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Ogni tanto, qualcuno mi chiede cosa penso del Giardino delle Duchesse. Di solito rispondo: “Non penso”, cosa assolutamente non vera, ma che mi permette di evitare discussioni. In realtà quello che penso io è irrilevante, l’uso e la gestione di questo spazio non hanno mai scatenato i miei entusiasmi ma il fatto che ci sia di mezzo la parola ‘giardino’, mi irrita. Quando veniva usato come cortile di sgombero dei Grigioni aveva un suo scopo definito e onesto, una funzione condivisa da tutti quelli che, in barba alla storica origine del luogo, lo utilizzavano come retrobottega e ne avevano farcito le pareti con ogni sorta di tubo, grondaia, cassonetto, antenna o impianto, lasciando che muri e intonaci si scrostassero allegramente. Poi, un giorno, qualcuno si è svegliato e ha pensato, giustamente, di far resuscitare questo spazio. L’errore è stato definirlo da subito come recupero di un giardino. Il Verde a Ferrara c’è, e non mancano esempi di pregio o comunque di spazi trasformati dalla Storia, che hanno mantenuto una dignità e una riconoscibilità come tale, vedi il giardino della Palazzina di Marfisa o il giardino delle Sculture di Palazzo Massari. Quello che è rimasto del giardino usato dalle duchesse di casa d’Este, ha un valore storico indiscutibile, ma può essere conservato come documento, come atto, non può vincolare in eterno uno spazio con delle potenzialità urbanistiche del genere.
So che gli storici mi odieranno, ma le indagini storiche, filologiche, archeologiche, botaniche sui reperti dei pollini, erano analisi sensate per fornire materiale per una bella pubblicazione sui giardini di un palazzo a scala urbana come quello ferrarese, non per giustificare un investimento di ripristino. Ammettiamo che una ripulita generale e una griglia per rampicanti senza rampicante, non sono abbastanza per farlo risorgere né come giardino né come spazio pubblico, ma ci sono infiniti esempi, sparsi per l’Europa, di corti interne di palazzi antichi, dove i segni del passato convivono con nuove pavimentazioni, ingressi ben definiti, dove gli alberi sono curati e dove le pareti degli edifici svolgono il loro servizio, accogliendo senza paura, tubi e impianti, ma con quella attenzione che li rende dignitosi e sinceri, lasciando libero lo spazio per renderlo flessibile e accogliente.
Trovo sbagliato e fuorviante definire “le Duchesse” come un giardino, come viene sbandierato oggi nei messaggi di richiamo turistico. Giardino è una parola pesante, è la classica parola evocativa, cioè una parola che rimanda ad altro, una parola che solo a pensarla fa venire in mente il piacere e la bellezza. I giardini sono la forma concreta di un pensiero estetico, sono “cose” in cui si può toccare e vedere l’idea di una Natura bella corrispondente ad una cultura di un popolo o di una persona, in una data epoca. Nel Rinascimento questa idea estetica si esprimeva attraverso la geometria con cui si modellavano spazi e vegetali. Per mantenere tutto questo non mancava né il denaro né la manodopera, e comunque l’uso di questi giardini era destinato al godimento di poche persone. Il giardino è figlio di un progetto che ha bisogno di soldi per essere realizzato e poi mantenuto nel lungo termine, tutto il resto, è propaganda.
Mi costa dirlo e questo discorso non piace a nessuno, perché si vendono meglio i sogni e le promesse, ma anche il progetto più bello se viene fermato a metà strada per mancanza di soldi rimane cosa morta, e se nessuno lo cura dopo la foto di gruppo con le autorità, diventa una schifezza. Riempiamolo di vita, invece che di piante, trasformandolo veramente in un contenitore aperto, pulito, sobrio e funzionale per una sosta libera dall’obbligo di consumazione, spettacoli estemporanei, musica, mercatini, installazioni virtuali, sorprese, ecc. iniziative che vanno benissimo per valorizzare questo luogo, che per rivivere non ha bisogno delle onnipresenti opere d’arte messe a casaccio, di aiuolette sfiziose o dei tavolini di un ennesimo bar, ha bisogno di coraggio.
Si possono fare miliardi di proposte sulla carta, tutte potenzialmente realizzabili, ma progettare correttamente significa avere l’onestà di chiamare le cose con il loro nome e capire che quando non ci sono le risorse economiche è il momento di inventarsi delle alternative alle passeggiate di annoiate donzelle. Di giardini fatti male, musei all’aperto raffazzonati, bar e gazebi simil-tirolesi ne abbiamo anche troppi, quindi ben vengano progetti e idee, ma non chiamiamolo “giardino”, sarà il godere di un luogo piacevole, a far ritornare il ‘giardino’ alle Duchesse.

Foto di Andrea Musacci

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Giovanna Mattioli

È un architetto ferrarese che ama i giardini in tutte le loro forme e materiali: li progetta, li racconta, li insegna, e soprattutto, ne coltiva uno da vent’anni. Coltiva anche altre passioni: la sua famiglia, la cucina, i gatti, l’origami e tutto quello che si può fare con la carta. Da un anno condivide, con Chiara Sgarbi e Roberto Manuzzi, l’avventurosa fondazione dell’associazione culturale “Rose Sélavy”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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