reazione di rabbia che andrà ad alimentare il pregiudizio anche attorno ai migranti che agiscono correttamente e si arrabattano ogni giorno per sopravvivere in maniera onesta.
Con un po’ d’apprensione partiamo per elaborare il lutto della pelosa. Destinazione, la città che dopo Venezia amo (forse) di più al mondo: Napoli. Albergo antico, quando a Napoli soggiornavano i reali e naturalmente si chiamava Excelsior, a via Partenope con vista sul borgo di santa Lucia. “Luxe, calme et volupté”.
Sembra una città totalmente diversa da quella che ero uso frequentare. Il caos è lo stesso, ma disciplinato. La luce accecante di giornate ventose e limpide crea quell’ambiente che solo Napoli sa inventare tra povertà e ricchezza; tra bassi apparentemente infrequentabili e palazzi che mostrano con indifferenza e noia le loro ferite, portate come medaglie. Certo un po’ di apprensione fugata da compatte schiere di guardie e poliziotti che ti sorridono e ti augurano ‘buongiorno’ mentre ‘lento pede’ ci avviciniamo a Piazza Plebiscito, immensa, dove i ragazzini giocano a pallone e nel momento in cui il crepuscolo accende di luci rosate un cielo di porcellana facciamo la nostra entrata al ‘Gambrinus’. Un perfetto cameriere nero con voce profonda e totalmente napoletana ci avverte che i tavolini sono riservati per la conferenza. “Quale?”, domando incuriosito. “Quella sul libro del prof Occhetto” mi si risponde. “Se vuole…” No! grazie.
Dall’altra parte della strada occhieggia l’insegna della Trattoria del professore Posso lasciarmela scappare? Ma risulta esaurita. Ci rimane la Galleria Umberto; il sorriso si spegne quando osserviamo i preparativi degli homeless – tanti – che si preparano per la notte e noi ci dirigiamo per l’aperitivo da Bellavita, che offre quello più classico della città. La direttrice mi sussurra “amore, le è piaciuto l’aperitivo?”. Assento vigorosamente e l’ex bella accenna a un sorriso sdentato. La sapiente cognata ci aveva indicato una trattoria che risulta tra le sorprese più belle del soggiorno: Da Marino a Santa Lucia. Quarta generazione di proprietari. Ex latteria aperta nel 1934; locale assai piccolo ma… un ‘biggiù’ direbbero lì. Profumi, sapori, accompagnati da trionfali Falanghine.
Il locale sembra un santuario. Sotto vetro tutte le maglie del Napoli compresa quella di Maradona. Dentro una teca il pallone naturalmente firmato da lui e alle nostre spalle la foto di un’immensa macchina anni Trenta dove, accanto ad essa, un fiero signore osserva orgoglioso grappoli di scugnizzi che s’arrampicano su ogni sporgenza della vettura. Chi sarà mai stato?
Il giorno dopo ci rechiamo a Capodimonte. Il parco è pieno di gente che passeggia. I poliziotti ci accolgono con squillanti benvenuti. Arriva un colosso in divisa. Tiene sotto braccio, come una baguette, un pelosino felicissimo. Mentre gli gratto la gola racconto all’umano la fine della mia Lilla tra sprizzi di lacrime. Mi consola con generosa partecipazione e la baguette-canino ci elargisce una leccatina comprensiva. Entriamo al Museo e non possiamo credere: siamo soli come fossimo Carlo III che passeggia nella sua quadreria. Le meraviglie pittoriche ci osservano e ci chiamano. Così Bellini, Tiziano, Raffaello, Goya, Bruegel e uno sdegnato pannello di piccoli quadri ferraresi tra cui Dosso e Garofalo ci avvertono di non fare i furbi che ‘loro’ sono i concittadini! Poi l’ascesa alla stanza 68. Qui il divino Caravaggio sembra spiegare tutta la sua forza a contrastare i visi malvagi dei torturatori e un bianco velo copre il sesso elevandolo a poesia. Storditi da tanta bellezza sentiamo improvvisamente bisogno di ‘lavarci le mani’. Un sollecito guardiano ci indica una porta grigia proprio accanto al quadro. Siamo un po’ imbarazzati, quasi sorpresi a compiere un affronto alla bellezza. Ma poi pensiamo: dove trovava i suoi modelli? Proprio in luoghi come questo. E trascurando perfino l’Agrippina di Canova usciamo felici nel sole ventoso. Chi ha avuto un san Valentino più speciale?
E sempre più ci immergiamo nella napoletanità. Chiese e chiese. Il Gesù, il chiostro di Santa Chiara, san Domenico, il Duomo e il tesoro di san Gennaro, a confrontare con la moglie, stupita, se sono più grossi gli smeraldi della mitria o quelli della corona d’Inghilterra. I Domenichino ci ammiccano accennando ai fedeli che s’inginocchiano e accendono candele nella cappella votiva: volti e statue dorate ripetono la grande leggenda del santo napoletano.
Inebriati dalla folla, dai rumori, scendiamo e saliamo: Spaccanapoli, via Toledo. E infine sosta nella piazza più allegra di Napoli: non può essere che piazza Dante. Così a poco a poco si forma la mia geografia interiore: via Francesco de Sanctis, in fila a bocca aperta ad ammirare il Cristo velato, piazza Dante sotto l’immagine paterna, Port’Alba a curiosare tra i libri, san Domenico tra antifonari e meravigliosi manoscritti e tra i presepi a san Gregorio Armeno.
Cosa può avere ancora Napoli? Ma certo i castelli e le fortezze. Il Maschio angioino, il cui nome è già segno di napoletanità, Castel dell’Ovo e lontano, sfumati nella leggera nebbia, Posillipo e Mergellina. Ricordo ancora un piccolo albergo a Posillipo. Si chiama Paradiso. La sera che arrivammo tentarono il furto della macchina e facemmo la guardia tutta una notte nella macchina stessa. Poi arrivò Maradona e ne fece il suo quartier generale. Il chiacchericcio con i tassisti si fa sempre più cordiale. Quasi tutti conoscono Ferrara. Quello che ci riporta alla stazione ha lavorato per anni come camionista tra Napoli e l’Austria e ricorda la nebbia che, gli dico, non c’è più. Quarto di dieci fratelli. Il suo babbo gli chiese se voleva studiare, ma lui preferì il lavoro. A Natale quando si riuniscono l’assemblea è formata da una novantina di persone: fratelli, cognate figli e nipoti. Con orgoglio gli dico che sotto casa a Ferrara ho un vero pizzaiolo di Napoli che le fa buone come nella sua città.
Mi sorride complice e promette che passerà a salutarlo quando ritornerà a Ferrara.
“Notte di disordini a Ferrara. Roba da matti. Grazie alle forze dell’ordine. Sarò presto in città per mettere un po’ di cose a posto”. Quanto ci sia dello Spaccone-Paul Newman e quanto dell’uomo della Provvidenza-Benito Mussolini nel ministro dell’Interno – nonché segretario nazionale della Lega – Matteo Salvini è difficile valutare. Di certo, avessimo le doti dell’esorcista, intimeremmo un “esci da quel corpo, spirito immondo”. Il problema è che quello spirito non pare un intruso, ma si direbbe proprio connaturato nell’alfiere leghista.
Una nuova occasione per mostrare le sue muscolari e taumaturgiche doti gliel’hanno offerta i disordini scatenati a Ferrara sabato notte da un gruppo di nigeriani nella zona del grattacielo. Così, come i Pigiamini supereroi dei cartoni animati che stuzzicano la fantasia dei bimbi e “di notte risolvono la situazione”, il Matteo-nazionale è pronto per un’altra impresa. E proclama, spavaldo, la sua intenzione.
Lo attendiamo, dunque, con indosso la consueta divisa, ormai suo costume di rappresentanza: giubba della polizia che ostenta con sistematicità, suscitando nella pancia di qualcuno un senso di protezione e nella testa di altri i fantasmi di uno Stato repressivo che, incapace di far valere le norme del diritto e di favorire un civile dialogo all’interno della comunità, sceglie sbrigativamente di risolvere i problemi a pistolettate, non sempre e solo verbali. Intendiamoci: un conto sono i poliziotti veri, quelli che tutti i giorni svolgono con dedizione il loro lavoro per garantire la nostra incolumità. Altro è il ministro-travestito, travisato da tutore dell’ordine per ragioni scenografiche e dimentico del fatto che il suo dovere non è intimare, ma esortare, non è mostrare i muscoli ma il cervello.
La polizia è un apparato dello Stato, ed è intollerabile la concezione di uno Stato di polizia evocata dalla divisa indossata da un ministro…
Venerdì arriva in libreria “Responsabilmente liberi”, edito da Diabasis, di cui sono autore. Alle 18 a Ibs saranno con me a presentarlo Fiorenzo Baratelli, direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara, e Giuliano Gallini, scrittore (Il confine di Giulia, Il secondo ritorno).
Anticipo qua l’introduzione al testo, precisando che il libro si articola attorno a cinque principali nuclei di riflessione: il dialogo, in considerazione di ciò che lo favorisce e di ciò che lo ostacola; la conoscenza come ineludibile presupposto alla formulazione del giudizio; il mondo dell’informazione come strumento di percezione e interpretazione della realtà nelle sue varie ambivalenze; la politica, nelle sue istanze partecipative e nelle sue derive oligarchiche, con riferimento a preziosi ma oggi rimossi o vituperati concetti quali utopia e ideologia; e infine, gli effetti del modello di sviluppo capitalistico attuale, fondato sull’esasperato consumismo e sull’imperante individualismo, e il contrappasso della solidarietà ai dominanti egoismi.
Il dialogo, antidoto alla strenua difesa delle proprie certezze
Innalziamo muri, erigiamo barriere. Continuiamo a rinchiuderci in noi stessi. L’antica immagine di una città fortificata ben descrive la nostra attuale situazione: di una comunità impaurita, rinserrata nei propri spazi e nelle proprie certezze. Diffidente e timorosa, solida solo delle sue presunte verità.
Oggi la paura sembra identificarsi principalmente con il migrante al quale sbarriamo gli accessi, come i nostri avi nel medioevo respingevano gli ‘invasori’ negando simbolicamente loro acqua e fuoco e premurandosi di edificare mura di protezione attorno a sé.
Fa impressione, ora, questo nuovo prodigarsi a erigere muri anche da parte di coloro che agli ultimi bagliori del Secolo breve salutarono con gioia il crollo di quello che per tutti era “il Muro”, fosco emblema della libertà negata. Ma adesso gli stessi ergono altre barriere, forse illudendosi così di difendere le loro precarie conquiste… Ma quale libertà può esistere in un bunker? Questo vano costruire steccati è solo il sintomo del disfacimento della coscienza civile, che non trovando in sé la forza per riconsiderare gli attuali equilibri e accogliere chi erra in cerca di vita, si fa scudo di artefatti che mai potranno arginare l’inevitabile fluire del fiume della storia.
Ci sono muri fisici e muri simbolici, che si stagliano nella mente: e sono questi i più pericolosi, poiché le pietre che li costituiscono sono quelle del pregiudizio. Esprimono il bisogno di barricarsi a tutela di presunte verità sulle quali fondiamo le nostre esistenze. Vorremmo evitare il contagio, la contaminazione con altre culture, altri mondi, altri modi di concepire la vita e condurre l’esistenza. E ci illudiamo di poterlo fare.
Da sempre ciò che spaventa è la diversità, in senso lato. È la differenza: tutto ciò che sembra non appartenerci ci mette in crisi, perché ci costringe a riconsiderare vie nuove, alternative ignote. Quel che non fa parte delle consolidate abitudini, non appartiene alle tradizioni, agli usi e costumi, alla nostra cultura pone a repentaglio le fragili – ma per noi preziose – certezze a cui ci abbarbichiamo: come una scossa sismica, la diversità fa vacillare i sicuri anfratti in cui trovano rifugio gli interrogativi che la vita ogni giorno pone, solleva l’obbligo di interrogarci su scelte che diversamente apparirebbero scontate e indiscutibili.
E’ di altri ponti, invece, che avremmo bisogno per valicare i torrenti della paura e invitare altri a fare lo stesso. E’ il ponte l’ideale elemento di congiunzione, il segmento che realizza il senso e l’urgenza delle pratiche indicate dall’etica della comunicazione, ossia da quella disciplina che pone al centro il dialogo e senza l’ambizione di definire il quadro assiologico di riferimento indica formalmente le procedure attraverso le quali gli individui possono confrontarsi nel rispetto gli uni degli altri, alla ricerca di soluzioni condivise a problemi comuni.
Dovremmo avere la forza e il coraggio di mollare gli ormeggi e far vela verso orizzonti inesplorati, alla ricerca di nuove terre, di sapori sconosciuti, di inedite fragranze. Dovremmo avere l’ardire di volgere il nostro viaggio verso Itaca, con occhi assetati e menti attente e curiose ad ogni passo, poiché del viaggio ciò che conta non è la meta ma il cammino.
Il ponte è precisamente questo: un elemento di congiunzione, un tratto di unione, il tassello che ci avvicina e ci fa conoscere. E’ l’invito al dialogo, al confronto, all’apertura, all’incontro.
E la conoscenza è l’unico antidoto al pregiudizio. Solo conoscendo, aprendoci, possiamo vincere le paure e scoprire la ricchezza che c’è nell’altro, in ogni altro, e che è parte di ogni individuo, di ogni essere vivente.
Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.
SALVIAMO LA BIOSFERA!
Muoiono tanti insetti
Troppo cemento
Troppi veleni
Troppo caldo
Loro tengono in ordine il pianeta
Sono i pifferai del polline
Cibo per gli uccelli
Gli anfibi
I rettili
E questi dei mammiferi
E loro di noi
Noi padri e madri
Vediamo incenerirsi il domani
Del mondo
Mentre chiusi nel qui e ora
La nostra era
É autodistruttiva
Siamo ancora in tempo
Cambiamo rotta
Salviamo la biosfera
DUE MAGGIOLINI
Tu ed io siamo
Due maggiolini
Non Volkswagen
No quegli insetti
Rotondi piccolini
Un po’ alieni
prediletti
Muoiono nella luce
A milioni
I nostri beni
Naturali
Nel buio corrotto
Da prodotti letali
Nuovi fitofarmaci
Che uccidono a dirotto
NOI siamo quelli
E stiamo vicini
Nella oasi fiorita
Stiamo la’
Tutta la vita
Non è mia abitudine scrivere sui social nè di dare sfoggio di me pur consapevole di quanto la pubblicità sia l’anima del commercio. Sento comunque il dovere morale di prendere posizione a favore di ciò che è solita affermare il curatore d’arte Laura Rossi relativamente al mondo dell’arte e come questo sia spesso gestito da individui, cosiddetti critici, ma anche galleristi o comunque fabbricanti di artisti, venditori di parole e di illusioni. E’ noto a tutti, o quasi a tutti, come codesti artigiani lavorino: l’illusione di essere considerato un artista o quantomeno un buon pittore piace a tutti coloro che praticano questa attività. E’ risaputo, l’artista o chi si ritiene tale è spesso preda di una componente narcisistica non indifferente, non un sano narcisismo che spinge a proiettarsi in avanti, ma una debolezza che spesso rende schiavi. E’ proprio su questa debolezza che personaggi con pochi scrupoli, bravi illusionisti giocano le loro carte. E’ solo questione di prezzo! La grandezza di un neofita aspirante artista o anche di un vecchio mediocre praticante dell’arte è direttamente proporzionale all’esborso. Vuoi farti conoscere? Nessun problema! Mostre, cataloghi, articoli su quotidiani o anche riviste d’arte, basta pagare. Mi chiedo se esista un tariffario nazionale. Non hai un curriculum adeguato? Lo si costruisce. Vuoi una pagina su cataloghi anche importanti? Paga! Vuoi vedere le foto delle tue opere pubblicate? Paga! Pagando puoi persino esporre in America…Può succedere, probabilmente questa è la regola, perlomeno questa è la mia esperienza che qualcuno ti proponga di firmare ” un contrattino” dove ci si impegna a fare almeno due mostre all’anno per un certo periodo di anni. Ovviamente la presentazione delle mostre e la stesura dei relativi cataloghi sono appannaggio del personaggio con cui ti sei vincolato firmando il ” contrattino”, ovviamente previa adeguato pagamento che viene stabilito verbalmente all’atto del contratto. Può accadere che una volta arrivato, o credendo di essere arrivato l’artista costruito debba continuare a pagare per restare in auge e non cadere nel dimenticatoio. Nel migliore dei casi, nell’ipotesi in cui ci si affidi a qualche gallerista devi dipingere su commissione, che so tre nature morte, due vasi di fiori, dieci paesaggi, cinque informali rossi, due verdi e tre neri. Certo i guadagni per sopravvivere ci sono ma a quale prezzo? Chi scrive è un produttore, forse mi auguro, un ex produttore di ” paccottiglie”, un ex narcisista guarito ed ora disilluso. Siamo nel 1991 o giù di lì che a qualcuno viene l’idea di invitare ad una mia mostra il maestro Franco Farina, direttore della galleria d’arte moderna di Ferrara. In quell’epoca facevo del figurativo ,scimmiottando o credendo di scimmiottare Alberto Sughi. Di quei lavori non resta quasi più nulla, solo alcune tracce che conservo per me come ricordo di un passato poco brillante ( ho avuto il pudore di recuperare le tele e di ridipingendovi sopra). La critica come è intuibile fu inclemente, devastante, spietata tanto che per circa due anni non fui capace di guardare neppure una tela bianca, ma in compenso ho tanto riflettuto guardandomi dentro. E’ grazie a quella critica, che ferì il mio orgoglio ma guarì il mio narcisismo che ho trovato una mia dimensione pittorica. Non vidi più Farina quindi mai saprò cosa direbbe ora dei miei lavori, purtroppo è morto, ma a lui sarò sempre grato. L’augurio che rivolgo a tutti coloro che si dedicano alle pratiche artistiche è quello di incontrare tanti maestri Farina e nessun critico pennivendolo, nessun operatore del settore che sfrutti illudendo. Questo lo so, è solo utopia. Non c’è rancore, nè invidia come qualche meschino potrebbe pensare. Il mio è solo amore per l’arte, quella vera, così svilita in un mondo tanto corrotto che non risparmia nulla. Ho quasi settanta anni ed è finito il tempo della rabbia, è ora il tempo delle riflessioni, se vogliamo della denuncia.
Sentire parlare Renzi di Berlinguer è come sentire Gelain parlare di Edson Arantes Do Nascimiento. Non è semplicemente offensivo, è fuori tema. Non c’entra nulla, sono piani contrapposti, è come scivolare sulle pendici del Montagnone seduti su un cartone e fare la discesa libera sulla Streif a Kitzbühel.
L’ex leader di un partito, che alcuni, ancora, purtroppo, imperterriti ritengono di sinistra, che con orgoglio dichiara di mai essere stato comunista, rivendicando, anche se non palesemente, le sue origini democristiane, è la vera nemesi della evaporazione dei valori di sinistra nella società italiana.
Sia chiaro, nessuna critica a chi è diverso da me, io sono il solito, anacronistico dinosauro e quindi non faccio testo. Ma è interessante analizzare, in maniera sociologica il percorso effettuato dal Partito Democratico, figlio della tradizione catto-comunista italiana, da prima della sua fondazione ai giorni nostri.
Il povero Renzi, figlio dei fantasmi dei Natali precedenti, non perde occasione per dimostrare il suo fastidio nei confronti dei rossi, la lettera scarlatta che lui e pure gli altri, rifiutano senza se e senza ma.
Addirittura nel criticare Berlinguer ed il Pci addita il fatto di essere stato tra la gente, come un difetto, mettendo al primo posto la vittoria elettorale e non la rappresentanza di un popolo. Ricordo al ragazzaccio di Firenze che un Italiano su tre era comunista e che 12.600.000 nostri connazionali a metà degli anni settanta votarono il primo partito in alto a sinistra nelle schede elettorali.
Il coinvolgimento, il sentirsi una piccola parte di una grande utopia, non ha eguali nel misero panorama politico della nostra penisola.
Sarebbe bello un mondo dove i tasselli del puzzle riprendessero ad avere la loro consona collocazione.
Il Renzismo è un sepolcro imbiancato del neoliberismo attuale, il Partito Democratico è (a parere mio) un raggruppamento moderato di una destra liberale.
Mi assumo le responsabilità delle mie opinioni, criticabili, opinabili, ma mie.
Vedrei bene uno schieramento elettorale in stile Nazzareno, probabilmente competitivo alle elezioni.
E la sinistra ?
E’ un’altra cosa.
Non potrà mai esistere, e storicamente mai esistette, una ipotetica unità a sinistra, se non verrà fatta chiarezza su che cos’è o cosa vuole essere la sinistra italiana.
Mille anime, mille rivoli, mille raggruppamenti, che mai vinceranno le elezioni. Ma per ricreare un popolo e ritornare a parlare con quel medesimo popolo è fondamentale, partire da una vittoria elettorale ?
Ecco, io credo sia quello il problema. E’ come se una squadra di calcio dei dilettanti si ponga il problema di vincere la Champions.
Occorre camminare, prima di iniziare a correre.
La modernità di Berlinguer sta nelle sue idee, sta nell’aver capito che il mondo non è o bianco o nero, sta nella ottusa convinzione che gli ultimi sono la base di un qualsiasi raggruppamento di sinistra, che non si vergogna della bandiera rossa e che addirittura ne rivendica la forza trainante di cambiamento della società.
Io ritengo legittime le posizione centriste e centripete di molti esponenti della sedicente sinistra italiana.
Ma non sono le mie.
Non credo che si esca dalla crisi stando né a destra e né a sinistra, così facendo si diventa barricata, parafrasando Lenin.
Semplicemente credo che l’evoluzione del capitalismo rapace, quello della mercificazione e privatizzazione del tutto, abbia fallito, così in Italia e così nel mondo.
La cosa pubblica, il welfare, il solidarismo, “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” (cit.), non sono concetti superati e nemmeno ottuse paturnie di pochi trinariciuti vetero comunisti. Sono il punto di partenza o meglio di ripartenza, di una sinistra di popolo, una sinistra dell’anima, che non ha la velleità di ricostruire uno sbriciolato centro sinistra, ma ha l’obbiettivo di ricostruire se stessa.
Matteo, non volermene, ma non metterti più contro Enrico, non ne hai il fisico, sarebbe come se Patricio Sumbu Kalambay avesse voluto sfidare Muhammad Ali.
Sarebbe stato un match senza storia.
Cordialmente rosso,
e senza vergogna.
Un artista che ha anticipato gli influencer con cent’anni di scarto: è stato anche questo Giovanni Boldini, il pittore nato a Ferrara nel 1842 e diventato uno dei più ricercati ritrattisti del bel mondo a Parigi, dove è morto nel 1931. Nella capitale mondana a cavallo tra fine dell’Ottocento e primi del Novecento, infatti, il pittore ferrarese ha saputo cogliere il grande potere delle immagini, diventando con il suo pennello il veicolo capace di trasformare un abito in un’icona di stile. A raccontarlo – con una mostra creata apposta in base a studi dei carteggi e della documentazione legata alle opere di cui il Comune di Ferrara detiene la più grande collezione al mondo – è l’allestimento intitolato “Boldini e la moda”, che sarà visitabile a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (corso Ercole I d’Este 21) da sabato 16 febbraio fino a domenica 2 giugno 2019. A svelare in anteprima alla stampa e ai mass media ferraresi l’indagine sullo stretto rapporto tra l’arte e il mondo dell’artigianato, del lusso e dell’alta società che diventa il cardine attorno a cui cresce la popolarità delle opere è stata la curatrice dell’esposizione Barbara Guidi, esperta delle Gallerie civiche d’arte moderna e contemporanea che per l’occasione si è avvalsa anche della collaborazione con la storica del costume Virginia Hill.
Allestimento della mostra “Boldini e la moda”, Palazzo dei Diamanti di Ferrara (foto GM)
Gli stilisti creavano gli abiti e lui li faceva indossare a celebrità come la cantante lirica Lina Cavalieri definita la “Venere in terra” da Gabriele D’Annunzio o la ballerina Cléo de Mérode che fece innamorare il re del Belgio. E così il gioco – anzi il quadro – era fatto, in quell’alone impalpabile di sete, veli e velluti preziosi l’incanto si compiva e nasceva la prima grande alleanza tra abilità sartoriale, celebrities e divulgazione per immagini incorniciate e rimbalzate di Salone in salotti.
“Donna con turchese (Cléo de Mérode)” di Giovanni Boldini, photogravure a colori, 1901
“Donna con cappello (Lina Cavalieri)” di Giovanni Boldini, photogravure a colori, 1902
Il nero è chic: altra constatazione modaiola che arriva con un secolo di anticipo. A consacrare il colore dei trend-setter del primo Millennio è un’intuizione che resta inizialmente élitaria e che la mostra testimonia, dedicandole un’intera sala del palazzo dei Diamanti. Sdoganato il colore dall’ambito del lutto e della sera, il total-black diventa segno di distinzione, enfatizzato – come ha spiegato Barbara Guidi – dal fatto che all’epoca solo stoffe di alta sartoria riuscivano a rendere elegante e raffinata questa tinta, impossibile da riprodurre con efficacia su materiali meno lussuosi. E Boldini sulle sue tele ne sa enfatizzare la matericità, rendendo ad esempio davvero palpabile la differenza tra la parte in seta lucida e quella in feltro nella tuba di uno dei ritratti maschili in esposizione.
Ritratto di “Cecilia Fortuny” in giacchetta nera (foto Dino Buffagni per Palazzo dei Diamanti)
“Visite – cappotto in velluto e raso di seta neri appartenuta a Cecilia de Madrazo”
Donne che gli abiti li vestono e svestono. L’altra grande intuizione o anticipazione che si può collegare a Boldini è la sapienza nel rivelare la sensualità che sta sotto gli abiti. Un aspetto a cui è dedicata un’altra sala della mostra “Boldini e la moda”, quella dove si svela il segreto della “Silhouette” accentuata da quell’accessorio intimo che è il corsetto. Ecco allora la bellezza prorompente de “L’attrice Alice Regnault” in abito bianco discinto e già immortalata da Boldini in un paio di stanze prima in abito nero da amazzone che ne stringe sempre la sottilissima vita. Lo stesso accessorio spunta nel disegno a matita e pastello di stile boldiniano ma dell’artista Paul Helleu (“Elegante di spalle con corsetto azzurro”, 1896) e poi c’è lui – il corsetto in raso, seta e stecche di balena – che viene dal Musée des arts décoratifs di Parigi.
“Elegante di spalle” di Paul Helleu, 1896 (foto Dino Buffagni)
Corsetto, Musée des Arts Décoratifs,Parigi (foto Dino Buffagni)
Memorie letterarie sotto le tele. A sancire il peso mediatico dell’arte di Boldini e a conferire alle sue opere quel salto di qualità che le fa uscire dall’effimero modaiolo per consacrarle come stile evocatore di femminilità, lusso e bellezza assoluta contribuiscono le parole scritte. Ecco allora che nella rassegna le pareti di ognuna delle sale dove sono raccolti quadri, abiti e oggetti riporta una citazione presa di volta in volta da scrittori, poeti o anche stilisti. In apertura il riconoscimento di quanto senso di fascinosa bellezza emanino i dipinti boldiniani viene dal grande stilista Christian Dior, che ha scritto “Delle donne della mia infanzia mi resta soprattutto il ricordo dei loro profumi, dei vortici di pelliccia, dei gesti alla Boldini”. Poco dopo è la volta di Charles Baudelaire che coglie il binomio che ci sta sotto, dove ciò che è il presente e l’effimero diventa canone fuori dal tempo: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte la cui altra metà è l’eterno e l’immutabile”. Nella sala dedicata a “Il tempo della modernità”, infine, il rimando tra la signora in rosso del ritratto “Miss Bell” di Boldini e le pagine del libro di Marcel Proust. Perché il dipinto sembra dare forma e colore alla visione della fascinosa donna evocata da Marcel Proust nel romanzo “Du côté de chez Swann”, un’immagine materializzata anche dal recupero di un paio di scarpe di quella stessa tonalità ed epoca, appartenute a una celebre contessa.
Scarpe della contessa Greffulhe e una preziosa edizione del libro di Proust. Sullo sfondo il ritratto in rosso di “Miss Bell” (foto Dino Buffagni)
“La mostra – fa notare l’assessore comunale alla cultura Massimo Maisto – è il risultato straordinario delle competenze messe a frutto dalle Gallerie civiche e Ferrara Arte, che non si comprano ma si fanno crescere sul territorio e restano un patrimonio della città, capace di creare eventi come questo, auto-prodotti e propedeutici a valorizzare una collezione d’arte locale con un valore internazionale”.
Allestimento della mostra “Boldini e la moda” a Palazzo dei Diamanti di Ferrara (foto GM)
“Boldini e la moda”, Palazzo dei Diamanti, corso Ercole I d’Este 21, Ferrara, sabato 16 febbraio-domenica 2 giugno 2019, tutti i giorni orari 9-19
Nella foto di copertina abito da gran ballo bianco con maniche a sbuffo della Fondazione Vassiliev esposto insieme al ritratto della donna in abito bianco “Fuoco d’artificio” di Giovanni Boldini (foto GM)
Nella puntata di A due piazze, Nickname chiedeva una donna più facile da comprendere, una specie di donna-uomo. Ma esiste? Le risposte dei nostri lettori
Divertente e danzante? W la donna-donna!
Cara Riccarda, caro Nickname, scelgo una donna-donna tutta la vita, credo che una donna-uomo sia anche più noiosa di un uomo-uomo. Continuate a danzare che siete il balletto più bello che ci è stato donato. Nicola
Caro Nicola,
potreste almeno fare lo sforzo di accorgervi che noi stiamo danzando proprio lì a un passo?
Riccarda
Caro Nicola,
divertiti. Poi però non venire a lamentarti con noi.
Nick
Donne-uomini e uomini-donne? Si salvi chi può!
Cara Riccarda, caro Nickname, credo che esista anche l’uomo-donna, dentro ogni uomo c’è una parte femminile e viceversa, come in un tao, come quando si fa l’amore. Forse il segreto è la giusta percentuale, l’armonia delle parti. Stefania
Cara Stefania,
posso solo risponderti che Nickname a me dice che, nel comunicare, sono 3D: donna-donna-donna. Fai un po’ tu.
Riccarda
Cara Stefania,
concordo con te, e tifo per le donne con una percentuale maschile del 40%, e per gli uomini con una percentuale femminile del 49%. Così, per giocare…
Nick
Un gioco sospetto e poi… scacco matto!
Cara Riccarda, non ti fidare, è l’ennesimo tentativo maschile di legittimare atteggiamenti poco giustificabili, soprattutto in un rapporto di coppia. Caro Nickname, ma secondo te, alle donne-donne piace veramente giocare a scacchi o vorrebbero, per una volta, avere il piacere di confrontarsi con un uomo-uomo? S.
Cara S.,
parliamo dell’uomo-uomo: anche questa categoria, quando ha l’occasione, prende la scorciatoia dell’ambiguità, del non detto, delle giravolte fino a sfiorare la goffaggine. E la partita a scacchi la giochi da sola.
Riccarda
Cara S.,
alle donne piace molto giocare a scacchi. A prescindere. Solo perché i più famosi campioni del mondo sono uomini, non vuol dire che non sia una disciplina per donne. Vatti a vedere la storia di Judith Polgar (che tra l’altro è una donna bellissima) e poi ne riparliamo.
Nick
50 sfumature di… donna
Ciao Riccarda, ciao Nickname, Comunicare…o non comunicare. Non c’è il momento giusto per comunicare così come non c’è il modo giusto. Per l’uomo, è quasi tutto o bianco o nero. Per una donna, invece, esistono mille sfumature in tutti i sensi e in tutti i campi. Molto del “detto” resta non percepito, non spiegato. Il “non detto” poi è proprio ostrogoto. Non penso sia cattiveria o malafede da parte dell’uomo non capire pienamente e a fondo i discorsi delle donne. Credo che semplicemente ragionino su due piani diversi, lungo rette parallele che non si incontrano. È predisposizione mentale. È la ragione contro il sentimento. È la semplicità verso la profondità. Silvia
Cara Silvia,
nel mondo delle emozioni, tutto è bianco e nero contemporaneamente: diglielo a chi cerca un colore solo.
Riccarda
Cara Silvia,
la prossima volta che scrivi delle differenze uomo donna, potresti essere meno chirurgica e avere un briciolo di pietà?
Non so se l’universo maschile te ne sarà grato (l’universo maschile spesso non è in grado), io ti ringrazierò della delicatezza.
Nick
La teoria del tutto… donna
Cara Riccarda, caro Nickname, credo che per comunicare efficacemente in una coppia ci voglia molta attenzione nei confronti del partner. È sempre difficile scegliere il momento giusto e a volte si sbagliano i tempi, l’importante è non desistere. Sicuramente le donne sono più complicate di noi uomini, questo le rende più interessanti e ci spinge a cercare di conoscerle al meglio per essere sempre pronti a interpretare i vari segnali che ci inviano con i loro gesti, silenzi, espressioni. Matematici e fisici, coadiuvati da ingegneri, stanno ancora cercando la soluzione dell’equazione e la x è ancora un’incognita, quando una donna ti risponde che non ha ‘niente’. Se siamo veramente interessati a lei, il nostro cervello elabora milioni di variabili e ci porta a chiederci che errore abbiamo fatto o cosa ci sia sfuggito negli atteggiamenti della nostra partner, alla fine (non garantendo tempi sicuri per la soluzione), l’incognita la troviamo per far ritornare la serenità nel rapporto. Amo queste mille sfaccettature del carattere delle donne perché mi fanno stare sempre all’erta su come devo gestire un rapporto e a non dare mai niente per scontato, solo in questo modo, a mio parere, una relazione rimane viva e interessante. Gigi
Caro Gigi,
i calcoli e le variabili matematiche lasciamole alla scienza, noi siamo istinto che puntualmente tradisce la logica dell’equazione.
Riccarda
Caro Gigi,
uno spunto geniale lo hai avuto: quando una donna dice che non ha “niente” in realtà ha “tutto”.
Il resto è talmente serio e argomentato che mi sono impaurito: nessuno mi aveva mai preso tanto sul serio.
Nick
Di chi è l’oro detenuto dalla banca d’Italia? Non passa tanto tempo senza che qualcuno riporti l’argomento sotto i riflettori. Qualche anno fa fu Tremonti, ultimamente Borghi e adesso il M5S ne ricerca la paternità. Argomento ad interesse intermittente su cui vale la pena soffermarsi ma che, secondo me, dovrebbe essere inquadrato in un filone più generale e che andrebbe compreso bene. Anche al di là della stessa proprietà dell’oro in questione.
Proviamo dunque a dare qualche spunto di più ampio respiro partendo da questo bellissimo metallo giallo.
Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia e autore del libro “Oro”, chiarì a dicembre scorso in un’intervista a La7 che “dal punto di vista giuridico-formale è la Bce a doversi pronunciare sulla proprietà dell’oro in quanto abbiamo ceduto sovranità con la creazione dell’euro”. Ma poiché la nostra Banca Centrale è azionista della Bce in quota parte, allora ecco che, sembrerebbe, la proprietà potrebbe tornare di fatto a Bankitalia. Una proprietà assoluta visto che nel suo statuto si precisa che nulla spetta agli azionisti privati.
Sembra utile rimarcare che il dilemma è tutto italiano, ed infatti, come chiarisce anche l’Ansa nella sua pagina dedicata all’economia, “dagli Usa alla Germania alla Gran Bretagna, l’oro appartiene allo Stato” e non, quindi, alle rispettive Banche centrali che, tra l’altro “sono dello Stato”.
Cerchiamo allora di rispondere alle quattro domande di base, per poi arrivare a qualche conclusione e lasciarvi con qualche sano dubbio: 1) quanto oro abbiamo ; 2) dove si trova esattamente; 3) a cosa serve o potrebbe servire; 4) se possiamo utilizzarlo e quali problemi potrebbe eventualmente risolvere. L’Italia ha la terza riserva di oro nel mondo nella classifica tra Stati, la quarta se si includono anche le riserve del Fondo Monetario Internazionale. Subito dopo Stati Uniti e Germania e prima di Francia e Cina con 2.452 tonnellate, come riportato nell’ultimo Bilancio 2017 di Bankitalia approvato nel marzo 2018. Un valore pari a circa 85,3 miliardi di euro (erano 87 miliardi ai prezzi di mercato di fine 2016), ovvero poco più del 9% del totale dell’attivo di Bankitalia che supera i 900 miliardi.
La maggior parte sono lingotti di varia forma, ma sono presenti anche una parte in monete per un totale di 4,1 tonnellate. Il prezzo dell’oro varia perché è quotato sul mercato e quindi anche il valore totale delle 2.452 tonnellate di oro italiano (in senso lato) è soggetto a variazioni. Attualmente, secondo Rossi, il valore si aggirerebbe intorno ai 90 miliardi.
La maggior parte di quest’oro è stato accumulato tra gli anni ’50 e ’60 e sul sito della Banca d’Italia se ne traccia la storia https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/evoluzione-riserve/index.html Ma dove si trova materialmente questo tesoro? Nessun mistero anche in questo caso. 1.100 tonnellate (quindi poco meno della metà, il 44%) di quell’oro è in Italia nel caveau di Bankitalia in via Nazionale 91 di Roma, il resto è detenuto nei caveau di altre banche centrali per ragioni storiche, legate ai luoghi in cui l’oro fu acquistato ma anche per attuare a una strategia di diversificazione finalizzata alla minimizzazione dei rischi e dei costi di gestione: il 43,29% è negli Usa, il 6,09% in Svizzera e il 5,76% nel Regno Unito.
141 tonnellate sono state depositate presso la Bce nel 1999 in occasione dell’avvio dell’Uem. Nella sostanza, a cosa serve o a cosa potrebbe servire questo tesoro di dubbia proprietà? 90 miliardi sono poco più di un anno di interessi sul debito pubblico che ha oramai superato i 2.300 miliardi. Il nostro Pil viaggia verso i 1.800 miliardi, e il nostro patrimonio artistico supera i 250 miliardi.
Lo Stato italiano possiede immobili e armamenti per 500 miliardi e la Banca d’Italia ha ricomprato debito pubblico, sotto forma di Titoli di Stato, per quasi 400 miliardi che adesso giacciono sempre in Bankitalia e contribuiscono al suo attivo quasi per la metà del totale.
L’oro piace a tutti ed è considerato un bene rifugio ma non ha nessun valore oltre quello di mercato che viene dato dal gioco della domanda e dell’offerta. È un metallo duttile e molto bello che va a ruba nelle gioiellerie e, finché il mercato lo considererà un bene rifugio, continuerà a mantenere un valore.
Bisogna precisare che nell’800 e per alcuni periodi nella prima parte del ‘900 è stato il collaterale della moneta circolante, cioè tutta la moneta in circolazione poteva essere convertita in oro e di converso si poteva emettere tanta moneta per quanto oro si era riusciti ad accumulare. Dopo la seconda guerra mondiale, e per il periodo in cui era in vigore il trattato di Bretton Woods, l’oro rappresentò invece il collaterale del solo dollaro al quale si rapportavano poi tutte le altre valute.
Nel 1971 il Presidente Nixon dichiarò unilateralmente sospeso quel trattato, decretando di fatto la fine definitiva di tutti i vari “gold standard” e la libera fluttuazione della moneta che finalmente fu sganciata dall’oro.
Gli Stati continuano a detenerne una determinata quantità come riserva insieme a valute estere particolarmente pregiate (ad es.: il dollaro) al fine di assicurarsi una certa considerazione nel commercio internazionale nonché una maggiore stabilità finanziaria, in ossequio al principio della diversificazione. Tutti accettano oro a scioglimento di un debito, per cui diventa saggio per uno Stato averne qualche tonnellata come riserva. Ma possiamo utilizzare le riserve auree della Banca d’Italia per risolvere qualche ristrettezza di politica economica? L’articolo 123 del Trattato Ue prevede che le riserve auree siano sottoposte al divieto di finanziamento monetario, cioè non si possono utilizzare per farci ad esempio una clausola di salvaguardia contro l’aumento dell’Iva, poiché vengono considerate un baluardo a difesa delle crisi valutarie e contro il rischio sovrano. Insomma l’oro dello Stato serve per rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano, come si diceva sopra, e quindi anche di tutto il sistema che gira intorno all’euro. Il successivo articolo 127 dello stesso trattato attribuisce alla Banca centrale europea il compito di “detenere e gestire le riserve ufficiali dei paesi aderenti all’Eurozona”.
Queste ultime considerazioni ci portano all’ultima questione. Le riserve auree non possono servire a risolvere qualche nostro attuale problema perché sono pensate per risolvere il problema ultimo di un eventuale catastrofe finanziaria, una specie di ultima spiaggia per assicurarsi la possibilità di regolare in ultima istanza pagamenti internazionali.
Ma del resto 90 miliardi sono ben poca cosa di fronte ai numeri che ho mostrato in precedenza proprio per rapportare le grandezze in ballo nell’economia attuale. La sola borsa italiana il 7 febbraio scorso ha scambiato azioni per un controvalore di oltre 3 miliardi di euro mentre sul Forex, il mercato delle valute nato dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, vengono scambiati valori giornalieri in ordine alla migliaia di miliardi di dollari. Il punto, che come al solito sfugge, è il principio. Ci dicono che l’oro dell’Italia, la Banca d’Italia e ovviamente la Banca Centrale Europea non appartengono né agli italiani né agli europei. Viviamo in un sistema dove tutto viene rappresentato e preteso indipendente. Oro, riserve, partecipazioni statali e qualsiasi forma di benessere non è riconducibile ai cittadini tranne i debiti. Questi, e in qualsiasi modo si chiamino (pubblici, privati, obbligazionari, azionari, subordinati, ecc.) vanno ripagati attraverso le nostre tasse, i prelievi sui conti correnti, il congelamento dei salari e l’abbassamento delle pensioni.
Tutto questo è quanto meno bizzarro.
E forse le vere risposte alle domande sulla proprietà dell’oro degli italiani, della Banca d’Italia e delle sue funzioni pubbliche, dello Stato stesso con tutti i suoi ministeri, dei suoi scranni dorati e delle belle scrivanie andrebbero ricercate magari attraverso un ragionamento filosofico e sociologico, lasciando da parte l’economia e i trattati europei di cui sono diretta emanazione.
In realtà sarebbe facile produrre un’etica rigorosa, o almeno non sarebbe più difficile che affrontare altri problemi scientifici basilari. Soltanto il risultato sarebbe sgradevole, ma è una cosa che non si vuole vedere e che si cerca di evitare, in qualche misura in modo cosciente. (Kurt Gȍdel)
Tav sì-Tav no, Fazio in Rai o fuori dai palinsesti, reddito di cittadinanza giusto o penalizzante, immigrazione da sostenere o da demonizzare, beneficio di scorta a politici, imprenditori, giornalisti e sindacalisti confermato o revocato, Juan Guaidó presidente del Venezuela riconosciuto ufficialmente tale dal nostro Paese oppure no. Alcuni tra i temi che stanno infervorando l’opinione pubblica, sollevando ragionamenti, critiche, consensi, spaccature, battaglie ideologiche, dissenso, interrogativi, dubbi, malcontento, aspettative, davanti alle scelte politiche da operare e alle conseguenti ricadute concrete o simbolicamente indicative che esse avranno nell’immediato futuro.
E mentre ci dilaniamo nel dibattito più o meno costruttivo o sterile che sia, lo sguardo va anche altrove, in altri angoli di mondo non meno importanti del nostro, perché una delle valenze positive, una volta tanto, della globalizzazione è anche quella di permettere e sollecitare l’attenzione e la visione a 360°. Esistono situazioni, come quella presente in Canada, che passano sottotraccia e non raccolgono il diffuso interesse che meriterebbero, rimanendo nel quasi totale silenzio stampa perché c’è sempre qualcos’altro che ruba la scena e tiene occupate menti, conoscenze e coscienze. Già nel 2015, Karen Stote, docente di Studi femminili e nativi d’America, pubblicò il libro ‘An Act of Genocide, Colonialism and the sterilization of Aboriginal women’ in cui veniva trattato il tema della sterilizzazione forzata delle donne aborigene in Canada. Centinaia di casi documentati, a partire dagli anni Settanta, riguardavano anche disabili e portatori di deficit mentali. Una pratica forzata meno diffusa, estesa ed applicata anche agli uomini tramite vasectomia. Nello stesso anno, il sito di bioetica Bioedge rilanciò con altri portali di comunicazione i contenuti del libro, accendendo i riflettori sul caso. In un Canada felix, connotato da fascino e bellezza, accoglienza e grandi possibilità, il nichilismo si nasconde dietro le facciate che tutti conosciamo e dietro l’idea che ci siamo fatti di questo Paese immerso nelle sue immense foreste, spettacolari cascate e specchi d’acqua, le imponenti catene montuose, le praterie, i ghiacciai perenni dell’Artide, le modernissime e ordinate città di Montreal, Ottawa, Toronto, Vancouver.
Una vera e propria selezione della razza, dal momento che la pratica è applicata ad un gruppo etnico preciso, gli Inuit (chiamati comunemente Eschimesi) e i nativi americani (Pellerossa). Si aggiunga anche il fatto che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti bambini aborigeni furono allontanati dalle famiglie e inseriti in nuclei familiari non aborigeni. Echi di tutto questo sono arrivati in Italia molto timidamente. Amnesty International ha lanciato una campagna di sensibilizzazione – di cui il Corriere ha dato notizia – mirata alla raccolta di appelli al Primo Ministro Justin Trudeau, affinchè prenda immediati provvedimenti per porre fine alla sterilizzazione delle donne indigene senza il loro consenso. Assistenza al parto solo se la donna acconsente alla sterilizzazione, firme estorte in moduli non tradotti in lingua nativa: una vera e propria forma di violenza e tortura, come definita questa pratica da Amnesty International. Un appello in tal senso, è stato lanciato anche da Niki Ashton, parlamentare canadese, rivolgendosi a Trudeau in Parlamento lo scorso novembre, mantenendo viva l’attenzione sul problema.
Un Paese, il Canada, in cui tra il novero delle ‘conquiste’ e liberalizzazioni ci sono la maternità surrogata con utero in affitto, accessibile a chiunque come bene di consumo, etero, single, gay; lo stesso paese ‘open mind’ che garantisce la pratica dell’eutanasia e della morte programmata, come se la fabbricazione di figli a pagamento e la ‘dolce morte’ tout court fossero forti segni di progresso. Surrogazione ed eutanasia consentono un’umanità replicabile o sopprimibile in modo controllato, diversamente dai legami forti, il corso naturale dell’esistenza e della morte delle genti, le tradizioni contenute in millenni di storia che rendono queste etnie minoritarie scomode, perché posseggono una marcata e radicata identità di appartenenza, non omologata. Scrive Karen Stote: “Mi interessa far capire che la sterilizzazione forzata non è un atto di abuso isolato, ma una delle molte strategie politiche impiegate per danneggiare le donne indigene, per escludere gli aborigeni dalle loro terre e risorse, e per ridurre il numero di quelli verso cui il governo ha degli obblighi. Vi mostro come gli effetti della sterilizzazione degli indigeni, pianificata e non, sono in linea con la politica dl passato sui Pellerossa e servono per gli interessi economici e politici del Canada”.
Ci si aspetta umanamente di più, dal secondo Paese più grande al mondo dopo la Russia, che occupa il 41% del continente nord americano, federazione multiculturale aperta e innovativa, abitato da millenni da First Nations (aborigeni), patria della sensibilità di grandi nomi come Glenn Gould, Leonard Cohen, Neil Young, Joni Mitchell, Cèline Dion, Bryan Adams, Margaret Atwood, Alice Munro, David Cronenberg…
Risvegliarsi alla mattina… con quella faccia un po’ così, non è sempre facile.
Pensiamo a un ministro imbufalito con i migranti che si ritrovi ogni giorno a dover contemplare con lo stesso aplomb il viso del suo collega squisitamente mediterraneo tendente al marocchino (bello).
Si pensi allo stesso ministro costretto a riconoscere la vittoria a Sanremo di un bravo cantante dalla voce, dal nome e dall’aspetto squisitamente ‘migrantesco’, benché Mahmood sia lo pseudonimo di Alessandro Mahmoud, un cantautore italiano di origini egiziane
Dubbi.
Come farà Simone Cristicchi a dormire dentro la selva non oscura, ma grigia, della sua capellatura? Pazienza per la Patty nazionale, che confessa di fare dei suoi ‘belin’ color crema pasticcera cuscino da notte, ma per lui sorge il problema: coordina il pelame della barba con quello dei capelli? Entro una struttura adatta allo scopo?
Il Kolossal dell’orrore spetta però alla Loredana Bertè che assomma fattezze alla Blade Runner col filo gentile dei capelli color fata turchina e labbroni un po’ indecenti come quelli di una nudità sfatta.
Il corpo come libro su cui si scrive – e il peggiore a mio avviso momento visivo e musicale – è quello di Achille Lauro, il cui nome evoca fatti e misfatti e che accavalla gambette ragnesche con un viso divenuto saggio di scrittura per poveracci di quartiere. E troppo inoltre significa far risuonare quel titolo ‘Rolls Royce’, che è lo stesso di una grande poesia di Giorgio Bassani
Poi di colpo mi s’illumina la mente afflitta da tali ‘immensi’ pensieri.
Cos’è il lusso per i borgatari italiani (una media dell’80% della popolazione) che si rispecchiano nel modello Sanremo? Paillettes e lustrini, specie per i maschi, anelli, collane e orecchini a sottolineare una pseudo identità sessuale (in realtà la donna, anche nelle scelte sanremesi sta sempre tre passi indietro). Il conduttore s’avvolge in giacche strabilianti passabilmente serie, mentre spicca in tutta la sua elegante provocazione l’unica presenza culturale (cultura seria…) del Festival: la Virginia Raffaele.
Si capisce allora che l’eleganza invocata come segno di distinzione – ricordate le nostre nonne per le quali il massimo del consenso si coagulava nell’aggettivo ‘distinto’? – si rivolge al fascino della divisa, ampiamente sfruttata dal vincitore di ogni sondaggio politico, il signor Matteo Salvini, oppure alle felpe con il cappuccio atte a nascondersi quando si è impegnati in atti, come dire poco eleganti, con propensione attuale per i gilet gialli, oppure ancora allo sfarzo ancor più sontuoso derivato dalla ‘spezzatura’, ovvero la mistione di vestiti solenni quali lo smoking per l’uomo o l’abito lungo delle donne abbinati con magliette e canottiere molto pop. Ovviamente il tutto condito con l’uso smodato del tatuaggio, specie quello nascosto (e un brivido mi riporta alla feroce realtà nel ricordare il corpo di Robert de Niro nel terribile ‘Cape Fear’ di Martin Scorsese).
Straordinaria, invece, nel suo accettato viale del tramonto la grandissima Ornella Vanoni ormai in tutto simile alla Norma Desmond del grande film di Billy Wilder.
Queste considerazioni valgono naturalmente per un pubblico di lettori della mia o al massimo della successiva generazione. Di questi paragoni i giovani nulla sanno come ben sanno gli insegnanti (ah! ministro dell’istruzione Bussetti quando imparerà che il tacere – a volte – è bello?).
La memoria sempre più corta ci invita ogni momento di più a rifugiarci nell’attimo del presente che un minuto dopo è già vanificato. S’aprono scenari incredibili: lotta seria tra i cugini delle Alpi Francia e Italia. Un Presidente del Consiglio che si fa piccino picciò di fronte alla furia iconoclasta dei due reggitor de lo imperio (infernale).
Quale faccia a modello? Almeno due: bianche. L’incredibile pulizia dentro e fuori del presidente Mattarella, impeccabile nella sua soffice aureola di capelli bianchi perfetti, e quella altrettanto bianca nel vestito e nel credo di papa Francesco. Gli unici che spiccano in questo coacervo di invasati che fanno ‘politica’. Tutti, purtroppo.
E a ‘Ferara’? Appena spenta la polemica sui Diamanti altre s’aprono, tra bocche che urlano e minacciano di masticarti intero. Sfilano bandiere nere, s’alzano saluti che ricordano tempi che si credevano passati, si moltiplicano inviti a sagre e ristori di ogni genere, che fanno molto campagna elettorale. Un quartiere, il Gad, diventa terreno di scontro. I telegiornali cittadini si destreggiano abilmente tra l’unica, vera, totale passione dei miei concittadini, la Spal, e avvenimenti culturali ancora di grande rilievo.
Attendiamo con impazienza l’importantissima mostra del Meis sul Rinascimento ebraico. E’ alla fine il grande libro ‘visivo’ su Giorgio Bassani. Il teatro Abbado sforna stagioni straordinarie di prosa, musica, balletto, opera, mentre in platea i soliti noti guardano con preoccupazione chi sfornerà programmi culturali più eccitanti. S’annuncia un Boldini veramente alla moda ai Diamanti, mentre cari amici a Forlì aprono mostre di altissimo spessore sull’Ottocento .
Riuscirà il modello culturale emiliano a reggere l’urto del nuovo che avanza?
Lo sapremo tra qualche mese.
Ci sono mondi in cui l’istinto sostituisce il desiderio e l’appetito prende il posto del sogno, mondi in cui tutto diventa numero e vengono introdotti termini quali risorse umane, investimenti affettivi, consumatori; e poi c’è un mondo contrapposto, evocato da Sergio Gessi: giornalista, scrittore e docente universitario. Nel suo universo non c’è una scorciatoia per il paradiso e quindi non ci sono porte a cui bussare per chiedere oboli o assoluzioni; il percorso è senza tabù ed un racconto, spesso impietoso, intessuto di storie realmente accadute. “Spirito libero” è un contenitore di articoli, commenti, interviste con cui Gessi tratteggia un Paese in declino, raccontando le tristi ascese e le altrettanto tristi discese di alcuni dèi di passaggio: da Soffritti a Franceschini, passando per il Pci e gli altri partiti. Nemico del sentito dire, del sentito vivere e del sentito scrivere ‘il professore’ è convinto che anche quando la realtà tocca il buio più fitto c’è pur sempre qualche bussola in grado di indicare la direzione giusta. Sin dalle prime pagine l’autore si muove in “direzione ostinata e contraria”, scagliandosi contro l’idea-moloch secondo cui “se sei in dissonanza con il mondo non è il mondo che devi cambiare ma devi adeguare te stesso”. In un paesaggio di macerie – dove è stato insegnato alla gente a pensare che il contesto in cui vive sia l’unico possibile e immaginabile – Gessi (come scrive Paolo Pagliaro nella prefazione al testo) “procede con lo sguardo del corrispondente di guerra, freddo eppure partecipe”; diverte, commuove e restituisce un po’ di onore al moralismo ‘sano’, come quando spiega che il primo passo per la risalita dagli inferi è il recupero del rispetto autentico per gli altri e di conseguenza, per se stessi.
“Spirito libero” provoca il lettore interrogandolo sul da farsi, riga dopo riga, pagina dopo pagina, in un saliscendi etico che contrappone la scelta incondizionata al conformarsi. Il pronunciamento ideologico del professore declina al plurale esigenze spesso atomizzate, e ci ricorda quanto sia necessario ricominciare a pensare in una prospettiva utopistica, a costo di essere presi per folli, consapevoli che (per dirla con Nietzsche) “quelli che ballano vengono visti come pazzi da quelli che non sentono la musica”. Soltanto così si potrà creare un mondo più vivibile per tutti, anche per gli ‘schiavi, coloro che pur non avendo catene ai piedi sembrano ormai incapaci di immaginare una vera libertà.
Presentato alla libreria Feltrinelli di Ferrara da Andrea Cirelli, Tito Cuoghi e Gian Pietro Testa (che hanno dialogato con l’autore), “Spirito libero” è disponibile in tutte le principali librerie, anche online. La prefazione è di Paolo Pagliaro.
E penso alle tue sere che sfumano
quiete verso le cifre del mattino;
penso alla sensazione di delirio
che mi scuote la vista ricoperta
del tuo sfarzoso nobile splendore,
ricordo il cuore fidanzato in gola, partenza
di un respiro dall’accento indefinito
affannarmi il petto il battito del Reno;
penso al tuo mistero che si rinnova,
la tua storia che a dismisura
cattura il mio sguardo su di te annullato:
ricordo la partenza come momento
eterno, lontano il giorno con stile
Ferrara dall’abito elegante,
una carezza custodita nella mano.
Credo che sia un dovere etico morale, oltre che politico, che mi porta a prendere in esame e denunciare ciò che sta accadendo circa alcuni provvedimenti attualmente all’esame del Senato. Mi riferisco in particolare al disegno di legge n.735, Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, proposto dal senatore leghista Pillon e da altri, sul quale vorrei portare la dovuta attenzione, per gli effetti che siamo già sicuri comporterà, se malauguratamente venisse approvato.
Molte sono state le manifestazioni prevalentemente di movimenti e associazioni femminili che di recente hanno denunciato l’allarmante proposta del senatore leghista Pillon, su questa cosiddetta riforma del diritto di famiglia e dell’affidamento dei minori in caso di separazione e, anche se la cosa sembra non turbare più di tanto l’opinione pubblica, credo che per tanti aspetti sia davvero una proposta di legge di inaudita, che presenta una visione distorta dei diritti dei bambini, dei figli e delle donne nei casi di separazione familiare.
Davvero interessante e completa, a questo proposito, l’inchiesta presentata su Rai3 alcuni giorni fa dalla trasmissione ‘Presa diretta’, che ha correttamente presentato i vari aspetti dei motivi ‘ispiratori’ di questi sedicenti legulei, degli effetti e conseguenze gravi che possono derivare dall’approvazione del citato disegno di legge.
Questi i punti cardine su cui si fonda il ddl Pillon : la mediazione civile obbligatoria – e a pagamento dopo il primo incontro – per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni, la “bigenitorialità perfetta” ossia tempi paritetici per entrambi i genitori con i figli, il contrasto all’alienazione parentale, il mantenimento diretto senza automatismi.
Occorre notare che la figura del mediatore familiare obbligatoria è davvero avvilente: forse il senatore leghista Pillon – mediatore famigliare – vuole rendere edificante la propria attività, ma è innegabile che vi sia un evidente palese conflitto di interesse, proprio perchè tale figura diventa addirittura obbligatoria e indicata fin dai primi articoli di questo disegno di legge.
La proposta di Pillon prevede diversi cambiamenti rispetto alla norma attuale. In primo luogo c’è l’addio all’assegno di mantenimento, dato nella maggioranza dei casi alle mamme, con cui il padre passa ogni mese una cifra stabilita per i figli. Se il disegno di legge di Pillon venisse approvato, mamma e papà dovranno invece provvedere ognuno a metà delle spese. Viene tolto l’assegno perché i figli avranno due case e due domicili e, a meno di accordi diversi presi dai genitori, ogni bambino o bambina dovrà passare lo stesso tempo con i genitori, che non dovrà esser inferiore ai 12 giorni al mese. Secondo il testo, questo dovrebbe garantire un giusto equilibrio nei rapporti con entrambe le figure genitoriali, senza tenere in debito conto però il problema dei bambini in sempre in trasloco, da una casa all’altra.
Ebbene le preoccupazioni più grandi riguardano appunto la tutela dei bambini, proprio quei soggetti che il ddl n. 735/2018 dice di voler proteggere, ma l’allarme riguarda anche le donne, soprattutto quelle in condizioni di difficoltà e vittime di violenza.
C’è da pensare che chi ha redatto il testo del disegno di legge non si renda affatto conto del contesto in cui viviamo e non sappia minimamente ciò che accade nei tribunali, nei territori e soprattutto tra le mura domestiche. Il testo sembra quasi completamente ignorare la diffusione della violenza maschile che determina in maniera molto significativa le richieste di separazioni e genera gravi tensioni nell’affidamento dei figli, che diventano in molti casi soprattutto per i padri, oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri.
Con l’eliminazione dell’assegno di mantenimento, se si dispone il doppio domicilio dei minori, si danno per scontate le disponibilità economiche anche da parte delle donne, molto spesso impossibili da garantire, proprio perché il nostro paese ha elevatissimi tassi di disoccupazione femminile e presenta ancora un gap salariale che continua a espellere dal mercato del lavoro le madri, ne penalizza la carriera e garantisce sempre meno servizi in grado di conciliare le scelte genitoriali con quelle professionali, mentre scarica i crescenti tagli al welfare sulle donne schiacciate dai compiti di cura. Si tratta di un elemento di grave sottovalutazione, perché vi è un effettivo squilibrio di potere e di accesso alle risorse fra madre e padre, proprio perché sappiamo benissimo quali siano in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi, le condizioni lavorative delle donne madri. Proponendo un’equiparazione di contribuzione economica tra i genitori in caso di separazione, emerge che la situazione delle donne è quindi vincolata necessariamente al grado di autonomia finanziaria per reggerne il costo, anche a prescindere dal fatto che la separazione sia richiesta per atti di violenza commessi dal coniuge nei suoi confronti e nei confronti dei figli, perché per provare questi aspetti occorre tempo. Occorre ricordare, infatti, che per le denunce di violenza occorre arrivare ai tre gradi di giudizio per avere sentenze definitive.
Nelle denunce delle associazioni appare chiaro che rispetto a questa situazione, già oggi nei tribunali le donne incontrano difficoltà enormi nel denunciare le violenze subite, non sono credute, devono affrontare una pesante percorso di analisi da parte di un sistema giuridico e sociale che ancora tende a spostare la responsabilità degli atti violenti sulla vittima del reato, piuttosto che sull’autore. Inoltre, in molte interviste a questi legulei, non è raro sentirli ripetere che la colpa, in ogni caso, è delle madri, accusate di inadeguatezza genitoriale per non essere riuscite a tenere insieme la famiglia, per non aver tutelato i minori dalla violenza diretta e assistita o per non consentire ai padri di continuare a mantenere una relazione con i figli generando in essi avversità e alienazione.
Molti giuristi ci dicono che la presenza di violenza rende sconsigliabile se non impraticabile secondo le normative attuali, ma anche secondo le diverse discipline scientifiche chiamate in causa, sia la mediazione familiare, sia l’affidamento congiunto, così come è palesemente riconosciuta l’inefficacia di percorsi prescrittivi ampiamente previsti nella proposta di legge in questione.
Ebbene mi chiedo che ne sarà della vita di quei bambini che si troveranno in condizione di separazione familiare, già in condizione affettivo- relazionale critica, chi pensa a loro?
Penso che il ddl Pillon sia un anacronistico esempio di incapacità di legiferare, che non tiene conto dei diritti di tutti, soprattutto dell’infanzia, di quei figli che vengono contesi e trattati come fossero automi da manovrare verso un genitore o l’altro, senza tener conto della loro sensibilità , delle loro scelte, incidendo sulla loro vita con interventi che segneranno per sempre il rapporto e le relazioni socio affettive con gli altri.
Sto pensando che dovremo trovare il modo per fermare ad ogni costo questo ddl che non fa altro che produrre sui bambini, sui figli dei genitori che si separano, profonde ferite e potenziali danni psicologici se venissero applicate effettivamente le indicazioni del testo. E’ aberrante che i primi a pagare siano proprio i bambini alla faccia della difesa della famiglia, di una famiglia dove possono essere agite anche terribili violenze. Abbiamo capito che l’obiettivo primo è relegare le donne a un ruolo subalterno di pure fornitrici di prole e che devono dipendere da un mondo che ha Dio, Patria e Famiglia come unico e inderogabile feticcio da perseguire. La famiglia per diritto naturale non può sciogliersi, anche se i bambini vivono in un contesto in cui padre e madre litigano continuamente o agiscono abusi e violenze di ogni tipo. Se si rifiutano di andare col genitore violento o abusante vengono comunque costretti a stare anche con questo…che in genere è il padre. Allora può capitare che i figli che si oppongono possano essere allontanati dalla madre e venga invocata “l’alienazione parentale” e addirittura finiscano per essere affidati altrove.
Mi chiedo: è un caso che Pillon svolga patrocinio legale presso l’associazione dei padri separati con la quale ha un palese condizionamento quasi lobbistico?
Tantissime sarebbero le obiezioni da aggiungere, basti dire che la visione del rapporto di coppia, della tutela dei minori e del senso della vita familiare, oltre che del ruolo marginale della donna nel contesto sociale, appaiono declinati secondo una chiusa visione integralista che ci riporterebbe a una dimensione classista di chiusura completa di una reale parità uomo donna e soprattutto della difesa dei diritti dei minori. Non possiamo essere indifferenti perché tutto ciò sembra richiamare inevitabili effetti assimilabili a quelli ai tempi dell’inquisizione.
sono una cattolica credente e professante, sono sposata da venticinque anni, sono madre di quattro figli e sono femminista, semplicemente perché oggi credo sia la via più autentica per interpretare la contemporaneità.
Scrivo perché sono rimasta profondamente colpita, per non dire agghiacciata, dalle parole che sono state dette da molti degli esponenti del movimento per la vita, intervistati da Giulia Bosetti di ‘Presa Diretta’, nella puntata di lunedì 28 gennaio su Rai3. In realtà tutta l’inchiesta ha rivelato una radice misogina e certamente non cristiana dietro ai movimenti che si battono per una restaurazione della famiglia ‘tradizionale’. Tutti però si sono dichiarati cattolici credenti, convinti di essere mandati da Dio a ristabilire l’ordine naturale di cui ovviamente conoscono la formula.
Intorno a stendardi della Madonna, alla quale Dio ha chiesto se voleva avere un figlio – poteva dire di no -, ho sentito pronunciare parole di condanna per le donne che abortiscono, negare la tragedia dei femminicidi (per le donne tra i 16 e i 44 anni è la prima causa di morte nel mondo), che il posto delle donne è essere sottomesse a un marito anche se violento e abusante, che non necessitano di aspirare ad altro che alla maternità. Ho sentito dire che la famiglia naturale è una sola e infine che lo stupro è meno grave dell’aborto e tutto questo condito dal fatto che sono gli unici veri interpreti del cattolicesimo.
Ebbene le scrivo per dirle che io non mi riconosco in una Chiesa che riduce la complessità della vita a formulette semplicistiche e che accetta che la prospettiva che muove questi movimenti venga sbandierata come cattolica. La legge non sta sopra l’uomo ma di fronte. Gesù lo ha detto in modo molto chiaro (MC, 2, 23/28). Ed è proprio in quello spazio che c’è tra la legge e l’individuo che si rivela la libertà che Dio ci ha donato, dinamica che porta avanti la storia. Credo che l’aborto possa essere una esperienza molto dolorosa, ma sono a favore della legge 194, una legge che riconosce alla donna le sue responsabilità e che onora la sua coscienza individuale, il suo corpo e la sua libertà. Sono per l’abolizione universale della maternità surrogata, ma non certamente per i motivi addotti da questi personaggi davvero equivoci. Sono per il sacramento del matrimonio tra omossessuali e sono per il sacerdozio femminile, che porrebbe fine alla misoginia che abita la struttura ecclesiastica e a una ingiustizia: le donne escluse dal sacerdozio in quanto donne. La libertà delle donne fa paura a tutti, anche a molte donne, ma non c’è amore senza libertà, e senza la libertà delle donne la Chiesa e la società le priva e si priva del loro amore.
Le scrivo perché mi riconosco in una Chiesa capace di dialogo e confronto, che non rifugge le contraddizioni dell’esistenza, che si interroga, che è ricerca continua e che testimonia ogni giorno il suo amore. Credo sia giusto che questa Chiesa mostri il suo volto e abbia il coraggio di denunciare che quanto detto da queste persone non è cristiano. Lei ha mostrato grande coraggio esponendosi personalmente, anche e spesso in controtendenza al pensiero dominante. Quando è stato eletto Papa si è presentato come Vescovo di Roma, riconoscendo che la Sua missione sta dentro il tempo e lo spazio, esattamente come quella di ognuno di noi, e dunque riconoscendo che siamo tutti in cammino verso una umanità più piena. Per proseguire il cammino, quando si giunge a un bivio, bisogna scegliere che strada prendere. Spero si unirà alla mia denuncia: la prospettiva che anima molte persone che militano in questi movimenti non è una prospettiva cristiana.
Nickname vorrebbe una donna che comunicasse come un uomo, una specie di donna-uomo che si facesse capire una buona volta. Ma la donna è donna-donna oppure non è. E, quando non parla, danza.
A due piazze, dialogo mensile fra Riccarda e Nickname.
N: Se una donna ti dice che non ti vuole più vedere, non è detto che non ti voglia più vedere. Può darsi che voglia provocare una tua reazione. Se decide che non si farà più sentire, non è detto che non intenda più farsi sentire. È probabile che lo faccia per spingere te a farti vivo.
Non è mica detto che, nel merito, la donna abbia torto. Spesso ha ragione. Magari sei un orso, o un pigro, o sei sciatto nell’esprimere i tuoi sentimenti. Però è anche vero che talvolta vorrei una donna-uomo. Una che se ti dice una cosa, intende quella. Che non ti costringa a una continua partita a scacchi, in cui devi capire il senso recondito della sua mossa. Una donna acuta, emotivamente ricca (non è difficile trovare una donna più acuta ed emotivamente ricca di un uomo, è la regola) ma che comunichi in modo maschile.
R: Un pomeriggio una donna-donna nel giro di due ore ha atteso una risposta, si è arrabbiata molto perché la risposta non arrivava, ha deciso mai più lo rivedrò, poi ha cambiato idea e alla fine ha detto lui è un orso emotivamente sciatto, però mi piace. Una donna-donna galoppa avanti indietro e molto in tondo. Però si muove, sempre. E se anche l’orso non se ne accorge, lei si sta muovendo verso di lui, gli sta danzando vicino, muta, mentre lui si gratta la schiena.
Se una donna comunicasse, come vuoi tu, alla maniera degli uomini, niente partite a scacchi, ma neanche guardie e ladri. Sei sicuro che ti piacerebbe?
N: Mi piace molto l’immagine di lei che danza attorno all’uomo-orso, mi ricorda un accampamento apache durante una festa di carne e libagioni. Sì che mi piacerebbe, santo cielo… o per Manitù.
R: Il movimento del corpo, la gestualità, tutta femminile, vi arriva meglio delle nostre parole. Mi chiedo quale sia il momento più opportuno per fare certi discorsi, quelli da donna-donna, con voi. Prima dell’amore no perché salta regolarmente tutto, dopo l’amore nemmeno perché non siete lucidi, non ci seguite e neanche ve lo ricordereste. Noi donna-donna li spezzettiamo, lasciamo delle briciole di pensieri in giro tra noi e voi e ci tocca, dopo, anche raccoglierle. Mi sembra che vada meglio con la danza, quando ci accostiamo in altro modo, senza logorrea. Quando siamo più vicini.
E voi? Siete capaci di comunicare con efficacia nella coppia? C’è un momento giusto per dirsi le cose?
La situazione in Venezuela è sempre più incandescente. Tra proteste, minacce di interventi armati e Maduro che non vuole indire nuove elezioni, i più colpiti, come sempre nei conflitti, sono i cittadini. Ho avuto la possibilità di confrontarmi con una di loro, una figlia di immigrati italiani che hanno costruito la propria fortuna nel paese sudamericano ma che da anni vivono l’oppressione del regime. Questo è il racconto di Paola.
Com’è la situazione in questo momento?
Finalmente abbiamo una speranza che le cose possano cambiare, che ci sia un nuovo governo, siamo felici che ci sia una possibilità, perché stiamo vivendo un periodo terribile con questo regime che espropria, ruba e uccide ragazzi innocenti.
Perché la gente appoggia Guaidó?
Perché è un giovane serio, senza una storia di corruzione alle spalle. Ciò renderebbe un suo governo diverso, un governo del popolo e per il popolo, il quale in questo momento non ha cibo e medicinali e affronta la quotidianità con una grande insicurezza a causa delle violenze. Inoltre Guaidó non ha idee comuniste e non ha rapporti con paesi terroristi. È un giovane, non ha un passato occulto, e potrebbe portarci fuori da questo socialismo del 21° secolo che ha distrutto il Paese, le sue terre vergini, la sua industria… Non è rimasto nulla in Venezuela. Guaidó ci sta dicendo che possiamo tornare ad essere una nazione prospera, con leggi che rispettino la giustizia sociale. Ecco perché la gente è dalla sua parte.
Per voi, se non ci fosse un cambio, che destino ci sarebbe?
Facile: se non ci sarà un cambio di governo dovremmo, con molto dolore, cambiare Paese, lasciandoci alle spalle il nostro capitale economico e umano in questa terra che ci ha accolto a braccia aperte. Avremmo potuto tornare in Italia e ricominciare, ma abbiamo deciso di rimanere e sopportare molte cose in questi 20 anni di socialismo, di epurazioni, di umiliazioni, come la mancanza di medicine, di cibo e l’insicurezza. Credo che questa sia un’occasione d’oro per uscire da questo regime che ci ha affamato.
Come si vive sotto un regime?
Io sono fortunata. Grazie ai sacrifici di mio marito fatti in 60 anni di lavoro possiamo permetterci di comprare il cibo al mercato nero. Ma solo quello che si trova. I servizi sono scarsi, come l’acqua e l’energia elettrica. E alle 18 devo chiudermi in casa perché il tasso di criminalità è troppo alto. Anche per portare a scuola i bambini i più fortunati usano la scorta. I nostri nipoti non sanno cosa voglia dire poter camminare per strada tranquillamente senza essere guardati a vista. Non è vita, è una galera a cielo aperto.
Con Chavez era migliore la situazione?
Chavez è stato l’origine di tutto, è stata la genesi della distruzione. All’inizio ha avuto anche buone intenzioni, ma i condizionamenti dell’ideologia cubana lo ha spinto a favorire quell’alleato, iniziando a mettere cubani in tutte le strutture governative, anche la più delicata, quella della sicurezza nazionale, delle forze armate. Abbiamo cominciato ad essere un Stato associato a Cuba o peggio, sotto la tutela de l’Havana. Chavez ha la responsabilità di averci lasciato Maduro come eredità del male.
Qual è l’opinione generale su Maduro?
È un burattino di Cuba e di Diosdado, il quale ha arricchito sé stesso e chi gli sta intorno, facendo affari e regalando le nostre risorse naturali.
Alimenti e medicinali sono disponibili?
Nel mercato nero (bachaqueo) si ottiene quasi tutto, ma a prezzi esorbitanti e in dollari, e la gente comune non può nemmeno sognarseli. Un antibiotico? Ti costa quello che guadagni con un salario minimo. Lo zucchero? Appare e scompare. I supermercati sono vuoti. I pannolini costano quanto un appartamento e l’inflazione “mangia” gli stipendi. Solo gli aiuti dei parenti dall’estero, se mandano denaro, rendono possibile sopravvivere.
L’interferenza degli Stati Uniti è una realtà che spaventa?
È una benedizione. Il regime ha dalla sua parte la polizia (Faes) che fa ciò che loro vogliono. L’unico modo per uscire dal regime è con l’aiuto di qualcuno, se degli Usa ben venga, non importa. Anche i paesi vicini stanno sostenendo la causa di Guaidó, insieme alla comunità internazionale tranne, purtroppo, l’Italia. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti. Dopo 20 anni di espropri, umiliazioni, famiglie separate, la fine di un governo criminale avrà come alleati anche gli Usa e la comunità internazionale. Anche se le cose stanno andando troppo a rilento: gli ammalati non possono essere più essere curati senza aiuti umanitari, molti pazienti sono morti a causa della mancanza di medicine e della fame. Quella di raccogliere il cibo dalla spazzatura è una realtà crudele, ma cambierà quando i ladri al governo andranno via.
Avete paura di una possibile guerra civile?
No, non ci sarà nessuna guerra civile. Gli unici armati sono loro [le forze governative pro Maduro ndr.], la gente non ha armi, è sempre stata vittima di questo Stato autoritario, che ha criminali armati a proteggerlo. Il popolo non è né armato né violento.
Quali sono le possibili soluzioni e come vedi il futuro del Venezuela?
La soluzione ideale sarebbe vedere Maduro e i suoi alleati esiliati dal Venezuela. Sappiamo, però, che non vogliono lasciare i loro nascondigli. Oramai questa nazione è un covo di criminali, se va via il governo Maduro, chi li proteggerà? Ma finirà tutto questo. Puliremo il Paese e ci sarà di nuovo fiducia. Ci sarà la divisione dei poteri, le leggi verranno applicate e rispettate, il Venezuela tornerà ad essere un Stato di diritto in cui ognuno vive del proprio lavoro e non con i “regali” del governo per comprare la lealtà. Un Paese dove sarà possibile acquistare cibo, medicinali, tutto quello che si vuole, senza sette ore di fila a perdere tempo. Una nazione dove l’inflazione non mangerà gli stipendi, dove le persone potranno invecchiare e godersi la pensione. Il Venezuela è una splendida terra, ma è stata “bruciata” dalle politiche del chavismo e del castrismo. Accetteremo l’aiuto di tutti contro chi ha rubato la ricchezza che apparteneva al popolo venezuelano, come il petrolio, le materie prime, contro chi ha distrutto l’Amazzonia con un ‘eco-cidio’ mai visto prima. Saremo con Guaidó e con la Costituzione, per far sì che torni a governare la legge. Dios salve a Venezuela!
Foto della marcia fatta a Chacao il 23 gennaio, dopo la proclamazione di Guaidó
Foto della marcia di protesta partita da Chacao il 2 febbraio scorso
Il nostro sistema di sviluppo, improntato alla (e sulla) crescita finanziaria, è profondamente sbagliato, crea disuguaglianze, funziona solo per pochi, non considera la condivisione, ignora la cooperazione e si basa su confusioni macroeconomiche e sul monopolio assoluto del sistema di informazione che ha il compito di oscurare qualsiasi notizia possa tendere a chiarire le dinamiche della creazione delle scelte politiche.
Fatta questa premessa, e considerato che siamo prossimi alle elezioni (europee e comunali), cosa si può pretendere da coloro che vogliano rappresentarci? Semplicemente che portino avanti delle proposte radicali, un cambio di prospettiva dal punto di vista antropologico, sociologico e culturale. Niente di particolarmente complicato, in fondo. L’importante è che non ci parlino del colore delle tende da attaccare alle finestre dell’edificio che sta crollando. La gente comune si sta accorgendo che qualcosa non va nel rapporto che dovrebbe esistere tra promesse e realizzazione delle stesse. Nota che il sistema si sta avvitando su se stesso, che la crisi non passa, ma anzi si scorre da una recessione grave a una recessione meno grave, attraverso una recessione così così. La gente comincia a chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nelle ricette politiche ed economiche, e anche a interrogarsi sull’integrità di chi le ha portate avanti fino ad adesso. Addirittura (!) sta imparando a controllare su google se chi oggi promette sia già stato Presidente del Consiglio, Ministro o Sindaco, almeno dal 2008 a oggi.
Anche a Ferrara, certo. Il Pd non ha funzionato sulle grandi questioni, non ha rottamato, non ha diminuito la disoccupazione, non ha frenato la chiusura delle aziende, non ha difeso il risparmio, ma durante il suo interregno gli amministratori delegati sono rimasti al loro posto, la ricchezza non ha smesso di crescere, ma si è accentrata sempre di più, le banche esistono ancora, mentre i risparmi si sono volatilizzati e ci si sente meno sicuri nel proprio Paese, nella propria città e persino nella propria casa.
E la gente se ne sta accorgendo, anche a Ferrara. Si accorge che qualcosa non sta funzionando e si traveste da leghista perché chi vuole mantenere il potere sulle scelte sta fingendo ancora, ma in maniera diversa e, se possibile, più articolata.
Per certe persone, dal 2008 ad oggi, non è mai venuto il momento di prendersi qualche responsabilità, di uscire dallo schema “ce lo chiede l’Europa”, “lo impongono i mercati”, “non ci sono soldi” e via discorrendo. E non c’è tempo di farlo perché, come al solito, il tempo sta finendo e il cielo sta crollando sotto i colpi giornalieri dei carri armati fascisti e della destra oscura che ha osato persino elargire un reddito di cittadinanza agli italiani fannulloni, come mettono in guardia Forza Italia e la Confindustria.
Il tempo è di nuovo finito, e allora chi può spinge sulla solita nuova vecchia strada. Si grida “al lupo al lupo”, che oggi è Salvini mentre nel 2008 era lo spread e domani chissà, magari il rivoluzionario cubano Di Battista. Bisogna allora affrettarsi a firmare l’appello di Calenda che invita a stringere il legame con l’Unione Europea (premio Nobel per la pace nonostante le bombe e gli interventi armati nel mondo, nonostante la Grecia e la Bce), in maniera tale che tutto rimanga uguale senza rischiare di cambiare qualche principio di base alla struttura dell’inganno.
E Calenda, addirittura, si presenta come il nuovo che avanza, un nuovo che sarà sicuramente in grado di tirare dentro i refrattari della ‘verace’ sinistra di Leu, amica del popolo e dei diritti (purché non siano diritti sociali ovviamente), e, quindi, se vogliamo continuare a tenere la testa ben conficcata nella sabbia, dobbiamo firmare il suo appello ovviamente sostenuto dal Pd sempre attento a non smentirsi (LEGGI QUI), ignorando quello di Malvezzi per una economia umanista (LEGGI QUI).
Ma mentre aspettiamo un appello a nome dei cittadini e il sistema si avvita su stesso, qualcosa comincia a scricchiolare e a seguire il sentimento popolare. IlSole24ore titola “Recessione alle porte, il modello ‘solo export’ non funziona più” e sapete cosa vuol dire? Che possiamo cominciare a segnare qualche punto sulla strada della chiarezza e delle scelte fatte da qualche governo del recente passato. La soluzione non era quella che Monti ci aveva propinato, ma l’esatto contrario, ovvero non doveva essere “distrutta la domanda interna” (https://www.youtube.com/watch?v=LyAcSGuC5zc), come aveva dichiarato, ma andava sostenuta. Perché la ricchezza per un Paese è quello che riesci a creare e a trattenere nel tuo circuito interno. Viene prima l’economia del territorio, della regione, del Paese e poi la tua capacità di esportare l’eccesso. Perché quando un Paese si sviluppa attraverso l’esportazione, necessariamente qualcun altro è costretto ad importare e a svilupparsi di meno.
Esportiamo più formaggi a spese di chi produce formaggi in un’altra parte del mondo, ma il progresso reale sarebbe produrre gli stessi formaggi preoccupandosi che il Paese che li produce li possa acquistare altrimenti sarebbe (anzi lo è) come dire che i paesi africani sono ricchi e felici perché si ammazzano nelle miniere per estrarre diamanti che non potranno mai regalare alle mogli.
Un cambio di prospettiva, appunto. Cooperazione e sostenibilità umana e ambientale, invece che concorrenza sfrenata e legge del più forte che, come sa chi ha studiato un po’ di storia, rende il popolo semplice ragioniere del benessere altrui.
Il sistema scricchiola e Monti, Visco, Radio24 con Giannino provano a riposizionarsi (poco poco, giusto per dire che loro sanno e sono bravi anche se non fanno) ed ecco che in fondo la spesa pubblica, in periodi di recessione, si può fare. Quindi lo Stato potrebbe intervenire adesso, compromettendo la divina neutralità dello stesso, e spendere. Probabilmente lo dicono perché se il sistema si avvita troppo, allora banche, finanza e industriali ci rimettono qualcosa, mentre ieri, quando bisognava aiutare i piccoli imprenditori e i risparmiatori, non si poteva fare.
Dunque sbagliato affidarsi alla crescita attraverso le esportazioni e sbagliato vietare allo stato l’intervento in economia, ma questo non cambia il fatto che abbiamo dovuto sopportare, per politiche sbagliate, consolidamento fiscale (aumento delle tasse) e diminuzione dei salari e delle pensioni (oops… aumento della produttività). L’unica cosa che ci resta è il ricordo, per non cadere negli stessi errori davanti ad una scheda elettorale.
Ma la gente (sempre la stessa) se n’è accorta. Sta capendo che questo sistema non funziona, e qui sta il fatto nuovo (dispiace per il compagno Fratoianni, ma era meglio Che Guevara). La gente sta capendo e ha poche persone a cui affidarsi per portare avanti le proprie istanze, e allora si affida a Di Maio e Salvini che rispondono alla testa delle persone parlando con la pancia. Rispondono ad un sistema di sviluppo sbagliato, certo con mille contraddizioni e con la strategia del gambero, ma la gente si aggrappa a loro perché le cassiere sanno che la domenica è meglio stare con la famiglia, piuttosto che tenere aperta la coop. Ma il Pd, il partito del popolo, risponde che tenendo aperta la coop di domenica si assicurano più posti di lavoro, perché meglio lavorare di più, fare i turni di domenica, accettare limature a salari e diritti che stare in mezzo alla strada.
Ed è qui che la sinistra si perde e perde, perché dimostra ancora una volta che non vuole capire ciò che altri, invece, stanno capendo, si stanno risvegliando dal torpore e pretendono una reale attenzione che tanti, in particolare al Sud, faticano a credere stia venendo dalla Lega (Nord).
Qualcosa non va nella narrazione e ce ne stiamo accorgendo. La gente si è accorta che anche cedendo su salari e diritti come gli è stato chiesto dai partiti della sinistra in sintonia con Confindustria e il guru della finanza Serra (l’amico e consigliere di Renzi), anche aggrappandosi all’Europa della Germania, la disoccupazione è all’11% (mentre lì tende al 3%), le scuole ci cadono in testa, i libri lo Stato non li passa nemmeno per lo studio dell’obbligo, la sanità peggiora e i servizi diventano una chimera… Ma come? Confindustria e Pd e Forza Italia e Più Europa parlano di “industria 4.0” e dell’Europa che assicura i diritti, ma la tecnologia toglie lavoro ed esistono ancora gli straordinari? Ma dove sono i diritti che il sistema finanziario-capitalista ci doveva assicurare, insieme al benessere e alla crescita esponenziale? Abbiamo meno tempo libero, meno servizi e nemmeno sappiamo più cosa aspettarci dal futuro, in questo disastro contemporaneo dove ognuno grida, etichetta e confonde senza freni. Non è più un diritto il lavoro e nemmeno la famiglia. La ricerca della produttività ci impone di lavorare facendo gli straordinari per comprare l’iphone ai figli che però ci sfuggono comunque e nonostante il registro elettronico. In questo pluridecennale disastro, il problema sarebbe il governo M5s-Lega?
La gente ha capito che non c’è niente da capire e stanno firmando una cambiale in bianco a chi sta dimostrando almeno un po’ di empatia nei loro confronti. E questo per colpa di chi ha venduto fumo per decenni, conformandosi e consolidando un sistema ineguale e a sviluppo verticistico, addirittura considerando quasi una sciocchezza la richiesta di più attenzione alla realtà di tutti i giorni, alla fatica di vivere la quotidianità, preferendo sbracciarsi per affari più “mediatici” come la barca in mezzo al mare che non trova un porto sicuro.
Ed allora, quando parla Salvini si riempiono le piazze semplicemente perché dà l’idea di voler andare, insieme a Di Maio, verso la riaffermazione della presenza dello Stato, di voler ridare centralità alla spesa pubblica, alla direzione politica della cosa pubblica, difendere la democrazia e lo spazio democratico attraverso la sovranità politica ed economica. E la gente apprezza perché comprende che non esiste il pericolo di una destra estrema al governo, fiuta l’inganno dell’esagerazione di gridare ad un pericolo razzismo nel Paese, sa che in Veneto e in Lombardia non è stato ripristinato il sabato fascista ma che, anzi e purtroppo, anche lì è ancora imperante il sistema di sviluppo neoliberista. E che si potrebbe fare meglio, certo la luce è altrove e non siamo ingenui, ma che Monti, Cottarelli, Visco, Giannino e Ilsole24ore hanno fatto e detto molto peggio di così.
Continua con ‘Dream team’ (titolo originale ‘Les Seigneurs’) la scoperta di Omar Sy, che pur avendo una parte minore rispetto a quelle cui ci aveva abituato in ‘Quasi Amici’, in ‘Famiglia all’improvviso’ o in ‘Samba’, ci piace sempre andare a riscoprire.
In questo film divertente, Patrick Orbéra (José Garcia) è una ex stella della Nazionale di calcio francese, tramontata e precipitata nell’alcol. La famiglia non regge e se la moglie chiede la separazione, la volontà di poter continuare a vedere l’amata figlia lo obbliga a liberarsi da tale dipendenza e trovarsi un lavoro. Su questi punti il giudice è irremovibile. L’occasione si presenta con la squadra dilettantistica di una piccola, isolata e un po’ fredda isola della Bretagna, l’Île-Molène, nel dipartimento del Finistère. Qui Patrick viene accolto e ospitato dal sindaco Titouan Legennec (Jean-Pierre Marielle) che, presidente della squadra, deve occuparsi di lui e verificare che righi dritto. La squadra però non va semplicemente allenata, ma deve arrivare il più avanti possibile nella Coupe de France, per salvare, con il danaro dei premi partita, l’antica fabbrica di sardine locali che rischia la chiusura. La squadra non può essere formata solo dagli abitati dell’isola, che sono per la maggior parte operai o pescatori, ma servono rinforzi. Ecco allora Patrick pronto a contattare ex compagni di Nazionale: il portiere Fabien Marandella (Ramzy Bédia), il difensore Wéké N’Dogo (Omar Sy), il centrocampista Shaheef Berda (JoeyStarr), il fantasista Rayane Ziani (Gad Elmaleh) e l’attaccante David Léandri (Franck Dubosc). C’è chi come N’Dogo ha dovuto interrompere la carriera per problemi cardiaci o chi, come Berda, entra ed esce dal carcere. Non mancano i problemi con la cocaina o con il ririo io, ma tutta la squadra ci si mette d’impegno. Si arriverà fino ad incontrare il mitico e imbattibile Olympique Marsiglia. Risate a non finire, bei sentimenti. Con finale a sorpresa.
‘Dream team’, di Olivier Dahan, con José Garcia, Franck Dubosc, Jean-Pierre Marielle, Gad Elmaleh, JoeyStarr, Ramzy Bédia, Omar Sy, Sami Ameziane, Francia, 2012, 97 mn