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4 aprile 1877
Nasce la Banda del Matese

San Lupo è un piccolo paese dell’appennino meridionale collocato vicino al Matese, il massiccio roccioso dell’appennino sannita. In questo paesino, la sera del 4 aprile 1877, presso la taverna Jacobelli prende vita la Banda del Matese.
Quando il giorno precedente Carlo Cafiero arrivò nel Matese sembrava un uomo d’affari; con abiti eleganti e aria signorile.Tutti lo scambiano per un gentiluomo inglese in cerca di affari. Così come Carlo, anche Pietro Ceccarelli ed Enrico Malatesta erano in abito elegante quando accolsero l’ultimo arrivato.
Erano tre tra i rappresentanti più importanti del movimento anarchico italiano, riconosciuti e sostenuti anche dal Congresso di Berna. In occasione di quello stesso congresso internazionale anarchico, Cafiero e Malatesta avevano sottolineato l’importanza di un ruolo attivo sul territorio: i contadini, per quanto riportato dagli esponenti italiani, aspettavano l’arrivo di uomini coraggiosi capaci di guidarli nella liberazione dal nuovo padrone piemontese, sfruttatore come i Borboni, usurpatore e avido di tasse.

Con questo obiettivo, un gruppo di una trentina di anarchici la notte del 4 aprile si ritrova nella taverna Jacobelli decisi ad organizzare una rivoluzione. Per un caso fortuito, un gruppo di carabinieri insospettiti dall’assembramento così insolito per il piccolo paese, fece irruzione nella taverna. Il gruppo di anarchici, ormai scoperto, aprì un caotico e rocambolesco conflitto a fuoco contro le forze dell’ordine, ferendo due carabinieri e riuscendo a procurarsi una via di fuga.
Parte del gruppo riuscì a salvarsi e per due giorni vagò nei boschi dirigendosi a nord verso il vicino paese di Letino. Non immaginando di avere la fortuna dalla propria parte, la mattina dell’8 aprile, sventolando la bandiera rossa e nera al vento, la banda riuscì ad entrare in paese ed occupò il municipio.
Con il sostegno del popolo, per lo più contadini, si impossessarono di una partita di armi sequestrata a dei bracconieri. Dichiararono decaduto Vittorio Emanuele II, abolirono la tassa sul macinato e bruciarono tutti i registri sulle imposte, simbolo dello sfruttamento dei contadini. 
Esaltati dalla vittoria appena riportata, replicarono la scena durante il pomeriggio nell’adiacente comune del Gallo. Gli anarchici festeggiavano, i contadini li inneggiavano come salvatori e liberatori, ma l’euforia era destinata a durare poco.

Le forze dell’ordine arrivarono in massa.
Esercito e carabinieri erano numerosissimi, forse anche alla luce della stretta amicizia tra Nicotera, ministro degli interni, e Achille del Giudice, il più ricco e potente proprietario terriero del Matese. I carabinieri inseguirono e accerchiarono gli anarchici, dal 9 al 11 questi cercarono di resistere e scappare come potevano, senza mai aprire uno scontro a fuoco diretto coi carabinieri. Il 12 aprile, esausti da quel tentativo di fuga, gli ultimi appartenenti al gruppo si arresero e furono arrestati.

Sicuri di andare in contro alla corte marziale, i militanti anarchici furono invece sottoposti a un regolare processo, anche grazie a Silvia Pisacane. Silvia aveva 25 anni e conosceva bene quelle zone in cui si mosse il gruppo anarchico. Intelligente e sveglia sapeva di politica, custodiva gelosamente le carte del padre Carlo, del quale aveva ben chiari gli ideali. Quando il padre Carlo rimase ucciso durante la sua famosa spedizione nel regno delle Due Sicilie, Silvia ancora piccola venne adottata dal compagno d’armi Giovanni Nicotera. Proprio grazie a questa sua parentela diretta con il ministro degli interni, Silvia riuscì a far ragionare il padre adottivo. La minaccia del giudizio sommario era scongiurata. Evitata la forca per corte marziale, il gruppo avrebbe comunque dovuto affrontare un tribunale pronto a condannarli tutti all’ergastolo.

Ancora una volta la fortuna è dalla parte degli anarchici. Vittorio Emanuele II morì quasi un anno dopo, e il potere finì tutto nelle mani del figlio Umberto I. La fortuna per il gruppo fu che il popolo contadino li sosteneva a pieno e, insieme a loro, in molti nutrivano simpatia per quelle idee rivoluzionarie che ricordavano il risorgimento. Per questo il re neo-incoronato, non volendo subito inimicarsi la popolazione, concesse un’amnistia per i crimini commessi e salvò così gli anarchici del Matese.

Ancora oggi una targa è appesa sul muro del comune a San Lupo:
“Da questo luogo il 4 aprile 1877, mossero gli anarchici del gruppo di Cafiero e Malatesta, divisando un moto insurrezionale di libertà per le genti del meridione d’Italia. Un sogno di riscatto rimasto senza compimento”
(San Lupo 24.4.1998)

Ogni lunedì, per non perdere la memoria, seguite la rubrica di Filippo Mellara Lo stesso giorno. Tutte le precedenti uscite [Qui]

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Filippo Mellara

Abito a San Lazzaro (BO) e sono uno studente universitario di scienze della comunicazione. Impegnato socialmente nel cercare di creare un futuro migliore, più equo e giusto per tutti. Viaggiatore nel mondo fisico e spirituale, ritengo che la ricerca del sé sia anche la ricerca del NOI. Cresciuto tra Stato e Rivoluzione e Bertolt Brecht.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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