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Gaetano Collotti era un bel tipo. Ufficiale di polizia, comandava le brigate nere a Trieste durante la guerra. Era un poliziotto pieno di spirito e di belle idee, soprattutto gli piacevano le donne, le partigiane erano il suo boccone preferito, quando ne vedeva una la prendeva, la portava, o se la faceva portare, nel suo ufficio e poi cominciava il giuoco preferito. Il suo giuoco preferito era la tortura: al processo per i crimini nazifascisti commessi alla Risiera di San Sabba a Trieste, una testimone, vecchia partigiana, quindi boccone preferito di Gaetano Collotti, raccontò che l’ufficiale la mise seduta alla sua scrivania, la denudò, poi aprì un cassetto e le face mettere i seni dentro il cassetto, che poi chiuse con forza sì che i capezzoli rimasero schiacciati in mezzo.
Collotti, capo della famigerata “banda Collotti”, terrore di Trieste, che era di stanza nella nota “Villa Triste”, dove si commettevano le più spietate gesta fasciste, venne giustiziato dai partigiani dopo il 25 aprile del 1945, nel suo ufficio, dietro la sua scrivania, teneva come reperto religioso un mazza da baseball, arma che era stata data a un soldato polacco, un uomo enorme, ingaggiato dai tedeschi, al quale era stato affidato il delicato ruolo di boia. Il massacratore stava dietro la porta di una cella al pianterreno della Risiera e aspettava che si aprisse la porta e fosse spinto dentro un prigioniero condannato alla morte, appena la vittima entrava partiva la grande botta del boia, una mazzata terribile in faccia e buona lì: soltanto mesi più tardi furono inaugurate le esecuzioni di massa, oddìo ancora rudimentali, i prigionieri (partigiani, ebrei, slavi) venivano ammassati dentro alcuni camion, con i tendoni ben sigillati e il tubo di scappamento con la proboscide infilata all’interno, poi venivano accesi i motori e pochi minuti dopo i prigionieri venivano estratti cadaveri. Tutti asfissiati.
I testimoni al processo raccontarono che sentivano urla strazianti, i nazifascisti no, non sentivano niente loro, avevano un delicato compito da portare a termine. D’altra parte c’erano ordini precisi in questo senso: nel ’42 il governatore dell’Istria Battisti, figlio dell’eroe, scrisse a Mussolini dicendogli che, per controbattere l’attività partigiana in quella zona c’era soltanto da “eliminare” tutta la popolazione “autoctona” e il duce rispose con un succinto telegramma: “Si proceda” (la lettera e il telegramma sono negli archivi di Stato).
Fu così che nell’isola di Arbe i fascisti rinchiusero quasi cinquemila prigionieri , soprattutto donne, bambini e vecchi, che furono lasciati morire di fame: un eccidio che la nostra storia non ricorda. Ma la nostra storia viene continuamente vagliata, controllata e aggiustata dal potere, sempre di destra. E’ un discorso lungo, lo faremo. Ma, tanto perché non si pensi che queste righe siano dettate da ideologia estremista, è sufficiente raccontare ciò che avvenne durante una festa nazionale nel 1950, quando, a Palermo, lo Stato italiano consegnò ai familiari del palermitano comandante Collotti la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Così vanno le cose.

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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