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Sui giornali, e anche nella rete, nelle settimane scorse si è parlato con insistenza dei gettoni degli amministratori pubblici, da Roma fino alle più remote periferie dello stivale, a volte a ragione, altre un po’ meno, a volte, ancora, a torto. Se n’è parlato con insistenza, ma il dato preoccupante è che si rimane alla superficie del problema e così, dopo un po’, tutto va nel dimenticatoio e la pubblica opinione lasciata a periodiche e cicliche arrabbiature. E la questioni restano insolute.
In pochi continuano a sottolineare e a richiamare la ruggine del modello organizzativo della pubblica amministrazione, le molteplicità delle sovrastrutture nei livelli istituzionali e gli eccessi degli enti e delle società di gestione della cosa pubblica.
Infatti ci troviamo di fronte ad una mastodontica macchina pubblica quasi impossibile da gestire nei diecimila meandri in cui si sviluppa, e anche ad una periferia dei territori pieni di incongruenze, di farraginose relazioni, di spezzettamenti, di ruoli e funzioni allocati in siti impensabili e, quindi, siamo di fronte ad un marasma difficilmente dipanabile.
Anche l’informatica più avanzata, i software e gli hardware di nuova generazioni e le più avanzate strumentazioni del web non riescono quasi più ad affrontare un caos da big bang.
Non è più possibile avere più di ottomila municipi, più di ventimila municipalizzate e partecipate, decine di migliaia di consulenze, autonomie e statuti speciali disseminati ovunque, pezzi di pratiche e di procedure dormienti nei corridoi degli uffici pubblici e quegli intrecci che fanno impazzire il cittadino, ormai sfinito dal ‘pellegrinare’ da un ufficio all’altro per un certificato e un’autorizzazione.
Nel riportare questi fatti ci si ferma solo a quanti soldi prendono, se troppo o troppo poco, i tantissimi mandarini incuneatisi nelle burocrazie pubbliche, oltre alle ricollocazioni dei fine mandati di amministratori e dirigenti.
Certo non è un bel vedere, anche per le storture e i privilegi di alcune nicchie di cui si sente di questi tempi, ma quello che serve è altro. Serve alleggerire e snellire la macchina e l’organizzazione. Serve trovare la giusta dimensione per le governance, servono vere competenze, individuare gli obiettivi, un linguaggio comune, dare struttura ai costi, riallocare le risorse, avere le certezze e quanto serve per l’efficienza e per l’economicità, oltre all’efficacia.
Da non dimenticare l’auditing, e chi non ci sta può restare a casa. Parole sante, direbbero i più, ma quante volte le abbiamo sentite e dopo tutto come prima, o quasi? Ferrara, Cuneo e Verona comprese.
E’ vero che il dire spesso non sta nel fare, che resistere ormai è il tema dominante per non intaccare ataviche incrostazioni e fortezze cristallizzate, ma dobbiamo sapere tutti che se rimaniamo ancora così non ci resterà che allargare le braccia e rassegnarci al peggio.
La sfida sta nel cambiare, nel cambiare verso una strada possibile. Ma quanta fatica, anche nel nostro domestico.

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Enzo Barboni


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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