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L’aveva talmente tanto amata da renderla peggiore di quanto in realtà lei fosse. Per dimenticarla, sputarla fuori e lasciarla in una parte di vita da non ripetere, l’aveva ricostruita nella sua memoria piena di difetti, moltiplicando quelli che lei aveva e aggiungendone altri, tutti quelli che lui negli altri detestava. Solo così non l’avrebbe mai più scelta.
Non la perse mai di vista, ma di lei sapeva poco, non aveva più voluto informarsi per non soffrire e continuare a reggersi su quella costruzione fittizia che ne aveva fatto. Lei era stata il solco profondo tra un prima pieno di futuro e un dopo bloccato sul niente.
Ma un giorno si imbattè ancora in lei, nei suoi occhi in cui non riusciva a trovare tutto quel male che ricordava. Erano occhi sofferenti, ma limpidi, per nulla sfuggenti e sinceri.
Iniziarono a vedersi, si presero del tempo lontano da tutto, scoprirono di essere adulti, si cercarono. Passarono quattro mesi in cui avevano dato un ritmo lieve ai loro incontri, senza gli eccessi dell’innamoramento né la freddezza di una notte sbagliata.
All’improvviso lui le disse che era meglio sospendere, fermarsi un po’.
Perchè? Chiese lei. Ci mise dieci giorni a rispondere, ma lei aveva capito: non voleva rischiare di innamorarsi ancora, non poteva andare avanti, l’aveva odiata per troppo tempo.
E in tutti quegli anni, la distanza alimentata dalla paura era diventata per lui una certezza, l’unica. Un recinto, un luogo sicuro dove non aveva fatto più entrare l’amore e in cui, fondamentalmente, non aveva vissuto. Fuori da quel perimetro che, lui diceva, gli era servito per non perdersi, c’era di nuovo lei. La ragione continuava a presentargli il conto del passato, della sofferenza che portava un solo nome. La paura della paura respingeva quella tentazione che stava sgretolando le barriere. Lei era diventata pericolosissima, da allontanare prima che fosse troppo tardi e che si mettesse di mezzo ancora l’amore.
Eppure l’aveva riscoperta migliore di come se la ricordava, era bello parlare, le ore passavano senza noia, l’istinto era rimasto lo stesso, baciarle la schiena, tenerle una mano sulla pancia, prenderla da dietro.
“Credimi, è meglio se non ci vediamo più”, le aveva detto.
“Credimi, è meglio se lasci fare alla vita che ti anticipa anche se non vuoi”, gli aveva risposto.

Vi è mai successo di sentire che la vita sta togliendo quel freno a mano che la ragione aveva imposto? Come vi siete comportati?

Potete mandare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

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Riccarda Dalbuoni

È addetto stampa del Comune di Occhiobello, laureata in Lettere classiche e in scienze della comunicazione all’Università di Ferrara, mamma di Elena.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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