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4. SEGUE – I vincitori hanno sempre scritto la loro storia da tramandare ai posteri, sì che l’ardua sentenza manzoniana sia la conclusione spontanea di quell’operazione di cui potere e giornalismo sono responsabili nel bene e soprattutto nel male, chi non crede a quest’affermazione vada a rileggersi, o a leggere se non l’ha fatto prima, il “De bello gallico”, in cui Cesare, impegnato nella conquista della Gallia, indica sempre nel povero Vercingetorige l’assalitore brutale e infido. La medesima storia del nostro glorioso Risorgimento dovrebbe essere riletta in questa chiave, ma il vincitore era Cavour, il quale aveva liquidato Garibaldi, socialista e massone, e aveva costruito l’Italia come voleva Casa Savoia.
Queste, però, sono considerazioni che fanno parte del bagaglio dell’esperienza da me maturata in anni di lavoro,considerazioni che non si accordavano certamente con la carica di entusiasmo e di speranza con cui ero entrato nel truffaldino mondo dell’informazione.

Ero arrivato alla Gazzetta Padana, il vecchio “Corriere Padano” di Italo Balbo, subito dopo la laurea e mi avevano messo in cronaca, andavo a fare il giro di nera in questura, dai carabinieri, in ospedale. In verità avevo già collaborato al giornale ma con articoli culturali, incoraggiato dallo scultore Annibale Zucchini e dalla pittrice Mimì Quilici Buzzacchi di cui avevo curato anche una mostra al chiostrino di San Romano. Così quell’immersione nella cronaca – manovalanza giornalistica – fu un salutare bagno di umiltà, ora non si fa più il “giro”, le notizie ti arrivano direttamente sul tuo computer, fanno bella mostra di sè e non devi far altro che metterle in pagina, per le notizie più importanti le autorità convocano una conferenza stampa e tu scrivi praticamente sotto dettatura. Recriminare non serve. Bisognava riempire le pagine e in una città di provincia non era facile, d’estate poi!, ricordo il silenzio e il caldo che entravano insieme dai finestroni aperti, il capocronista ti guardava e, senza sprecare parole, ti diceva di inventare qualcosa: di solito ci pensava un collega più anziano, scapigliato come doveva essere un giornalista, esteticamente truccato da giornalista, giacchetta un po’ bistrattata, camicia abbondantemente bagnata sotto le ascelle. Lui, il collega, si metteva in posa davanti alla Olivetti e cominciava a battere freneticamente il tasto delle maiuscole, sembrava che dovesse scrivere “I promessi sposi”, invece il foglio rimaneva impietosamente bianco, ma, dopo un po’ di falsa battitura, lo scrittore si fermava e diceva guardando in alto “faccio un capocronaca sulla necessità di dotare le nostre Mura di una grande Parco delle rimembranze con i busti degli uomini più famosi della città”. Detto questo, chinava il gran capo al direttore d’orchestra e dava inizio alla sinfonia e la macchina per scrivere riempiva di suoni la sala della cronaca: il capocronaca, cioè l’articolo che apre le pagine della città, è il pezzo più importante, quello sul quale dovrebbe reggersi il notiziario locale.

Ora in quel periodo, se volevi, c’era da scrivere: il clamoroso caso dell’omicidio compiuto sulle Mura (altrochè Parco delle Rimembranze!) da un giovane folle, subito chiamato “il vampiro”, il quale aveva violentato un bambino e poi lo aveva ucciso. La polizia aveva messo sotto inchiesta i ferraresi noti per le loto tendenze omosessuali, ma poi aveva trovato il vero responsabile. Ma, prima di ogni altro fatto, c’era il famoso “caso Giuffrè”, Giovan Battista Giuffrè, il cosiddetto “banchiere di Dio”, l’uomo della Curia che prendeva soldi a prestito e li restituiva con interessi incredibilmente alti, un giuoco che inevitabilmente sarebbe arrivato al capolinea, come avvenne regolarmente al primo intoppo del giro truffaldino e santificato; decine e decine di uomini d’affari, di professionisti e di agricoltori rimasero a secco nell’ultimo vortice d’interessi pompati.
Ma era pur sempre un argomento tabù per le persone importanti coinvolte, dal vescovo, al possidente, all’avvocato, all’ingegnere, al commerciante, al medico. I nomi non si potevano fare, si sussurravano alle orecchie degli amici più stretti, sicuri che comunque le sibilanti delazioni avrebbero avuto larga audiens, c’era soltanto da restituire la palla, la quale, così, rimbalzava da bocca a orecchio, ogni volta aggiungendo o togliendo qualche saliente particolare, insomma, le notizie circolavano molto in sordina e le bocche stavano ben attente a non aprirsi davanti alle orecchie degli indiscreti, in primo luogo i giornalisti. I quali, d’altra parte, erano conniventi, un giornale era di proprietà degli industriali, un altro degli agricoltori: chi mai avrebbe potuto rompere il muro di silenzio, sul quale, naturalmente in sedia gestatoria, la Chiesa innalzava solerti preghiere a Dio perché fosse cameratescamente protettore dei sacri segreti finanziari.

Ma non riuscì nemmeno al sommo creatore d’impedire che la faccenda giungesse fino alle pagine dei giornali nazionali, sui quali la Curia locale aveva meno potere, ma erano pur sempre notizie molto parziali, si parlava di tale Casarotti, braccio destro di Giuffrè, si parlava molto in generale di professionisti, di agricoltori (sempre gli stessi che negli Venti avevano sovvenzionato le bande armate di Italo Balbo), di imprenditori: “il tale professore, primario in ospedale, ha perso 14 milioni…, dicevano i sapienti, si aspettava di guadagnarne altri quattordici, ma la mano della giustizia…”, Il giuoco era questo, tu prestavi 2 e ti veniva rimborsato 4, allora tu reinvestivi 4, sicuro che avresti ricevuto 8 e, intanto, con quel vorticare di milioni si costruivano case e chiese, te Deum laudamus, chiosavano le suore. Insomma, con il vampiro e con il banchiere di Dio Ferrara riuscì a sgranchirsi le membra intorpidite da una pigrizia che aveva lasciato nelle teste dei borghesi una gromma difficile da scalfire.

4. CONTINUA [leggi la quinta puntata]
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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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