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E’ un giorno di sole e di pioggia sotto il cielo di Ferrara. La città oscilla tra la tentazione di cedere al grigio cupo dell’inverno e il torpore azzurro di questa seconda estate d’ottobre. I suoi mattoni in cotto recitano, obbedienti, la loro parte senza sbavature: lividi, seriosi col grigio, vividi e accesi appena stesi al sole.
Guardo fuori dalla finestra e scorgo un convento lottizzato. Morte le ultime suore rimaste, è sopravvissuta la piccola chiesa. Gli appartamenti hanno un costo altissimo. Chissà cosa avrebbe pensato in proposito Cristo. Di sicuro lo avrebbe atteso un Grande Inquisitore qualsiasi, accusandolo di eresia. In qualche modo sarebbe finito comunque, di nuovo, tra i pali di una croce o le maglie roventi di una graticola.

Osservo le finestre, le grondaie, i tetti. Trovo quei versi di Franco Fortini che dicono “Qua e là, sul tetto, sui giunti / e lungo i tubi, gore di catrame, calcine / di misere riparazioni. Ma vento e neve, / se stancano il piombo delle docce, la trave marcita / non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia / che un giorno, e non importa / se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente, / quella volando via”.

Scendo in strada e piovono foglie in corso Isonzo. Intorno nessuno pare curarsene. Le foglie di platano ricoprono l’asfalto. Imbocco via Garibaldi. In via Lucchesi una volta dimoravano gli industriali, i commercianti d’olio toscani, da lì il nome. Oggi trovo la saracinesca chiusa e mi viene alla mente che, dopo 35 anni, Michele Maglione se n’è andato via. L’avevo conosciuto per via del suo ottimo caffè. I nostri accenti si erano presi, incollati, riconosciuti. Michele Maglione, napoletano dagli occhi azzurri di ghiaccio, ha aperto il caffè di via Lucchesi una quindicina di anni fa. Con il timore dell’outsider, ha messo in piedi un locale che offriva esclusivamente caffè delle più svariate miscele. Non altro. Oggi, a distanza di anni, molti tentano di emularlo.

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La caffetteria di via Lucchesi
In precedenza aveva vissuto in qualche posto sperduto dell’Africa e commerciato in legname, Michele. Rientrato in Italia, a Ferrara decise di tornare alle origini. Darsi una calmata. Una boccata di vita sedentaria. Le origini, quelle di quando, a sedici anni, passava il tempo nell’azienda di torrefazione dello zio, a Napoli. Questa è, in parte, la vicenda del Caffè di via Lucchesi.
Oggi la saracinesca di questa storia minuta, semplice, è chiusa.

Un giorno, dopo mezza vita emiliana, Michele vende il caffè a due donne. Due sorelle che si impegnano a conservarlo così come lui lo aveva concepito. Vende la sua creatura e acquista un pezzo di terra rossa verso la Murgia brindisina, nel parco degli ulivi secolari, in mezzo a due mari. Prova a realizzare un vecchio sogno, Maglione. Quello di costruirsi una casa fatta di quel legno che tante volte aveva maneggiato e che conosce bene. Poi affittare camere a qualche turista di passaggio, coltivare la terra, preparare il caffè, stavolta per sé e per i propri ospiti.

Qualcuno sostiene sia un viaggio, questa piccola Odissea chiamata vita. Altri, col volto accigliato, parlano di una perpetua lotta, di un’infinita Iliade senza vincitori, in cui risultiamo tutti assediati, vinti. Stretto tra questi pensieri, mi accontento di Ferrara con una saracinesca abbassata e una storia da raccontare. Mi basta un sabato pomeriggio di una vecchia città ostinata, che fa ancora il suo mestiere. In cui la gente vive, sogna, si innamora, riparte. In cui di continuo qualcuno approda, mentre alla stazione qualcun altro saluta.

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Sandro Abruzzese

Nato in Irpinia, vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un istituto d’istruzione superiore. Per Manifestolibri ha pubblicato Mezzogiorno padano (2015). Con Rubettino ha pubblicato CasaperCasa (2018) e Niente da vedere (2022). Sul suo blog, raccontiviandanti, si occupa di viaggio e sradicamento

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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