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Nel nostro Paese, di carcere si parla poco e male. Sembra che anche i politici preferiscano l’affermarsi di pregiudizi piuttosto che si affronti ragionevolmente il problema. Forse per paura di perdere consensi lasciando che una certa informazione faccia una cattiva educazione.

Fëdor Dostoevskij, che la galera l’aveva vissuta, diceva che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.

La situazione italiana delle carceri e dei carcerati è drammatica e indegna di un paese vivile,  ieri come oggi.

E’ di pochi giorni fa l’ennesimo allarme per il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari. Qualcuno vorrebbe costruirne altre prigioni:  per appaltare altri cantieri, non certo per risolvere il problema. L’unica vera strada è quella già indicata da Cesare Beccaria e sancita dalla nostra Costituzione. I dati sono molto chiari, quanto poco conosciuti e poco considerati: i detenuti che scontano la loro pena con misure alternative al carcere sono  statisticamente molto meno soggetti a tornare a delinquere. Una strada ancora poco seguita.  Da qui la rabbia, la disperazione dei carcerati chiusi in gabbia e le continue rivolte in questo o quell’istituto di pena

La nostra Carta Costituzionale, immaginando una giustizia operante, scommette sul cambiamento delle persone attraverso la rieducazione. La gran parte delle persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza del carcere, prima o poi usciranno, E allora quello che ci dovrebbe preoccupare è che la maggioranza delle carceri, così come sono gestite e organizzate oggi in Italia, non si sono impegnate a rieducare ed aiutare uomini e donne “ristrette” a cambiare. La recidiva del resto come pensiamo di combatterla se non così?

Non tutte le carceri sono uguali e non in tutte si fanno attività rieducative, così come sarebbe previsto. Per fortuna ci sono esempi positivi
Da questo punto di vista, nella Casa Circondariale di Ferrara esistono istituzioni, realtà associative e singoli, che intervengono per offrire diverse attività: dalla scuola all’università, dal teatro al gruppo di lettura, dalla cura degli orti al riciclaggio di apparecchiature elettriche, dal calcio al rugby, dallo yoga alla pallavolo, dal cammino veloce alla ginnastica dolce, dalla scrittura creativa, al giornale.

Una delle iniziative e di attività degna di nota. che vede una buona partecipazione tra i detenuti e che fornisce occasioni stimolanti di creatività e di confronto è quella curata dal regista Eugenio Melloni [1] con un laboratorio di cinema.

La sua è una proposta coraggiosa ed importante sia perché è una scommessa ambiziosa, sia perché può aiutare a creare consapevolezza di sé e altro ancora, nel lavoro progettuale di gruppo.

Qquando ci si mette in gioco in un’attività creativa che coinvolge anche altri, si favorisce il confronto attivo e l’assunzione delle responsabilità personali, che sono elementi cardine in un percorso rieducativo.

Eugenio non è nuovo ad esperienza simili, perché già ha realizzato l’ottimo lungometraggio Sezione Femminile nel carcere della Dozza.[2]

La sua ricerca è accurata, costante, coerente e determinata. Mi piace ricordare, a proposito di ricerca, che l’anagramma di ‘carcere’ è ‘cercare’ e, anche per questo, Eugenio si può definire un “cercatore di volenterose speranze”.

Un paio di mesi fa, ho avuto occasione di poter partecipare ad una prima visione davvero singolare. In una saletta del carcere di Ferrara, ho visto un quarto d’ora circa del nuovo lavoro di Eugenio, insieme al regista stesso, alle educatrici e ad un gruppo di persone di quella sezione, che stanno partecipando al progetto, arrivato al momento della sua realizzazione. Ho visto l’inizio del film ipotetico che si dovrebbe fare.

Sono rimasto incredibilmente sorpreso dalla capacità del filmato di rendere le emozioni, i pensieri, le paure, i bisogni dei “ristretti” in condizioni difficilissime, quali quella di non dover riprendere il viso delle persone detenute.

Il gioco di luci e ombre è suggestivo, il contrasto dei muri con il cielo provocante, i silenzi interrogano, le voci catturano.

È stata davvero un’emozione forte vivere quei pochi minuti di film; di conseguenza ho immaginato che il prodotto finito possa essere potente. Si annuncia un capolavoro, ho ragionato di primo acchito. Che va oltre l’ambientazione. Che riguarda tutti. Induce un’esperienza nuova. Senza pietismi.

Poi ho pensato che forse stessi esagerando, influenzato dall’ambiente, che si trattasse di un’impressione semplicemente personale, il cinema quante volte inganna?

Tuttavia, sono stato confortato da un commento di Pietro Montani, filosofo, critico cinematografico e professore ordinario di Estetica all’Università La Sapienza di Roma, che il regista mi ha girato:

«Carissimo Eugenio, grazie per aver condiviso con me il primo frammento del tuo nuovo film ambientato nella Casa Circondariale di Ferrara. Sono pochi minuti, ma è già evidente che essi preludono a una ripresa stilistica e, soprattutto, ad un approfondimento drammaturgico del lavoro sperimentale, molto innovativo, che avevi fatto con Sezione Femminile.

Mi rendo conto che in questo caso dovrai rispettare dei vincoli più stretti, soprattutto in termini di tutela della privacy. Ma mi sembra anche molto significativo che queste limitazioni di carattere sostanziale e giuridico alludano a un incremento dell’elaborazione creativa, a cui i protagonisti del tuo cinema sanno di poter fare riferimento: sia che si tratti dei tuoi attori, sia che si tratti del tuo pubblico.

Nello spezzone che mi hai mandato ho visto comparire, in almeno due occasioni, soluzioni formali molto spregiudicate e di alto impatto emotivo, che mi autorizzano a pensare che il lavoro che stai preparando raggiungerà risultati molto notevoli, nella prospettiva, che ti caratterizza, di un intreccio stretto tra l’aspetto artistico e l’aspetto etico e sociale del cinema.

Ti prego di tenermi informato sugli sviluppi del lavoro e fin d’ora ti comunico la mia disponibilità nella prospettiva di eventuali discussioni o presentazioni del film. Con un caro saluto, Pietro Montani.»

Un capolavoro? Perché non dovrebbe essere così? Mi viene in mente una canzone di Fabrizio De André… Del resto quanti capolavori nascono da situazioni estreme? Guerra, sofferenza, tradimenti…. eccetera, eccetera… In un pezzo del filmato si sente una voce che dice: «Se l’uomo vedesse le sbarre delle inferriate che porta dentro, avrebbe conquistato il cielo che vi si apre in mezzo

Un invito a metaforizzare il proprio vissuto per poterlo comprendere. Una chiave per oltrepassare i muri che si pensa di avere. Fuori, ma ancor più dentro ad un carcere, dove le sbarre sono la quotidianità.

A queste condizioni di riflessione, vien da pensare, per un’opera d’arte come può essere un film, svilupparsi, poterla realizzare compiutamente diventa una questione di libertà.

Eugenio mi dice che da un punto di vista produttivo, è nato un progetto destinato al Ministero di Giustizia che dà queste opportunità, ma deve avere la partecipazione del Comune, nel nostro caso Ferrara come coordinamento e controllo, senza che per l’ente locale ci siano esborsi economici.

Il regista ha chiesto a proposito un incontro al sindaco e all’assessore alla cultura. È in attesa di essere ricevuto. Quanti aneddoti conosciamo sui percorsi tortuosi affinché un’opera filmica sia realizzata? Tanti. Finiti bene o male.

Tuttavia noi che sentiamo di essere tra le persone libere, speriamo bene.

Note:

[1] Regista teatrale, documentarista e sceneggiatore. ha collaborato a vario titolo con progetti teatrali e cinematografici. Ha messo in scena Le sedie di E. Ionesco, I dialoghi di Leucò di Cesare Pavese, Pazzo d’Amore di S. Shepard e altro ancora.
Per conto della Cineteca di Bologna, in collaborazione con l’ASP Giovanni XXIII, coordina il progetto di ricerca sperimentale Il memofilm, a memoria di uomo sull’uso del cinema nei confronti di malati di demenza, film personalizzati per combattere questa malattia. Al progetto hanno collaborato, Giuseppe Bertolucci, Luisa Grosso, Enza Negroni, Igor Bellinello, Davide Sorlini. Per il cinema, ha scritto i soggetti e co-sceneggiato numerosi film.
Nel 2001 ha scritto L’accertamento, per la regia di Lucio Lunerti. Lungo il suo sodalizio artistico con Stefano Incerti per cui ha sceneggiato tre film: Prima del Tramonto (1999), presentato in concorso al Festival di Locarno; La vita come viene (2003) con Stefania Sandrelli, Toni Musante, Stefania Rocca; Complici del Silenzio (2009) con Alessio Boni e Giuseppe Battiston.
Per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D Il Volo (2010) con Ben Gazzarra e Luca Zingaretti. Nel 2011 ha curato la regia del documentario 700 anni per vedere il mare con Ivano Marescotti, Premio Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Sezione Femminile (2018), soggetto, sceneggiatura e regia e inoltre Lunetta Gamberini, (2020) regia, documentario Selezione ufficiale Festival internazionale di Salerno.

[2] Il film è nato da un laboratorio di cinema diretto dal regista nella Sezione Femminile di un carcere italiano. Non racconta direttamente questa esperienza, ma ne è il risultato. Un risultato che ci mette in contatto non solo con le condizioni concrete del vivere in prigionia delle detenute (peraltro spesso raccontate), ma con il recupero di una immaginazione forse perduta nei meandri di una tragica e stordente esperienza.

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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