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EVENTO
Vittorio Sgarbi a Ferrara per presentare il suo ultimo libro e parlare di arte e capre

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“Capre!” Quante volte lo abbiamo sentito apostrofare così i suoi interlocutori? Ora sono anche sulla copertina del nuovo libro di Vittorio Sgarbi: la riproduzione di un dipinto di Rosa da Tivoli, che rappresenta appunto delle capre al pascolo.
E nemmeno alla conferenza che si è tenuta ieri nella sala dell’Oratorio San Crispino il celebre opinionista ha perso l’occasione di proferire una delle sue parole più ‘amate’ e ricorrenti, che ormai lo contraddistinguono. Questa volta però non le ha pronunciate in riferimento a qualcuno, anzi, Sgarbi si è mostrato molto più docile rispetto alla classica visione che i mass media ci offrono, ricoprendo in pieno le vesti di critico d’arte. Ha così presentato il suo ultimo libro “Dall’ombra alla luce. Da Caravaggio a Tiepolo” dedicandosi, senza troppe divagazioni alla sua passione: l’arte.

Baciccio, Guercino, Mastelletta: sono solo alcuni dei pittori che hanno reso l’Italia tanto ricca, di cui però non conosciamo l’identità. “Siamo invece certi delle opere, ma soprattutto dell’esistenza di Cimabue, Giotto, Brunelleschi, Leonardo, i classici “pittori toscani”, famosi per decisione del Vasari, che ha conferito loro il primato”. Siamo quindi, secondo il celebre critico, davanti ad una storia dell’arte conosciuta in maniera molto imperfetta e molto inefficiente rispetto a quello che dovremmo vantare. “Noi siamo il primo paese nel mondo ad avere tante opere d’arte. E non lo sappiamo nemmeno!”
Per questo ha pensato di rivelare i tesori dell’arte italiana e da qui prende il nome la serie di volumi di cui Sgarbi ha presentato il quarto tomo, aggiungendo che per terminare la sua opera, ne scriverà anche un quinto arrivando fino a De Chirico.

“Per realizzarlo, ho immaginato la storia dell’arte italiana tagliata a fette. E in questo libro in particolare, ho voluto parlare di una serie di artisti meravigliosi, ma totalmente sconosciuti. Pittori che, non solo non vengono mai citati, ma sono addirittura chiusi in chiese strane, remote e la gente non sa nemmeno che esistano”. Ecco perché nasce questo libro dal titolo profondamente metaforico, “Dall’ombra alla luce”, che rimanda a un duplice significato: il passare dalle ombre  di Caravaggio alla luce di Tiepolo, ma allo stesso tempo la volontà dell’autore di far riemergere, far “venire alla luce” tutte quelle opere che sono rimaste nell’ombra per troppo tempo.

Certo, il nostro opinionista non si è lasciato sfuggire qualche critica, soprattutto a proposito della situazione nella quale versano alcune architetture della zona. “Non possiamo avere le chiese chiuse, soprattutto per noi che ci troviamo nel ‘Nord produttivo’, le chiese di Ferrara devono essere aperte! Il ministro – ha detto Sgarbi riferendosi a una sua conversazione con l’ex ministro Bray, ma alludendo forse anche all’attuale titolare del Mibact, il ferrarese Franceschini – ha il dovere di aprirle tutte, una per una. Da questo punto di vista, sento Ferrara un po’ inerte, ma non per questo la odio, come erroneamente si crede, anzi la amo e sono felice di esser tornato nella mia città”.

Sgarbi ribadisce più volte l’amore e l’orgoglio che prova per la città natia, anche se i suoi rapporti con questa non sono stati tra i più felici. Il popolo ferrarese sembra non avvertire questo distacco, riempiendo la sala nella quale si è svolta la presentazione e restando ad ascoltare in religioso silenzio, fino all’ultimo fragoroso applauso. Anche il padre Giuseppe e la sorella Elisabetta non potevano mancare all’appuntamento, sostenendo Vittorio con una determinata ammirazione.

Insomma, chi si aspettava lo Sgarbi critico, agitato e polemico della televisione questa volta se n’è andato insoddisfatto, ma per tutti quelli interessati all’arte, il nostro opinionista ha dato una lezione coinvolgente e sentita, degna di un vero divulgatore del nostro immenso e in larga parte sconosciuto patrimonio.

Chi tutela il bene comune? Lunedì 16 voci a confronto in Ariostea

“Il bene comune: politiche pubbliche e interessi collettivi” è il titolo del primo incontro del terzo ciclo di conferenze “Chiavi di lettura – Opinioni a confronto sull’attualità”, organizzate da FerraraItalia con l’intento di “leggere il presente”. Ogni mese il quotidiano online, fedele al proprio impegno di sviluppare l’“informazione verticale”, proporrà un approfondimento su un tema di attualità, locale o nazionale. Lo farà mettendo a confronto voci e opinioni diverse, per alimentare dibattiti costruttivi che contribuiscano ad ampliare la conoscenza dei fatti, a favorire l’elaborazione di fondati punti di vista, nella convinzione che l’autonomia di giudizio sia imprescindibile condizione per l’esercizio dei diritti di cittadinanza e stimolo per una partecipazione attiva alla vita pubblica.

Quello sul “Bene comune”, in programma lunedì 16 gennaio alle 17 alla biblioteca comunale Ariostea, sarà un confronto a più voci, coordinato dal direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi, con il contributo di cittadini che hanno svolto percorsi professionali e operato scelte di vite differenti fra loro.
Al prologo, seguiranno (sempre di lunedì alle 17) il 27 febbraio “Ferrara violenta? La criminalità fra realtà e suggestione”, il 27 marzo “Moriremo moderati? Il ritorno della Balena Bianca”, il 24 aprile “Ma la coop sei veramente tu? Cooperazione e impresa ai tempi della collera”, il 29 maggio “Uomini o caporali? Storie di dignità e vassallaggio”.

Il soldato e il terrorista. Una condanna che fa discutere nella polveriera di Hebron

L’opinione pubblica israeliana in questi giorni si trova drammaticamente spaccata in due a causa della condanna per omicidio colposo nei confronti del giovane soldato, oggi ventenne, Azarya Elor, decretata dalla corte marziale militare israeliana. Una condanna che fa discutere, anche perché, all’epoca dei terribili avvenimenti di Hebron (24 marzo 2016), il giovane soldato aveva solamente 19 anni e, trovandosi nel mezzo di un attentato in cui due militari suoi amici venivano accoltellati e ridotti in fin di vita, non ha esitato a sparare alla testa uccidendo il terrorista palestinese, seppur già ferito e a terra. I dubbi sulla condanna riguardano il fatto che il terrorista, nonostante gli fosse stato ordinato di non muoversi, secondo le ricostruzioni continuava a farlo destando timori sulle sue intenzioni: se avesse attivato un giubbotto esplosivo causando una carneficina? Tutti gli ufficiali presenti sulla scena hanno testimoniato a favore del giovane Azarya. Perché non si è voluto tener conto del fatto che le procedure – nel caso di un terrorista sospettato di indossare una cintura esplosiva –  indicano di sparare alla testa se questo si muove o muove una mano?
Ma la giustizia israeliana ha voluto da prova di imparzialità, in un paese in cui vige lo stato di diritto retto da una magistratura indipendente, in cui anche Presidenti e i Primi Ministri vengono condannati alla galera. Resta il fatto che, a giudizio della maggior parte delle opinioni pubbliche, sia israeliane che italiane, questa condanna inflitta al giovane soldato è eccessiva.

Michael Sfaradi, giornalista e scrittore, italiano di nascita ma residente in Israele da oltre 30 anni, spesso impegnato come corrispondente di guerra, in un’intervista ad un giornale svizzero afferma: “…Serviva un colpevole e un colpevole è stato servito senza attenuanti. Come attenuante non è servita la giovane età dell’imputato in servizio di leva messo in una situazione di ordine pubblico che sarebbe stato invece compito della polizia.”

Sul web fanno eco altri commenti: Silvia: “L’unico Stato al mondo dove un soldato che uccide un terrorista viene processato e condannato! Non ho parole”. Aldo:”Come si può condannare un ragazzo di 18/19 anni, che probabilmente era emozionalmente instabile… Sono dei giovani, non dei professionisti. Non è giusto, la sua condanna è surreale. Non tutti riescono a mantenere sangue freddo in condizioni di emergenza, e lui è ancora un ragazzo”. Anna:” Quando penso ai palestinesi che offrono caramelle e cioccolatini ogni volta che uccidono un ebreo mentre Israele condanna un giovane diciottenne che ha svolto il suo dovere di soldato…queste sono le contraddizioni che non capisco e che mi fanno saltare i nervi”. Non è possibile non criticare certa stampa e Tg italiani che sull’uccisione del terrorista palestinese lo descrivono: “sdraiato a terra”. Non stava prendendo il sole, aveva appena compiuto un attentato. Gabriella:” Dire che era un terrorista era superfluo? Questi “giornalisti” diffusori di notizie che divulgano mezze verità”. Anna:” Non è conveniente scrivere la verità. Tutta la notizia in fondo era per ricordare agli italiani i cattivi soldati israeliani che ammazzano i poveri pacifici palestinesi! E’ preferibile non leggere più certa stampa”.

E proprio mentre sto per terminare questo articolo, apprendo la terribile notizia di un ennesimo attentato a Gerusalemme compiuto da un terrorista palestinese che, alla guida di un camion ha volutamente investito e ucciso quattro soldati tutti giovanissimi, appena ventenni. Tre di loro erano soldatesse. Il criminale palestinese, ha poi ingranato la retromarcia passando diverse volte sui poveri corpi, marciando avanti e indietro.
Il sangue versato oggi possiamo metterlo in relazione con i fatti accaduti e illustrati in questo articolo perché i soldati presenti oggi a Gerusalemme, si sono dimostrati talmente intimoriti da quella sentenza che hanno esitato a sparare… E’ stato un civile, l’unico che ha sparato e ucciso il terrorista alla guida del camion. Le decine di soldati presenti non hanno sparato un solo colpo. Questo è il tragico effetto della condanna inflitta al giovane soldato Azarya.

A Bologna, a partire da domenica 8 gennaio, la personale di pittura di Paride Falchi

da: Riccarda Dalbuoni

“Le atmosfere post impressioniste del paesaggio e della vita padana, nelle località e nelle campagne lambite dal Po, saranno il tema della personale di pittura di Paride Falchi (1908-1995), artista pienamente calato nel Novecento ma dalla straordinaria modernità espressiva, capace di far vivere nelle sue opere sensazioni e personaggi caratterizzanti periodi e luoghi. Accanto ai suoi quadri, verranno esposte all’attenzione del pubblico le sculture del figlio Aldo, vivente, moderno manierista formatosi all’Accademia di Brera a Milano, che con opere in bronzo e terracotta, rappresenta tensioni e passioni, viaggi e incontri di una vita caratterizzata da notevoli successi artistici. La mostra, intitolata “Maestri mantovani”, curata da Cristiano Zanarini, sarà inaugurata domenica 8 gennaio alle 17 alla Galleria Sant’Isaia via Nosadella 41a a Bologna. Numerose le opere raccolte nelle grandi sale di una delle gallerie più affermate e conosciute di Bologna. Esse rappresentano i momenti salienti di lunghe carriere, in modo da dare un panorama completo dell’attività di entrambi gli artisti. Gli orari di apertura con ingresso libero: da martedì a domenica ore 10:30 – 12:30 e 16:30 – 19:30 e mercoledì pomeriggio chiuso (possono variare, si consiglia di verificare sempre via telefono). La rassegna potrà essere ammirata fino a venerdì 26 gennaio 2017.”

Quel Babbo Natale disonesto

Quando ero piccolo a portarmi i doni la notte del 24 dicembre era Gesù Bambino, non Babbo Natale, ritenuto dai miei troppo laico o pagano. Mi avessero detto che Gesù Bambino non esisteva non ci avrei creduto, non avrei subìto nessun trauma, perché tanto i doni continuavo a riceverli. Al termine della cena della notte di Natale, puntualmente suonavano il campanello alla porta di strada e noi, i miei fratelli ed io, non avevamo dubbi che a suonare era Gesù Bambino che ci portava i regali.
Conservo ancora dei bellissimi ricordi di quella tradizione e della atmosfera di Natale che i miei sapevano creare per noi bambini.
Eppure a mio figlio non ho mai raccontato né di Gesù Bambino né di Babbo Natale, se non per dirgli che appartenevano al mondo della fantasia, come le favole che leggevamo insieme o che io mi inventavo per farlo divertire. Le favole sono belle e importanti perché aiutano a distinguere ciò che è realtà da ciò che è puro gioco dell’immaginazione. Neppure ho esitato a far trovare a mio figlio secondo i crismi della tradizione, insieme alla calza, una lettera tutta bruciacchiata, come doveva essere, scritta dalla Befana. Perché giocare con la fantasia è un esercizio della mente, un esercizio dell’intelligenza che a lungo andare forma il bambino al principio di realtà, allo spirito critico, alla curiosità, alla capacità di inventare e di ideare che sono strumenti indispensabili sia alla nostra formazione razionale che emotiva, sia all’emisfero destro come a quello sinistro del nostro cervello.
Quando ero giovane maestro, contestatore dei libri di testo e dei voti (in verità lo sono ancora!), con velleità d’avanguardia in una scuola vecchia, una mattina entrai in classe bel bello chiedendo ai miei alunni di nove anni se avevano sentito la notizia trasmessa dalla televisione che avevano rapito Babbo Natale. Ero interessato alla loro reazione. Se solo qualcuno avesse almeno messo in forse le mie parole, avesse colto immediatamente la possibilità di un mio scherzo. Si sarebbe dimostrato uno spirito libero, sveglio, intelligente. No. Silenzio di tomba e qualche singhiozzo. So solo che il giorno dopo molti genitori mi ringraziarono e mi lodarono perché avevo avuto una bella idea. Io non fui licenziato. Forse perché la mia provocazione non arrivò fino a negare l’esistenza del vecchione, anzi non faceva che confermarla con più forza, semmai aveva fatto emergere il lato debole dei miei alunni, il loro egotismo, preoccupati più di non ricevere i doni, che della fine che poteva essere capitata al povero Babbo Natale rapito da malvagi.
Sta di fatto che comunque è disonesto giocare con l’ingenuità dei bambini, è da prepotenti, come il più forte contro il più debole, come fargli credere che le favole nate per essere favole sono vere.
Bambino, se non fosse che è parola a noi così famigliare, sarebbe di per sé, per la sua etimologia che è quella di cosa sciocca, per il suo uso emotivamente traditore nel Bambi di Disney, sarebbe parola da bandire, perché denuncia con quale considerazione il mondo adulto guardi all’età più importante della vita che è senza dubbio l’infanzia.
Un’età che si può manipolare a piacimento, restare ingenui non è da cretini, è da beati, così ti meno per il naso dove voglio. È la legittimazione della disonestà intellettuale con i propri figli e i bambini in genere. È disonesto giocare con l’infanzia perché non è adulta, perché non è ancora cresciuta e sorge il sospetto che i grandi abbiano dei secondi fini, abbiano l’interesse a mantenerli nella loro sudditanza intellettuale per manipolarli meglio. Meglio creduloni che svegli e intelligenti, capaci di giocare con la fantasia, credere ai loro viaggi fantastici anche se sanno bene che non saranno mai la realtà. Ma si sa che sulla manipolazione delle menti infantili crescono le radici delle religioni, delle ideologie fino ai fanatismi.
E dunque ben venga quel direttore d’orchestra che svelando la favola di Babbo Natale ha saputo dimostrare un grande rispetto per la sua platea di bambini.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Vichinga forte e fiera… senza paura

“Oggi mi sento una vichinga”. È talmente rapido il modo in cui T. mi scrive della sua malattia, un cancro al seno diagnosticato qualche mese prima, che vuole subito farmi capire che il peggio è passato e le importa solo dirmi come sta adesso.
Mollo i panni sul letto, mi siedo sulle scale e rileggo. Non a lei, penso, non alla nostra età. Faccio fatica a mettere insieme i messaggi e realizzare che quella mia amica, coetanea, moglie e madre, è stata operata d’urgenza, le hanno tolto entrambi i seni e me lo sta dicendo con la fierezza di chi ha fatto qualcosa di grande. Qualcosa che a me sembra immenso. Non so rispondere, lei lo sa che chi riceve la notizia non ha parole. E, infatti, l’accenno alla malattia è breve, un inciso fra altre cose che mi racconta, l’importante è il traguardo tagliato, è dirmi oggi sto bene e “sono più forte di prima”, è vedersi nuova.
T. non si lagna, T. sorride, lo sento anche se non la vedo, lo capisco da come scrive che ha scavalcato la paura dopo averla guardata in faccia. “Mica paura per noi, sai, ma per chi ci sta a fianco”, T. è talmente oltre che ha messo da parte la paura di perdere, non poteva permetterselo.
Non si è nemmeno concessa di seminare il panico tra gli amici, di rendere quella bestia più protagonista della sua vita di quanto non fosse lei stessa. Ha combattuto un testa a testa, perchè questo è il cancro, ce l’hai dentro. E T., la bestia, l’ha domata e sconfitta.
Il male è diventato un ricordo funzionale a un’urgenza di vita, perchè a T. interessa il bello, il nuovo che è diventata, la coscienza che la malattia non ha preso il suo posto mai.
T, oggi, continua a preferire parlare con entusiasmo di guarigione piuttosto che di menomazione o di quello che solo lei può sapere le avrà intasato la testa in certe notti.
Si è fatta sera tardi, T. mi prende ancora in giro per un paio di scarpe che portavo a sedici anni e amavo tantissimo, ma a lei non piacevano. Non stiamo fingendo di parlare d’altro, vogliamo proprio ridere di noi.
“…Però pretendo la rivincita” mi scrive prima di salutarmi.
“Dimmi dimmi”
“Due bocce enormi”.

Riccarda Dalbuoni

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

La puzza delle contraddizioni del nostro pianeta

Esiste una logica nelle contraddizioni? Difficile dirlo, ma oramai siamo talmente strutturati in questo sistema che difficilmente potremmo immaginare un mondo diverso per cui: si, il nostro mondo è logico nelle sue contraddizioni, qualsiasi cosa questo significhi!
Ma cosa vedrebbe un extraterrestre, un essere proveniente da altri mondi, necessariamente più evoluto di noi e non impregnato dell’odore di fritto che ci infastidisce quando si entra in una cucina dove si sta preparando il cenone di capodanno? Vedrebbe sicuramente tutte quelle cose che noi non vediamo più, che accettiamo come ineluttabili e alle quali ci conformiamo non vedendo altre scelte possibili.

Il cibo. Frigoriferi stracolmi di generi alimentari, supermercati e negozi stracolmi di offerte per tutti i gusti di cui buona parte e immancabilmente finisce nella spazzatura. Cibo e spreco a tonnellate, con incapacità congenita di operare quanto meno un recupero per offrirlo alle mense dei poveri. Spreco da un parte e poveri dall’altra, appunto. Milioni di persone impossibilitate ad accedere a questo cibo e bambini che muoiono a ondate, ogni giorno, perché non hanno accesso al benessere, condizione normale solo per un parte della popolazione, comunque esseri umani anche se diversamente alimentati.

Il lavoro. Da un parte gente che lavora anche 15 ore al giorno, che è totalmente stressata a causa dei troppi impegni, ma che in fondo non sa più farne a meno. Che si troverebbe perduta se all’improvviso si dovesse trovare a casa prima del tempo, di fronte a moglie/marito e figli. E dall’altra gente in costante ricerca di un impiego che gli possa assicurare uno stipendio e quindi la possibilità di pagare le tasse e di potersi tenere la casa, la macchina e l’accesso a quei negozi pieni di ogni ben di Dio, ma che non regalano nulla, anche se siamo Cristiani, Musulmani, Buddisti e quant’altro. Il fatto di ritenerci ‘umani’, religiosi, cooperativi e collaborativi non ci esime dal pretendere sempre che per potersi sfamare e vivere dignitosamente sia giusto passare attraverso il lavoro, quindi uno stipendio, un guadagno, una spesa.
Il nostro secolo doveva essere, presumibilmente, il secolo della liberazione dalle catene della schiavitù, che sicuramente oggi è rappresentata dal lavoro per chi ce l’ha e per chi ne è alla ricerca. Lavoro che è diventato sempre meno di qualità a favore della quantità. Negli anni del boom del secondo dopoguerra l’idea era che ci si sarebbe piano piano liberati dal bisogno di dover lavorare tante ore al giorno grazie alle invenzioni e alla tecnologia, invece è successo il contrario. Si lavora di più e si lavora in due, almeno, altrimenti non si riesce a vivere.
Questo perché siamo stati invasi, nella mente soprattutto, della necessità di avere sempre di più e sempre più cose inutili che durano sempre di meno. Crescita che nella nostra società modernamente tendente al vecchio e al solito significa aumentare la produzione di beni più che aumentare l’accesso al benessere di parti maggiori di popolazione. La tecnologia che doveva aiutare ci costringe invece a starle dietro, a vivere di obsolescenza programmata.
Siamo sempre più schiavi e determinati a rimanere al lavoro sempre più ore per accedere a cose inutili, mentre contemporaneamente sempre più persone rimangono fuori dal circuito lavorativo e di conseguenza non riescono a vivere. Da una parte chi lavora troppo per permettersi cose inutili e perpetuare all’infinito il sistema malato di crescita di prodotti, distruzione dell’ambiente, e accumulo di inutilità nonché spreco di generi alimentari e dall’altra l’esercito dei diseredati che mangiano e si riscaldano sempre di meno. Questo per il mondo occidentale, in gran parte destinato alla putrefazione, mentre milioni di bambini negli altri mondi semplicemente continuano a morire con poco o con il solito clamore ad intermittenza.

I soldi. Come potrebbe reagire il nostro extraterrestre osservando gli appelli televisivi a contribuire a salvare le piccole vite in pericolo nei continenti meno fortunati. Tra una pubblicità e l’altra ci chiedono dieci euro al mese, o venti o trenta, per aiutare un bambino in Africa. Ci chiedono di contribuire a farlo studiare oppure a nutrirlo o addirittura a fargli arrivare una vaccinazione. Quelli che lavorano e sono schiavi della pubblicità, del consumo sfrenato, devono sentirsi anche in colpa per non aver ancora provveduto ad adottare uno di questi disperati che il mondo dell’ingordigia, delle multinazionali e degli interessi sovranazionali ha provveduto a ridurre in quelle condizioni. Condizioni che ci vengono mostrate nella maniera più cruda possibile tra il te pomeridiano e la cena serale, davanti ai nostri figli che imparano, contemporaneamente, a sentirsi colpevoli e superficiali. In contraddizione perpetua.
Nel mondo c’è un gran bisogno di soldi, ma si cercano i soldi degli altri disperati che navigano a vista in questa accozzaglia di diseredati. Anche qui, da un parte Banche Centrali che stampano soldi a bizzeffe, ma che si fermano ad altre banche, dall’altra campagne televisive che ci chiedono 10 euro al mese oppure di partecipare alle collette alimentari. Multinazionali dei farmaci che detengono brevetti miliardari da un parte mentre dall’altra le vaccinazioni di milioni di bambini e la loro vita dipendono dai nostri dieci euro al mese.

Le religioni. Ed infine il nostro extraterrestre scoprirebbe le religioni e vedrebbe gente che prima prega il suo Dio e poi magari si fa esplodere in una piazza in mezzo a donne incinte e bambini, oppure vedrebbe mafiosi prima uccidere i propri simili e poi andare in chiesa a pregare nelle mani di qualche prete compiacente. Vedrebbe gente pregare da una parte e dall’altra e poi correre a sganciare bombe su città piene di altri esseri umani che a loro volta hanno pregato prima di imbracciare il loro strumento di morte.

Insomma, abbastanza per lasciare la nostra atmosfera e allontanarsi dall’odore di fritto e dal sapore delle contraddizioni in logica evoluzione su questo strano pianeta.

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DIARIO IN PUBBLICO
Capodanno via dalla pazza folla

Le folle fiorentine amalgamano tutto. Sotto le più sfarzose luminarie delle vie e viuzze del centro si muovono come formiche impazzite migliaia di turisti che arrivano dalle più imprevedibili località della terra. I negozi del super lusso esibiscono nello sfarzo dell’interno rigorosamente vuoto statuari guardiani neri. Nel breve giro di tre vie si accalcano i marchi dei negozi più famosi del mondo. Affannosamente al mercato anche noi cerchiamo almeno 20 o 30 grammi di tartufo bianco: impossibile. Sembra che il prezioso tubero non esista e furbe facce asiatiche ti propongono scorzoni neri o palline di qualcosa che non ha né la fierezza né la rarità di ciò che invano cerchiamo. Sul sagrato del Duomo un altezzoso presepe d’autore esibisce la nascita del Bambino tra l’indifferenza dei selfisti tutti presi del e nel loro solitario vizio assurdo. Dobbiamo rinunciare alla ulteriore visita al Museo dell’Opera del Duomo, a mio parere il museo più bello del mondo, perché tutto sold out. Scopriamo che il biglietto che comprende la visita al Museo, alla Cattedrale e alla Cupola del Brunelleschi in realtà fa restare deserto il sublime museo, mentre code inenarrabili attendono ore per salire sulla cupola per scattarsi i selfie. Ah! Gli ‘italiani’!

Decidiamo all’ultimo momento una gita in campagna e via dalla pazza folla. Il Chianti ci accoglie con una giornata perfetta, resa più preziosa dal traffico quasi inesistente. La bellezza totale del paesaggio ci afferra e ci scambiamo poche parole per approfittare di un momento sempre di più raro: la contemplazione della natura lavorata dall’uomo. Il nostro allegro garagista ci dà preziosi indirizzi tra Panzano e Radda e approdiamo a una trattoria d’antan. Perfetta per illustrare l’immagine del Chiantishire. La rivedrò? Forse. Quel che importa è che ci è toccato in sorte una giornata di bellezza speciale e per un momento ci si scorda della banalità della politica, della tragedia di Carife, della volgarità dell’incendio del Castello, della prepotente ‘pancia’ degli ‘itagliani’.
Incontro vecchi studenti, gli artigiani di sempre e parlo di Ariosto con un taxista coltissimo che ci porta a rivedere “Florence”, il film che mi ha conquistato. Qui al cinema altri ex studenti sorridenti e gentili poi, la mattina seguente le ultime visite ai mercati. A Sant’Ambrogio troviamo il vero tartufo; la mia verduraia a San Lorenzo mi offre fragoline di bosco, lamponi, ciliegie e uva. I sorrisi sono sinceri e nonostante siano possibili i botti (“Nardella, ovvia! ma i’che tu fai????”) la città se ne dimentica e alla Lilla non rimane che evitare le decine di carezze che piovono da mani provenienti da turisti di tutto il mondo appena usciti dalla visita al David di Michelangelo. Ormai è conosciuta come la canina dalla scarpetta e sembra ne vada abbastanza fiera.

Nel mio condominio ragazzetti un poco deficienti fanno scoppiare i botti per le scale. M’affaccio e con piglio sicuro li avverto che sto chiamando la polizia. Si ritirano sconfitti e la serata passa tranquillissima tra l’ennesima visione di “Cantando sotto la pioggia” e di “Il marchese del Grillo”. La notte dei botti passa dunque nel silenzio totale. Agli auguri segue un pacifico riposo, mentre Lilla voluttuosamente sdraiata sul piumone digerisce l’ultimo bocconcino di fine anno.
Tutt’altra storia la mattina seguente quando scendo per le funzioni lillesche. Mentre schiere di spazzini ripropongono una Firenze degna del suo nome, nelle viuzze laterali si vedono con disgusto gli esiti immondi della notte. Meglio non indugiare oltre e cominciare il viaggio di ritorno seguendo le orme degli antichi viaggiatori che percorrevano il passo della Futa. A Monghidoro una tappa obbligata, non tanto per ricordare i natali del celebre cantante Morandi, ma perché il nome antico di quel paese, Scarica l’asino, a confine tra lo stato toscano e quello pontificio, mi fa ritornare alla mente le decine di lettere che Canova e anche Foscolo scrivevano da quel luogo. Sui crinali delle colline splende un sole accecante; le tracce degli antichi mestieri legati all’agricoltura e alla pastorizia s’avvertono nella perfetta disposizione di case e di campi. Ti dimentichi per un momento che stiamo vivendo una guerra. Anzi, più guerre che non sono solo quelle combattute con le armi dei soldati o del terrorismo, dei ricchi e dei poveri, ma le più pericolose di tutte legate al denaro e alla presunzione.
Ecco allora che la paura ti afferra, come quella di passare da una via centrale, quale quella della libreria fiorentina a un passo dalla mia facoltà ed essere centrato da una immonda vendetta che sembrerebbe fondarsi su un’ideologia, ma è invece quella della presunzione di essere nel giusto. Di fargliela pagare. Ma a chi? Ai disgraziati frequentatori di una discoteca a Istanbul o a un poveraccio eroe per caso che perde un occhio e una mano per disinnescare la bomba fiorentina? Così l’arrivo a Ferrara diventa mesto e alla casa fredda che t’accoglie s’aggiunge il ghiaccio che hai nel cuore.
Tutti soddisfatti, invece, dello spettacolo clou di Ferrara: l’incendio del Castello con i suoi botti e le sue luci capaci di fare quello che neanche in tempo di guerra si faceva se non in caso di estremo pericolo, ovvero lo sgombero della galleria dei quadri ospitati nelle sale del nostro monumento più importante.
Scordavo. Tutti gli organi di informazione raccontano soddisfatti che per i botti e fuochi d’artificio quest’anno non c’è stato nessun incidente mortale. Solo più un centinaio abbondante di feriti di cui almeno una dozzina assai gravi tra cui i ragazzini. Vuoi mettere????
Coraggio! Si ritorni alle pagine sublimi del Tristram Shandy.

LA CITTÁ DELLA CONOSCENZA
Cultura e cittá

Il sapere è fuggito oltre i limiti delle istituzioni, ad aprirgli i cancelli è stata l’era digitale che ormai viviamo a pieno titolo. Il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione ha cambiato il nostro paesaggio da verticale ad orizzontale, dalle ciminiere alle reti.
Il sapere si è decentrato, si è delocalizzato sottraendo l’esclusiva ai centri tradizionali della sua produzione e trasmissione.
Il sapere si è democratizzato, per la prima volta nella storia il libero accesso all’informazione fornisce alla maggior parte delle persone l’opportunità di costruire il proprio paesaggio di apprendimento.
Mentre l’apprendimento varca i confini entro cui era stato relegato dalla tradizione, occorre interrogarsi sul senso dell’esistenza delle nostre scuole, università e istituzioni culturali così come ancora oggi le intendiamo. È il rapporto tra interno ed esterno, tra dentro e fuori, tra incluso ed escluso che va ripensato. Tra il formale e l’informale, tra l’aula e il corridoio.
Occorre ridefinire la funzione del sistema di istruzione formale, caricarlo di sinergie in grado di facilitare nuovi modi di istruire e di apprendere. Le istituzioni tradizionalmente deputate a produrre e trasmettere cultura non hanno più l’esclusiva, ormai da tempo, ma non hanno ancora riconquistato una nuova centralità che le collochi come nodo di riferimento rinnovato nel tessuto degli apprendimenti diffusi.

La flessibilità e l’estensione del digitale, la sua versatilità fisica e spaziale fanno dei contesti educativi formali un territorio dai limiti rigidi e definiti, con due ambiti ben differenti, quando non contrapposti, l’interno e l’esterno. L’interno luogo dell’apprendimento codificato e riconosciuto, l’esterno come lo spazio dell’indeterminazione, della spontaneità, della esplorazione a cui è precluso il riconoscimento da parte del contesto educativo tradizionale.
La città può essere l’interfaccia possibile affinché lo sviluppo dei processi di apprendimento si produca anche in senso fisico oltre i territori formali della conoscenza.
Le istituzioni dell’apprendimento e della cultura abitano un territorio urbano, che è il territorio di vita dei loro utenti, il territorio dove per primo ciascuno di noi ha appreso, prima di esservi separato mentalmente e culturalmente, da una concezione della conoscenza che induce al divorzio tra saperi formali e saperi che formali non sono.

È possibile pensare che l’interno, in certi spazi e tempi, possa essere contagiato dalle caratteristiche dell’esterno. Alcuni luoghi dove tradizionalmente si impara possiedono caratteristiche anche per l’indeterminazione e la spontaneità, come possiamo incontrare nella città spazi capaci di ospitare attività di insegnamento e di apprendimento, tanto nello spazio pubblico come in quello privato possono esistere spazi satellite nei quali possiamo apprendere.
Lo spazio urbano, che si voglia o no, è una grande aula, è un paradigma di spazio per l’istruzione, disegna la città contemporanea sempre più come il marco fondamentale per un’educazione permanente della cittadinanza.
Da un punto di vista spaziale, tutte le istituzioni formative dalle scuole, all’università alle accademie possono intendersi come un sottosistema incluso in un sistema di maggiore entità, la città.

Sono fondamentali, quindi, scenari che rendano possibile un apprendimento per interazione tra città e luoghi dell’apprendimento formale, come realtà di apprendimento urbano, in spazi pubblici, privati, all‘aria aperta o chiusi, effimeri o permanenti.
I processi di insegnamento e apprendimento contemporanei possono avvenire ovunque, l’uso di questi spazi è un’opportunità preziosa d’incontro tra le persone, le istituzioni, i saperi formali e quelli non formali.

“L’apprendimento deve essere accolto come il miglior regalo, e non come un obbligo amaro”, scriveva Einstein ed invitava ad apprendere inseguendo il piacere. L’era digitale offre la possibilità di disegnare una mappa di apprendimento proprio, che ci inserisca in un ambiente educativo di natura collettiva oltre i limiti delle istituzioni.
Dal punto di vista fisico, quest’interfaccia è la città. Come ente complesso, la città offre praticamente infinite possibilità di apprendimento, da un apprendimento informale, vincolato a proposte educative non programmate o istituzionalizzate ad un apprendimento formale o istituzionale. La capacità dei luoghi tradizionali del sapere di accogliere e generare situazioni ambigue capaci cioè di rendere compatibili i due tipi di apprendimento è una delle loro maggiori potenzialità e attrazioni.

La città dev’essere cultura e la cultura dev’essere città.

Brexit, Trump e referendum costituzionale:
quello che i media non dicono

Giusto un anno fa si guardava all’immediato futuro sapendo che tra i vari appuntamenti dell’agenda politica occidentale ci sarebbero stati tre grandi appuntamenti: il referendum inglese, l’elezione del presidente Usa e il referendum sui cambiamenti costituzionali in Italia. Pochissimi allora si aspettavano l’esito che c’è stato: per molti il responso delle urne ha rappresentato un brusco risveglio e un’amara delusione. Un esito tanto più inatteso quanto più chiaro e massiccio era stato l’orientamento dei media mainstream nel sostenere l’opzione risultata poi sconfitta dal voto dei cittadini.

La triplice sorpresa ha in qualche modo ridimensionato le attese degli spin doctor e ha messo in risalto come il potere di orientamento delle opinioni e delle scelte da parte dei media non sia ancora in grado di decidere completamente l’esito di un elezione che si presenti come un opzione secca (si/no, A vs B) se i cittadini sono motivati e si sentono toccati direttamente dall’evento.
Osservando le tre elezioni dall’Italia si nota forse un tratto comune che collega questi tre esiti apparentemente così distanti, un tratto che i commenti dei media mainstream e del pensiero unico dominante hanno accuratamente sottaciuto, attribuendo l’imprevisto risultato al populismo, all’ignoranza, all’egoismo, a errori di comunicazione, all’intromissione di potenze esterne (come nel caso Usa) e ad altre improbabili cause. Fatto è che dalle urne è uscito un responso chiaro che dovrebbe essere preso assai seriamente.

Per capirlo bisogna fare un piccolo sforzo e mettersi nei panni di quelle persone, classi e gruppi sociali, che più di altre stanno subendo gli effetti culturalmente spiazzanti del capitalismo trionfante e che hanno subito le conseguenze drammaticamente concrete dal punto di vista economico di una crisi che dura ormai da otto anni.
Per capirlo bisogna mettere un poco in discussione l’ideologia economicista imperante (e gli assiomi intoccabili sui quali essa si fonda) e il potere particolarissimo della finanza a livello mondiale. Il mercato – che di questa finanza è l’espressione più nota – non solo viene quotidianamente celebrato ma ha assunto un status di neutralità del tutto simile al tempo metereologico: finanza, profitto, economia sono diventate componenti di un’ideologia universale di stampo quasi religioso, indiscutibile nel suo schema di funzionamento.
Spiazzamento culturale (con le pratiche di omologazione consumista globale e i flussi di migrazione senza controllo), impoverimento economico (con allargamento delle differenze e delle disparità), celebrazione ideologica del sistema di mercato (con l’indebolimento del potere statale e la distruzione del welfare) sono i tre poli attraverso i quali si possono rileggere gli esiti elettorali.

In questa prospettiva, c’è qualcosa nell’attuale modello di sviluppo del capitalismo che sta mettendo fuori gioco milioni di persone, creando sommovimenti assolutamente drammatici che non sembrano toccare minimamente le elite occidentali che hanno sostenuto negli ultimi anni il processo di globalizzazione. In Italia i dati ufficiali – quelli che considerano periodi più lunghi che poco interessano i media – sono impietosi: drammatico allargamento della distanza tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, impoverimento vertiginoso della classe media, disoccupazione e mancanza di lavoro, milioni di persone a rischio povertà, tagli sistematici e crescenti allo stato sociale, limitazione del potere dello stato inchiodato all’obbligo prioritario e costituzionale del pareggio di bilancio e quindi ormai legato e succube dei diktat della finanza, massicci interventi per tutelare e salvare le banche. Flussi migratori ormai senza controllo, perdita dell’identità culturale e contemporaneo rafforzamento dei fondamentalismi. Bombardamento mediatico che celebra ogni forma di consumo, cambiamento obbligatorio.
Appare in tutta evidenza che una parte consistente della popolazione (in Italia sicuramente ma anche in buona parte dell’occidente) sta pagando un prezzo molto alto per la globalizzazione; ed è in gran parte da questo elettorato composito che sono scaturiti i risultati sorprendenti del 2016. Risultati che dicono ciò che i media mainstream non possono e non vogliono dire; risultati che attestano una reazione forse confusa, spaventata, a volte rancorosa, spesso irrazionale, non organizzata, ma sicuramente lecita (fintanto che ci sarà diritto di voto universale) e comprensibile, a un sistema politico che ai loro occhi non è più in grado di mantenere le proprie promesse; un sistema che ha da tempo abbandonato ogni difesa dei diritti sociali e civili (esemplari in tal senso i tentativi di riforma della Costituzione) per cavalcare esclusivamente i diritti personali associabili più alla figura del consumatore che a quella di cittadino. Facile per le élite ‘progressiste’ e i loro numerosi sostenitori bollare tutto questo come populismo, ignoranza, razzismo, o peggio ancora. Facile per le élite ‘conservatrici’ cavalcare questa insoddisfazione profonda e diffusa. Facile per entrambe giocare i rispettivi ruoli (di potere) ben sapendo che i veri decisori (le elite finanziarie, economiche e militari) stanno dietro le quinte e non sono eletti da nessuno.
Assai più difficile capire che l’economia (e a maggior ragione la finanza) non è neutra: necessità invece di regole, di leggi e norme, si fonda su assunti e su valori che consentono di generare quella fiducia che è indispensabile a far funzionare la società prima ancora che gli scambi.
A fondamento e a governo dell’economia ci deve essere una società organizzata, una cultura viva, una polis, uno Stato capace di orientare l’azione verso un tema condiviso, un principio, un obiettivo che sia superiore rispetto a quello del capitale e del profitto: uno Stato capace di produrre bene comune, equità, giustizia, tutela dei più deboli senza cadere nello statalismo, nell’assistenzialismo o nel dirigismo.

Si può leggere – a pensare in positivo – una forte richiesta di senso dietro gli esiti delle votazioni, l’esigenza di superare un modello dominante che si è rivelato incapace di rispondere alle sfide del presente e del futuro, l’inadeguatezza di un’ideologia che riduce la società e la cultura all’economia e al mercato, l’insufficienza di un epistemologia sociale che fa dell’economia e della finanza l’unica verità oggettiva. Ma questo passaggio che è assolutamente politico, richiede interpreti in grado di comprendere le diverse istanze della società civile, pensatori capaci coniare nuovi concetti, leader in grado di elaborare e portare avanti programmi alternativi, cittadini responsabili ed impegnati.
Se la partita è ancora aperta, se dalla clamorosa sconfitta elettorale di un certo modo di condurre gli affari del mondo potrà nascere un cambiamento positivo, ce lo dirà il 2017.

L’INTERVENTO
Sull’abbandono scolastico e altri discorsi

L’abbandono della scuola resta un tema scottante e purtroppo ancora irrisolto. In Europa, il nostro Paese non figura tra quelli più virtuosi in proposito, e questo segnala un deficit importante del nostro impianto educativo, soprattutto in prospettiva futura. Una nostra lettrice ci ha fornito un interessante spunto di riflessione.

di Marcella Mascellani

Ho avuto il piacere di partecipare a due interessantissimi incontri organizzati da Promeco nel 2015 intitolato “Tutti gli adolescenti vanno a scuola” e dall’Assessorato Cultura Turismo Giovani nel 2016 su “Dispersione scolastica: la prevenzione possibile”.
Ero convinta che quella dell’abbandono scolastico fosse una questione ormai superata nel nostro Paese: davo per scontato, cioè, che il minimo scolastico fosse attribuibile, ai giorni nostri, al quinquennio della scuola secondaria di secondo grado.
Mi sbagliavo.
Ci sono ragazzi che abbandonano la scuola con il consenso dei genitori per cultura o per necessità famigliari, ad esempio per andare a lavorare nel ristorante di famiglia o perché madre e padre non credono nel valore culturale dato dall’istruzione scolastica e ragazzi che abbandonano, invece, senza alcun consenso.
L’abbandono scolastico sul quale vorrei puntare i riflettori è, appunto, il secondo, quello, cioè, non sostenuto dall’avvallo dei genitori, quello dove l’allontanamento dal contesto scolastico accende un periodo di travagliati e difficili rapporti famigliari.
Il mio ricordo di scuola dell’obbligo risaliva agli anni fine settanta/ inizio ottanta. Una esperienza, quella della scuola superiore, che ha accompagnato la mia crescita adolescenziale senza particolari traumi, solo qualche sconforto.
Ricordo che per alcuni non era così. C’era chi con la fine della terza media o al massimo della seconda superiore, lasciava la scuola e iniziava a lavorare. L’insegnante sentenziava “suo/a figlio/a non è adatto a proseguire gli studi, non ha le capacità per studiare. Sarà sicuramente un bravo/a lavoratore/ice”.
Per i figli “non dotati” delle famiglie economicamente benestanti, invece, il destino era un altro: era previsto “l’approdo” alla scuola privata che consentiva il completamento del percorso didattico fino alla laurea.
Poi sulla scuola ho sentito teorizzare frequentando pedagogia. Ho ascoltato ipotizzare sulla capacità dell’insegnante di tracciare, attraverso la modulazione della didattica, i segni dell’apprendimento sulla tavola intonsa che è l’alunno.
Dieci anni fa, dopo un lungo intervallo, ho ricominciato ad occuparmi di scuola.
Con mia immensa sorpresa era rimasta quella di ventiquattro anni prima (coincidenti con la fine del mio percorso di scuola superiore) nella didattica e nei contenuti, ma era cambiato il mondo attorno ad essa.
Il patto, l’alleanza generazionale genitori/insegnanti si era rotto, anzi, frantumato.
“Nel nostro tempo l’insegnante è sempre più solo . La sua solitudine non riveste solo la sua condizione di precariato sociale, ma, come abbiamo visto, anche la rottura di un patto generazionale coi genitori”. E ancora…… “genitori sempre più complici e alleati dei figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi, i quali anziché sostenere l’azione educativa della Scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli” – M.Recalcati, L’ora di lezione – Einaudi 2014.
Insegnanti investiti del ruolo di educatori di alunni “ineducati” e genitori “sostegno didattico” dei propri figli. Gli studenti più fortunati hanno a loro disposizione un genitore pomeridiano che impreca ed urla all’orecchio del proprio figlio un’inflessione didattica inesistente, ma che comunque garantisce una presenza. C’è invece chi non ha il genitore presente o disponibile e ricorre, quindi, ad un supporto di insegnamento domestico almeno per il periodo della scuola elementare e gli anni della scuola media.
Insomma, un incalcolabile sommerso di ore di ripetizione di ragazzi di qualsiasi ordine e grado scolastico del quale difficilmente i genitori parlano.
Purtroppo c’è anche chi di una di queste due opzioni non può beneficiare e rischia l’abbandono.
Alcuni anni fa ho partecipato ad una interessantissima serata “Educare insieme” organizzata dalla scuola media T.Bonati di Ferrara. Gli invitati alla serata erano i volontari dall’associazione “s.o.s dislessia” con sede nella nostra città. Gli adulti accompagnavano una decina di ragazzi, ormai frequentanti la scuola superiore, che incominciarono a raccontare la loro esperienza scolastica agli esordi dell’aspetto dislessia/discalculia.
Il loro racconto riportava un denominatore comune: oltre all’angosciante ricordo della loro difficoltà, l’incapacità (o la negazione) da parte dell’insegnante di riconoscere il problema. Paradossalmente se ne erano accorti prima i genitori degli insegnanti stessi, ricorrendo poi ad una certificazione che potesse in un qualche modo tutelare il proprio/a figlio/a. Una gran confusione di ruoli.
Diversi esempi, quindi, per sostenere che la scuola di oggi si trova in difficoltà.
Il frutto di tale problematicità provoca insofferenza, disagio scolastico e disaffezione alla scuola (studenti) e al proprio lavoro (insegnanti).
A volte provoca anche delle vittime: i ragazzi che abbandonano la scuola.
Dietro un abbandono c’è sempre un dramma. Sicuramente un dramma famigliare.
Ogni volta che un ragazzo “si ritira” dalla scuola perde una delle occasioni più belle e importanti della propria vita: l’opportunità unica e irripetibile di condividere una esperienza di apprendimento con il gruppo dei pari. Certo a scuola si può anche decidere di tornare dopo un abbandono, ma non sarebbe più la stessa cosa.
Nei ragazzi che abbandonano la scuola c’è la sensazione che nessuno più creda in loro, che agli insegnanti non importi nulla della loro presenza scolastica.
Nei genitori nasce l’idea di non essere stati sufficientemente in grado di sostenere i propri figli.
La mamma di un ragazzo che ha abbandonato la scuola dopo diversi tentativi di dissuasione da parte della famiglia stessa e di alcuni insegnanti mi scrive: “la scuola di oggi non è preparata a fronteggiare l’idea che nasce nel ragazzo dell’abbandono. Annaspa elargendo servizi di aiuto, ma in realtà difficilmente tale aiuto porta ad un risultato sul predestinato”.
La perdita di autostima dello studente spesso provoca chiusura in se stesso o, per reazione opposta, un comportamento deviante. I genitori e gli insegnanti si sentono destabilizzati e demotivati nel loro ruolo e addirittura incapaci di affrontare un evento del genere.
Importantissima la figura dello psicologo, come esperto esterno, che può contenere i danni che precedono o seguono l’abbandono.
Credo, però, che alla scuola di oggi occorra molto di più.
L’elevato numero di “misurazioni” e “certificazioni” di bambini e ragazzi fanno pensare che la scuola sia un luogo nel quale ci si debba più difendere che apprendere.
Allo stesso tempo agli insegnanti è richiesta una competenza ed una preparazione da un punto di vista della modulazione della didattica che non sempre riescono a mettere in pratica (vi par semplice per l’insegnante muoversi nelle varie sfaccettature dei così detti “bisogni speciali”?).
Ecco perché all’interno della scuola dovrebbe essere prevista una figura pedagogica che aiuti l’insegnante a livello pratico ad una stesura di una didattica personalizzata qualora fosse necessario.
Ecco allora che il genitore non troverebbe così indispensabile ricorrere ad un esperto che “certifichi” un limite o una inadeguatezza.
Supportare, quindi, l’insegnante e l’alunno.
In una sensibilissima nota di M.Recalcati in “L’ora di lezione” (2014) descrivendosi nella sua esperienza scolastica riporta: “Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando parlo, cercando di insegnare qualcosa, è sempre a lui che mi rivolgo, al bambino idiota che sono stato. (…………) Nelle persone alle quali mi rivolgo mentre insegno cerco sempre il volto annoiato e un po’ ebete del bambino che sono stato. (…….) Devo rendere accessibile l’oggetto di cui parlo oltre che a me stesso a quell’altro me che mi ascolta e non capisce”.
Concluderei questa mia modesta riflessione sulla scuola di oggi, e in particolare sull’abbandono scolastico, con un quesito espresso da Ermanno Tarracchini e Valeria Bocchini nel loro interessantissimo articolo “La scuola e noi” del luglio 2013. Riferendosi all’ossessione diagnostica dei giorni nostri, ci fanno capire che siamo ad un bivio nel panorama scolastico per quanto riguarda la valutazione dei nostri ragazzi: “L’identificazione e la riduzione della loro persona ad un loro presunto disturbo o bisogno speciale, oppure la valorizzazione di biografie e personalità in continua evoluzione le quali, se non verrà loro impedito, sapranno prima o poi trovare una strada?”
Nella lettura del loro articolo troverete una convincente risposta.

31 Dicembre: riflessioni sul Capodanno

Il Capodanno è un appuntamento a cui non ci si può sottrarre: lo attendiamo con trepidazione perché ne abbiamo bisogno. E’ una di quelle scadenze che segnano la scansione del tempo che passa, una data che ci permette di sospendere per un attimo la lunga quotidianità, giorno dopo giorno, ci offre il beneficio di prendere respiro ed ossigenarci quel tanto che basta per riprendere il cammino ed affrontare un nuovo divenire. Ma soprattutto ci autorizza a lasciarci alle spalle tutto ciò che di negativo ha caratterizzato certi momenti e tutto quello che non ha lasciato segno nel nostro processo di crescita individuale. Abbondano i buoni propositi, i nuovi progetti, gli entusiasmi, le promesse, le scaramanzie e le propiziazioni perché è il momento giusto in cui rigenerarsi, rinascere, ricominciare. Ci sentiamo in preda a quell’euforia che sicuramente accompagnerà la notte del 31 dicembre ma che speriamo intimamente non ci abbandoni anche gli altri giorni dell’anno; formuliamo nuovi ottimistici pensieri positivi davanti a un inevitabile bilancio dei 365 giorni trascorsi, in cui attività e passività immancabilmente differiscono e le criticità occupano un posto d’onore.

Diventiamo tutti abili nell’analizzare le nostre azioni passate e le attività che abbiamo intrapreso, le scelte che abbiamo operato, i comportamenti e i risultati, quasi fossimo impeccabili psicanalisti di noi stessi, ci confrontiamo e ne parliamo con gli altri con quella leggerezza e quella voglia di esternare che anticipa il radicale cambiamento prossimo venturo. Carichiamo di grandi attese l’anno nuovo che verrà e diamo il via ai grandi festeggiamenti che lo introdurranno nelle nostre vite. Speranza e aspettativa per noi stessi e per la collettività, per quella società umana più globale di cui facciamo parte e che, magari solo in poche occasioni, ricordiamo con trasporto, partecipazione e condivisione perché il Capodanno unisce in un unico magico momento.
E’ per questo che amiamo così tanto questa festa che assume le manifestazioni più varie in ogni angolo di mondo e da sempre è presente nelle culture e civiltà della nostra storia, anche se in date a volte diverse, con antiche origini pagane o religiose piuttosto che trovate più recenti. Ed è per questo che siamo disposti ad adottare e attivare ogni tipo di gesto e ritualità scaramantica per rafforzare le nostre convinzioni e speranze, indirizzare il destino dalla nostra parte, strizzare l’occhio all’anno in arrivo e, perché no?, divertirci.

Non importa se noi mangiamo un bel piatto di lenticchie mentre in Spagna sono previsti 12 chicchi d’uva, uno ogni rintocco della mezzanotte, per favorire nuove entrate finanziarie. O il colore rosso da indossare in Europa per l’evento, piuttosto che il giallo in Brasile. Non importa nemmeno se solo in Colombia, la notte del 31 dicembre, gli uomini si fanno un grande giro nel quartiere trascinando una valigia vuota per propiziare un anno ricco di viaggi e scoperte. Mettiamoci le Filippine, dove a fine anno si tengono accese tutte le luci di casa e aperte porte e finestre per allontanare gli spiriti maligni, per poi chiudere precipitosamente tutto a mezzanotte. A El Salvador è il turno dell’uovo rotto in un bicchiere e tenuto sul davanzale fino mattina; sarà la forma assunta che determinerà l’andamento dell’anno successivo. Un po’ come in Finlandia, dove lo stesso trattamento viene riservato ad un cucchiaio di metallo fuso introdotto nell’acqua. E’ anche un po’ come raccontava sempre mia nonna: in alcune valli del Trentino veniva usato il mercurio che, a seconda delle linee e disegni che formava, pronosticava bella o cattiva sorte. In fondo, non esiste grande differenza di latitudine e longitudine per quanto riguarda la paura del futuro, il bisogno di controllare ciò che deve ancora venire, la propensione all’invocazione e all’ingraziarsi chi può effettivamente determinare gli eventi. Molto più pragmatici gli scozzesi che, non appena le campane smettono di suonare la mezzanotte, al primo amico o vicino di casa che varca la soglia regalano una moneta, del pane, un pugno di sale, del carbone e whisky. Ricchezza, cibo, sapore, calore e buon umore.

La notte del 31, fra un po’, ci sarà chi festeggerà follemente, chi fingerà di divertirsi, chi rimarrà tra le tranquille pareti domestiche da solo o in compagnia e chi lo passerà viaggiando, chi andrà a dormire alle 22, chi guarderà i fuochi d’artificio dalle finestre dell’ospedale o dal carcere, chi dormirà per strada perché il 31 dicembre è un giorno come un altro, chi lavorerà per far divertire gli altri, chi rimarrà nelle redazioni dei giornali e delle TV per raccontare.

In qualunque dei casi, Buon Anno a tutti, ma proprio tutti. E che succeda quello che ciascuno desidera che accada.

“Gender Revolution”: la copertina del National Geographic che farà la storia

Ci guarda dritta negli occhi Avery Jackson, con l’ innocenza mista a sfrontatezza tipica dei suoi nove anni. La maglietta é rosa, così come alcune ciocche dei suoi capelli: “la miglior cosa di essere una ragazza è non dover più fingere di essere un ragazzo” dichiara.
Avery é un transgender ed é la protagonista di una copertina che fará storia: quella che il National Geographic, edizione Usa, ha dedicato alla storia di bambini transgender sparsi in tutto il mondo e che sarà in edicola, in edizione italiana, il prossimo 3 gennaio.

É la prima volta che una persona transgender conquista la prima pagina di una rivista.

Il suo direttore Susan Goldberg  ha spiegato ai microfoni della NBC: “Abbiamo voluto guardare al ruolo tradizionale della figura del gender nel mondo, ma anche a qualcosa di più introspettivo. Ci sono molte prime pagine sulle star, ma non c’è una reale copertura e comprensione riguardo le persone reali e i problemi che ogni giorno affrontano riguardo le questioni di genere”. Il 6 febbraio andrá inoltre in onda, sul canale National Geogeaphic, un documentario dal titolo “Gender Revolution: un viaggio con  Katie Couric ,” che parlerà di “tutto quello che volevate chiedere sui gender ma avevate paura di chiedere”.

Di Avery non é la prima volta che si sente parlare. I video postati su You Tube dalla madre Debi, che si dichiara una fervente credente, hanno totalizzato milioni di visualizzazioni: la bambina del Kansas parla di sé stessa con molta franchezza ” Quando sono nata i medici hanno dichiarato che fossi un bambino ma io sapevo dentro il mio cuore di essere a tutti gli effetti una ragazza”. I genitori sono diventati paladini della causa transgender dichiarando un amore incondizionato alla loro bambina. In un tweet comparso diversi giorni fa Debi Jackson ha scritto:”Sto tremando così tanto che riesco a malapena a scrivere. Grazie per aver scelto Avery” e ha lanciato l’ hashtag #transisbeautiful.

Un tema delicatissimo quella della disforia di genere, a maggior ragione perché coinvolge il mondo dei bambini, ma che il National Geographic ritiene di aver trattato in modo completo e positivo, raccogliendo le riflessioni e le esperienze di vita di bambini sparsi nei cinque continenti.

Nel nostro Paese, prima ancora dell’uscita della rivista a gennaio, é già in corso un acceso dibattito tra il direttore del National Geographic Italia Marco Cattaneo e il caporedattore di Avvenire, Luciano Moia. Quest’ultimo in un articolo intitolato “Bambini sbattuti in prima pagina per la propoganda transgender” aveva fortemente criticato la scelta operata dalla rivista scientifica di strumentalizzare, a suo modo di vedere, le storie private e problematiche dei minori coinvolti nel reportage. Per il giornalista la disforia di genere riguarda solo una piccola percentuale di “bambini nati con gli organi genitali non pienamente sviluppati o con gravi difetti nello sviluppo anatomico”: l’aver quindi titolato il discusso dossier “Gender Revolution” assume per il giornalista una valenza propagandistica fuori luogo.

All’accusa di strumentalizzazione e banalizzazione di Moia di quella che é, a suo modo di vedere, una “patologia”, ha risposto il direttore Marco Cattaneo il quale evidenzia come “Mi pare che l’autore dell’articolo apparso su “Avvenire” abbia trattato il numero con superficialità, senza approfondirne con attenzione i contenuti. Perchè National Geographic prende atto di una situazione di grande attualità molto dibattuta, e la analizza da tutti i punti di vista, senza pregiudizi né posizioni dogmatiche, senza piegarla ad alcun tipo di propaganda”.

Il dibattito é appena agli inizi e di sicuro l’argomento é destinato ad assumere sempre più importanza nella nostra societá. Avery Jackson ci guarda dritta negli occhi da una copertina destinata a passare alla storia e noi, a prescindere da come la si pensi, non potremmo non riflettere su quanto ci raccontano quei bambini.

Vivere insieme come fratelli o morire da soli?
L’ardua scelta tra convivenza e commorienza

di Daniele Lugli

Nella mia città un gruppo (giovani scellerati e vecchi malvissuti, avrebbe detto, credo, Salvemini, ma anche adulti con entrambe le caratteristiche, a quel che mi è dato di vedere) chiede da tempo la presenza dell’Esercito per contrastare il sostare in giardinetti o l’andirivieni ciclistico di giovani stranieri, anche non residenti a Ferrara, che qui svolgono la loro attività di spaccio. Vi è certo un disagio di cittadini più a contatto con queste, e altre, presenze, per più aspetti problematiche. Preoccupazioni vengono alimentate fino a trasformarsi in allarme, paure e rifiuto nei confronti degli immigrati in generale e dei nuovi arrivi in particolare. Chi si impegna per far fronte alle difficoltà connesse all’accoglienza di persone giunte da paesi lontani, fuggendo da situazioni invivibili, è additato come nemico dei ferraresi e della loro tranquillità.
Così un tema di convivenza e legalità, che richiede risposte in primo luogo di ordine sociale, è prima trasformato in problema esclusivamente di sicurezza e ordine pubblico e, con l’intervento richiesto dell’Esercito (non bastano polizie e carabinieri?), in difesa dal nemico. In altre città questa richiesta viene addirittura dal Sindaco, come a Milano, o dal Prefetto, come a Torino. Leggo dai giornali: “Emergenza sicurezza a Milano”. Sala: “Chiederò l’esercito nel quartiere multietnico” e Milano trema. E ancora: “Bombe carta e guerriglia a Torino”. Situazioni, certo difficili, sono state lasciate marcire fino alle estreme conseguenze e si invocano maniere ‘dure’, della cui inefficacia siamo certi. La motivazione ‘politica’ (la chiamano così) è chiara: dice il Sindaco di Milano, “Non lasciamo la questione in appalto alle destre” e, con 50 militari aggiunti, pensa il Prefetto di Torino di presidiare giorno e notte un abitato dove vivono un migliaio di africani, da censire prima di sgomberare.

Si interroga un giornalista su Repubblica sulle ragioni del tremito milanese, visto che a Milano i reati calano (162 mila due anni fa, 152 mila l’anno scorso, 105 mila nel novembre di quest’anno e in 10 anni sono calati del 36%), i colpevoli vengono acciuffati come mai in passato. Certo, annota il giornalista, la popolazione invecchia, i furti ci sono, c’è la “malattia della paura percepita”. E poi, dico io, c’è un capro espiatorio ideale, che sembra fare il possibile per farsi individuare come tale: loro, gli stranieri tra noi. Conclude ragionevolmente il giornalista “difficile pensare che dove lavorano, tra forze di polizia e vigili, quasi 15mila unità, come antidoto bastino 650 soldati e, come d’incanto, sul far della periferica sera, torni nei cuori il sereno”. Difficile che lo stesso miracolo lo facciano i 50 militari a Torino dove il prefetto chiede aiuto all’esercito dopo i tre ordigni lanciati per vendetta dopo una rissa. Gli abitanti esasperati: abbiamo paura. Centinaia di africani in rivolta: “Italiani razzisti, la polizia ci controlla e non ci difende”.

Ci aveva messo in guardia Alex Langer al punto 9 del suo “Tentativo di decalogo per una convivenza inter-etnica”, il solo punto che contiene un divieto: “Una condizione vitale: bandire ogni violenza. Nella coesistenza inter-etnica è difficile che non si abbiano tensioni, competizione, conflitti: purtroppo la conflittualità di origine etnica, religiosa, nazionale, razziale, ecc. ha un enorme potere di coinvolgimento e di mobilitazione e mette in campo tanti e tali elementi di emotività collettiva da essere assai difficilmente governabile e riconducibile a soluzioni ragionevoli se scappa di mano. Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza”. Leggi e polizie, servono dunque, ma non bastano. Né serve aggiungere l’esercito. Vanno mobilitate tutte le risorse sociali ed educative di una società che voglia meritarsi l’appellativo di civile.
Lo diceva Martin Luther King: o impariamo a vivere assieme come fratelli (magari non troppo amorosi, penso io) o siamo destinati a morire assieme da stupidi. Se non siamo capaci di convivenza sarà la commorienza ad attenderci.

PER I BIMBI
Aspettando la Befana, il villaggio della creatività per giocare insieme al Wunderkammer

Da: Wunderkammer

Dal 2 al 5 gennaio a Palazzo Savonuzzi si aspetta la calza della Befana con l’associazione Encanto

Divertenti giochi, musica, creatività, per passare insieme i giorni prima dell’arrivo della vecchia che ‘vien di notte con le scarpe rotte’. Dal 2 al 5 gennaio, infatti, al Consorzio Wunderkammer di Palazzo Savonuzzi (in via Darsena 57 a Ferrara) è il momento di Aspettando la Befana, il villaggio post natalizio pensato dall’associazione Encanto per i bambini dai 5 agli 8 anni.

Nel villaggio del gioco e della fantasia, ogni momento ludico e ricreativo sarà accompagnato da una operatrice madrelingua spagnola, che farà conoscere e insegnerà ai piccoli partecipanti alcune parole in spagnolo. Nata infatti nel 2012 da un gruppo di donne provenienti da diverse parti dello stato iberico, ma da molti anni a Ferrara, l’associazione di promozione sociale Encanto – Centro Interculturale Italo-Español si propone di diffondere la lingua spagnola e momenti educativi, attraverso attività per grandi e piccini, con attività e iniziative proposte nella sede dell’associazione, il Wunderkammer di via Darsena.

L’obiettivo di Aspettando la Befana è quello di offrire un luogo dove i bambini si trovino insieme a creare, giocare e condividere esperienze in totale sicurezza e con operatori qualificati. Il villaggio sarà operativo tutti e quattro i giorni, da lunedì a giovedì, dalle 9 alle 13. Per informazioni sui costi e per prenotare contattare l’associazione Encanto alla mail laboratori.encanto@gmail.com oppure al numero 366.4803237.

IL DONO
Lascito Francesco Stefanelli: quando l’amore per la musica diventa patrimonio di tutti

Da: Conservatorio Ferrara

Tra vinili e cd, la raccolta donata dagli eredi Stefanelli al Conservatorio Frescobaldi di Ferrara comprende circa 2500 unità ed è ora custodita nella biblioteca Luciano Chailly

Una passione lunga una vita, ora messa a disposizione della collettività, per diffondere il piacere e l’amore per la musica. Un regalo di Natale, quello che qualche giorno fa gli eredi di Francesco Stefanelli hanno voluto donare al Conservatorio Frescobaldi e che sarà quanto prima disponibile non solo agli studenti, ma a chiunque ne faccia richiesta. Si tratta del Lascito Francesco Stefanelli, una collezione di circa 1800 vinili e 700 cd ora custoditi nella biblioteca Luciano Chailly, nella sede del Conservatorio di Ferrara di Largo Antonioni 1.

L’immagine che ancora è impressa negli occhi dei figli, Giovanna e Antonio, è quella del papà Francesco seduto in poltrona, assorto ad ascoltare ad alto volume la ‘sua’ musica. Da Verdi – suo grandissimo amore – a Puccini, da Donizetti a Bellini, da Beethoven a Bizet, ma anche molto jazz e la più recente Amy Winehouse, sono solo alcuni degli autori che dal 23 dicembre compongono parte del materiale a disposizione al Frescobaldi. Una collezione realizzata con anima e passione durante tutta la sua esistenza, tanto che compaiono spesso della stessa opera più versioni differenti, come nel caso delle cinque diverse esecuzioni della Tosca presenti nel lascito. “Questi dischi sono un pezzo importante della vita di nostro padre – racconta Giovanna Stefanelli –. Era un uomo curioso a appassionato, che andava all’opera in tutti i teatri di Italia e collezionava le versioni che più gli erano piaciute”.

Nato a Taranto nel 1935, Francesco Stefanelli studiò Giurisprudenza a Bari, percorso che interruppe quando vinse un concorso nella pubblica amministrazione. Arrivò così a Portomaggiore, dove conobbe la futura moglie. Direttore dell’ufficio del registro, non abbandonò mai la sua passione per la musica. Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel gennaio 2015, i figli hanno voluto donare la sua imponente raccolta al Conservatorio di Ferrara. “Era l’unico posto in cui accogliere i vinili di nostro padre” commentano i figli, presenti al Conservatorio con Francesco Colaiacovo, presidente del Conservatorio, e Marina Alfano, responsabile della biblioteca e coordinatrice del Corso di biennio di Musicoterapia. Il Frescobaldi, infatti, unisce da tempo la famiglia Stefanelli, dato che la consuocera, Anna Fornasini Cesnich, fu insegnante di lettere nell’istituto dal 1971 al 1998.

“Il lascito Stefanelli sarà un bene che sapremo valorizzare – sottolinea il presidente Francesco Colaiacovo –La cultura ha bisogno di mecenatismo e questa donazione è un importante contributo per il Conservatorio, perché ci aiuta a coltivare la cultura musicale e a investire su di essa”. I dischi, ora ordinati e catalogati, hanno infatti bisogno di essere digitalizzati per essere utilizzati da tutti, attraverso la rete bibliotecaria nazionale e internazionale Opac Sebina. Progetti collegati potranno poi coinvolgere gli studenti. “Questa non è che la prima fase per rendere disponibile il fondo a favore della collettività. Offriremo una collezione importante – conclude Marina Alfano – a cui tutti potranno accedere in futuro, una volta terminata la digitalizzazione dei vinili”. Per la docente, “sarà inoltre interessante associare alla collezione un progetto di ascolto per gli studenti, che potranno così arricchire la propria formazione ascoltando diverse interpretazioni di una stessa opera e, non ultimo, scoprire l’insaziabile voglia di ricerca e approfondimento di Stefanelli. Una passione contagiosa, che si respira in ogni disco ora custodito al Conservatorio”.

“I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”,
il senso della vita di Andrea Cirelli

di Giovanni Brasioli

“I libri non finiscono mai”, ultimo lavoro di Andrea Cirelli, non scivola mai nella banalità e di certo non accontenterà le abitudini dei lettori di best-sellers. Nella narrazione si rimane sempre a distanza di sicurezza dai libri di ‘ricette’ spacciati per romanzi: 100 grammi di sangue, 200 di sesso, 300 di passione e morte, 5 grammi di critica sociale, 50 di location esotica, 800 grammi di luoghi comuni. Lo scrittore diverte, commuove e restituisce un po’ di onore al sano valore della gratuità come quando descrive il soccorso nei confronti di una ragazza svenuta, la veglia in ospedale e, una volta che le condizioni della giovane sono migliorate, l’andarsene senza essersi nemmeno presentato alla stessa.

Andrea Cirelli
Andrea Cirelli

A due anni di distanza dalla pubblicazione di “Segreti tossici” lo scrittore ritorna dunque sulla scena letteraria con “I libri non finiscono mai. Nemmeno i quaderni”. Mercoledì 7 dicembre, alla libreria “Feltrinelli” di Ferrara, è avvenuta la presentazione ufficiale del romanzo. L’autore, intervistato da Sergio Gessi (docente universitario e direttore di Ferraraitalia.it) e Riccardo Roversi (direttore della casa editrice Este Edition), ha sottolineato come questo libro, costituito da appena 76 pagine, sia un condensato di emozioni, sensazioni, considerazioni. La lettura, a fronte di una scrittura molto scorrevole e vivace, risulta accattivante. La trama prende le mosse da un quaderno di appunti ritrovato su una panchina in un giorno di primavera che in breve diventa una guida, un’agenda di viaggio su cui si sviluppa tutta la vicenda del protagonista (alter ego di Andrea Cirelli).

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In questa società contraddistinta dalla continua ricerca del profitto viene coraggiosamente riproposta l’idea del “bene perseguito per il bene”. In questo mondo in cui “non esiste nessuna buona azione che resti impunita” il Signor C sottolinea quanto sia necessaria la generosità: non ci sono buone azioni che facciamo agli altri poiché le facciamo a noi stessi. Il protagonista del romanzo, eternamente proteso verso il prossimo, nel suo agire ci ricorda quanto sia importante dare fiducia agli uomini e non importa se poi questa fiducia verrà in un secondo tempo tradita. Dare fiducia non tanto perché il prossimo meriti la nostra fiducia ma in quanto nessuno merita di vivere nella sfiducia: è una brutta vita. Il percorso del protagonista corrisponde ad un viaggiare in solitudine verso una meta che va delineandosi con lo scorrere delle pagine: lo scrollarsi di dosso i ruoli che, da sempre, i sistemi di potere appiccicano sulla pelle dei governati per dividerli e spingerli in assurde guerre tra poveri: cristiani, musulmani, eterosessuali, gay, vegani, carnivori, comunisti, fascisti, italiani, immigrati. “Basta ascoltare e guardare la società che ti circonda – scrive Cirelli – senza cercare né di capire né di giudicare”, oppure ancora “Non sempre si deve conquistare, dominare, colonizzare, talvolta è utile solo capire”. Tra le pagine si scorge uno spiccato ‘Elogio alla solitudine’ ossia a quella condizione che i politici non si possono permettere: un politico solo è un politico finito. Da soli si riesce a pensare meglio ai propri problemi e, spesso, a trovare migliori soluzioni. Da soli, per assurdo, ci si ritrova maggiormente protesi verso il circostante, spesso rappresentato da un proprio simile e lo si riesce a capire meglio. Scorrendo le pagine del libro il Signor C ci insegna ad aver paura dell’uomo organizzato ma mai dell’uomo solo. “I libri non finiscono mai” trasmette una serenità a volte destabilizzante, altre volte disarmante. Scorrendo le pagine si comprende progressivamente quanto non sia poi così necessario trovare un senso nella vita poiché il senso della vita risiede nella vita stessa. Ci sono persone che inseguono carriere per diventare qualcuno e quindi attribuirle un senso: devo sposarmi, devo fare figli, devo collezionare likes su Facebook. L’autore smaschera con la leggerezza dei bambini quanta poca logica ci sia nell’affannarsi della vita moderna, nell’inseguire a tutti i costi una meta; mette in evidenza come l’unico modo per dare un senso alla vita sia quello di viverla pienamente, in tutte le sue sfumature. “I libri non finiscono mai” pone l’accento su quanto sia importante essere forti con se stessi ma allo stesso tempo clementi e soccorrevoli, senza compatire, nei confronti di chi ha bisogno, a volte solo di una parola, di una frase o di un gesto. Pagine imperdibili sono dedicate al “sogno”. In una società in cui “così è stato deciso e nulla può cambiare, semmai se stessi adeguandosi alla mediocrità” il Signor C si muove i direzione ostinata e contraria suggerendo al lettore di ricominciare a pensare in una prospettiva utopistica, a costo di essere presi per pazzi, con la consapevolezza insegnataci da Nietzsche che “quelli che ballano vengono visti come pazzi da quelli che non sentono la musica”. Si tratta, in fin dei conti, di un romanzo creato allo scopo di rendere i lettori parte attiva delle vicende, coinvolgendo emotivamente e realizzando un’esperienza visiva intensa, come se fossimo anche noi i protagonisti ai quali viene affidato l’arduo compito di riflettere, di soccombere agli eventi e di mantenere un segreto che urla per essere ascoltato.

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BUONE PRASSI
Spal, Clara e Città del Ragazzo insieme per un riciclo ecosolidale

clara-spalDopo ottanta lavaggi i teli chirurgici, per legge, oggi finiscono al macero. Parliamo dei noti e caratteristici teli verdi, che tutti ben conosciamo. Da domani potrebbe non essere più così. C’è un intelligente progetto per il loro riutilizzo. L’idea parte da Servizi ospedalieri e Città del Ragazzo. Ad Area-Clara, l’azienda che cura lo smaltimento dei rifiuti in tutta la provincia di Ferrara (ad eccezione del capoluogo e di Argenta), è piaciuta e l’ha rilanciata, coinvolgendo anche la Spal. Così – anziché un rifiuto da smaltire – dal telo ecco fiorire, attraverso le mani delle ragazze e dei ragazzi del centro di formazione professionale, cuscini, coprisedie e magari impermeabili e ombrelli: sì, perché la tela usata in chirurgia è impermeabile. La Spal, anch’essa sempre attenta e sensibile a progetti e iniziative a valenza sociale, ha mostrato interesse e disponibilità per questa iniziativa di stampo ecologico e solidale; ed è possibile ipotizzare, per esempio, che i copriseduta delle poltroncine del nuovo stadio, al quale l’Amministrazione comunale sta lavorando con l’impegno di completare i lavori per l’inizio del prossimo campionato, potrebbero essere di un bel verde speranza…
Insomma, un buon esempio di sinergia e collaborazione attiva e responsabile, di cui si è parlato mercoledì pomeriggio al ristorante la Barchessa, cornice del brindisi dei dipendenti di Area – in procinto di assumere ufficialmente la nuova denominazione di Clara – al quale sono stati ospiti d’onore una rappresentanza dei giocatori della Spal (Arini, Cremonesi, Finotto, Silvestri) con il presidente Mattioli e i patron Colombarini, padre e figlio.
clara-spalE’ stato Gian Paolo Barbieri, presidente di Area-Clara, a fare gli onori di casa, ricordando l’impegno dell’azienda al servizio della comunità ferrarese, e affidando a un incisivo video la sintesi della tante attività svolte e dell’impegno profuso da tutti i 400 dipendenti.

VOCI DA BERLINO
L’etica dell’esistenza

di Dario Deserri

Il mondo cade in pezzi. Ieri sera (19.12.2016) attorno alle 20.00, un tir ha sventrato il mercatino natalizio di Breitscheidplatz, la piazza principale della West City. Di questo mondo, Berlino ne è la nuova, attualissima capitale, come altre in passato… un recente passato.
Era nell’aria da mesi. Solo un paio di giorni prima, la Berliner Zeitung scriveva di possibili attacchi ai mercati pubblici di Natale. La gente che vive qui lo sapeva da tempo. Il ruolo attivo del governo Merkel per i rifugiati nel trattato con la Turchia, l’appoggio della Germania in Siria già da fine 2015, erano tutti elementi che facevano pensare che la capitale tedesca, prima o poi, sarebbe stata presa di mira.

Io sono cittadino di questa città da anni, sono un europeo. Abbiamo faticato da queste parti, sudato per costruire qualcosa, per vivere dove la vita ci pareva fosse più libera. Ora qualcuno ci dice che non è così, nemmeno qui, che si sono sbagliati. Stavo tornando dopo una giornata di duro lavoro, erano le 18:30 ed ero stanco. Ho lavorato al mattino e studiato al pomeriggio. Studio da redattore, per poter scrivere, per migliorare una lingua ostica che, ogni giorno, ancora mi resiste… e mi migliora.
Passo per un mercatino di Natale a cinquecento metri da casa mia e sembra tutto tranquillo, come al solito. In giro ci sono ragazzi rumorosi, alcuni impiegati alla fine del turno fermi alle bancarelle, altri che bevono Glühwein, e poi le signore benestanti che provengono dalla Ku’Damm con le borse dello shopping, tutti a chiacchierare in mezzo alla piazza.
Mi confondo tra la folla, compro un paio di regalini e alcuni biglietti d’auguri di Natale. Cammino verso casa senza fretta e decido di mangiare qualcosa. Appena arrivato al mio appartamento, qualche centinaio di metri dopo l’Europa Center, al computer sempre accesso noto il LIVE della “Die Welt”: un attacco!
Immagini simili a quelle di Nizza dell’estate scorsa. Secondo uno studio del 2015 del Landrat cittadino, il Senato locale (Berlino è anche uno stato federale), i gruppi salafiti, più o meno identificati e tenuti sotto controllo a Berlino negli ultimi anni, sono oltre duecento. Il timore di un attentato terroristico è dunque piuttosto ragionevole. D’altro canto la città e l’intera nazione si sono fortemente polarizzate, quando non radicalizzate.
Ora attendiamo di sapere cosa sia davvero successo, le investigazioni sono tuttora in corso. L’unica cosa che appare certa è che un camionista polacco è stato ucciso, forse il proprietario del mezzo dirottato e guidato verso la tragedia. Dodici morti e cinquanta feriti innocenti che non meritavano certo di finire i loro giorni in questo modo. Anche una ragazza italiana risulta attualmente scomparsa.

Quella di ieri è una ferita (non la prima e, purtroppo, non sarà certo l’ultima) aperta nella capitale più liberale d’Europa. La capitale con una coalizione Rot-Rot-Grün, appena ratificata dal sindaco Michael Müller (SPD) in un territorio a nord-est dei nuovi Länder ex-DDR, con un impronta locale sempre più xenofoba, soprattutto in Sassonia. Berlino è stata per decenni un melting-pot pacifico e creativo, un’isola serena e un esperimento riuscito, frutto di politiche accorte e attente, nonostante l’inarrestabile avanzata delle multinazionali del lusso e della finanza un poco ovunque… sempre di più, anche qui.
Tutto questo avviene nel paese, che più ha goduto dei privilegi di questa Europa sbilenca (lo Stato molto più dei cittadini) e ben lontana da quella pensata da Konrad Adenauer o Willy Brandt, ad anni luce perfino da quella di Helmut Kohl. Ora la Merkel ne prenderà atto, e probabilmente ne pagherà le conseguenze. Come e in che modo lo capiremo nei prossimi mesi. Pagheremo tutti nel lungo periodo.

Con la politica estera degli ultimi quindici anni, i paesi occidentali avrebbero potuto creare un mondo migliore, quanto meno evitare tutto questo. Con l’ipocrisia di voler pacificare e portare democrazia nel mondo, in paesi che non conoscono nemmeno il significato della parola “Costituzione” (ma sappiamo che i motivi reali sono ben altri), siamo finiti per tornare in guerra tutti quanti. La guerra del consumismo.
Questa è una città pacifica, ma nella sua storia è stata anche altro. Nel suo dna, Berlino ha la capacità di trasformarsi, di cambiare radicalmente. Ora è polarizzata, montano gli schieramenti già da anni… i pro e i contro. Cosa sarà di questa città nessuno al momento può saperlo, ma nelle sue continue trasformazioni è presente soprattutto il codice della rinascita.

Ma dove siete finiti tutti?

di Cristiano Mazzoni

Ma dove siete finiti tutti?
Antonio, le tue sofferenze, la tua dignità, la forza del tuo intelletto sono diventati cibo per storiografi vintage. Tu per primo, quasi un secolo fa parlasti di questione morale, lo potevi fare, ne avevi la facoltà, eri limpido come i tuoi sogni, sacrificasti la tua vita per ciò in cui credevi. Il tuo sacrificio, per il bene dell’Umanità Nuova.
Dove ti hanno nascosto?
Ti studiano come un reperto archeologico, non come un esempio. Come un punto di partenza, ma tu sei un punto di arrivo.
Giuseppe, ti hanno dimenticato. Io no.
Tu hai insegnato ai cafoni a non togliersi il cappello di fronte ai padroni, ci hai insegnato, il significato della parola dignità. Nessuna differenza di genera e grado, uguaglianza, libertà. Il sindacato come strumento unitario di difesa sociale. Riscatto dei braccianti, dopo migliaia d’anni di sofferenze e privazioni.
Dove sei?
Sandro, dov’è la tua forza, la tua integrità, che ne hanno fatto?
Partigiano per sempre, per sempre dalla stessa parte, la tua morale contrapposta alla Milano da bere (e da mangiare), combattesti in montagna ed in parlamento e poi, su fino al colle come paladino della giustizia. Braccio contro la dissoluzione delle idee, arma contro l’evaporazione della politica. Sangue rosso nelle vene, contrapposto all’appiccicoso liquido biancastro degli edonisti.
Enrico, tu mi manchi più di tutti.
Sei sempre stato nostro, un esempio, una guida, forza carismatica di un uomo semplice. Io c’ero a San Giovanni ero con mio padre e rappresentavamo un popolo, il nostro. Forza morale e rigore, figlio della stessa terra di Antonio, stessa forza dirompente della dignità e della pulizia. Ti prego spazza via questa classe politica di pellicani, convinti che la politica sia un mestiere, ridacci la forza per vivere le nostre idee. Ti citano, ti espongono come un’icona ma si vergognano di te. Noi non ci siamo più, il nostro posto è stato preso da avversari politici, convinti di essere tuoi nipoti.
Dove sei?
Lucio, lucido sognatore, profilo d’attore, nato nella nebbia della mia terra. Rompesti gli schemi, mai ortodosso, mai chiuso nei dogmi del centralismo democratico, rivoluzionario per vocazione ed aspirazione. I tuoi anni vissuti, tra lotte mai vinte, forza del sogno, utopia come religione. Fino all’ultimo cercasti l’unità. Poi un giorno, decidesti tu, di spegnere l’interruttore.
Dove siete compagni? Ci avete lasciati soli, nelle mani di contrabbandieri di idee, di stupratori di sogni.
Pietro, sognavi la luna.
Tutta la vita, la ricercasti, sulla terra negli uomini, armato solo delle tue idee, delle nostre idee, scontasti la tua lungimiranza e mai ti piegasti al pensiero comune.
Tutti voi compagni dove siete?
Vi indicano come passato, archeologia di pensieri lontani. Cercano la modernità, scappando da voi, vi hanno interrato pur fingendo di riconoscere i vostri meriti.
Uguaglianza, libertà, dignità, pari opportunità, salute e scuola per tutti, moralità nella politica, sogni e speranze per l’avvenire.
Cosa c’è di più moderno? In cosa voi li avete superati?
L’unica possibilità per il futuro sta nella forza delle vostre idee, sperando che una tempesta di sogni travolga la moderazione ed il nulla di questa classe politica, che vi ha nascosto nei cassetti dell’oblio, per paura della vostra dirompente modernità.

VOCI DA BERLINO
Parla una studentessa berlinese: “Molti ragazzi non vengono a scuola”. “E c’è chi comincia ad accusare la Cancelliera”

Un camion si schianta fra la folla, rimangono a terra 12 morti e 48 feriti: tornano alla mente le sconvolgenti immagini del 14 luglio e della Promenade des Anglais di Nizza, con l’automezzo che zigzaga per la strada per fare più vittime possibili. Ieri sera, invece, il bersaglio del camion sono stati i famosi ‘Weihnachtsmärkte’ (Mercatini di Natale) di Berlino, nella parte occidentale della capitale tedesca, vicino alla Chiesa del Ricordo.
Su Twitter la polizia di Berlino parla ancora di “presunto attacco terroristico”, spiegando però che gli investigatori sono propensi a credere che il tir sia stato “deliberatamente lanciato contro la folla”.
Ed è di queste ora la notizia che una giovane italiana risulta dispersa, oggi non si è recata al lavoro e il suo cellulare è stato trovato sul luogo della strage: si tratta di Fabrizia Di Lorenzo, 31 anni. vive e lavora nella capitale tedesca. Anche fra i feriti ci sarebbe un connazionale: l’uomo non sarebbe in gravi condizioni e verrà sentito dagli inquirenti.

Abbiamo raccolto la testimonianza di Sara (nome di fantasia), quindicenne berlinese che vive a poca distanza da luogo dell’evento.
“Vivo nel centro di Berlino, a poca distanza da dove è successo tutto. In quel momento – ci racconta – mi trovavo a casa, ma non mi sono accorta di nulla, ho realizzato che era accaduto qualcosa di grave solo perché ho cominciato a ricevere telefonate e messaggi da amici e persone che mi chiedevano se stavo bene”.
Prima di tutto le chiediamo se lei e tutti i suoi cari e conoscenti stanno bene: “Per fortuna nessuno dei miei famigliari o dei miei amici è rimasto coinvolto, ma oggi sono scioccata e impaurita, forse anche perché ho visto un video su quei momenti girato da un amico di un amico, sai come succede”.
Nonostante il comprensibile timore Sara, all’indomani della strage ha tentato di continuare la propria vita: “Oggi io sono andata a scuola, ma qualcuno che conosco è rimasto a casa perché i genitori non hanno voluto che uscisse, molte persone oggi non sono uscite dalle proprie case qui a Berlino e anche i mercatini di Natale oggi sono rimasti chiusi”.
Prima di lasciarla andare le chiediamo qual è il clima nella capitale tedesca oggi e se, come sentiamo sui media italiani, è vero che molti ritengono l’accaduto una conseguenza della politica di accoglienza di Angela Merkel: “Sì, molte persone stanno dando la colpa ad Angela Merkel e alle sue scelte sui rifugiati: è facile collegare le due cose e sicuramente ora chi attaccava lei e i rifugiati nel nostro paese diventerà ancora più ostile. Io però non condivido questa posizione e non credo che la maggioranza dei tedeschi la pensi così”.

Susanna Camusso a Ferrara:
il nemico non sono i migranti è il mercato

Tentare di dare un nome e una storia ad alcuni dei loro volti, per iniziare a considerare i migranti come persone con una dignità e dei diritti e non più come una categoria o, ancora peggio, un’emergenza che riguarda solo l’ordine pubblico. È questo il senso dell’iniziativa organizzata al Cinema Apollo sabato mattina, in occasione della Giornata internazionale dei Migranti, dal coordinamento di associazioni che ha dato vita a Ferrara che accoglie. Ospite d’onore: il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, intervistata dai ragazzi di Occhio ai Media e dagli studenti delle scuole superiori della provincia di Ferrara.
Il titolo dell’evento era “Oltre i muri dell’emergenza” e proprio da qui è partita Camusso: “fino a oggi abbiamo sempre parlato di immigrazione in termini di emergenza, cominciamo a parlare del tema del futuro. Non si può immaginare un futuro che non si confronti con i flussi migratori”, se non saranno – almeno si spera – le guerre a determinare i movimenti di popolazione, lo farà la demografia. Per il segretario “si può parlare ancora di emergenza solo nella misura in cui bisogna smettere di far morire le persone nel Mediterraneo”, per il resto dobbiamo rispondere a domande che riguardano “il mondo che dobbiamo disegnare” e per farlo serve “il coraggio della responsabilità”. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere ad alcune domande: quali sono i principi in cui crediamo e che vogliamo affermare? In quale società desideriamo vivere? E, molto più pragmaticamente, “sono davvero queste persone a mettere in pericolo il nostro posto di lavoro, il nostro tenore di vita? Se non ci fossero i migranti la disoccupazione giovanile in Italia sarebbe allo 0%?”

La risposta di Camusso è un forte no: “il problema è che non si riesce a dare una risposta seria ai tanti disagi che attraversano la popolazione. La rottura però è avvenuta ancora prima: quando si è iniziato a dire che chi aveva più diritti era un privilegiato rispetto a chi è venuto dopo. Ora si sta facendo la stessa operazione con i migranti”. Per il segretario, insomma, alla base c’è l’incapacità di dare risposte serie alla complessità che stiamo vivendo e la soluzione trovata da chi vuole perpetuare questo modello di sviluppo e di crescita solo economica è la contrapposizione fra chi ne rimane escluso: prima erano i figli contro i padri, colpevoli di avere più tutele, ora sono gli italiani contro gli stranieri, colpevoli di sottrarre il poco lavoro che c’è.
Per fermare chi cavalca e fomenta le paure, strumentalizzandole politicamente, bisogna capire perché queste paure ci sono e parlare con chi ha paura per dirgli che “se non si accede alla sanità, ai servizi, se si fa fatica ad arrivare alla fine del mese, se diminuiscono le tutele e i diritti sul lavoro” sentirsi minacciati è comprensibile, ma “forse il tema è che abbiamo sbagliato a immaginare che le politiche sociali potessero essere progressivamente ridotte, che il mercato ci avrebbe fatto vivere tutti meglio e in perenne crescita. Il mercato fa un’altra cosa: arricchisce pochi e impoverisce i più”. Il nemico non sono i migranti, ma chi “ha pensato che si potesse continuare a ragionare in termini di riduzione dei costi, invece che giocare la sfida della qualità del lavoro”. “Non si può immaginare che se qualcun altro sta peggio di me, le mie condizioni di vita migliorino”, come “non si può introdurre una gerarchia dei bisogni sulle persone”. La soluzione, secondo Susanna Camusso, è “stare nelle scuole e nei luoghi di lavoro insieme, vivere lo stesso spazio e lo stesso tempo” sotto parole che si chiamano dignità , libertà, pace e lavoro, perché futuro e migliori condizioni di vita si conquistano e si sono sempre conquistati lottando con gli altri non contro gli altri.

Alcuni, neanche troppo tempo fa, l’avrebbero chiamata una rivendicazione di una nuova coscienza di classe da parte degli sfruttati, anche se in modi diversi, di coloro che sono lasciati indietro dalla ‘fiumana del progresso’. Quando però lo abbiamo chiesto al segretario, a lei l’espressione non è piaciuta, ha preferito chiamarla: “una nuova coscienza di giustizia, una coscienza che le diseguaglianze contrappongono gli ultimi con i penultimi, determinando sempre nuovi ultimi, mentre ricostruire uguaglianza permette di immaginare un percorso di crescita, libertà, benessere”.
E sulle priorità del nuovo governo Gentiloni riguardo a lavoro e immigrazione, Susanna Camusso afferma: “bisognerebbe cambiare le politiche fatte finora, politiche di sottrazione di diritti e di assenza di investimenti. Ciò di cui abbiamo bisogno è che si crei lavoro e si indichi quali sono le direzioni nelle quali si crea, non delegando solo al sistema delle imprese quali caratteristiche ha lo sviluppo. Bisogna affrontare il tema dell’interdizione di questo porcesso di impoverimento dei salari e dei diritti. La prima condizione è smettere di creare precarietà e porsi l’obiettivo di creare buon lavoro e lavoro di qualità”.

Foto di Patrizio Campi e Valerio Pazzi [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Durante la mattinata sul palco, oltre al segretario generale Camusso, si sono avvicendati altri ospiti. Un commosso sindaco Tiziano Tagliani ha ricordato la notte tra il 24 e il 25 ottobre e le barricate a Gorino, “erano un po’ di anni che non piangevo”: “è una serata che non dimenticherò facilmente”. “Erano le 10 di sera, stavo guardando la televisione e mi hanno chiamato per dirmi che le dodici ragazze erano alla stazione dei Carabinieri di Comacchio perché nessuno le voleva. Mi è salita una rabbia tale che ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi, perché non sapevo cosa avrei detto. Quando sono arrivato ho trovato in una stanza dodici persone mute e rassegnate”. Secondo Tagliani quello che abbiamo di fronte “è un problema di cultura: qualcuno continua a sentirsi fuori, a vedere le cose come se fossero lontane, in tv”. “Abbiamo vissuto l’immigrazione come un’emergenza, ma non è più così: è un processo internazionale: occorre ripensarla da tutti i punti di vista”. Infine il sindaco di Ferrara e presidente della Provincia ha ribadito la sua posizione sulla nuova intesa fra Anci e Stato e in particolare sull’incentivo economico per l’accoglienza: “non bisogna dare più soldi ai Comuni che accolgono, perché il rischio è che dicano che facciamo accoglienza solo per i soldi, bisogna togliere risorse a chi non lo fa” perché questo rifiuto, “per di più fatto con la fascia tricolore addosso”, “non è una forma di disobbedienza civile”.
Poi ci sono state le testimonianze della fotoreporter Annalisa Vandelli e di Grazia Naletto, presidente dell’associazione Lunaria. La prima ha raccontato i campi profughi di Giordania e Libano, persone di ogni età con i segni della guerra sul corpo e negli occhi che vorrebbero solo “tornare alla loro vita normale”, mentre la seconda ha evidenziato i problemi della mancanza, in Italia e in Europa, di “un sistema d’accoglienza ordinario predisposto per far fronte alla domanda di chi arriva”. E poi Andrea Morniroli, operatore sociale, che ha paragonato le migrazioni ai movimenti tellurici che scuotono il territorio e creano faglie: “una parte della politica cavalca la paura, mentre un’altra parte non ha il coraggio di affrontare questa complessità. Il compito di amministratori, operatori sociali, sindacalisti è stare in quelle faglie e costruire ponti per attraversarle, costruire mediazioni per superare le differenze e trovare i punti comuni”.
L’avvocato della Cgil Andrea Ronchi ha risposto alle domande su caporalato, migrazione e illegalità, “lavoro povero”. Se un lavoratore straniero è costretto ad accettare la tratta, il caporalato e un salario del 25% inferiore rispetto a un collega italiano, a parità di lavoro, perché altrimenti non riuscirà a presentare la documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno, prima o poi questa competizione al ribasso si rifletterà sulle condizioni e sui diritti di tutti i lavoratori. In effetti sta già accadendo, da diverso tempo. Ma il nemico non sono i migranti, al contrario: difendere condizioni di lavoro dignitose e diritti per tutti, italiani e stranieri, non è una questione altruistica, ma la base per costruire una società basata sul valore del lavoro e dei lavoratori, non del consumo e del profitto.
E poi Zafer, un ragazzo rifugiato afghano, arrivato in Italia a solo a sedici anni, ha raccontato la propria storia: dal Pakistan dove era scappato con la madre e i fratelli, è passato in Iran, poi in Turchia e in Grecia, da qui “trenta ore aggrappato sotto un camion senza bere, mangiare e dormire, al freddo e al buio, con la puzza di gasolio e la paura di cadere e venire schiacciato dalle ruote” per arrivare in Italia. La polizia l’ha trovato ad Altedo e ha iniziato il difficile percorso di integrazione: la scuola per imparare l’italiano e poter lavorare e i mille lavoretti saltuari, in nero si intende. Poi ha trovato lavoro in un supermercato a Imola, ma quando sembrava che le cose avessero iniziato a ingranare è arrivata la notizia che sua madre si era ammalata gravemente: l’aveva lasciata in Pakistan con i fratelli, perché non c’era abbastanza da mangiare per tutti e lui è il fratello più grande. Il suo datore di lavoro gli ha concesso tre settimane per andare a trovarla: “quando sono tornato, il cuore colmo di angoscia per mia madre, il mio posto non c’era più, l’avevano dato a qualcun altro”. “Ora sono senza lavoro, ma spero un giorno di poter realizzare il mio sogno e tornare in Pakistan con la mia famiglia”.

La città della conoscenza su Telestense con Giovanni Fioravanti

da: organizzatori

Telestense Cultura presenta “Storie ferraresi – Cantieri per il futuro”, la nona puntata dal titolo: “La città della conoscenza”.
Venerdì 16 e 23 dicembre alle ore 21.30, martedì 20 e 27 dicembre alle ore 21.30, domenica 18 alle ore 19.30 su Telestense, e in replica mercoledì alle ore 22.00 e domenica alle ore 20.00 su TeleFerraraLive, sabato alle ore 22.20 e domenica alle ore 24.00 su Telesanterno, mercoledì alle 22.30 e giovedì alle ore 13.15 Telecentro.

Città della cultura e dei molti luoghi del sapere, Ferrara può aspirare ad essere definita una città della conoscenza? In questa nuova puntata cercheremo di mettere a fuoco questo “volto” della città, un volto che guarda al futuro, nella convinzione che senza una conoscenza vasta, profonda, diffusa, non possa esserci nessun futuro, che vada nella direzione di una sempre maggiore autonomia culturale ed economica dei cittadini.

A farci da guida sarà Giovanni Fioravanti, pedagogista e opinionista, autore di un e-book dal titolo “La città della conoscenza”, mentre nel corso della puntata incontreremo il direttore del Museo di Storia Naturale, Stefano Mazzotti, studenti del Liceo Artistico Dosso Dossi e del Liceo scientifico Roiti con i loro docenti, professoressa Gianna Perinasso e prof. Giorgio Rizzoni, infine i professori Gianfranco Franz, Massimiliano Mazzanti, Pasquale Nappi dell’Università di Ferrara,
Conduce Vittoria Tomasi, riprese, montaggio, direzione della fotografia Nicola Caleffi. Progetto e realizzazione a cura di Dalia Bighinati.

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IL DUO
In scena il duo Michel Portal – Bojan Z

Da: Jazz Club Ferrara

Sabato 17 dicembre, in collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica, il Jazz Club Ferrara ospita la vibrante performance del duo formato dal clarinettista, sassofonista e bandoneista francese Michel Portal, figura unica della scena musicale contemporanea, affiancato dal talentuoso pianista serbo Bojan Z.

Se il jazz europeo può oggi vantare la sua originalità, il merito va anche a Michel Portal, polistrumentista francese di eccelso virtuosismo. In prima linea sin dalla fine degli anni Sessanta, Portal ha saputo mescolare il linguaggio del jazz con elementi della cultura europea, sia colta che popolare, tra tradizione e sperimentazione.
In questa direzione muove anche l’estetica del duo che vede Portal affiancato dal pianista serbo Bojan Zulfikarpašić, in arte Bojan Z, che avremo il piacere di ascoltare al Jazz Club Ferrara nella serata di sabato 17 dicembre (ore 21.30) grazie alla preziosa collaborazione con la rassegna Off di Ferrara Musica. Esibendosi con continuità, questo duo, nato ormai una decina di anni fa, è pervenuto progressivamente a rafforzare la propria espressività alla luce di un non comune interplay, dispensando ogni volta vibranti performance ricche di inventiva.
Clarinettista, sassofonista, bandoneonista, figura unica della scena musicale contemporanea, Michel Portal (Bayonne, 1935) nella sua lunga carriera è stato in realtà serissimo in tutti e due gli ambiti: interprete a livelli di eccellenza di pagine di Mozart e Brahms, strumentista di riferimento per l’esecuzione di nuovi lavori di compositori contemporanei come Boulez, Berio, Stockhausen e Kagel, Portal è anche tra i personaggi in assoluto più originali espressi dal jazz europeo, nel quale per tutta una lunga stagione si è mosso su posizioni audacemente d’avanguardia, ed è stato pure protagonista, in un territorio intermedio e anomalo, col gruppo New Phonic Art, dell’esperienza di un’improvvisazione estrema ma anche il più possibile svincolata dal linguaggio del jazz. Portal ha collaborato con musicisti come Albert Mangelsdorff, John Surman, Steve Lacy, Han Bennink, Dave Liebman, e con tutta la scena francese. Ha composto moltissime colonne sonore per il cinema, oltre ad essersi esibito accanto a solisti di danza contemporanea, esemplificativo in tal senso il lungo sodalizio con Carolyn Carlson. Vincitore di tre Cèsar e un Sept D’Or, dagli anni Ottanta dirige diverse formazioni. Negli ultimi anni si è interessato altresì al funk, collaborando con musicisti di Minneapolis vicini all’entourage di Prince.
Pianista virtuoso, sideman notato prima al fianco di Henri Texier e Julien Lourau ed ora solista con una carriera internazionale il cui talento immenso si confronta regolarmente con i migliori musicisti americani, Bojan Z è al tempo stesso capace di inventiva musicale sottile e delicata, come di grande energia e un ‘drive’ potente che tutti i solisti sognano per dar vita alle loro improvvisazioni.
‘Note in bianco e nero’ personale del giovane fotografo valtellinese Michele Bordoni, curata da Eleonora Sole Travagli in collaborazione con Endas Emilia-Romagna e iscritta nel progetto ‘Intrecciare cultura’ patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna è fruibile al Jazz Club Ferrara fino al 23 dicembre, nelle serate di programmazione.

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI
Intero: 20 euro
Ridotto: 15 euro (la riduzione è valida prenotando la cena al Wine Bar, accedendo al solo secondo set, fino ai 30 anni di età, per i possessori della Bologna Jazz Card, per i possessori di MyFe Card, per i possessori della tessera AccademiKa, per i possessori di un abbonamento annuale Tper, per gli alunni e docenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio ‘G. Frescobaldi’ di Ferrara)
Intero + Tessera Endas: 25 euro
Ridotto + Tessera Endas: 20 euro
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Primo set: 21.30
Secondo set: 23.00

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

IBO ITALIA
Piccoli Volontari continuano a crescere

Da: Ibo Italia

Piccoli Volontari continuano a crescere
Presentato da IBO Italia il bilancio di un anno di impegno verso i giovani dai 14 ai 17 anni

Giovedì mattina, nella sede di Via Montebello, IBO Italia ha presentato i risultati raggiunti con il progetto Piccoli Volontari Crescono dedicato alla promozione del volontariato fra i giovani di età compresa fra i 14 e i 17 anni. Presenti, oltre al direttore Dino Montanari, anche alcune realtà che in questi anni hanno sostenuto l’impegno di IBO: Quisisana e Fondazione Santini Gaetano ed Elvira, rappresentati dal dott. Giorgio Piacentini e l’Associazione Buskers Festival, per la quale era presente il direttore organizzativo Luigi Russo.
“Sono davvero pochi oggi i punti di riferimento per ragazzi e ragazze alla ricerca della propria strada e della propria identità – ha introdotto Dino Montanari – Connessi con il mondo grazie a smartphone e app di ogni tipo eppure, spesso però privi di esperienze dirette con il mondo reale. Esuberanti e generosi, ma non sempre attenti alle conseguenze di un proprio gesto e inconsapevoli delle loro prime responsabilità. Travolti anche dalla fragilità e della vita precaria dei loro genitori e delle loro famiglie”.
Nel 2016 sono stati 130 gli adolescenti coinvolti in esperienze di volontariato. Di questi la metà sono ragazzi italiani, mentre l’altra metà sono arrivati da Grecia, Francia, Germania, Turchia, Stati Uniti, Belgio e Bulgaria. Ripristinare i muretti a secco a Vernazza, nel Parco delle Cinque Terre, lavorare sui terreni confiscati alla ‘ndrangheta a San Leonardo di Cutro vicino Crotone, conoscere da vicino realtà di accoglienza per profughi e migranti a Salvatonica di Bondeno e a Biancavilla, in provincia di Catania. Questi alcuni dei luoghi e delle attività principali che hanno visto protagonisti gli adolescenti, seguiti nelle loro esperienze da, complessivamente, dodici Camp Leader IBO. Alcuni dei ragazzi italiani hanno scelto inoltre di vivere la loro esperienza di impegno all’estero: in Estonia, Francia o Romania.
L’aspetto di incontro, scambio e confronto fra giovani volontari provenienti da varie parti del mondo è sicuramente uno degli aspetti più positivi di queste alternative alle vacanze tradizionali. Oltre ovviamente all’aiuto concreto verso chi ha bisogno o per la salvaguardia di beni comuni. Esperienze aperte a tutti e con particolare attenzione a quegli adolescenti provenienti da situazioni di difficoltà, disagio o a ragazzi con minori opportunità.
“Per Quisisana e Fondazione Santini è importante sostenere le associazioni del proprio territorio – ha ricordato il presidente Piacentini nel suo intervento – soprattutto quelle che hanno a cuore il capitale più importante che abbiamo per il nostro futuro: i nostri figli, i nostri ragazzi. Facendoli crescere attraverso il confronto, ma anche allargando loro gli orizzonti, offrendo esempi positivi e la possibilità di sentirsi responsabili verso gli altri”.
Insieme alle esperienze vissute dai giovani volontari sono stati presentati i tanti interventi, attività e collaborazioni portati avanti da IBO Italia nelle scuole di Ferrara e Parma. In particolare negli istituti superiori della nostra città fra i quali il Carducci, l’Ariosto, il Dosso Dossi, il Roiti e l’Einaudi solo per citarne alcuni. Quasi 2.000 complessivamente gli alunni incontrati oltre a più di 50 gli insegnati ai quali sono stati offerti momenti di formazione legati a tematiche di educazione interculturale e promozione del volontariato.
Molti anche i minori coinvolti in attività di volontariato in occasione delle iniziative di raccolta fondi di IBO Italia durante il mese di dicembre, come tanti i giovanissimi che in durante il Ferrara Buskers Festival hanno voluto donare alcune loro ore per la raccolta delle libere offerte alle ‘porte’ di ingresso.
“L’attenzione verso il sociale e le tante forme di impegno volontario è una delle nostre prerogative da sempre – ha affermato Luigi Russo, direttore organizzativo del Ferrara Buskers Festival – e la collaborazione con IBO Italia ci ha permesso di rafforzare questa attenzione e sensibilità. Il prossimo anno festeggeremo insieme i 30 anni di Festival ed i 60 anni di IBO”.
Momento toccante poi il ricordo di Lucrezia Rendina, la giovane volontaria IBO che ha perso la vita nel terremoto del 24 agosto a Pescara del Tronto e che era partita nell’estate 2016 per il Campo di Lavoro e Solidarietà di Nova in Estonia. E proprio l’impegno, anche in suo nome, per le popolazioni colpite dal sisma sarà uno dei prossimi obiettivi di IBO Italia.

Salvare le banche è di sinistra

di Alice Ferraresi

Giorgio Gaber cantava “se la cioccolata svizzera è di destra, la nutella è ancora di sinistra” e snocciolava altri luoghi comuni su cosa è considerato di destra e cosa di sinistra.
“Salvare una banca” non è considerato né di destra né di sinistra: è impopolare e basta. Il concetto è la conseguenza di due postulati, entrambi errati: che salvare una banca significhi salvare i banchieri; che la banca sia un’azienda come tutte le altre.

Primo postulato: salvare una banca significa salvare i banchieri. Dovrebbe essere il contrario. Infatti, se si riuscisse a riportare nel capitale della banca almeno parte dei denari sottratti dalla mala gestio o dalla malversazione dei cattivi banchieri, tra punizione e sanzione dei primi e cura delle seconde ci sarebbe una relazione diretta: recupero capitali sottratti alla buona gestione e li reimmetto nella banca. Purtroppo in questo recupero l’attuale legislazione di diritto privato commerciale (anche internazionale) è gravemente carente di strumenti idonei a colpire gli interessi di chi ha soldi da nascondere. Semplicemente, gli strumenti della “libera finanza” sovrastano gli anticorpi normativi.
Peraltro questa è solo una parte del problema. La cattiva gestione dilapida denaro aziendale che non può essere tutto recuperato dalle tasche dei top manager: l’azienda che perde valore e capitalizzazione perde infatti tanto denaro, perchè scelte sbagliate la depauperano profondamente. Tuttavia sarebbe già un grande passo in avanti se alcune retribuzioni milionarie venissero rigorosamente agganciate al raggiungimento di risultati di buona gestione (che non significa la massimizzazione dei profitti di breve periodo). Invece, anche in questi giorni di grandi crisi bancarie, assistiamo a scandali come il trattamento economico – preceduto da un incredibile “bonus in entrata” – dell’AD di Pop Vicenza Iorio, che in 18 mesi di reggenza in una banca in grave dissesto (e nella quale i dipendenti rischiano posto di lavoro e parte della retribuzione) ha percepito circa diecimila euro al giorno. Una follia, un insulto. Un pactum sceleris tra privati che dovrebbe essere reso giuridicamente impossibile, dentro aziende in crisi. Non parliamo delle banche commissariate: qui la gravità delle sperequazioni è accentuata dalla segretezza da cui vengono circondati i compensi della compagine commissariale – che non aiuta una banca a guarire, casomai la aiuta a sprofondare; ma di questo parleremo magari un’altra volta…
Secondo postulato: la banca è un’azienda, quindi se è in dissesto deve poter fallire, come qualunque altra azienda. La banca è un intermediatore di denaro: raccoglie i soldi di proprietà dei suoi clienti, e li impiega prestandoli al territorio che ne ha bisogno per svolgere le sue attività economiche. Se una banca viene lasciata fallire, le due conseguenze immediate sono le seguenti: primo, una parte dei risparmi dei clienti viene espropriata, esattamente alla stregua di un credito che viene succhiato ed attratto nella massa di crediti di una procedura fallimentare, che verranno pagati se e quando sarà realizzato un attivo (questo drammatico effetto si è già visto a Ferrara, con la crisi Carife); secondo, la banca chiede ai suoi clienti di rientrare (ad un certo tempo) dai prestiti erogati, ma soprattutto ed immediatamente interrompe il sostegno economico ai suoi affidati. Questo secondo effetto è ancora più drammatico, perchè si porta dietro l’implosione del tessuto economico di un territorio. E’ infatti strettissimo il legame tra sistema produttivo e banche (specie banche del territorio): le imprese del territorio funzionano a debito. Pochissime sono quelle che lavorano esclusivamente con mezzi finanziari propri.
Questa descrizione dovrebbe far percepire una banca per quello che è realmente: una infrastruttura del territorio, esattamente come un tessuto stradale, una fognatura, una ferrovia. Questo rischio è tanto più alto quanto più la banca che entra in crisi finanzia ancora (anche se non esclusivamente) la maggior parte delle aziende di un territorio. E’ questo il caso di banche grandi(come MPS) ma anche di banche più piccole ma di estrazione territoriale (le due venete, Cassa Ferrara), che sostengono in maniera decisiva, piaccia o no, le aree di riferimento. Lasciare andare una banca del genere al suo destino equivale a far crollare un’autostrada ad alta percorrenza, un sistema viario. Sarebbe come far deragliare i treni perchè ci sta sulle scatole l’AD di Ferrovie dello Stato. Equivale a staccare il bocchettone dell’ ossigeno alle aziende del territorio. E’ quindi mistificatoria l’opinione di chi ritiene che il salvataggio di una banca non debba gravare sulla collettività, perchè è esattamente il contrario: è il dissesto irrimediabile di una banca che scarica tutto il suo fardello sulla collettività.

Per liberamente interpretare Giorgio Gaber: credo che salvare un cattivo banchiere sia di destra, mentre credo che salvare una banca sia di sinistra, perchè significa salvare i risparmi dei cittadini e il tessuto economico. Il nuovo governo, che nasce nel segno della continuità con il precedente, afferma di essere di centro-sinistra. E’ auspicabile che decida di affrontare la crisi del sistema bancario con un salto di qualità rispetto alla passata gestione. Le premesse purtroppo non sono buone.

Bondi, un mese al buio: i motivi e le modalità per risollevarsi

di Cavallo Pazzo

Eravamo qui, poco più di un mese fa, a parlare della rinascita della Pallacanestro Ferrara targata Bondi, frutto di quattro esaltanti vittorie di fila che stavano facendo sognare i tifosi ferraresi. Dopo un anno deludente, tra incomprensioni società-tifosi e scarsi risultati sul campo, la nuova stagione sembrava essere iniziata al meglio. Grande entusiasmo, la gente di nuovo vicina alla squadra e una classifica che faceva sorridere. Il 13 novembre Ferrara affronta la difficile (quasi proibitiva) trasferta di Treviso senza il suo americano Bowers, costretto a saltare la gara a causa di un infortunio muscolare. La squadra perde il suo leader, e deve far fronte anche alle condizioni del centro Pellegrino e dell’ala Cortese, colpiti da un attacco influenzale. Ciononostante gioca una gara gagliarda, senza paura, trascinando Treviso punto a punto fino agli ultimi decisivi minuti che premiano i veneti. I 250 supporters estensi presenti al Palaverde applaudono i loro ragazzi, e tornano a casa consci di tifare per una squadra vera, nonostante la sconfitta.

La domenica successiva il calendario offre immediatamente una sfida sentita, il derby con Ravenna, per tornare ai due punti: e invece Ferrara sembra svogliata, molle, poco reattiva, “poco squadra”. I romagnoli scappano nel secondo tempo e la Bondi non riesce più a riprenderli. Potrebbe essere soltanto un passaggio a vuoto, pensano tifosi e addetti ai lavori, in fondo la squadra a Treviso aveva fornito l’ennesima prova di forza (nonostante la sconfitta). Cinque giorni dopo si torna in campo, e il PalaHiltonPharma di Ferrara si prepara ad accogliere una delle grandi della palla a spicchi italiana, la Fortitudo Bologna: gli estensi se la giocano fino all’ultimo possesso, quando purtroppo il tiro della vittoria di Cortese si infrange sul ferro e consegna i due punti alla “Effe”. Terza sconfitta consecutiva, la classifica comincia a preoccupare, anche se in fondo la squadra è stata costruita per raggiungere una tranquilla salvezza.

Domenica 4 dicembre Ferrara affronta la trasferta di Jesi: per tutti pare essere arrivato il momento di tornare a vincere. I marchigiani arrivano infatti da sei sconfitte consecutive, e sulla carta sono nettamente inferiori alla Bondi. I tifosi ci credono e seguono la squadra anche nelle Marche. Dopo un primo tempo punto a punto, è però ancora dopo l’intervallo (così come con Ravenna) che Ferrara crolla: Jesi allunga nel terzo quarto e la Bondi non ha la forza, né fisica né mentale, per riagguantarla. Nel finale viene espulso anche il playmaker titolare Moreno. Piove sul bagnato. Nel turno infrasettimanale dell’8 dicembre Ferrara ospita Piacenza senza il suo play (squalificato due giornate) e perde Cortese dopo pochi minuti per un infortunio al ginocchio. Niente di grave ma il giocatore ovviamente è condizionato e non può esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Quella con Piacenza è ancora una volta una gara punto a punto, che viene decisa da una tripla dell’ex Kenny Hasbrouck a quattro secondi dalla fine. La Bondi perde ancora, è la quinta di fila.

Arriviamo ai giorni nostri, trasferta a Udine. Cortese non è al meglio, così come Bowers. Il match vive sulla falsa riga di quelli precedenti: squadre a contatto nei primi 20 minuti, poi Ferrara si spegne alla distanza. In terra friulana arriva la sesta sconfitta consecutiva, ma ciò che preoccupa di più è l’involuzione sul piano del gioco vistasi soprattutto nelle ultime tre partite (Jesi, Piacenza e Udine appunto). Il gioco spumeggiante delle quattro vittorie di fila non si vede più. La coppia USA Bowers-Roderick, considerata da molti una delle più forti dell’intera Serie A2, non rende come ci si aspettava. La panchina non offre molti spunti, e fino ad ora il solo Mastellari ha ripagato le attese.

La sensazione è che la coperta sia un po’ corta, la squadra infatti crolla nei secondi tempi. La società al momento non apre al mercato, si aspetta prima che coach Trullo ottenga il massimo da chi c’è già. Le potenzialità per uscire da questa crisi ci sono tutte, la squadra è la stessa che fino a un mese fa regalava prestazioni più che convincenti. L’involuzione c’è stata, è sotto gli occhi di tutti, ma questo gruppo ha le capacità per tornare a divertire. Nonostante i pessimi risultati dell’ultimo periodo i tifosi continuano a stare vicino ai propri beniamini, convinti che da un momento all’altro possa riscattare quella scintilla che faccia tornare ai giocatori la voglia di giocare per divertirsi oltre che per guadagnarsi lo stipendio.

Sabato arriva Trieste, che sia la volta buona?

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Dove lo metto? La posta dei nostri lettori…

Dove lo metto? Abbiamo chiesto ai nostri lettori in quale posto, nella coppia, preferirebbero trovare l’altra persona, a quale distanza sarebbe meglio stare o lasciare perchè le cose funzionino.
Di lato, di fronte, vicino ma non troppo, una geometria variabile in cui ciascuno ha le proprie misure e dove sembra vitale potersi spostare.
Ecco le lettere arrivate in redazione:

Tra i piedi

Cara Riccarda,
Noi possiamo stare solo di fianco. Non al mio fianco, di fianco. A volte tra i piedi.
Possiamo stare solo così, non siamo neanche allineati, qualche volta lui capisce e lo trovo al mio fianco, a volte tra i piedi.
E’ un equilibrio precario, di due persone diverse, senza interessi in comune, idee diverse, obiettivi differenti. Entrambi ambiziosi. L’unica cosa che ci unisce è la consapevolezza che l’altro ha rinunciato a parecchie cose pur di stare “di fianco”.
V.

Cara V.,
essere tra i piedi non lo trovo così negativo perchè può fare inciampare nell’altro e, per me, è sempre meglio che un cammino in solitudine. E’ l’unione in nome di una rinuncia che mi lascia perplessa, soprattutto perché tu la senti come ‘l’unica cosa’ che vi connette. La vita in due richiede di lasciare da parte qualcosa, però poi c’è sempre una compensazione, a volte si tratta solo di averne coscienza, o se preferisci, ‘consapevolezza’.
Riccarda

L’amore vero trova da sé il proprio posto

Cara Riccarda,
dopo essere stata io, per molto tempo, a cercare un posto adatto intorno ai miei uomini, prima con un padre despota e poi con un marito egoista e narciso, ho sentito la necessità di collocarmi al centro!
Poi è arrivato l’amore… quello vero, quello in cui la coppia trova da sè il proprio posto, interscambiandosi.
Il mio uomo lo voglio lì, dove posso trovarlo quando mi giro e che sa stare un passo indietro quando necessito di fare “da sola”!
Ho imparato che lo spazio vitale è molto importante e necessario, è bello condividere spalla a spalla, confrontarsi, uno di fronte all’altro…esserci ma non opprimerci!
So che alle volte è complicato e siparietti come quelli descritti da te credo siano frequenti. Trovo stancante e imbarazzante cercare di collocare il proprio uomo in situazioni dove già si sa non troverà il giusto posto! E parlo per esperienza.
Il posto giusto, secondo me, è quando non ti chiedi….Dove lo metto?
Nadia

Cara Nadia,
che bella la tua centralità che è diventata la premessa di tutto il testo. Immagino la liberazione di non dovere più cercare un posto adatto a te, di non chiederti dove sia meglio stare e con quale ruolo. Quante energie a volte buttiamo in questo affanno che non soddisfa mai nessuno.
Il non pensare a dove mi metto, secondo me, ti ha permesso di non chiederti dove lo metto, e di trovare sempre chi vuoi vicino.
Riccarda

L’amore allo specchio

Cara Riccarda,
idealmente o razionalmente vorrei che tra me e il mio uomo i posti fossero continuamente intercambiabili a seconda dei momenti e delle situazioni.
Vorrei che lui stesse un passo indietro quando mi dedico a mio figlio o quando ho bisogno di ritirarmi in me stessa per sentirmi e ascoltarmi. Vorrei stesse due passi in avanti quando ho bisogno di lui per allargare il campo della mia visuale, perché mi possa offrire prospettive diverse dalle mie e mi indichi orizzonti più lontani.
Vorrei sentirlo spalla a spalla nella condivisione della quotidianità, della vita sociale e dell’intimità, nel supporto e sostegno reciproci.
Vorrei fosse il mio specchio ogni volta che discutiamo o ci arrabbiamo, perché so che ciò che in quel momento non sopporto di lui non sono altro che parti di me che non voglio vedere o accettare.
Mi chiedo però se tutto ciò si possa realmente scegliere…al cuor non si comanda ed proprio il cuore l’unico posto dove vorrei fosse il mio uomo.
Un abbraccio
Simona

Cara Simona,
ho la sensazione che tu stia scrivendo, o meglio, descrivendo, ciò che vivi e conosci. E se è così, non è solo fortuna, è impegno, scelta, tempo per guardare verso tutti i possibili posti. Una danza continua che però ha bisogno anche di qualche pausa in cui, come giustamente dici, occorre ritirarsi un po’ per poi riprendere, magari con un altro passo e un altro ritmo. C’è una cosa su cui concordo più di tutte: la distanza che può esserci fra due persone, se non scivola nell’abisso, può diventare un’opportunità per uno sguardo più ampio.
Riccarda

Maschi dispettosi e infantili?

Cara Riccarda,
siccome spesso sono insopportabili, gli uomini è meglio lasciarli fuori dalle amicizie fra donne, a meno che non ci si trovino per caso. Credo anche che siano dispettosi come quando avevano otto anni.
Daniela

Cara Daniela,
ti rispondo con un messaggio speculare che mi ha scritto un amico, ferraresissimo, commentando il tema: l’oman l’ha da star luntan da il vostar ciacar.
Riccarda

Dove stare?

Cara Riccarda,
no, il posto fisso non c’è. Ma com’è dura capire dove stare. Spesso le intenzioni migliori vengono male interpretate, specie se vuoi lasciare quella libertà che lei chiede. O fai la figura dell’appartato o quella di chi si vergogna di lei. E quando uno ha una vita propria e deve essere anche in grado di gestire il rapporto a due, dove può collocarsi? Le invasioni di campo sono sanzionate? Tollerate? Gradite? A seconda delle circostanze?
Filippo

Caro Filippo,
un posto cristallizzato è sempre pericoloso, rischia di non essere coincidente con la persona che si assume o è confinata in quella parte. Credo che la partita vada giocata, per entrambi, con la capacità di spostarsi al bisogno, accettando anche un posto diverso, panni nuovi e perchè no invasioni di campo. Il rischio maggiore, mi pare, sia obbligare e obbligarci alla stessa immutabile posizione.
Riccarda

Un posto mobile condiviso

Cara Riccarda,
dove lo vorrei… La premessa è avere lo sguardo nella stessa direzione, ma il posto fisso no, impossibile. Se saremo capaci di guardare sempre verso la stessa meta, quando io sarò in difficoltà, lui più forte e (spero) davanti, mi tenderà la mano per portarmi al suo fianco, così farò io quando sarà lui ad avere bisogno, facendo in modo che comunque ognuno di noi percorra la strada, con le proprie gambe. Il posto fisso no e forse pretenderlo porterebbe alla fine di tutto.
Ecco, accettare il posto non fisso, penso porti a rendere più forte il legame.
S.

Cara S.,
posso dire, in questo caso, viva il precariato? Ma è più efficace come l’hai definito tu “posto non fisso” come spazio necessario alla solidità fra due persone.
Riccarda

Accanto ma non troppo

Cara Riccarda,
credo che l’importante poi in fondo non sia dove metterlo, ma come, quando e in che modo.
Mi piace pensare che la persona con cui si ha deciso di condividere questa vita ti stia vicino, non troppo, ma vicino.
Sia vicina quanto basta per camminare magari affiancati ma senza urtarsi, uno di fronte all’altro anche, ma avendo sempre un punto di vista sgombero e libero. Lo metterei accanto, ma non troppo. L’impegno è quello di mantenere quella stessa distanza, nel tempo, senza allontanarsi troppo, senza avvicinarsi troppo.
Quanto basta.
Quanto basta per essere felici indipendenti, quanto basta per stendere il braccio e afferrarlo con la mano.
Buone feste
C.

Cara C.,
il tuo quanto basta è come quello delle ricette: bravo chi lo azzecca. Ma a forza di provare poi ci si prende la mano, giusto?
Riccarda

Un cambio in meglio

Cara Riccarda,
avevo un uomo al mio fianco che, nel momento del bisogno, si metteva dietro di me. Ora ho un uomo che sta dietro di me, ma che, nel momento del bisogno, mi sta davanti.
Debora

Cara Debora,
niente male come staffetta, ma non credo sia casuale.
Riccarda

Utopie? Direi di no

Cara Riccarda,
io vorrei un uomo laterale spalla alla spalla per essere protetta, supportata, sopportata e viceversa. Di fronte per potermi specchiare e confrontarmi. Ma questa è solo utopia.
A.

Cara sfiduciata A.,
ho volutamente lasciato la tua e-mail per ultima perchè le lettere pubblicate sopra possano parlarti meglio di quanto sappia fare io.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com