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REPORTAGE
Volti e nomi dal Mercato della Terra di Slow Food

Sabato 18 ottobre è partito a Ferrara il Mercato della Terra di Slow Food. Una trentina i produttori del territorio selezionati, alcuni saranno fissi, altri ruoteranno in funzione della stagionalità. Ogni sabato mattina, dalle 8 alle 13, ci saranno 20/25 produttori-espositori con prodotti locali.

Di seguito le foto dei banchetti di sabato scorso… (clicca le immagini per ingrandirle)

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Az. agr. bio Il X° Boattino di Sara Mantovani, Masi San Giacomo (Fe)
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Mortadella di Salumi Bonfatti, Renazzo (Cento, Fe)
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Az. Agr. Fondo Boschetto di Silvia Cavicchi, Fossanova San Marco (Fe)
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Vivaio del sole di Giuliana Artioli, Ferrara
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Pasta la Romagnola Bio di Paola Fabbri, San Biagio di Argenta (Fe)
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Miele dell’apicoltura di Riccardo Sarto, Terraviva (Fe) e Rocca Malatina (Mo)
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Az. Agr. Cuor di lavanda di Dolcetti Dario, Migliarino (Fe)
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Pescheria Edoardo, Porto Viro, Rovigo
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Il teatro del gelato di Marco Gruppioni, Sant’Agostino (Fe)
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Torrefazione Penazzi di Alberto Trabatti, Ferrara
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Riso Baldo dell’Az. agr. Giancarlo Fogagnolo, Jolanda di Savoia (Fe)
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Az. agr. Belmur, di Maurizio Murino, Masi Torello (Fe)
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Uova delle galline ovaiole ruspanti di Edoardo Poli, Quartesana (Fe)
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Pasta fresca, Casa famiglia del Fienile di Baura, Coop. Integrazione lavoro (Fe)
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Il pane ferrarese macinato a pietra del “Mulino del Po”, Ro (Fe)
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Salumeria e gastronomia dei F.lli Rizzieri, Focomorto (Fe)
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Azienda vinicola Mattarelli, Vigarano Pieve (Fe)
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Il caviale dello storione del Po di Cristina Maresi, secondo le antiche ricette de Le Occare, Runco (Fe)
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Birrificio FM di Silvia e Roberto, Località per Volano, Pomposa (Fe)
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La gente
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La gente… e non solo…

E allora esageriamo: limousine nuziale in stile Cenerentola

da MOSCA – Povera Cenerentola… sigh! A vedere una simile rielaborazione, se così possiamo chiamarla, della sua carrozza da fiaba, inorridirebbe sicuramente. Un sussulto, un singhiozzo, e, magari, pure un sudorino ghiacciato davanti a tanta opulenza, tutt’altra cosa dell’eleganza.

E’ questa la nuova limousine in stile Cenerentola, messa a punto, in Russia, su una Chrysler PT Cruiser, di moda tra le spose che la sognano, la chiedono e la vogliono per il giorno del fatidico sì. Noi siamo abituati a vedere la nostra eroina, in colori tenui, delicati, scendere le scale, verso il suo bel principe, dolce e romantica, fra il blu e l’azzurro, con una pallida luna che illumina la scena.

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Cinderella, disegno di Maria Sciarnamei

E ce la immaginiamo arrivare su una carrozza che sembra di panna e di canditi, leggera. E invece no, qui la si pensa diversamente (come su molte altre cose, d’altronde…). La Chrysler, rigorosamente bianca, modificata con forme arrotondate che ricordano una carrozza delle favole, per trasportare le fanciulle all’altare, è la nuova moda che dilaga in Russia, dove i nuovi milionari sono sempre di più alla ricerca delle estreme frontiere del lusso.

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Chrysler PT Cruiser, interni

Ecco, allora, la straripante vettura, che ostenta al suo interno un bar attrezzato, sedili in pelle contrapposti, come quelli delle carrozze, sui quali troneggia la pacchiana scritta “exclusive limo”, luci al neon e sontuosi vasi e calici di cristallo per lo champagne, probabilmente per ricordare la famosa scarpina. Il tetto è stato alzato per consentire agli sposi di uscire dalla porta in piedi. Sulle fiancate vi sono pompose e arzigogolate decorazioni floreali in rilievo e sia davanti che sul retro sono appese piccole lanterne di charme (charme?).

allora-esageriamoEsclusiva lo è certamente, forse addirittura unica, tanto da fare girare la testa a chi la vede passare lungo le strade russe, incuriosito. Tutto molto esclusivo, ma la strabiliante creazione non ha forse superato i confini del kitsch? Stucchevole, direi, ma ai posteri l’ardua sentenza…
Il sogno di tutte (o quasi) le donne è quello di avere un matrimonio da favola con un vestito da principessa, una cerimonia romantica e un ricevimento sfarzoso e pieno di amici.
Allora, Limousine, Chrysler russa, Bentley, spider o cabriolet? A ciascuno il suo. C’è anche la sposa che a Napoli, però, nel giorno più importante della sua vita, in chiesa ci arriva in autobus, a bordo del “Pollicino”, il minibus dell’Anm (Azienda napoletana mobilità).

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Napoli, bus Anm

A noi piace di più. Diverse visioni. Per rendere originale la cerimonia di nozze, l’azienda di Napoli ha lanciato la campagna “Bus Married”, mettendo a disposizione della futura moglie una delle vetture pubbliche per una giornata indimenticabile. Un pullman di linea personalizzato, con fiori, palloncini e scritte. La sposa sceglierà, ovviamente, percorso e fermate. L’importante è scendere alla fermata giusta…

LA STORIA
“At sàlut Dino, ti grànd”

Dino Sarti (Bologna, 20 novembre 1936 – Bentivoglio (BO), 11 febbraio 2007) è stato chansonnier e showman, artista di night-club e di cabaret, autore di canzoni, attore e scrittore, ma soprattutto un grande figlio di Bologna.
Il 14 agosto 1974 il Comune di Bologna, su idea del sindaco Renato Zangheri, organizzò per i bolognesi rimasti in città, uno spettacolo in piazza Maggiore, incaricando Dino Sarti di condurli verso il ferragosto. Quella sera migliaia di persone si ritrovarono in piazza per applaudire il cantante bolognese, nonostante lo scetticismo che aleggiava in città: “Me a dégh che al séndick l’è dvintè màt: fèr un spetàcuel propri incû che a Bulagna a gni è inciòn!”.
Dopo quel concerto Dino Sarti diventò ancora più famoso in città e le sue canzoni iniziarono a essere conosciute nel resto d’Italia, facilitato dal fatto che erano metà in dialetto e metà in italiano. Da “Spomèti” a “Bologna campione”, da “Tango Ibezéll” a “Viale Ceccarini Riccione”, dalla giovane che cerca “Un biglietto del tram per Stella” lungo via Indipendenza fino a “Prova d’amore”, ispirata al personaggio felliniano di Lallo, grazie a Tonino Guerra che gli aveva fatto leggere in anteprima la sceneggiatura di “Amarcord”.
La carriera dello “sciomen” petroniano ebbe inizio a metà degli anni cinquanta, quando si esibiva nelle balere e alle feste dell’Unità, smessi gli abiti di operaio metalmeccanico. Nel 1958, dopo aver partecipato alla prima edizione del Festival di Castrocaro, grazie al maestro Pino Calvi, ottenne un contratto discografico e incise il suo primo 45 giri: “Giorgio/La pasta asciutta”.
Nel 1972 collaborò con Donatella Moretti, per cui scrisse “Malgrado ciò ti voglio bene” e con Fred Bongusto, firmando i testi di “Non è un capriccio d’agosto” e “Un’occasione per dirti che ti amo”. In quel periodo si esibiva regolarmente al Derby, il famoso locale milanese.
È stato anche un interprete di cover, rigorosamente in dialetto bolognese, di brani stranieri, specialmente della scuola francese, come nel caso di “Non, je n’ai rien oublié” di Charles Aznavour, tradotta in “No, an me scurdarò mai” oppure “In dal pôrt d’Amsterdam” di Jaques Brel, autore anche di “Les vieux”, diventata “I vic’”. La sua parodia di “New York, New York” tradotta in “A vag a Neviork”, fu molto apprezzata, per non parlare di “Dormi Brel”, un omaggio al grande chansonnier belga, scritto insieme a Castellari e “Nathalie” di Gilbert Becaud. Sua la sigla dello sceneggiato tv “Il passatore”, scritta con il maestro Piero Piccioni.
A metà strada tra un cantautore e uno show man, il cantore di Bologna ha avuto il suo periodo d’oro tra gli anni ’70 e ’80, di lui Enzo Biagi diceva: “…le canzoni di Dino Sarti, hanno il sapore del pane all’olio e rispecchiano il carattere della mia gente…”.
Dino Sarti scriveva i testi delle sue canzoni, mentre le musiche erano quasi tutte di Corrado Castellari, noto per avere composto successi per Mina, Milva, Iva Zanicchi, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Stefania Rotolo e Fabrizio de Andrè (sua la musica de “Il testamento di Tito”).
Sarti era dotato di un particolare umorismo, che sapeva trasferire al pubblico, sia dal vivo sia per mezzo dei dischi; il primo dei quattro volumi di “Bologna invece” vendette oltre 100mila copie. Era insuperabile nel descrivere luoghi, personaggi, tic e stereotipi del bolognese medio. Il suo era un microcosmo di personaggi oramai relegati nella memoria di chi ha vissuto quei tempi e in qualche film di Pupi Avati.
Oltre che cantante è stato attore nello sceneggiato televisivo “Fontamara”, diretto da Carlo Lizzani, nei film “Vai alla grande” di Salvatore Samperi, e “Dichiarazioni d’amore” di Pupi Avati e in un carosello dell’Alka Seltzer, diretto da Gillo Pontecorvo (episodio: “Sala di consiglio” 1972).
Intensa anche l’attività di scrittore, iniziando da “Vengo dal night”, dove ripercorre la sua infanzia e con essa la storia di Bologna, cui sono seguiti “Il tango è imbecille?”, ”O si è bolognesi o si sa l’inglese” e “Quanto zucchero?”.
Simpatia e slanci di generosità erano una caratteristica di Sarti, per esempio Clearco, un suo fan di Genova che gli ha dedicato una pagina su Facebook, ci ha confidato di avergli scritto una lettera, ricevendo una risposta scritta e un cd “fatto in casa”, con canzoni rimaste inedite.
Per meglio comprendere lo stato d’animo del cantante bolognese, durante gli ultimi anni di vita, riportiamo uno stralcio di quanto scrisse Maurizio Cevenini (scomparso nel 2012), in occasione del funerale: “… Piazza Maggiore 14 agosto; anche lì c’ero, fresco di diploma quell’estate la passai a Bologna e il ferragosto di quell’anno fu memorabile. Erano davvero quarantamila, più della grande festa per la vittoria del referendum sul divorzio di quel 1974. Forse fu da quella sera, dalle parole di Zangheri, che Bologna stava cambiando, tre anni dopo arrivò lo schiaffo violento del ’77 che riportò tutti con i piedi per terra. Ma quella sera fu indimenticabile, tenne la scena per ore il nostro caro Dino e forse non si accorse, anche se ci furono altri appuntamenti, che la sua città il suo dialetto lo stavano abbandonando. Questa è la verità e me ne accorsi qualche anno fa quando incontrandolo, ospite di un matrimonio, mi disse che tutti i sindaci di Bologna, allora c’era Guazzaloca ma valeva anche per gli altri dopo Zangheri, lo avevano dimenticato. Lo diceva un po’ a tutti e oggi nel giorno del suo funerale guardando i muri spogli del Pantheon della Certosa ci vergogniamo. Come capita sempre più spesso con i figli di questa terra che se ne vanno in silenzio, trascorrendo lontano dalla città gli ultimi anni della loro vita. Non è stato il più grande ma certamente il più popolare cantante del dialetto bolognese. At sàlut Dino, ti grànd”.

La priorità è il lavoro. Appello a sostegno della manifestazione della Cgil del 25 ottobre

“Lavoro, dignità, uguaglianza per cambiare l’Italia”. A sostegno delle motivazioni che sono alla base della manifestazione nazionale indetta dalla Cgil a Roma per sabato prossimo (25 ottobre) è stato redatto e sottoscritto un appello di adesione da parte di trenta cittadini ferraresi che ne condividono i presupposti e invitano alla partecipazione. #tutogliioincludo
Il lavoro che manca è l’urgenza del Paese, che brucia il futuro delle giovani
generazioni e costringe milioni di persone alla precarietà. La politica del governo non
affronta questo dramma anzi da’ continuità alle politiche liberiste fin qui praticate dai
predecessori: tagli di spesa pubblica che alimentano la spirale recessiva e liberalizzazioni
del mercato del lavoro che accentuano la precarietà.
Con il Jobs Act il Governo si spinge dove non erano riusciti i governi di destra:
svuotare a fondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori incidendo così sulle tutele che
garantiscono la libertà e la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, la tutela dal
licenziamento arbitrario, la tutela della dignità professionale del lavoratore, il diritto di non
essere video-sorvegliati.
La Costituzione, che era entrata nei luoghi di lavoro con lo Statuto, ne verrebbe
espulsa.
Lo si vorrebbe fare in nome e per conto di quegli stessi lavoratori precari che non
possono organizzarsi in sindacato perché non possono godere di quegli stessi diritti,
accusando paradossalmente di non riuscire a rappresentarli un sindacato indebolito da sei
anni di recessione e da 15 anni di legislazioni liberiste!
E lo si fa utilizzando la menzogna secondo cui questi diritti sarebbero “eccentrici” nel
contesto competitivo europeo cercando così di nascondere l’incapacità politica di aggredire
le vere anomalie della situazione italiana e cioè il livello abnorme raggiunto dall’evasione e
dalla corruzione e la presenza soffocante della criminalità organizzata.
Si alimenta, a questo scopo, una frammentazione rancorosa della società giocando
pericolosamente sulla contrapposizione giovani-anziani, lavoratori attivi-pensionati,
lavoratori autonomi-dipendenti, dipendenti privati-dipendenti pubblici, lavoratori pubblici
in divisa-lavoratori pubblici in borghese … negando la funzione di ricomposizione degli
interessi propria delle rappresentanze sociali.
Con l’imposizione del voto di fiducia su una legge delega di inusitata vaghezza, il
governo compie un altro passo nella direzione della contrazione della democrazia,
impedisce la normale dialettica parlamentare, utilizza il risultato del voto per il Parlamento
Europeo come plebiscito che delegittima il Parlamento nazionale, anticipa il risultato delle
riforme istituzionali trasferendo il potere legislativo nella mani dell’esecutivo.
Una sola proposta alternativa è realisticamente in campo davanti a questa deriva
politica: la piattaforma con la quale la Cgil chiama a manifestare il 25 ottobre a Piazza San
Giovanni che rivendica un piano straordinario per l’occupazione giovanile, la riscrittura
della legislazione del lavoro per ridurre la precarietà, lo stanziamento delle risorse
necessarie a dare tutele universali contro la disoccupazione, la riunificazione del mercato
del lavoro attraverso l’estensione dei diritti a chi ne è privo, la difese delle conquiste di
civiltà.
Per questo aderiamo alla manifestazione e facciamo appello alla partecipazione.
Fiorenzo Baratelli
Guido Barbujani
Claudio Bariani
Gabriele BelcastroSalvatore Belcastro
Silvia Belcastro
Daniela Cappagli
Sandro Cardinali
Daniele Civolani
Marco Contini
Tito Cuoghi
Carmelo Damigiano
Elia Fioravanti
Giovanni Fioravanti
Monica Forti
Sergio Gessi
Alessandro Grossi
Antonio Ianni
Daniele Lugli
Paolo Mandini
Renata Patrizi
Lina Pavanelli
Mauro Presini
Valeria Sitta
Franco Stefani
Piero Stefani
Elisabetta Tampieri
Ranieri Varese
Luana Vecchi
Gianni Venturi
Emanuela Zucchini

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. L’avvocato Aliprandi: “Troppa burocrazia, poca trasparenza”

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società italiana autori ed editori.

3. SEGUE Oggi la parola passa a Simone Aliprandi, avvocato esperto in materia di diritti d’autore, specializzato in creative commons, copyleft e open source.

Perché si oppone alla Siae?
Io tecnicamente non mi oppongo alla Siae e ci tengo a precisarlo una volta per tutte. L’attività che svolgo sul tema Siae ha squisitamente un intento divulgativo e informativo. E se spesso i miei interventi si soffermano su aspetti critici del modello Siae è perché appunto questi aspetti critici stanno iniziando a raggiungere l’attenzione del grande pubblico, anche grazie ad attività di informazione come quella svolta da me e da altri colleghi. Ad ogni modo, non amo molto essere qualificato come uno genericamente contro la Siae. Innanzitutto perché essere contro la Siae in sé non ha molto senso; la Siae è un’istituzione pubblica e quindi si comporta in un determinato modo perché la legge italiana ed europea glielo consente. Poi bisogna anche dire che la Siae fa un lavoro prezioso (quello dell’intermediazione dei diritti d’autore) che qualcuno deve pur fare; che questo lavoro si possa fare con metodi più moderni ed efficienti è un’altra questione.

In base alla sua esperienza di consulente, quali sono le principali richieste o problematiche che gli artisti che revocano la loro iscrizione, o che non si iscrivono affatto, incontrano?
Una delle motivazioni più ricorrenti è di carattere banalmente economico. Essere associati o mandanti Siae ha dei costi fissi, mentre gli introiti che un autore può ricevere come proventi Siae sono commisurati a quanto le sue opere vengono effettivamente utilizzate. Ne consegue che, salvo il caso di opere di particolare successo, molti autori si trovano a versare in quote annuali più di quanto raccolgono. Da lì la legittima domanda: “Ma allora che senso ha?!”
Un’altra motivazione, che possiamo definire più tecnica, è il passaggio ad un’altra collecting society estera alternativa alla Siae. È questo il caso, ad esempio, di autori che hanno esigenze particolari, legate al tipo di mercato cui si rivolgono e al tipo di utilizzazioni che vengono fatte delle loro opere.
Infine, inutile negarlo, c’è anche una motivazione essenzialmente ideologica. La Siae, proprio a causa dei suoi punti dolenti (eccessiva burocrazia, poca trasparenza) non riscuote sempre grande simpatia tra gli utenti e questo fa sì che molti preferiscano prenderne le distanze.

Che cos’è il copyleft?
Il termine copyleft nasce negli anni 80 in seno al movimento del software libro e può essere oggi utilizzato con vari significati. Nel suo senso più ampio fa riferimento ad un modello alternativo di gestione del diritto d’autore attuato con l’applicazione di licenze che consentano la libera ridistribuzione delle opere e in alcuni casi anche la loro modifica. Le licenze più note su questo modello sono le licenze del progetto Gnu per quanto riguarda il software e le Creative Commons per tutti gli altri tipi di opere creative.

Quanto è diffuso questo modello?
E’ difficile quantificare, dato che le opere rilasciate con licenze open sono sparse per tutta la rete. Però basti pensare che, per qualsiasi ricerca venga fatta su Google, tra i primi risultati si trova quasi sempre una contenuto sotto licenza Creative Commons: cioè una voce di Wikipedia. L’enciclopedia libera che tutti siamo ormai soliti consultare è infatti uno degli esempi di maggior successo del modello copyleft. E se consideriamo che ad oggi la versione inglese di Wikipedia contiene più di 4 milioni e mezzo di articoli…

Auspica una fine del monopolio Siae dei diritti d’autore? Pensa sia possibile?
In generale i monopoli legali (cioè creati dalla legge) non sono segno di un sistema economico molto moderno. Ma c’è sempre il rischio che la liberalizzazione di un servizio faccia ancora più danni se non fatta con le dovute accortezze. Quello che auspico è che si arrivi ad una seria riflessione sulle nuove esigenze poste dai nuovi mercati digitali e globalizzati e che quindi si faccia una legge che ponga le giuste basi per un’evoluzione liberalizzata e concorrenziale dell’intermediazione dei diritti d’autore. Da un po’ di tempo si discute di una imminente direttiva europea che ponga i principi di base affinché tutti gli stati dell’Ue che ancora hanno situazioni di monopolio siano tenuti a innovare le loro normative. E vista l’inerzia del legislatore italiano in materia di diritto d’autore, l’intervento dall’alto dell’Unione Europea sembra l’unica soluzione.

3. CONTINUA [leggi la quarta puntata]

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0.

Precedenti articoli dell’inchiesta:

IL FATTO
Parole di cioccolato

Non ti dico buongiorno, ti dico Nutella. Il nuovo spot pubblicitario della famosa crema gianduia spalmabile va molto oltre le strategie commerciali che Vance Packard descrisse nel suo “I persuasori occulti”, uscito nel 1957 e ripreso nei primi anni Ottanta. Allora Packard illustrò, destando un notevole scalpore, le tecniche seduttive che volevano dimostrare i presunti effetti benefici derivanti dal consumo o dall’uso di un determinato prodotto. Eravamo però di fronte a consigli più o meno convincenti da seguire, a tentativi più o meno riusciti di orientare i comportamenti, realizzati dalle grandi multinazionali. Nel caso nostro invece siamo alla manipolazione del linguaggio, all’intervento semantico che modifica le consuetudini, insinuante e carezzevole. Molto più delle parole o del gergo che diventano modi di dire comuni e che però poco a poco spariscono.
Quindi, buongiorno si può dire Nutella, in tante maniere – afferma la pubblicità – scrivendo su una confezione un pensiero, una frase, esprimendo un sentimento verso chi ti è caro. Personalizzando il messaggio.
È sottinteso che così si comincia meglio la giornata e che tutto potrà andare bene. Se poi le cose dovessero andar male, se per esempio ci si dimentica dell’anniversario di matrimonio, o di un compleanno, o di una ricorrenza importante, o di non so che altro, niente paura: non si chiede perdono, si chiede Nutella, dice sempre lo spot. La pubblicità ci invita a cambiare il linguaggio in nome di una crema, ma insomma, la vita è comunque dolce. Che volete di più?

Ferrara vista con gli occhi
di uno studente fuorisede:
“Troppo autolesionismo,
serve uno scatto d’orgoglio”

Sono quasi dieci anni che frequento Ferrara, scolasticamente parlando, nonostante la mia residenza nella provincia di Mantova. E da quando ho cominciato il liceo, in provincia, ho sempre osservato come la tradizione dei ferraresi sia fortemente improntata sulla critica (più o meno costruttiva), sull’accusa, sulla denuncia. Tutte propensioni fondamentali in un Paese libero e democratico che, tuttavia, diventano utili davvero soltanto se orientate a una ricerca costruttiva verso il miglioramento. Invece no. Noto purtroppo che la principale forma di valutazione dei ferraresi circa il territorio nel quale vivono sia spesso frutto di un pensiero molto autolesionista, un pensiero incentrato ad evidenziare particolarmente solo i problemi e le negatività che a tutto porta meno che all’innovazione e al cambiamento della triste ed immobile situazione odierna. E pensando a ciò molto intensamente negli ultimi tempi, ormai iscritto al terzo anno di Università e dopo aver conosciuto molta gente qua residente, mi sorgono spontanee, sempre più prepotenti, alcune domande: possibile che la critica non diventi autocritica? Che non si possa cominciare a valutare non solo ciò che non va, ma anche e soprattutto ciò che di unico e fantastico è presente in questo territorio? Tra i ferraresi sembra ormai tradizione dimenticarsi della storia della loro città, che l’ha portata coerentemente a essere uno dei luoghi più unici e caratteristici non solo in Europa ma nel mondo. Ora, sono ben consapevole che il mio “sfogo” (se così possiamo chiamarlo) possa risultare inutile e frutto di pressappochismo (oltre al fatto che questo sentimento critico lo si ritrova quasi sempre anche nelle altre città) ma, al contrario, sono sempre più convinto che quello che qui serve sia un cambiamento di mentalità.
Penso a una presa di coscienza di ciò che ci circonda. Com’è possibile non valorizzare il più possibile la cultura ferrarese esaltandone i caratteri tipicamente medievali e quelli che hanno ne hanno segnato la grandezza rinascimentale? Grande meta di un turismo che approda a Ferrara quasi inconsapevole dell’antica atmosfera che si respira per le sue strade, tra le vie dei borghi e l’imponente centro storico. Com’è possibile non valorizzare la tradizione gastronomica, fiore all’occhiello di un Paese già al top a livello mondiale e proprio per questo ai vertici delle preferenze internazionali? Come si può non essere orgogliosi di vivere sulle sponde del Po, a pochi passi dal Delta e dal mare, in un paesaggio costellato di infinite campagne e terre rigogliose? E come dimenticarsi dell’università, modesta nelle (obbligate) dimensioni ma assolutamente competitiva con le ben più grandi realtà presenti in città vicine? E ancora, del suo riconoscimento di città delle biciclette, dei suoi numerosissimi festival estivi, della grande propensione all’organizzazione di eventi artistici?
Lo so, a parole è troppo semplice parlarne. Più difficile è rimboccarsi le maniche ed agire. Ma solamente ricominciando ad amare queste terre e queste tradizioni si potrà tornare ad essere stimolati, consapevoli di contare e di essere importanti. Perché quindi non sognare di tornare a vedere la Ferrara di un tempo, culla di tradizione, terra di storia, gloriosa patria estense? Una Ferrara che conta non solo in Emilia (dove sempre più viene considerata l’ultima ruota del carro) ma a livello nazionale, o ancora più in grande? Io in primis, da esterno, comincerei da qui per scrivere pagine più rosee per il futuro. Basta vedere tutto solo in negativo. Basta credere sempre solo ai complotti. Basta considerare Ferrara solamente come una città “immobile”. Per farla rinascere è prima di tutto obbligatorio tornare ad amarla e considerarla per quella che è: una città Patrimonio dell’Unesco. E se neanche il riconoscimento di questa eccellenza sarà sufficiente, allora sì che inevitabilmente bisognerà ammettere di aver sciupato, appunto, un vero e proprio patrimonio.

Nell’immagine in evidenza “Umarells” (foto di Irene Brognati)

lavoro

IL TEMA
Un po’ di chiarezza su articolo 18 e riforma del lavoro

Alzi la mano chi dal dibattito sui media ha capito cosa cambierà con il Jobs Act, la riforma del lavoro di Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Dopo l’incontro al centro sociale Acquedotto devo ammettere che comincio ad avere le idee più chiare. È stato il professor Paolo Pini, docente di economia politica presso l’ateneo estense, a diradare un po’ la nebbia che, seguendo – lo ammetto – solo il dibattito mediatico su questo argomento, avvolgeva il vituperato disegno di legge delega sul mercato del lavoro dal nome così modaiolo ed esterofilo.
Il docente ha passato in rassegna quelli che ha chiamato i quattro pilastri di questa riforma: riduzione del cuneo fiscale, politica industriale per il manifatturiero italiano e il made in Italy, ricomposizione del mercato del lavoro tramite il contratto a tutele progressive, semplificazione delle norme sul lavoro. È venuto fuori che, per quanto riguarda i primi due, nel Jobs Act è stato fatto ben poco: non si è intervenuti sulle tre voci più importanti del cuneo fiscale, cioè i contributi previdenziali e sociali a carico dei lavoratori e dell’impresa e le imposte sul salario lordo a carico del lavoratore, e la politica industriale è “materia non pervenuta, a meno che non si ritenga che politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni”, ha affermato il docente.
Ma le osservazioni più interessanti sono emerse a proposito del contratto a tutele progressive e delle correlazioni fra flessibilità, aumento dell’occupazione e della stabilizzazione dei contratti, maggiore investimento delle imprese sui lavoratori con conseguente aumento della produttività e quindi dell’efficienza. Prima di tutto, secondo Pini, il mercato del lavoro italiano non sarebbe affatto uno dei più rigidi: “Fra i Paesi industrializzati è diventato uno dei più flessibili”. In altre parole, “dato che si faceva fatica a smantellare il mercato del lavoro tutelato, si è creato a fianco un mercato del lavoro privo di tutele e poi è stato fatto crescere”, mentre l’altro si starebbe estinguendo con il tempo e i pensionamenti. Dunque, paradossalmente, della modifica dell’articolo 18 in realtà non ci sarebbe nemmeno così bisogno perché il turn over avviene sostituendo contratti tutelati con nuove forme senza tutele. Inoltre Pini ha dimostrato con tanto di dati e grafici Ocse e ministeriali che non ci sono evidenze empiriche che una maggiore flessibilità aumenti l’occupazione o la successiva stabilizzazione dei contratti, e ancor di meno favorisce la produttività, che dipende sì dalle risorse umane, ma soprattutto dagli investimenti in innovazione e formazione e dall’organizzazione del lavoro. Ad aggravare la situazione, il continuo succedersi di riforme senza monitoraggio dei risultati di quelle precedenti: si procede così a una nuova modifica dell’articolo 18, senza prima aver promosso analisi, indagini, studi di un qualsiasi tipo sulla precedente modifica a firma Fornero.
Infine una panoramica sulle attuali condizioni del mondo produttivo italiano: nonostante tutte le riforme che si sono succedute in questi ultimi convulsi anni di crisi, non c’è stato sicuramente un aumento dell’occupazione e men che meno è aumentata la produttività (ammettendo che la soluzione sia produrre di più e non produrre meglio e cose diverse).
“Ma se la flessibilità sul mercato del lavoro l’abbiamo fatta, cosa manca? – si è chiesto in conclusione il professor Pini – Manca flessibilità dentro le imprese: non abbiamo cioè lavorato sull’organizzazione del lavoro all’interno delle aziende”. In altre parole la produttività non ha nessuna relazione con la precarietà, anzi quando c’è è negativa, ma è collegata agli investimenti in ricerca e sviluppo, in formazione, all’organizzazione della produzione. Chi pensa ancora che il problema sia l’articolo 18?

L’INTERVISTA
Michael Sfaradi: “Io, scomodo reporter di guerra svelo le mistificazioni dei vostri giornali”

Reporter di guerra e romanziere, Michael Sfaradi israeliano originario di Roma, ha fatto tappa a Ferrara per raccontare la sua esperienza al fronte israelo-palestinese nei periodi più caldi degli ultimi anni. Torna in Italia un paio di volte l’anno per promuovere la sua attività di romanziere e di analista di uno dei più strategici e controversi scenari di conflitto senza soluzione di continuità, quello che più di ogni altro può determinare il destino dell’occidente e dell’Europa in particolare. Nel corso di un seguito dibattito alla Galleria Mario Piva – moderato dal nostro direttore Sergio Gessi e partecipato dallo storico ferrarese Andrea Rossi – Michael Sfaradi ha puntato il dito su quella che definisce una campagna mediatica diffamatoria nei confronti di Israele. L’informazione ufficiale, sostiene, è sbilanciata a favore dei palestinesi, non tiene conto della realtà dei fatti ma tende a mistificare gli eventi nell’interesse di un’unica parte. Un’azione che non giova né al giornalismo né al lettore, ma favorisce la disinformazione. Sfaradi non solo né è convinto, ma si batte attraverso il suo scomodo e pericoloso lavoro – che certo non gli garantisce lo stipendio – per riportare notizie vissute in diretta. E’ questione di professionalità.
Gli abbiamo rivolto alcune domande per cercare di indagare una professione difficile che coinvolge umanamente, obbliga al confronto con una realtà cruda e impone rigidi confini al proprio scrivere.

Michael Sfaradi (primo a sinistra) durante la conferenza tenuta a Ferrara alla galleria Mario Piva, con Andrea Rossi, Sergio Gessi, Monica Forti
Michael Sfaradi (primo a sinistra) durante la conferenza tenuta a Ferrara alla galleria Mario Piva, con Andrea Rossi, Sergio Gessi, Monica Forti

Il lavoro ti porta periodicamente in Italia per raccontare la tua esperienza di free lance. Quali sono i motivi che ti spingono a farlo?
Vengo a smontare pezzo per pezzo ciò che dicono e scrivono di Israele, nella maggior parte dei casi si tratta di diffamazione di un intero Stato. Lo faccio con prove alla mano, studiate da specialisti volontari che passano al setaccio filmati e immagini più visti nel mondo. Si tratta di materiale spesso costruito a tavolino o attraverso montaggi sporchi che illustro durante le mie serate. Il giornalista deve raccontare quanto vede, non deve dedicarsi alla narrazione né tanto meno deve assecondare il pubblico alimentandone convinzioni errate, più è scomodo più è fedele al suo lavoro. Lo deve fare con maggior convinzione soprattutto ora che la libertà di stampa è minata dai poteri forti intenzionati a orientare l’informazione a seconda dei propri interessi

Cosa è cambiato nella tua vita da quando hai conosciuto la guerra in diretta?
Sono cambiati i parametri di rapportarsi con la vita, cose prima fondamentali passano in secondo piano, gli orizzonti diventano diversi anche per quanto riguarda il proprio privato.

Di recente hai realizzato una serie interviste particolarmente significative, tra cui quelle a Israel Hasson dello Shin Bet, i servizi segreti di controspionaggio israeliano oggi deputato del partito Kadima; a Noam Shalit, padre del caporale dell’esercito Gilad Shalit sequestrato da Hamas poi liberato; a Bat Ya’or, autrice dei libri “Eurabia” e “Verso il califatto universale” nelle quali descrive le strategie islamiche nei confronti delle democrazie Rahel Frenkel, madre di uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi dai terroristi di Hamas in giugno.
Quali si sono trasformate in un vero e proprio incontro?
Ognuna è un incontro, c’è sempre un contatto umano indispensabile per mettere a proprio agio l’intervistato e liberarne le risposte permettendogli di raccontare la sua verità, un’intervista ben riuscita sta nella completezza delle risposte. Ovviamente ci sono interviste ostili, in quel caso finisce in una litigata.

Quali sono i limiti del reportage di guerra?
E’ rappresentato dalle redazioni, da come adattano le notizie, per questo il reporter non solo deve esporsi il più possibile durante il suo lavoro, ma deve assicurarsi sia pubblicato senza tagli, altrimenti può anche stare a casa. Chi sente l’odore di cordite, vede i luoghi degli scontri, i morti, chi suda nel giubbotto antiproiettile, che è blu e non verde come si scrive erroneamente, deve pretendere la salvaguardia dell’integralità dei propri articoli.

Tra gli analisti dello scacchiere mediorientale chi è il più vicino alla tua visione dei fatti?
Maurizio Molinari de ‘La Stampa’ è quello che certamente ha capito come stanno le cose. I suoi report dalla striscia di Gaza sono i più onesti anche se non mancano piccoli adattamenti su alcune specifiche notizie.

Come pensi evolverà la crisi mediorientale e cosa comporterà?
A Gaza nel peggiore dei modi. Gli aiuti concessi, 5 miliardi e mezzo di dollari, finiranno con il finanziare una nuova guerra contro Israele. Da Hamas non si è preteso nulla in cambio, non è stato chiesto né il rispetto del cessate il fuoco, né di sospendere gli atti terroristici, anzi è ripresa la produzione di missili e si continuano a scavare tunnel per fare irruzione in Israele. Anche se la trattativa politica dovrebbe essere la cosa migliore per cercare di imboccare la via della pace, la possibilità è sempre più remota: Hamas e Fatah non sono disponibili, l’indipendenza della Palestina prevede per loro stessa ammissione la distruzione di Israele.

Pochi giorni fa in Gran Bretagna è stata approvata una mozione laburista con cui si chiede il riconoscimento dello Stato Palestinese cosa ne pensi?
La notizia è uscita parzialmente, si è omesso di riferire l’intero contenuto della richiesta che prevede degli obblighi dei palestinesi verso la comunità internazionale tra cui la rinuncia alla distruzione di Israele. Tra l’altro la mozione è passata alla presenza di soli 270 dei 646 membri del Parlamento britannico, se i numeri fossero stati diversi le cose, con tutto probabilità, sarebbero andate in un altro modo. Queste iniziative non fanno bene alla diplomazia, si dimentica che mancano le condizioni previste dall’Onu affinché possa nascere uno stato palestinese. Quella britannica è stata una decisione dannosa per le trattative di pace, l’Europa dovrebbe fare da garante, essere super partes, invece rischia di perdere la sua affidabilità mostrandosi più incline verso una parte degli attori. Dispiace assistere alla mancanza di analisi politica e dei fatti, non si può ignorare che in mezzo a tanti fuggiaschi dalla guerra ci sono anche terroristi in erba diretti in Europa, non è un bel sintomo. Le prove generali di quello che succederà lo abbiamo già visto in Francia con la ribellione delle banlieux l’Europa sarà colta impreparata perché non sa o non vuole vedere le cose come stanno.

Per info: www.michaelsfaradi.it

Il vetro dinamico: l’edificio camaleonte e il futuro virtuoso dell’architettura

Attribuire un significato etico alla funzione del “vetro” nel terzo millennio, simbolo dell’architettura contemporanea verticale estrema, può risultare una tagliente provocazione. Può sorprendere, infatti, come l’eterea leggerezza e la trasparenza di questo materiale ormai associato all’high-tech costruttivo e alla sfida al cielo, possano essere coniugate alla concreta e non più negoziabile sostenibilità.
L’aurea del “vitrum”, a cui la millenaria storia dell’architettura ha riservato uno spazio predominante, come quando nelle scintillanti vetrate delle cattedrali gotiche significava “stupore e fede”, oggi rappresenta ancora un riferimento unico nelle modalità tecnologiche applicate al risparmio energetico, alla produzione di energia dal sole e nel prossimo futuro influenzerà, come vedremo, i nostri comportamenti quotidiani.
Il vetro, nelle sue multiple rappresentazioni, è oggi il protagonista della modernità nelle grandi metropoli, nel design ardito, nell’innovazione, nella ricerca più avanzata. Nel 1931, scriveva a tal proposito Albert Eistein: “La preoccupazione per l’uomo e il suo destino deve sempre costituire il principale obiettivo di tutti gli sforzi tecnologici […] affinché le creazioni della nostra mente siano una benedizione e non una maledizione per il genere umano. Non dimenticatevi mai di questo nel mezzo dei vostri diagrammi e delle vostre equazioni.” (Mario Livio, “L’equazione impossibile”, Rizzoli, 2005).
Un appello raccolto dai dipartimenti Ricerca e sviluppo dell’industria vetraria che, grazie ai loro “diagrammi ed equazioni”, con un grande balzo tecnologico in avanti e dopo otto secoli dall’Officina di Chartres, ci consentono di perseguire nell’architettura delle costruzioni gli obiettivi comunitari del piano di salvaguardia ambientale ed energetico 20-20-20 e quelli più severi ipotizzati per il 2050.
Un obiettivo inscindibile e inderogabile quello della riduzione dei consumi e delle emissioni in atmosfera, frutto di una nuova sensibilità: Innovazione, Sostenibilità, Salvaguardia ambientale, nella sintesi una forma di “responsabilità sociale concreta”, possibile anche grazie ai giganteschi investimenti immessi nella ricerca dai grandi gruppi mondiali produttori di vetro.
edificio-camaleonteOggi il “fabbricato camaleonte”, ossia l’edificio che si trasforma in base al tempo e al sole, sogno e desiderio di tutti gli architetti di questi ultimi duecento anni e fino ad ora mai realizzato, è una realtà a portata di mano.
E`stupefacente: fondere le peculiarità intrinseche del vetro ai comportamenti selettivi dei metalli applicati in superficie, utilizzando come catalizzatore del sistema l`insieme delle più recenti ed estreme tecnologie e nanotecnologie. Le tecnologie di deposizione su vetro di oltre quindici strati sovrapposti ultrasottili di metallo e di ossidi metallici, per un totale di non piu`di 6/700 angström, consentiranno “le applicazioni dinamiche” indispensabili per bilanciare energeticamente le dilatate trasparenze delle nostre auto, delle nostre residenze a sviluppo orizzontale e verticale, credute spesso potenziali “macchine iperenergivore”, grazie alla disponibilità sul mercato di un ultimo concetto funzionale di nuova generazione che oggi identifichiamo come famiglia dei vetri cromogenici.
Nella sostanza, vetrazioni che modificano il proprio stato di trasparenza alla lunghezza d’onda del visibile e all’infrarosso (principio di selettività), attraverso processi chimici o fisici reversibili quando esposti alla luce solare o alla variazione della temperatura superficiale, oppure quando sottoposti ad un impulso elettrico, quando condizionati dalle temperature superficiali e abbinati a liquidi polimerici aggiunti alla vetrazione. Da oggi, e nel prossimo futuro, potremo avere fabbricati cangianti ma soprattutto, in alcune versioni, le partizioni in vetro della nostra abitazione o dei nostri uffici che vivono insieme a noi nella mutevolezza della giornata e al clima delle stagioni, cambieranno “il proprio status di trasparenza” attraverso il touch-screen di uno smartphone.

Di seguito, in sintesi, le diverse tipologie di prodotto di questa famiglia, riferibili alle tecnologie elencate sopra, nella modalità autoregolante o indotta da comandi esterni: vetri fotocromatici (alcuni componenti minerali del vetro reagiscono in modalità fotochimica e reversibile alla componente Uv dello spettro solare; quando esposti alla luce i vetri si scuriscono e al buio riacquistano la trasparenza; vetri termocromici (modificano la loro trasparenza allo spettro solare, sulla scorta della variazione di temperatura sulla loro superficie esterna); sono assimilabili a questi le tipologie di vetri gascromici o termotropici.
Ma dove la sperimentazione e la ricerca hanno fatto passi enormi, rendendo disponibile il prodotto dal laboratorio al pubblico in tempi brevissimi, è la tipologia dei vetri elettrocromici dinamici. Due le tecnologie disponibili: una a cristalli liquidi e una a strati metallici sovrapposti in sequenza. Entrambe modificano la trasparenza della vetrata allo spettro solare quando sottoposte ad un impulso elettrico a bassa tensione, quando comandato manualmente attraverso un potenziometro o un comando remoto, oppure con un telefono, se necessario può essere integrato nel sistema di controllo energetico del fabbricato. Si possono comandare al momento fino a quattro diverse trasparenze alla luce, coincidenti con altrettanti carichi di soleggiamento oppure condizionabili alla frequentazione degli ambienti, ma senza mai perdere il controllo delle immagini all’esterno. Una sofisticazione ulteriore del sistema dinamico è possibile attraverso l`integrazione di celle fotovoltaiche nel sistema, che consentono di captare l’energia necessaria per alimentare il sistema elettrico di modulazione necessario per regolare la dinamicità della vetrazione.
Non tarderanno le applicazioni in larga scala di questi innovativi e rivoluzionari prodotti in vetro cromogenico dinamico, ricchi di una forte caratterizzazione sociale. Si modificherà il nostro comportamento nel privato: abitazioni e autovetture verranno utilizzate con minori sprechi di energia e, nel contesto pubblico, ottimizzeremo al meglio i consumi negli uffici, negli ospedali, nelle scuole, aumentando il comfort negli ambienti, con la consapevolezza di un agire quotidiano integrato al meglio nel processo di miglioramento del collettivo, connesso alla natura, più responsabile, sostenibile ed etico.

marco bonora info@studiodelvetro.it www.studiodelvetro.it

IL FATTO
Interrogare la memoria. Studenti ferraresi in viaggio per Auschwitz

Sono partiti oggi i ragazzi del liceo artistico Dosso Dossi e dell’istituto tecnico Aleotti coinvolti nel progetto “Viaggio e Memoria: tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz”.
Il viaggio, che durerà fino a sabato 25 ottobre, conclude un percorso frutto della collaborazione fra i due istituti superiori ferraresi, l’Istituto di storia contemporanea e il Meis-Museo dell’ebraismo italiano e della shoah, che ha permesso ai ragazzi di approfondire le tematiche storiche della dittatura fascista e dell’olocausto, ripercorrendo le vicende della propria città e dei suoi cittadini di fede ebraica in quegli anni travagliati.
I ragazzi viaggeranno in pullman, ha spiegato Anna Maria Quarzi – direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara – nella conferenza stampa di presentazione, “perché ripercorreremo il più possibile le tappe del terribile viaggio degli ebrei ferraresi verso il campo di Auschwitz-Birkenau”.
Tornano alla mente le riflessioni che, da alcuni anni a questa parte, alcuni studiosi della storia e della memoria della Shoah, ma anche studiosi della storia dell’ebraismo ed esponenti della comunità ebraica fanno a proposito dei viaggi della memoria, dei luoghi della memoria e delle giornate celebrative. In un’intervista a Repubblica del gennaio 2014, Anna Foa ha parlato del rischio di “diventare professionisti della memoria” e, a proposito delle visite al Museo di Auschwitz, ha confessato “Sentire la spiegazione didascalica della guida mi ha dato fastidio. I luoghi hanno una loro forza sconvolgente perché evocano ciò che è accaduto”. La retorica non funziona, troppe complessità, troppi interrogativi. Per questo, ha continuato la studiosa in quell’intervista, “è sbagliato somministrare ai ragazzi una doccia di memoria dall’alto, come fosse una medicina”.
Qui sta il pregio del lavoro che hanno affrontato i ragazzi ferraresi insieme con i loro insegnanti, è tutto nella parola greca istoría, che significa ricerca, conoscenza attraverso l’indagine. Questo viaggio arriva, infatti, a conclusione di un lungo percorso di approfondimento che ha calato le vicende storiche nei luoghi che loro conoscono, nelle vie, nelle piazze e fra i banchi che frequentano ogni giorno. Una conoscenza affiancata dalla richiesta di riflessione e di rielaborazione personale non solo della storia e della memoria di quegli avvenimenti, ma di ciò che significa la memoria nell’esperienza di ciascuno di loro. Da qui la mostra del gennaio scorso, realizzata a partire da un concorso indetto fra gli studenti delle scuole medie e superiori della provincia, e allestita dai ragazzi del liceo artistico presso le sale del Meis in via Piangipane e lo spettacolo teatrale ideato dagli studenti dell’istituto tecnico. Viaggio e Memoria tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz ha insomma il pregio di non considerare la memoria un rito consolatorio, una narrazione del passato senza alcuna incrinatura, ma uno strumento per costruire il futuro a partire dalle proprie radici, senza temerne gli aspetti più ambigui. Per questo il titolo del concorso che darà vita alla mostra di quest’anno è Le radici del futuro. Tracce, parole, segni.

L’INTERVISTA
Uno spritz con Nabokov
e De André: al tavolo
del bar buona musica e bookcrossing

Bookcrossing, una pratica in voga, che difficilmente però si associa a un bar. Fa eccezione il Bar91 di via San Romano. Qui lo scambio di libri è un’abitudine: fra un caffè e uno spritz chiunque può entrare e lasciare un libro, in una piccola libreria pronta ad accoglierli, fra le bottiglie e i sandwich che stanno dietro il bancone del locale. Clemente Gandini ne è il proprietario.

Come e quando ti sei avvicinato al bookcrossing?
L’ispirazione nasce da un piccolo locale a Ghiare di Berceto, in Val di Taro. Era pittoresco: nella saletta di una piccola stazione ferroviaria c’era questa libreria aperta e completamente libera, in cui chi passava poteva prendere un libro e lasciarne un altro. L’idea mi colpì anche visivamente, oltre a darmi lo spunto di poterlo fare, in un futuro non lontano. E così è stato.

Quali iniziative avete adottato per coinvolgere le persone e farvi conoscere?
Un paio di settimane fa abbiamo fatto questo esperimento: da mezzogiorno a mezzanotte, per ogni libro che ci veniva portato in dono da aggiungere alla nostra libreria, noi offrivamo un caffè. Abbiamo intitolato questo appuntamento “Un caffè per un libro”. Per l’occasione avevamo ideato e distribuito segnalibri disegnati da Marco Jannotta, artista ferrarese e amico. L’iniziativa ha avuto successo e abbiamo in programma di ripetere questa esperienza, magari periodicamente, battezzando un determinato giorno della settimana una volta al mese.

C’è una prevalenza di genere, tra i libri che vengono portati?
C’è grande eterogeneità di testi, tra narrativa e saggistica, e libri per tutti i gusti: da Lolita di Nabokov (in una fantastica prima edizione, ndr) a Storia degli Stati Uniti di Allan Nevins e Henry Commager, da Niente di vero tranne gli occhi di Giorgio Faletti a Cronache italiane di Stendhal, passando per la popolare trilogia Cinquanta sfumature di Ellroy. Poi Buchi neri e universi neonati di Stephen Hawking, Pagine gialle di Forattini, W l’organizzazione di Townsend. C’è persino un libro in russo (Le profezie di Nostradamus) e qualche testo sulle fate in inglese. E l’elenco è molto vasto, siamo a quota 90 libri circa. Questa ricchezza rispecchia anche la grande varietà e mescolanza umana delle persone che entrano: studenti universitari, clienti del bar, giovani e meno giovani, appassionati e curiosi.

C’è qualcosa che accomuna le persone che entrano qui attirate dall’iniziativa?
Alla base esiste un profondo senso del dono. Non c’è ritorno economico di nessun tipo; nessuno dei libri che vedi è stato acquistato né sarà venduto. Sono tutti regalati, arrivati, piovuti; e non abbiamo notato mai leggerezza o superficialità in chiunque si avvicina all’iniziativa, né, viceversa, eccessivo attaccamento all’oggetto che potrebbe caratterizzare un bibliofilo. A volte qualcuno entra e chiede quasi con timidezza “Posso lasciare un libro?”, come a chiedere se qualunque opera sia bene accetta. E lo è, naturalmente. É il senso di condivisione alla base del tutto, e naturalmente grande passione per la lettura, la letteratura e i libri in generale. Nella prospettiva di un ingrandimento della libreria, abbiamo intenzione di applicare anche un timbro per identificare un libro che passa per i vari luoghi che ha toccato nel proprio viaggio, in modo simile al codice unico con cui vengono identificati volumi appartenenti a uno stesso circuito tipico del concetto di bookcrossing, come se si potesse tracciare la rotta seguita dal libro nel suo viaggio.

Non vi occupate solo di letteratura ma anche di arte. Da dove arrivano i bellissimi quadri?
Nel corso di questa edizione di Internazionale a Ferrara, in collaborazione con Zamenhof Art e Ferrara Art Festival esponendo opere di Fiorenzo Bordin, Mario d’Amico, Ivo Stazio e Marica Zorkic, dal titolo “Istantanee di una città immaginata”, i cui quadri sono ancora esposti nel nostro locale. Per Racket Festival, serie di mostre al Palazzo della Racchetta durante tutto il mese di settembre e la prima settimana di ottobre, abbiamo curato il servizio bar.

Accompagnati dalle note di Fabrizio de André la sciamo questo singolare bar: la musica d’autore ne conferma la vocazione culturale e alternativa.

LA STORIA
Ritratto di amiche

Sono sedute una di fronte all’altra, non si vedevano da tempo.
Che piacere rincontrarsi dopo tanti anni. Tante vite sono passate sotto i loro occhi e pensieri, tante gioie e tanti dolori, tanti amici e tanti nemici, tanti successi e tante delusioni. E poi gli amori iniziati e finiti, i figli nati e partiti lontani, i lavori terminati e perduti, i baci regalati e rubati, gli anni che sono passati. Tania e Anna si abbracciano, si baciano sulle candide guance, si accarezzano i capelli curati, morbidi e lucidi, lasciati liberi dai loro copricapi invernali già necessari per la prima neve. Vestite di stelle, si sono date appuntamento in una sala da tè moscovita, dall’atmosfera molto retrò e liberty, se non altro perché li’ parla e si mangia francese. Chez Paul, il classico nome che si ritrova un po’ ovunque a Parigi o in altra città della Francia. La musica in sottofondo è quella della colonna sonora di W.E., di Abel Korzeniowski, un vero genio delle note e della loro armonia.
Una musica del ritorno, dell’amore complicato, dell’amicizia ritrovata, del legame oltre la vita. Quella musica che proprio ora mi sta ispirando, che mi porta in questa scena finemente colorata, dai dolci sapori del miele e dei macaron, del tè al gelsomino e delle zollette di zucchero di canna a forma di cuore e di pulcino. E’ quasi una scena d’altri tempi.
Intorno ci sono note, dolcezza, spensieratezza, libertà, voglia di vivere e amicizia.
I giornali appoggiati sui tavolini lasciano intravedere la pagina degli spettacoli, balletti, concerti ma anche esposizioni e spettacoli del circo. La parte degli annunci presenta alcuni cerchi, marchiati a inchiostro rosso intenso, su annunci di scambi di amicizia e di conversazioni russo-francese. Sono stropicciate, perché vissute, studiate, lette e rilette, consumate dalla ricerca di qualche cosa. Chissà se accarezzate trepidando o se scartate con impeto, distrazione, rabbia.
Tutto lì dentro sa un po’ di attesa.
Alle pareti ci sono immagini in bianco e nero della Parigi degli anni trenta, qualche riproduzione di foto di Henri Cartier Bresson; ci sono poi anche ritratti che ricordano i bei lineamenti delle donne degli impressionisti. Una pare proprio la bella e dolce Jeanne Samary, di Auguste Renoir, che, oggi, se ne sta tranquilla nelle enormi e luminose sale dell’Hermitage.

chez-paulTania e Anna si guardano, si possono specchiare ciascuna negli occhi verdi trasparenti dell’altra, hanno visto talmente tanto spesso le stesse cose che ormai si assomigliano. Hanno quasi la stessa espressione, lo stesso colore di occhi, gli stessi vestiti, lo stesso cappellino, la stessa gonna, gli stessi stivali, le stesse rughe, le stesse espressioni.
Quasi fossero allo specchio. E stasera lo sono davvero, senza schermi né difese. Si parlano, si capiscono, si sono perse di vista negli anni ma si sono ritrovate oggi, cambiate ma uguali.
La vita non è poi così diversa, ci sono sicuramente delle varianti, ma la sostanza resta la stessa, per tutti. Tania e Anna continuano a parlare, si sorridono, si commuovono, si confessano. Come le amiche di sempre, quelle che sono state e che sono rimaste. E, dolcemente, si guardano allo specchio. Riflessi di luce si diffondono nell’aria leggera profumata di caramello e di tiglio. Bello ritrovarsi, senza più distanze né troppe speranze. Lo specchio parla da sé.

I caldi colori del romantico autunno

da MOSCA – L’autunno, iniziato ufficialmente Il 23 settembre, è ormai nella sua piena maturazione. Stagione romantica, di foglie che cadono, di colori caldi e avvolgenti. Ci sono il marrone, il beige, il giallo e il verdino spento, ma anche il rosa delle luci delle case che rimbalza sui vetri come in un colorato e felice caleidoscopio. Gli alberi si spogliano, fanno cadere i vestiti secchi pronti per il prossimo rigoglio primaverile, quando ci sarà la nuova rinascita. Alcuni si addormenteranno nel lungo e rigido inverno, altri intrecceranno i loro rami secchi in un lungo e forte abbraccio che li scalderà. Perché l’unione farà la forza.

com-autunno-alberi-fogliecom-autunno-alberi-foglieI bambini nelle scuole prepareranno orsetti e spaventapasseri da ritagliare, alberi, cornici e copertine da colorare, lavoretti per i genitori e i nonni, magari già pensando al Natale. E poi ci sono uva, mele, castagne, mandorle, noci, cachi e clementine. L’odore dei mandarini sbucciati. Cestini di frutta secca e ghirlande di pigne autunnali.
Spuntano cappotti, cappelli, guanti e sciarpe, soprattutto qui a Mosca, dove inizia già a fare freddino. Da un palazzo antico si sente suonare l’omonima stagione di Vivaldi. Le note leggere di pianoforte accompagnano le passeggiate di chi va a zonzo per la città.

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Mosca, autunno 2014
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Mosca, autunno 2014

Per molte culture, l’Equinozio d’autunno è un giorno di celebrazioni, un momento speciale nel quale le forze di luce e tenebra sono in perfetto equilibrio. Anche per noi è un passaggio importante, un tempo per la meditazione, per rivolgersi all’interno, durante il quale la separazione tra visibile e invisibile si assottiglia fino quasi a scomparire. Nella memoria delle antiche popolazioni celtiche, l’Equinozio autunnale veniva festeggiato col nome di Mabon: il giovane dio della vegetazione e dei raccolti. Indicato col nome di Maponus, nelle iscrizioni romano-britanne, è il figlio di Modron, la Dea Madre: rapito tre notti dopo la sua nascita, fu imprigionato per lunghi anni fino al giorno in cui venne liberato da Culhwch, cugino di Re Artù. Il suo rapimento è l’equivalente celtico del rapimento greco di Persefone. Nell’antica Grecia si celebravano i Grandi misteri eleusini, che rievocavano appunto il rapimento di Persefone, figlia della dea Demetra che regolava i cicli vitali della terra, condotta agli inferi dal dio Ade che ne fece la sua sposa. La leggenda racconta che Demetra, come segno di lutto e fin quando non riebbe sua figlia, rese impossibile il germogliare delle sementi e delle piante e sterile la terra. Ogni autunno si rivive il sacrificio degli dei che, dopo le gioie e le glorie amorose della primavera e dell’estate, dopo aver dato con la massima potenza fecondante i frutti a tutti gli esseri viventi, sono costretti a declinare nel buio della Terra. Che però resta casa, ventre, madre, riparo accogliente.
L’equinozio è anche il tempo del seme, delle radici officinali, delle potature, del compost e dell’acqua. In Francia, dal 1793 al 1805, questo giorno divenne il Primo dell’anno e in Giappone ancora oggi è una festività dedicata agli avi e alla famiglia.
Da poco passato l’equinozio, passeggiamo fra i colori, sapendo che i posti più belli in questo momento dell’anno sono sicuramente Canada e Giappone, ma che noi siamo qui. Contenti, comunque, di poter respirare una fresca aria di casa, sotto le stelle.
E allora, benvenuto dolce, timido, caldo e sereno autunno.

Foto di Simonetta Sandri

In occasione dell’arrivo dell’’autunno il New Yorker ha selezionato 40 sue bellissime copertine autunnali. Il settimanale statunitense è celebre anche per la bellezza e varietà delle sue copertine. Tra queste, alcune traggono spunto dagli elementi classici dell’autunno: foglie secche che cadono al suolo, alberi spogli, nature morte, quasi tutto in tinte virate all’arancione. Ce ne sono anche altre, però, che reinventano gli stessi elementi e ci aggiungono un po’ di fantasia, come quella del 12 settembre del 1994, con impiegati in giacca e cravatta che camminano sui trampoli con le loro valigette, mentre alle loro spalle si staglia lo skyline di New York [vedi].

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. Andrea Caovini: “Il monopolio è anacronistico”

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società italiana autori ed editori.

2. SEGUE Nella prima parte del nostro viaggio Sara “Dagger Moth” Ardizzoni ha illustrato le ragioni che l’hanno indotta a cancellarsi dagli elenchi della Siae. Oggi parla Andrea Caovini, musicista e attivista per la tutela della musica originale.

Di cosa ti occupi e quali sono le ragioni delle tue critiche alla Siae?
Come occupazione principale faccio il musicista e l’organizzatore di eventi di promozione per la musica originale, non sono iscritto Siae ed il dissenso nasce proprio dall’ingerenza della Siae nei riguardi dei miei eventi personali, con richieste secondo me indebite.

Qual è la tua posizione nei confronti della Siae e del diritto d’autore?
La Siae ed il diritto d’autore sono spesso trattati come argomenti complementari, ma non lo sono. Il diritto d’autore nasce con la creazione di un’opera, non con l’iscrizione della stessa alla Siae. La Siae ha il compito principale di raccogliere e ridividere i proventi derivanti dall’utilizzo di opere, se ciò non serve perché il giro d’affari è tale da essere curato direttamente dall’autore la Siae è oltre che inutile dannosa e rappresenta un costo al posto di un ricavo…

Secondo te come dovrebbe essere regolamentato il diritto d’autore?
L’autore deve avere piena disponibilità del suo diritto, quindi deve essere libero di gestirlo secondo sua coscienza, regalarlo quando vuole e lo reputa giusto, farselo pagare caro quando caro quando lo ritiene opportuno, quindi il mandato a Siae deve poter essere adattato all’uso.
Ancor meglio sarebbe se il diritto fosse gestito in un mercato di libera concorrenza. Faccio un esempio: in un evento in beneficenza vogliono usare una mia canzone come sigla, la regalo. La vuole la Bmw per una pubblicità, voglio un milione di euro. Mi piace l’operato della Siae in merito ai diritti televisivi ma non in merito agli eventi di musica live, vorrei poter dare loro mandato solo per ciò che apprezzo del loro agire.

Al momento si possono fare scelte selettive come tu auspichi?
Sì, si può sia limitare il mandato alla Siae, escludendo ad esempio i live dai loro compiti di riscossione, sia iscriversi ad una collecting estera: costano meno, a volte hanno iscrizioni una tantum e non annuali e soprattutto sono obbligate da statuto a reinvestire nella musica parte dei proventi in diversi casi. Il problema rimane in parte in quanto in Italia anche se io sono iscritto alla società francese o spagnola è sempre la Siae ad occuparsi della riscossione con delega da parte delle società estere, quindi, vuoi o non vuoi, parte dei miei soldi le passerebbero comunque per le mani.

Periodicamente ritorna in circolazione la notizia secondo la quale il monopolio della Siae sarebbe finito, è vero?
Il monopolio della Siae non può finire se non cambia la legge 633 del 1941 che glielo concede. Al tempo stesso nessuno vieta ad un cittadino dell’Unione Europea di utilizzare i servizi di uno qualsiasi degli stati membri, quindi a tutti gli effetti il monopolio non esiste più.
Quella notizia che dal 2012 ci passeggia intorno cambia o cambierebbe di poco lo stato delle cose. Fermo restando che la revisione di una legge del 1941 di stampo fascista e che detta un monopolio è necessaria quanto è anacronistico il suo contenuto.

2. CONTINUA [leggi la terza puntata]

 

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Nella foto di Werner Swan, il musicista Andrea Caovini

Precedente articolo dell’inchiesta:
Dagger Moth, un’artista ferrarese che ha revocato l’iscrizione alla Siae

LA RIFLESSIONE
Le tecnologie digitali e il reddito di cittadinanza

La crisi ha riportato in auge uno spettro che ha accompagnato lo sviluppo industriale: il timore che la tecnologia, le macchine, possano distruggere il lavoro e l’occupazione, lasciando fasce di popolazione in balia della miseria. Fino a qualche anno fa si guardava con sufficienza alle rivolte dei luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo, ritenute, a ragione, infondate e basate su paure irrazionali. Oggi, il dubbio che le nuove tecnologie digitali, pur garantendo sviluppi ancora oscuri ai non esperti, possano anche distruggere occupazione in modo irreversibile sta prendendo nuovamente piede ed appare, anche ad autorevoli esperti, una prospettiva assolutamente probabile, per non dire quasi certa. Effettivamente, negli ultimi due secoli, la tecnologia ha grandemente contribuito a spostare milioni di persone dal settore agricolo a quello industriale e poi, da questo, a quello dei servizi. Ora, le nuove tecnologie digitali, in rapida diffusione, hanno alcune caratteristiche distintive rispetto alle tecnologie che hanno animato la rivoluzione industriale: da un lato, esse si reggono su una gigantesca infrastruttura fisica tangibile, dall’altro, sono sempre più spesso in grado di simulare e riprodurre operazioni che, fino a poco tempo fa, si pensava fossero attributi del cervello e patrimonio esclusivo della cognizione umana. Superata questa soglia, messo sotto esame il comportamento del cervello, agganciato stabilmente il comportamento umano alle applicazioni tecnologiche, si aprono scenari che, ad un tempo, esaltano e preoccupano. La domanda diventa dunque quanto mai attuale: la tecnologia digitale crea o distrugge lavoro? Oppure semplicemente lo trasloca spiazzando quote crescenti di popolazione che rischiano così di essere espulse dai processi di consumo e di creazione di valore?

Lasciamo un attimo in sospeso questa domanda per analizzare brevemente il nostro rapporto con queste tecnologie ed alcune conseguenze che ne derivano. In questo preciso momento ognuno di noi è connesso ad un dispositivo digitale collegato in rete (altrimenti caro lettore non potresti leggere questo articolo). Per il semplice fatto di essere connessi stiamo fornendo informazioni al sistema: lo facciamo quando telefoniamo da qualsiasi dispositivo, quando usiamo il navigatore dell’auto, quando facciamo zapping in tv o quando ci sintonizziamo su una stazione radio. Lo facciamo quando usiamo il bancomat o la carta di credito e quando scarichiamo ed usiamo una qualsiasi app. Forniamo informazioni quando entriamo ed usciamo dall’autostrada usando il telepass, quando facciamo acquisti online o quando usiamo una tessera fedeltà o quando usiamo i social network. Certo, in alcuni casi paghiamo e, in cambio, riceviamo servizi che a volte ci semplificano la vita; in altri casi, non paghiamo nulla ignorando però che la nostra partecipazione gratuita è l’elemento chiave per generare enormi profitti. Non sono ne siamo consapevoli, ma forniamo informazioni ogni volta che passiamo sotto l’occhio di una telecamera di videosorveglianza ed ogni volta che usiamo la nostra tessera sanitaria; quando attraversiamo il tornello della metropolitana o prendiamo posto su un treno o un aereo. Finora tutte queste informazioni erano archiviate su supporti poco interattivi, sostanzialmente isolate tra di loro: la tecnologia digitale consente ora, con sempre maggiore facilità, di collegarli e renderli facilmente accessibili. Ma non solo. L’internet delle cose sta collegando sempre più strutture ed oggetti in gigantesche reti che producono quantità immense di dati digitali. Su piccola scala lo vediamo nelle applicazioni domotiche e, crescendo di livello, nelle applicazioni industriali di workflow management, nelle tecnologie di traffico intelligente, nelle nascenti smart city, negli ecosistemi militari, nella rete di calcolatori che gestiscono la finanza globale.
Da un lato, dunque si sta costruendo un nuovo ambiente, digitale, intelligente, caratterizzato da una sensoristica estremamente diffusa che raccoglie informazioni in modo sempre più automatico, depositandola in database sempre più capienti, numerosi ed interconnessi. Dall’altro, noi stessi offriamo continuamente informazioni a questo ambiente attraverso i nostri comportamenti quotidiani e non solo per il fatto di essere connessi consapevolmente alla rete internet che conosciamo. Le tecnologie digitali consentono di valorizzare tutto questo moltiplicando esponenzialmente la produzione di informazione, trasformando informazioni inutilizzabili in disponibili immediatamente, annullando i costi della raccolta di informazione e, in ultima istanza, conferendo valore d’uso enorme a qualcosa che prima, pur potenzialmente presente, non poteva essere utilizzato facilmente. Ovviamente questo è possibile se esistono le infrastrutture per farlo e se i cittadini continuano a funzionare come comoda fonte di informazione. Si tratta, a ben vedere, di una situazione senza precedenti che, per certi versi, ribalta la consolidata logica di un mercato dove ogni cosa ha un prezzo riconoscibile; dietro l’uso gratuito di molta tecnologia di comunicazione vediamo infatti la realtà, piuttosto inquietante per alcuni versi, di un sistema dove noi stessi (o meglio tutte le nostre scelte e comportamenti) siamo la merce che viene venduta. Big Data è il nome attraverso cui si riconosce il nuovo campo disciplinare destinato a governare questa immensa mole di informazioni digitali.
Tutto questo pone ovviamente davanti a sfide gigantesche non ultima quella del lavoro che qui ci interessa. E’ assai probabile infatti che l’applicazione massiccia delle tecnologie digitali porterà all’abbattimento di moltissimi posti di lavoro anche nel settore dei servizi (inteso in senso allargato), seguendo il medesimo trend di quanto successo nell’agricoltura prima e nell’industria poi. Porterà anche ad aprire nuovi settori occupazionali tutti da esplorare e ad alto contenuto di innovazione e creatività. Forse, spingerà anche molte persone a guardare con rinnovato interesse ad attività più semplici e naturali. Che ne sarà tuttavia della centralità del lavoro come strumento principe per la costruzione dell’identità e giusto mezzo per guadagnare da vivere?

Con tale domanda lasciamo anche questo scenario possibile, per prendere in esame un’altra vecchia idea poco conosciuta che sembra conservare una forte carica utopica: quella del reddito di cittadinanza (o reddito minimo universale o reddito base). Come noto, si tratta di un’erogazione monetaria garantita ad intervalli di tempo regolari e per tutta la vita di una persona. Viene riconosciuta a tutti coloro che hanno cittadinanza e residenza, per consentire una vita minima dignitosa; l’erogazione è cumulabile con altri redditi derivanti da lavoro, da impresa e da rendita ed è indipendente dal tipo di attività lavorativa, dalla nazionalità, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dalla posizione sociale. In un mondo caratterizzato da un surplus di produzione che impone una sfrenata corsa al consumo, in un contesto che pone forti interrogativi circa la proprietà e l’uso degli enormi archivi di informazioni digitali, dove l’informazione è importante, largamente disponibile e manipolabile, l’idea di un reddito di cittadinanza sembra sia pertinente, al di là di ogni doverosa considerazione di tipo morale, che necessaria (pensiamo alla crescente forbice tra ricchi e poveri, effetto non secondario dall’avvento delle nuove tecnologie).
Possiamo dunque pensare che i cittadini ricevano un trasferimento monetario per il semplice fatto di fornire comunque informazioni indispensabili al sistema anziché pagare per ottenerne i servizi? In uno scenario caratterizzato, se non dalla fine del lavoro, quantomeno da una sua fortissima crisi, può essere il reddito di cittadinanza la soluzione capace di semplificare e rilanciare il sistema di welfare, garantire la copertura dei bisogni essenziali, salvaguardare gli spazi di intrapresa e produrre quel minimo di giustizia sociale che il vecchio modello non sembra più in grado di garantire?

Torniamo a giocare

Questa settimana parliamo di gioco. E chi meglio della Lego esemplifica l’idea di gioco? La Lego non poteva resistere alla tentazione di avere un mercato anche per adulti e così ti inventa il Lego Serious Play. “Un gioco per allenatori e atleti dell’esistenza umana ai nostri tempi. Sono gli ‘inner games’, i giochi interiori, con l’illusione di liberarci da tutto ciò che ci potrebbe ostacolare nell’appagamento dell’ossessione del successo. Insomma, la storia è sempre la stessa giocare per vincere.”

Da sempre le nostre mani hanno servito la mente. Ora invertire le gerarchie del nostro corpo può sembrare sorprendente. Eppure la superiorità del cervello nella specie umana deve cedere di fronte al pragmatismo delle mani. Con le mani si può pensare. È la scoperta delle neuroscienze che la Lego, la famosa casa danese, quella dei mattoncini della nostra infanzia, ha fatto propria con il metodo Lego Serious Play, Lsp. La parola ‘serious’ non manca di suggerirci qualcosa di più di un semplice gioco. Ma si sa che quando sono gli adulti a mettersi a giocare è già tutta un’altra storia.
Si tratta di un servizio di consulenza offerto da un facilitatore, o allenatore o coach, certificato Lego Serious Play, con l’obiettivo di favorire il pensiero creativo attraverso l’uso dei mattoncini Lego. I partecipanti lavorano su problemi aziendali – reali o immaginari – attraverso scenari sviluppati con le costruzioni tridimensionali Lego, da cui il nome “gioco serio”.
Il metodo, in uso dagli anni ’90 in numerose aziende ed università europee, è descritto come “un processo appassionato e pratico per costruire fiducia, impegno e intuizione”. Promette una veloce, profonda e significativa comprensione del mondo e delle sue possibilità. Si presenta come indispensabile per imparare a comunicare in modo efficace, per attivare l’immaginazione, per affrontare il lavoro con maggiore fiducia, impegno e intuizione.
In realtà nulla di nuovo, ma come sempre giungiamo in ritardo a scoprire le cose più semplici che ogni giorno stanno sotto i nostri occhi.
Seymour Papert, matematico, informatico, pedagogista sudafricano, naturalizzato statunitense, ce l’aveva già descritto con il suo ‘costruzionismo’, guarda caso, introducendo il concetto di ‘artefatti cognitivi, cioè oggetti che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti.
È stato tra i primi ad adottare Lego come strumento per l’educazione e la didattica, sfruttando la stretta relazione che esiste fra le mani ed il cervello. Ce l’aveva detto nei primi decenni del secolo scorso anche Maria Montessori, ma ora le ricerche nel campo neuroscientifico confermano che le mani sono connesse con circa il 70/80% delle nostre cellule celebrali. Ciò implica che sfruttando queste connessioni neurali, attraverso la stimolazione simultanea di mani e cervello nella costruzione materiale di un artefatto, è possibile sollecitare l’apprendimento e il pensiero creativo.
Il fatto è che questo giocare, proposto agli adulti dalla Lego Serious Play, non è più quello dei bimbi per esplorare il mondo e conoscere se stessi.
Il gioco è studiato per primeggiare nella vita e nel lavoro. Il gioco è un allenamento per vincere la partita non insieme agli altri ma contro gli altri. Il gioco simbolico dei bambini qui si fa gioco di simulazione, di contesti virtuali per progettare e programmare le mosse vincenti quando sarà il momento vero della vita. Non mancano neppure i siti web che offrono corsi per apprendere a raggiungere prestazioni eccellenti in ambito lavorativo, sportivo e nella propria vita quotidiana. Un gioco per allenatori e atleti dell’esistenza umana ai nostri tempi.
Sono gli ‘inner games’, i giochi interiori, con l’illusione di liberarci da tutto ciò che ci potrebbe ostacolare nell’appagamento dell’ossessione del successo.
Insomma, la storia è sempre la stessa giocare per vincere.
Ancora una volta la strada intrapresa è quella di piegare il capitale umano alle regole inflessibili del mercato. Ben altra cosa dall’utilità vera del gioco, dalla via segnata da Seymour Papert.
Non c’è età in cui l’essere umano non abbia bisogno per esistere della mediazione del gioco, non per vincere, ma per imparare e comprendere.
Secondo Papert, la nostra mente ha bisogno di materiali da costruzione appropriati, esattamente come un costruttore: il prodotto concreto può essere mostrato, discusso, esaminato, sondato e ammirato.
La difficoltà ad assimilare concetti non è dovuta alla loro complessità o formalità, ma alla povertà culturale dei materiali che usiamo come mediatori, che dovrebbero rendere il concetto semplice e concreto. Perché è soprattutto con l’aiuto di artefatti cognitivi che l’uomo da sempre apprende.
Pensiamo allo sviluppo della conoscenza che hanno prodotto i computer e la rete, veri artefatti di supporto all’istruzione per tutti, ad ambienti di apprendimento che aiutano a costruirsi nuove idee.
Come negare che il computer con le sue opportunità, o la televisione stessa, non sia il gioco per eccellenza della nostra epoca.
Ormai con un click interagiamo con il mondo, si formano comunità di apprendimento senza gerarchie, si creano e si condividono idee, l’errore è fonte di confronto, si impara in modo significativo.
Il rischio vero è che nel gioco della vita siano ben altri a prendersi gioco di noi, pretendendo di insegnarci a vivere una vita che non è la nostra.

LA STORIA
Quel caffè nella via
dei Lucchesi

E’ un giorno di sole e di pioggia sotto il cielo di Ferrara. La città oscilla tra la tentazione di cedere al grigio cupo dell’inverno e il torpore azzurro di questa seconda estate d’ottobre. I suoi mattoni in cotto recitano, obbedienti, la loro parte senza sbavature: lividi, seriosi col grigio, vividi e accesi appena stesi al sole.
Guardo fuori dalla finestra e scorgo un convento lottizzato. Morte le ultime suore rimaste, è sopravvissuta la piccola chiesa. Gli appartamenti hanno un costo altissimo. Chissà cosa avrebbe pensato in proposito Cristo. Di sicuro lo avrebbe atteso un Grande Inquisitore qualsiasi, accusandolo di eresia. In qualche modo sarebbe finito comunque, di nuovo, tra i pali di una croce o le maglie roventi di una graticola.

Osservo le finestre, le grondaie, i tetti. Trovo quei versi di Franco Fortini che dicono “Qua e là, sul tetto, sui giunti / e lungo i tubi, gore di catrame, calcine / di misere riparazioni. Ma vento e neve, / se stancano il piombo delle docce, la trave marcita / non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia / che un giorno, e non importa / se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente, / quella volando via”.

Scendo in strada e piovono foglie in corso Isonzo. Intorno nessuno pare curarsene. Le foglie di platano ricoprono l’asfalto. Imbocco via Garibaldi. In via Lucchesi una volta dimoravano gli industriali, i commercianti d’olio toscani, da lì il nome. Oggi trovo la saracinesca chiusa e mi viene alla mente che, dopo 35 anni, Michele Maglione se n’è andato via. L’avevo conosciuto per via del suo ottimo caffè. I nostri accenti si erano presi, incollati, riconosciuti. Michele Maglione, napoletano dagli occhi azzurri di ghiaccio, ha aperto il caffè di via Lucchesi una quindicina di anni fa. Con il timore dell’outsider, ha messo in piedi un locale che offriva esclusivamente caffè delle più svariate miscele. Non altro. Oggi, a distanza di anni, molti tentano di emularlo.

caffetteria-lucchesi
La caffetteria di via Lucchesi
In precedenza aveva vissuto in qualche posto sperduto dell’Africa e commerciato in legname, Michele. Rientrato in Italia, a Ferrara decise di tornare alle origini. Darsi una calmata. Una boccata di vita sedentaria. Le origini, quelle di quando, a sedici anni, passava il tempo nell’azienda di torrefazione dello zio, a Napoli. Questa è, in parte, la vicenda del Caffè di via Lucchesi.
Oggi la saracinesca di questa storia minuta, semplice, è chiusa.

Un giorno, dopo mezza vita emiliana, Michele vende il caffè a due donne. Due sorelle che si impegnano a conservarlo così come lui lo aveva concepito. Vende la sua creatura e acquista un pezzo di terra rossa verso la Murgia brindisina, nel parco degli ulivi secolari, in mezzo a due mari. Prova a realizzare un vecchio sogno, Maglione. Quello di costruirsi una casa fatta di quel legno che tante volte aveva maneggiato e che conosce bene. Poi affittare camere a qualche turista di passaggio, coltivare la terra, preparare il caffè, stavolta per sé e per i propri ospiti.

Qualcuno sostiene sia un viaggio, questa piccola Odissea chiamata vita. Altri, col volto accigliato, parlano di una perpetua lotta, di un’infinita Iliade senza vincitori, in cui risultiamo tutti assediati, vinti. Stretto tra questi pensieri, mi accontento di Ferrara con una saracinesca abbassata e una storia da raccontare. Mi basta un sabato pomeriggio di una vecchia città ostinata, che fa ancora il suo mestiere. In cui la gente vive, sogna, si innamora, riparte. In cui di continuo qualcuno approda, mentre alla stazione qualcun altro saluta.

Le cattive compagnie

Chi ha avuto a che fare con una compagnia telefonica avrà levato gli occhi al cielo più di una volta.
Per concludere un contratto e avere un servizio, cioè per incassare soldi, qualsiasi operatore può impiegare anche solamente una decina di minuti.
Il tempo necessario per apprezzare i benefici di una tecnologia in grado di facilitare la vita in modo sorprendente.
Poi, dal momento in cui hai messo la firma sopra un foglio, inizia la via crucis.
Possono anche trascorrere mesi prima che qualcuno si faccia vivo e venga a casa per montarti l’attrezzatura arrivata per posta e per la quale hai implorato l’aiuto di un tecnico, perché fra cavi e libretti d’istruzioni, la cui lettura implica tempi di vita davvero poco saturati, uno non sa da che parte girarsi.
Così si entra nel meraviglioso mondo del wifi.
Quando poi si arriva al momento di disdire anche solo una parte del servizio, ad esempio una chiavetta che non si usa, la via crucis si fa anche in salita degna del tour de France.
Torni dall’operatore che ti ha fatto il contratto, il quale ti dice che è semplicissimo. Basta collegarsi in internet sul sito della compagnia e disdire ciò che non serve, oppure ti indica una seconda strada che, anche facendosela spiegare più volte, non si capisce quale sia.
“Ma non potrebbe collegarsi lei direttamente in rete e, dati contrattuali alla mano, farmelo ora?”, domandi. Purtroppo l’operatore ti risponde che non può farlo e nemmeno è possibile parlare con un essere umano che ti faccia la procedura.
Torni a casa e provi. Sul sito della compagnia telefonica per orientarsi servirebbe una guida alpina. Si può addirittura arrivare a chattare con un ignoto operatore, il quale ti sottopone una batteria di domande da fare perdere il senso dell’orientamento. E non solo, per la verità.
Può capitare che l’operatore, che per comodità potremmo chiamare Cristina, mosso da pietà ti chiami pure.
Finalmente, si potrebbe pensare. Nulla di più sbagliato. La telefonata si dimostrerà per niente risolutiva, perché nemmeno la pur suadente Cristina ti dice che può farlo personalmente e che devi ritornare a complulsare il sito della compagnia telefonica. Ha accesso a tutti i tuoi dati contrattuali personali, forse anche quante volte ti soffi il naso in un giorno, ma quella cosa non è abilitata a farla. Salvo, al termine della conversazione, chiederti di valutare da uno a dieci il grado di soddisfazione dell’assistenza.
Dopo ulteriore tempo indefinito di navigazione senza meta e dopo aver oltrepassato barriere di username, password, batterie di domande fino a: “il tuo amico preferito nella vita”, e levato inutilmente gli occhi al cielo per invocare assistenza divina, alzi infine bandiera bianca.
Non rimane che la strada legale, viene da dire, per la ovvia gioia di avvocati e associazioni di consumatori.
Prima considerazione conclusiva: si sbaglia a pensare che burocrazia e muri di gomma siano un problema unicamente della pubblica amministrazione italiana, perché questa cortina fumogena alzata ad arte parla da sola su trasparenza e semplificazione anche nel privato. La formula magica “Customer satisfaction”, non a caso declinata in inglese, assomiglia più alla presa in giro che alla soddisfazione del cliente.
Seconda considerazione conclusiva: mi pare che esperienze come queste siano lo specchio esatto di un Paese, che ha sempre visto i cittadini non come soggetti di diritti ma come delle mucche da mungere.
Il 4 novembre si celebra la festa dell’unità nazionale. Ecco, sarebbe meglio piantarla con i fiumi di retorica sul sentimento di coesione nazionale e cominciare, piuttosto, a far sentire i cittadini italiani meno estranei e più in casa loro, almeno nel proprio Paese.

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. Dagger Moth, l’artista ferrarese che ha revocato l’iscrizione

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società Italiana Autori ed Editori.

Contrariamente a quanto molti pensano, l’iscrizione di un artista alla Siae, la Società italiana autori ed editori, non è obbligatoria. C’è infatti chi dice no. Da qualche tempo, sono sempre di più gli artisti, in particolare musicisti, ma anche organizzatori di eventi e gestori di locali, che sollevano critiche rispetto all’operato e al monopolio di questa istituzione. Un’approfondita riflessione sul tema è stata fatta in occasione di ‘Borderline’, festival delle etichette e delle produzioni indipendenti, il primo in Italia completamente esente Siae, tenutosi a Ponticelli di Malalbergo.
Ma perché opporsi alla Siae? “Della Siae critichiamo la mancanza di trasparenza”, dice Nena organizzatrice del Festival. “Inoltre – prosegue Eugenia, ideatrice della manifestazione – anche chi sceglie di proporre solo musica libera dalla Siae subisce vari controlli, e con tutti i cavilli legali non si può mai stare tranquilli, perché il rischio di una multa c’è sempre”. Quindi anche un locale che fa musica dal vivo e propone solo artisti non iscritti alla Siae, finisce con l’essere, appunto, borderline, al limite della legalità.
Tra i musicisti italiani che hanno revocato la propria iscrizione alla Siae, c’è la ferrarese Sara Ardizzoni, in arte Dagger Moth [vedi video-intervista].

Qual è la tua esperienza con la Siae?
Mi ero iscritta alcuni anni fa come autrice di musiche e testi in seguito all’uscita di un disco registrato con la mia band precedente, Pazi Mine, poiché, essendoci affidati ad un ufficio stampa-editore, era stata una scelta un po’ obbligata. A dire il vero sono stata dubbiosa fin dall’inizio sull’utilità della cosa, perché, pur essendo perfettamente d’accordo sui principi, cioè la protezione del diritto d’autore e la sua “monetizzazione” (che teoricamente dovrebbe essere a favore principalmente dell’autore, soprattutto nell’ottica di chi cerca di vivere del lavoro di musicista), ero molto perplessa dalle modalità di applicazione e dalla poca chiarezza che aveva sempre contraddistinto le dinamiche del macchinario Siae, almeno ai miei occhi.

Cosa comportava per te l’iscrizione alla Siae?
Da anni ormai l’iscrizione come autore associato non comporta più un esame di teoria musicale ma è sufficiente la corresponsione di una quota iniziale – non irrilevante – per iscriversi, poi un versamento annuale per mantenere il proprio status. Tuttavia se non si ha il peso di un big del panorama musicale, la capacità di interagire con le scelte dell’ente direi che è praticamente nulla.
Questo sul piano economico. Su quello pratico e burocratico, ha comportato, nel mio caso, in quanto mi auto produco, il districarsi da sola in tutta una serie di scartoffie per il deposito dei brani, la richiesta dei bollini (con relativa varietà dei prezzi a seconda del tipo di contrassegno), e la modulistica generica. Last but not least, la consultazione dei corposi bollettini inviati a casa con i resoconti dei guadagni (nei quali, a mio avviso, viene davvero sprecata un sacco di carta, mentre le informazioni utili sono poche e non immediate).
Tutte faccende per cui si richiede per lo più di interfacciarsi con lo sportello regionale di Bologna che rispetto a Ferrara non è lontanissimo ma non è nemmeno a due passi, quindi un minimo di costi c’è pure lì, o si spedisce per raccomandata o si va di persona.
Girando parecchio e confrontandomi spesso sul territorio nazionale con altri musicisti e organizzatori, mi pare inoltre di notare che non ci sia una gran chiarezza su vari argomenti, dalla compilazione dei borderò ai permessi per i live, mi imbatto in modus operandi sempre diversi, per lo più in base alle informazioni fornite dai vari uffici Siae. Però, ribadisco, questa è puramente la mia esperienza personale.
Altra operazione piuttosto brigosa, sul senso della quale mi sono interrogata più volte: depositare il cartaceo degli spartiti nell’era digitale (o almeno fino al periodo in cui ero ancora iscritta funzionava così). Di questi tempi direi che sarebbe tanto più comodo, preciso ed efficace, depositare i semplici file, invece vengono ancora richiesti i cartacei con le trascrizioni, a meno che non si tratti di intrascrivibile musica concreta. Ma qualora ci sia una qualche parvenza melodica ne viene richiesta la scrittura. In particolare della linea melodica principale sul piano strumentale (che nel caso dei miei brani ad esempio non è così facilmente rintracciabile), poi la melodia della voce e relativo testo…
Il dubbio che mi è sempre sorto qui è: dovendo depositare i brani in modo diciamo parziale in caso di plagio come si procederebbe per stabilire torto e ragione?

Come mai hai deciso di annullare la tua iscrizione?
Beh molto semplicemente nel mio caso, visto il rapporto costi/ricavi non aveva alcun senso, non mi conveniva. Inoltre, cosa non secondaria, nell’ultimo anno la quota annuale da corrispondere per rimanere iscritti era praticamente raddoppiata… e mi pare che la novità non fosse stata notificata chiaramente, né giustificata. Se già nutrivo dubbi questa è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per non parlare di tutta una serie di informazioni poco confortanti trovate qua e là, curiosando su internet col desiderio di saperne di più (faccio in particolare riferimento a tutta una serie di articoli relativi ai comportamenti della Siae su svariate questioni, anche a livello europeo, e, data la specificità della materia, rimando ad esempio agli articoli dell’avvocato Guido Scorza, per chi ne volesse sapere di più).
Inoltre ammetto che un argomento che tuttora mi genera qualche ulteriore dubbio è la ripartizione dei proventi derivanti dai borderò. Ho cercato di documentarmi in merito ma al momento non sono riuscita a chiarirmi granché le idee.

L’annullamento dell’iscrizione alla Siae è una procedura complessa?
Ho semplicemente scaricato, compilato ed inviato via mail un modulo di recesso che la stessa Siae mette a disposizione sul suo sito, tutto qua, almeno questo è stato facile.

Come ti tuteli ora?
Sto valutando alcune ipotesi, tra cui Patamu, un sito che dovrebbe rilasciare in automatico – in seguito all’upload del materiale – una marcatura temporale che garantisce la paternità dell’opera, ma non si occupa della valutazione e raccolta dei compensi. A quanto ho capito questo compito attualmente compete solo alla Siae, e anche qualora ci si iscriva ad una società estera comunque quella dovrà passare attraverso la Siae, quindi si ritorna al punto di partenza. Ma per quanto riguarda la monetizzazione, al momento gravito in un circuito talmente di nicchia che mantenersi iscritta sarebbe solo un’attività in perdita.

Pensi che sia una strada percorribile anche da altri artisti?
Ribadisco che la mia è una scelta personale, e tutto dipende dal percorso che un artista vuole seguire con la sua musica, e probabilmente anche dal genere di musica. L’unica cosa che posso dire è che molti piccoli artisti si iscrivono nella speranza di diventare famosi, depositare una futura hit, un tormentone radio-televisivo, o un brano che magari venga incorporato nella colonna sonora di qualche mega produzione cinematografica. Nell’attesa che questo accada, spesso i proventi sono praticamente un’elemosina a fronte di un prezzo da pagare non irrilevante. Il tutto appesantito da quello che mi sembra ancora un sistema un po’ arretrato ed appesantito da una burocrazia pachidermica. Del resto snellezza e trasparenza in Italia non la fanno da padrone su nessun fronte. Magari se tutte le persone che si riconoscono in una descrizione simile chiedessero il recesso forse un po’ di disagio potrebbe essere almeno percepito.
Poi se qualcuno ha modo di guadagnare cifre corpose grazie a passaggi radio-televisivi o grazie ad un’attività live intensa e remunerativa durante l’anno meglio per lui! Ma non credo che questa descrizione rappresenti l’associato medio, almeno non tra quelli che conosco io. Unica cosa che posso raccomandare è di essere curiosi ed informarsi, e farsi anche venire qualche dubbio sull’utilità effettiva dell’iscrizione, poi ognuno valuti il suo caso.
Noto ancora che parecchi amici si iscrivono un po’ alla cieca, perché magari va fatto e poi se ne disinteressano totalmente… ma anche colleghi che fanno i musicisti di professione spesso non sanno rispondermi a domande specifiche ma basiche su certe dinamiche che riguardano il rapporto diretto tra Siae e autori. Mentre secondo me varrebbe la pena chiedersi spesso se effettivamente vengano fatti i nostri interessi.

1. CONTINUA [leggi la seconda puntata]

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0

Nell’immagine in alto, Sara “Dagger Moth” Ardizzoni è fotografata da Werner Swan

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LA STORIA
Murales di Blu fra Bologna e Comacchio

Il bello dell’arte di strada, dei murales, è che ti colpiscono così: all’improvviso. Giri l’angolo e – inaspettati – ci sono loro. Scritte, colori, segni, là dove pensavi solo cemento e asfalto. Te li trovi sotto un cavalcavia mentre, tutto preso dal traffico, fatichi a girarti e a soffermarti; oppure si rivelano appiccicati lì, su un muretto di un condominio che stavi solo aggirando; sei in un quartiere popolare o periferico qualsiasi e su una parete – tacchete – ecco che ti folgorano, mentre andavi avanti a testa bassa. Allora ti fermi, osservi, rifletti. Questo, in effetti, fa la street art. Ti sorprende e – di sorpresa – ti fa pensare. Questo fa Blu, l’artista ormai famoso in tutto il mondo, che mantiene segreta la vera identità, ma che ormai fa parlare di sè festival internazionali e siti specializzati o meno, inclusa la libera enciclopedia online Wikipedia.

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Opera di Blu e Ericailcane a Bologna su un edificio di via Zanardi

Chi va in treno da Ferrara a Bologna, Blu deve averlo visto tante volte: è l’autore di quei murales con elefante e altre figure un po’ stravolte e furtive su un edificio fatiscente in via Zanardi, che ora – ahimè –  rischia di essere demolito. Era suo anche un grande graffito sul ponte di via Stalingrado, con la volta d’ingresso per le macchine trasformata in una gigantesca bocca che inghiottiva il traffico. Adesso quel pezzetto di città è stato rifatto, plasmato in un avveniristico complesso edilizio. Ma dentro, sotto al cavalcavia che ora sostiene edifici e uffici dell’Unipol, c’è ancora un colossale uomo sdraiato che si intravede nell’eterna oscurità del tunnel.

Altre opere di Blu sonoa Berlino, Lisbona, Londra, persino in Perù. Denunciano l’avidità del denaro che avvolge le bare lasciate dalle guerre, raccontano la mostruosità del consumismo che ci trasforma in contenitori di cibo e oggetti, ribaltano il ruolo di uomo consumatore di animali in feticcio consumato, ipotizzano la rivalsa delle biciclette sulle automobili.

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Murales di Blu in via Spina a Comacchio (foto di SERGIO FORTINI e SILVIA MAZZANTI)

Dove magari, invece, non ce lo si aspetta proprio è fuori da Ferrara. Vai verso il mare e svolti a Comacchio, piccola e fotografatissima capitale del Delta del Po. Certo, bisogna uscire dai soliti itinerari turistici. Lo hanno fatto due ferraresi, che quei luoghi se li sono andati a cercare e li hanno immortalati per il concorso indetto da Acer, l’azienda per le case popolari. Loro, Sergio Fortini e Silvia Mazzanti, Blu l’hanno scovato così. In via Spina. Grazie a queste foto, poi esposte in palazzo Municipale durante il festival Internazionale a Ferrara, ora possiamo ricordare che, a Comacchio, Blu ha realizzato alcune delle sue prime opere importanti. Gli anni erano quelli del 2005, 2006 e 2007. E a Comacchio, in settembre, veniva organizzato lo Spinafestival. Un festival dedicato proprio all’arte di strada, ai graffiti, ma anche a video, fotografie, installazioni.

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Murales di Lucy McLauchlan in via Spina a Comacchio (foto di SERGIO FORTINI e SILVIA MAZZANTI)

Ecco Blu è lì, splendido e incontaminato nel corpo umano sezionato a mostrare corpi e altri corpi come una matrioska anatomica, nella mano che si impadronisce di un pezzo di muro insieme alle piume trasformate in volti sul petto dell’uccello di un’altra artista come Lucy Mclauchlan. Bello. E bella anche l’idea di Acer di fare un concorso fotografico su luoghi così poco fotografati, di solito fuori dagli schemi artistici, lontani dai circuiti patinati, pittoreschi, turistici. E, lì, eccola, l’arte di strada. Vive qui; e qui è, per sorprenderci.

Il Dio della sorpresa

C’è il Dio della legge, ma c’è anche il Dio della sorpresa. Con queste parole Papa Francesco, affronta il difficile compito di aprire la dottrina a realtà sociali e sentimenti che cambiano. La questione del nostro tempo è fare i conti con la tensione verso la libertà che costituisce la cifra della modernità e diventa l’irrinunciabile indicatore di un’etica della responsabilità individuale. Sentiamo oggi di avere bisogno di etica, vale a dire di riferimenti di comportamento, ma sentiamo che vogliamo sceglierli da soli, secondo principi accolti e non imposti, secondo sensibilità e opzioni personali. Sentiamo che il diritto a scegliere non è negoziabile, nessuno vorrebbe cedere la propria libertà in cambio della migliore prigione dorata. Sentiamo che la scelta investe sempre non tanto questo o quel comportamento, ma la nostra identità.
Non mi interessa entrare nel merito di una discussione che riguarda in primo luogo coloro che appartengono e chi si riconoscono nella Chiesa, mi interessa segnalare la capacità esplicativa della categoria di sorpresa come elemento di comprensione del cambiamento. Guardiamo spesso al presente con un atteggiamento di sgomento, non solo per la legittima indignazione verso le storture e del presente, ma anche, molto più di quanto non vogliamo ammettere, per la difficoltà di interpretare fenomeni in evoluzione veloce. Lo sgomento segnala la percezione di discontinuità di fronte ad un futuro che si manifesta di continuo nella nostra vita, ma che non siamo in grado di prevedere.
Nell’era della tecnologia abbiamo maturato l’erronea illusione che il futuro possa essere prevedibile, ma in realtà abbiamo visto fallire molte previsioni, vediamo gli economisti navigare a vista rispetto agli andamenti dei mercati e alla crescita. Anche i Big Data, le tecniche di elaborazione dei dati che cercano di prevedere fenomeni attraverso le tracce dei comportamenti in rete, si sono rivelati meno affidabili di quanto avessimo immaginato. Abbiamo capito che i Big Data registrano speranze e paure, emozioni e intenzioni prima che azioni reali degli individui. In sostanza sovrastimano le emozioni, il principale motore delle nostre scelte.
La sorpresa ci consente di distinguere la qualità di ciò che di nuovo ci si pone di fronte e, come le altre emozioni, ha una funzione indispensabile nella storia evolutiva dell’umanità. La sorpresa, la capacità accogliere il cambiamento, per comprenderlo, per vederne le ambivalenze e gli eventuali problemi che porta con sé, mi pare un antidoto salutare ad atteggiamenti di chiusura, a nostalgie e a ripiegamenti inevitabilmente perdenti e conservatori, a prescindere dalle intenzioni con cui sono espressi. La capacità di lasciarsi sorprendere da ciò che cambia, per comprenderlo, contrasta lo spirito di conservazione, anche coperto dalle migliori intenzioni.
Ricordiamo che ogni apprendimento passa dalla sorpresa, da quello che gli americani chiamano il momento wow! Per tutto questo è importante che i bambini imparino a sorprendersi per tutto ciò che accade intorno ed è importante che gli adulti alimentino la capacità di accogliere il non usuale e il diverso nella vita quotidiana.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL PUNTO
La concretezza dei sogni

E’ finita come era ampiamente prevedibile. Con la cacciata del sindaco Marco Fabbri dal Movimento 5 stelle e una conseguente spaccatura verticale, che fotografa il gruppo pentastellato di Comacchio schierato compatto con il suo primo cittadino, mentre i ferraresi appoggiati dal nazionale ne stigmatizzano il comportamento. Ma se torniamo sulla vicenda della Provincia di Ferrara già altre volte trattata non è per entrare nel merito o per nostra fissazione sul tema. Il punto è che questa vicenda è specchio paradigmatico di un’arte di governo che mette a repentaglio la corretta dialettica politica, la quale non può prescindere da un confronto aperto fra tesi contrapposte. Rappresenta quindi un rischio reale che va denunciato.

Le larghe intese, addirittura extralarge nell’anomalo caso della nostra Provincia, non sono un ampliamento della democrazia, come qualcuno ci vuol far credere. Al contrario sono un suo restringimento. Governare tutti insieme significa presupporre che le cose che si possono fare siano semplicemente quelle dettate dal buon senso. Una premessa che non ammette alternative razionali. Se passa questo concetto si cancella ogni margine di dissenso e si confina il pensiero antagonista nelle praterie frequentate da sparuti epigoni di idealità radicali: illusi, sognatori, resistenti che hanno perso il contatto con la realtà dei fatti, le cui fantasie non hanno alcuna concretezza.
Il mondo, secondo gli alfieri del pragmatismo, va governato dai ragionieri, con i piedi ben piantati sulla terra e lo sguardo incollato all’orizzonte dei fogli contabili. Questo è il pericolo dal quale dobbiamo difenderci.

Il messaggio che si tenta di contrabbandare è che le decisioni assunte non siano frutto di scelte, ma si configurino semplicemente come atti che rispondono razionalmente a bisogni diffusi, soluzioni inevitabili che scaturiscono come logica conseguenze a necessità comprovate, secondo una presunta forma di automatismo della ragione a una sola via di transito.

Invece c’è sempre un’altra possibilità, un diverso orizzonte, un percorso differente. Come ci insegna il salmone.

Il pensiero alternativo, oggi più che in passato, è bollato di astrattezza e inconsistenza. Ma se a tenere in piedi il mondo contribuiscono i ragionieri, a cambiarlo, da sempre, sono i visionari. Teniamolo a mente. Con la consapevolezza che questa è epoca di tramonto, che impone grandi, radicali cambiamenti per poter essere preludio a una nuova alba.

IL TEMA
Sguardo vigile sugli inceneritori

C’è chi li vuole patrimonio nazionale (art.35 dello “Sblocca Italia”), chi strumento regionale (tra cui io e Sandro Bratti), chi non li vuole proprio. Bisogna parlarne perché non passi la linea dell’ ‘incenerimento libero. Certo la centralità del problema dei rifiuti è di vari ordini, ma il più importante e delicato è lo smaltimento finale. Per questo una forte e continua attenzione è necessaria non solo per promuovere una indispensabile coscienza civica ma anche per sostenere lo sviluppo di tecnologie appropriate e a loro volta ambientalmente compatibili. Spesso il tema degli impianti viene affrontato come grave minaccia ambientale e non come anche soluzione al problema. A mio avviso gli obiettivi che si devono perseguire nel tempo sono essenzialmente quelli di aumentare la quota destinata al riciclo, di migliorare per quanto possibile la qualità dei rifiuti domestici riducendo sensibilmente le sostanze tossico nocive, ma anche di favorire la termocombustione, destinando solo il rimanente allo stoccaggio definitivo in discarica controllata. Capisco che questa affermazione sia poco popolare. E’ però difficile pensare ad un radicale cambiamento se ancora in discarica si smaltisce oltre il 70% dei rifiuti, se permangono contrasti anche ideologici che, al momento producono principalmente effetti di ritardo e contrapposizione piuttosto che di reale trasformazione del comparto ambientale. Da molti anni ormai a livello internazionale sta crescendo la consapevolezza di dover difendere la sostenibilità ambientale e quindi energie rinnovabili (impianti solari, eolici, idroelettrici, biocombustibili).

Il tema ruota attorno ad alcuni aspetti fondamentali: cambiamento climatico, ambiente e salute, natura e biodiversità, gestione delle risorse naturali e dunque uso sostenibile dei rifiuti. Per questo dobbiamo parlarne di più. Per prevenire e gestire situazioni di conflitto occorre infatti adottare nuovi percorsi e approcci decisionali, improntati all’informazione e al dialogo con i diversi interessi e punti di vista che le comunità locali e i soggetti interessati esprimono, avvalendosi di tecniche per la costruzione di decisioni condivise e consensuali.

La termovalorizzazione in Europa è operativa con circa 300 impianti, di cui buona parte in Svizzera, Danimarca e Francia; in Italia oggi solo l’ 8% è dedicato all’incenerimento.
In sostanza, è del tutto assente su scala nazionale un modello di gestione rifiuti basato sul “sistema di gestione integrata”. Tale modello pone al centro il concetto del recupero e della valorizzazione conseguente delle frazioni merceologiche presenti negli Rsu sia sotto forma di materia che di energia, relegando il ricorso alla discarica solo per quei rifiuti che residuano dal trattamento e che non sono suscettibili di ulteriori valorizzazioni. Va quindi aperta una fase nuova nell’affrontare i problemi. Il dibattito, peraltro accentratosi sui rifiuti di origine urbana, si è concretizzato inizialmente nella contrapposizione tra fautori e avversari della combustione, cui è seguita quella tra sostenitori della linea “tal quale” e sostenitori della linea che privilegia invece la produzione di combustibili derivati, identificabili con la “frazione secca” ed il Cdr precedentemente menzionati.
Tutto bene dunque? Assolutamente no. Bisogna parlarne di più.
Occorrerà evitare di imporre o privilegiare schemi rigidi di gestione o particolari soluzioni tecnologiche, lasciando che sia il mercato, all’interno di un contesto caratterizzato da vincoli più flessibili ma continuamente monitorati, ad adattarsi alle esigenze mutevoli della domanda ed alla volatilità dei prezzi di materie prime ed energia. La strada maestra è l’individuazione di impianti di termoutilizzazione con recupero di energia, a servizio di significativi bacini di produzione, inseriti organicamente in un sistema di gestione dove si realizzino le raccolte differenziate e le discariche diventino così elemento residuale. Il nostro ritardo, che causa problemi non solo al territorio, ma allo stesso sistema produttivo, va superato innovando non solo le procedure e le tecnologie, ma anche sperimentando un approccio basato sulla pianificazione territoriale, su un ruolo forte della programmazione, su una corretta informazione dei cittadini ed un loro crescente coinvolgimento, su una forte politica di alleanza imprenditoriale pubblica e privata, oltre ad un importante fase di esecuzione e affidabilità della gestione.
Non dimentichiamoci allora degli inceneritori, anzi teniamone alta l’attenzione.
La corretta comunicazione pubblica ambientale diventa in proposito un principio fondamentale.

La nascita di molti comitati di cittadini e di rifiuto della tecnologia rende necessaria una profonda riflessione, a partire dalla consapevolezza delle opposizioni e delle loro motivazioni.
Movimenti ambientalisti, comitati volontari e cittadini impegnati esprimono crescenti perplessità, osservazioni di merito e criticità espresse che non si devono né sottovalutare né tantomeno contrastare; tra queste ecco alcune problematiche poste:

  • L’unica via razionale, per la soluzione del problema rifiuti deve passare attraverso una rapida riprogettazione dei cicli produttivi , politica del riciclaggio, riutilizzo spinto.
  • La presenza di un inceneritore disincentiva la raccolta differenziata.
  • La termovalorizzazione è il più costoso sistema per lo smaltimento dei rifiuti
  • La scarsa credibilità che i nuovi impianti emettano inquinanti in “quantità trascurabile”
  • I termovalorizzatori non portano alcun beneficio alle popolazioni
  • Nessun inceneritore può garantire efficienza continuativa,
  • La scelta dell’incenerimento trasferisce le responsabilità ambientali e gestionali alle popolazioni che vivono attorno agli impianti stessi.
  • L’inceneritore non tiene conto dei bilanci energetici basati sull’analisi dell’intero ciclo vitale dei prodotti.
  • La vendita di elettricità sarebbe dovuta andare alle fonti di energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse)
  • I limiti sulle emissioni di diossine non sono sinonimo di sicurezza, ma solo di minor rischio sanitario;
  • I termovalorizzatori, funzionano da ”disperditori” di inquinanti, sostanze che spesso ritroviamo a parecchia distanza .
  • Un impianto di incenerimento emette giornalmente alcuni milioni di metri cubi di fumi, alcune decine di chilogrammi di polveri fini e almeno un chilo di metalli pesanti.
  • Contamina pesantemente le catene alimentari con effetti sugli apparati endocrini dell’uomo e degli animali.
  • Molti dei composti chimici emessi durante le fasi di combustione dei rifiuti devono ancora essere identificate.
  • Mancano laboratori in grado di determinare le concentrazioni di pericolosi inquinanti come i PCBs
  • Molti dei composti chimici che si formano per combustione incompleta (organoalogeni) sono altamente tossici, teratogeni, mutageni e cancerogeni.
  • I gas di combustione che si formano contengono sostanze chimiche molto pericolose quali i furani (Pcdfs) e le diossine (Pcdds),
  • Non esistono sistemi di misurazione completa e continua degli inquinanti;
  • Circa il 30% del peso iniziale del rifiuto si ritrova alla fine del ciclo di combustione sotto forma di ceneri altamente contaminate.

Lo scopo di questo articolo non è certo di affrontare nel merito questi temi, ma di indicare l’importanza delle motivazioni e delle corrispondenti controdeduzioni finalizzate alla corretta trasparenza del confronto ispirata da valori di sostenibilità ambientale e rispetto delle opposizioni. A ognuno di questi punti servono risposte chiare e oneste.
Si cita solo a riferimento come in specifico a Ferrara sia stata costituita una specifica struttura (Rab) avente questo scopo e come a livello regionale siano operative strutture di controllo che periodicamente danno indicazioni sui monitoraggi e sui controlli effettuati.

Arzèstula, un viaggio a nord-est tra le macerie dei ricordi

Da Parasacco a Medelana, 16 novembre (prima parte), by Wu Ming 1

Un sogno persistente. Non ho ancora finito la tesi, continuo a raccogliere testimonianze tra anziani parroci e basapilet, beghine di campagna vestite di nero. Strade secondarie mi portano a stradelli ghiaiati e da lì su vialetti sterrati collegati a casolari, sempre col mio registratore. Torno a Ferrara con lo zaino pieno di storie sconnesse, di quando il messale era ancora in latino, il prete ti dava le spalle e il calice di sangue pro vobis et pro multis effundētur, a rimettere i peccati. Ho venticinque anni e devo sbrigarmi, “stringere”, la sessione è dietro l’angolo e il relatore è impaziente, vuoi deciderti o no, hai intervistato cento persone, te la sarai fatta un’idea. Hai letto il libro di Revelli, hai letto il libro di Portelli, hai letto il libro di Bermani e pure quello di Montaldi, che ne pensi del ricordo come fonte storiografica? Hai tracciato lo schema X? Hai fatto i debiti confronti? Un sogno ricorrente. Ogni volta tocco il fondo di una conca di nebbie, intrepida come la prima storica sulla Terra, colei che narra la madre di tutte le storie, e scopro che prima di me è passata un’altra tizia, l’intervistanda è svuotata, ha parlato per ore e non ne vuole più sapere: “Potevate anche mettervi d’accordo, ragazola, se venivate insieme queste cose le dicevo una volta sola… Raccontavo di quando son stata a S. Pietro, del Papa che è
venuto a Consandolo… Ades a son stufa, a voi andar a let.”
Metterci d’accordo. Pare facile, ma io non so chi sia, questa che mi precede. Lo scopro (scoprirò) soltanto in un altro sogno, ma sono episodi a tenuta stagna, ciò che imparo in un sogno non scorre in quello seguente.
Del resto, i sogni non sono il mondo. Nessun papa è mai stato a Consandolo.
Lo devo scoprire ogni volta, che a precedermi è la Scrittrice.

Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno.
Ingrottita.
Ingrottita? “Ingrottirsi”. Questo verbo in italiano non esiste. Ingrutiras, rattrappirsi, accartocciata nel sacco a pelo per via del gelo. Minima detonazione, parola che torna dall’infanzia, sciabordìo nella testa. La lingua della madre risospinta fino a me.
Eccomi qui, dopo tanti anni, sui mont ad Parasac.
I monti di Parasacco in realtà non esistono. Nessuna altura, a Parasacco. Nessuna altura tutt’intorno. Anche prima della Crisi la Bassa era bassissima, scodella di bruma e terra grigia. I “monti” di Parasacco son due piccoli dossi, dune coperte d’erbacce, in quello che era un cortile privato. Solo una vecchia battuta, un cliché d’antecrisi.
“Dove sei stato in vacanza?”, chiede Tizio.
Sui mont ad Parasac!”, – risponde Caio, cioè da nessuna parte.
Sarcasmo da contadini.
Parasacco era un villaggio di poche case, sull’ansa di una strada che s’infrattava verso sud dalla Rossonia, poco prima del bivio per Medelana. La Rossonia continuava a correre fino all’Abbazia di Pomposa. Il viandante, invece, scendeva nel comune di Ostellato, ammirando capezzagne di tristezza.
Medelana, paesello già spettrale alla fine del secolo scorso, ora poco più di una bava grigioverde all’orizzonte. Quand’ero ragazza, andar a Madlana significava andare a vedere i porno. A Medelana c’era un cinema, i miei compagni di scuola ci andavano già da minorenni. Pellegrinaggi mesti in comitiva, immagini ferme proiettate in sequenza su un lenzuolo, per dare un’illusione di movimento: cazzo dentro, cazzo fuori, cazzo
dentro, cazzo fuori, schizzo, si ricomincia. Poi il cinema chiuse.
Ogni tanto lo riaprivano per una tombolata, sempre più di rado, infine si spense.
Poco distante, l’ex-fabbrica di “stampi da caccia”. Anatre di plastica. Il muro maestro è crollato, la pioggia ha sciolto gli scatoloni e i palmipedi sono fuggiti. Anatre di plastica nel canale
San Nicolò, anatre nel Po di Volano. Ai miei tempi era più basso e stretto. Dopo la Crisi si è alzato, certamente più di un metro, e si è allargato. Adesso è un Signor Fiume.
Eccola, invencible armada di anatre in viaggio verso il mare.
Quelle che non s’impiglieranno nei canneti, chissà dove finiranno. Forse arriveranno, tra cent’anni, fino alla Grande Macchia, vortice di immondizia che galleggia nel Pacifico e prima o poi raccoglie ogni pezzo di plastica finito in acqua. La immagino sotto il sole, la Macchia: una distesa quieta, aromatica.
Baciata dal sole. Fotodegradantesi.
Anatre, eccomi qui. La voglia di tornare è cresciuta veloce com al canarin d’Alvo.
Pensa che mi torna in mente. Una storia di prima che nascessi, qualcuno aveva venduto a un certo Alvo un anatroccolo, spacciandolo per canarino. Alvo lo mise in gabbietta e quello crebbe, crebbe, crebbe finché… dall’aneddoto nacque il modo di dire. At cresi com al canarin d’Alvo si diceva ai nipotini da una visita all’altra, si diceva agli undicenni durante l’estate. Ma sto divagando, mi chiedevo…
Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno. Un lucore pallido abbraccia il mondo, foschia si alza da acquitrini e grandi stagni che un tempo erano campi, foschia come quand’ero ragazza. A nord-est si allunga una striscia frastagliata. La superstrada per Porto Garibaldi. Quel che ne resta.
Cerco la casa della mia infanzia.

Giorni fa, entrata a Ferrara, ho trovato l’anastatica di un vecchio dizionario. Pagine gialle e deformi, macchie di muffa. Il Vocabolario Ferrarese-Italiano di Luigi Ferri, 1889. L’ho letto lungo il pellegrinaggio, voce per voce, pagina dopo pagina, accampata sotto antichi cavalcavia, seduta sul rotolo del sacco a pelo, gambe dolenti dopo migliaia di passi nel fango.
Che tetra sfilata di parole estinte! Frasi idiomatiche che usavano le nonne, perse molto prima della Crisi.

Argur
Zarabigul
Arzèstula

…ramarro, formicaleone, cinciallegra…

Sciorzz
Baciosa
Capnegar

…lucciola, chiurlo, capinera…

Ricordi vaghi, sussulti, vibrare incerto di neuroni.
Alievar.
Lepre.

Già quand’ero piccola, nei campi dietro casa non c’erano più lepri. Sterminate, tutte. Ne vidi una soltanto a nove anni, già putrefatta, forse l’ultima del suo mondo. Sterminio: prima degli enti mancarono le parole. E adesso che gli “enti” tornano, e chiurli ne sento spesso e le sere d’estate è pieno di lucciole, le parole sciorzz e baciosa son più morte che mai.
La controbonifica è in corso, lenta, contrastata ma inesorabile.
L’oriente della vecchia provincia è sotto il livello del mare, scende anche di quattro metri e l’acqua s’impunta, vuole tornare nei luoghi da cui fu espulsa. La Commissione mantiene il minimo di controllo, ma alcune idrovore non funzionano più e interi comuni hanno capitolato. Chissà che ne è stato delle Magoghe. Era il luogo abitato più basso d’Italia.
Davamo per scontato il territorio intorno a noi. Pochi si fermavano a pensare che, ogni profano giorno, qualcuno doveva controllare e pompare via l’acqua, perché le nostre case non fossero allagate. Levo una preghiera per quei lavoratori del Consorzio. Li ringrazio per quello che hanno fatto, e ringrazio chi di loro è rimasto a vigilare. Li ringrazio per questo lavoro di Sisifo, mantenere emerse porzioni di una terra che, presto o tardi, capitolerà di fronte al mare. Le acque salate già si innalzano, la costa annega lenta. Almeno così raccontano i viaggiatori, così racconta il radioamatore di Porto Tolle.
Penso a te, guardiano della bonifica. Non so chi ti stia dando un salario, né come né quanto. Non so cosa pensi di salvare, non so cosa vuoi che non si perda, non so cosa sogni mentre sogno, ma so che qualcosa stai salvando, e sono tua alleata, tua sorella. Io come te, tu come me, cerchiamo nel passato un avvenire.
Oggi, ad ogni modo, le acque nei canali sono ferme. Da una settimana il cielo ci risparmia, incombe triste ma non lacrima.

Della casa della mia infanzia resta poco, spaccata com’è da rampicanti, piegata verso nord dal pino crollatole addosso. Ed è così piccola… Quand’ero cirula, mi circondava come una reggia.
D’inverno ci teneva caldi, fuori la neve copriva la terra e sotto il manto, come tuberi, restavano i ricordi dei giochi al sole.
Aprile passava tra gli scrosci, la pioggia ci sorprendeva e riparavamo sotto i portici dei fienili, molti già abbandonati.
L’estate arrivava all’improvviso, senza dir ne asino ne porco. Ci mettevamo al sole, bevevamo limonate, facevamo filo, chiacchiere che non erano nulla, eppure erano noi.
Ora la casa è tanto piccola, o forse io sono più alta. Ho almeno una spanna di fango sotto gli scarponi.
Gli dèi sono stati buoni con papà e mamma. Se ne sono andati prima di vedere la Crisi, né oggi vedono questo.
Il sole è già basso. Non voglio entrare. Sento di non essere forte abbastanza.
Da una breccia nei muri consumati scivola fuori una cosa pelosa. E’ un ratto. No, un furetto. Un furetto, si allontana senza guardarmi, si infila tra gli arbusti. E’ di certo un discendente di bestiole da compagnia inselvatichite, che i padroni non fecero in tempo a sterilizzare.
La Crisi arrivò prima del veterinario.

Non riesco a dormire, leggo. E’ quasi l’alba, ma leggo. La luce del falò fa tremare le lettere.

A bissabuo
Snestar
Barbagul

…a zig-zag, di traverso, bargigli…

Pinguel
Budloz
Rugnir

…palato, cordone ombelicale, nitrire…

Vedere le macerie di una lingua strizza il cuore. Ogni parola che si estingue è una casa che cede, si piega e si infossa, affonda nella sabbia.
Queste erano parole abitate, esseri umani le riempivano di vita e di storie.
Vedere le macerie può farti immaginare com’era la casa.
Immaginare i passi, i bimbi che correvano, le voci che passavano di stanza in stanza… Ma non puoi abitare le macerie come si abita una casa. Le macerie non torneranno casa. La casa non esiste più.
Alzo gli occhi dal libro e a lungo cerco le Pleiadi, ma non le trovo.
E’ il mio ultimo giorno qui. Domani tornerò a sud-ovest.

Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]
Foto Andreas Trepte

 

Le mie lacrime per Leopardi

A volte credo che la difesa delle proprie convinzioni passi anche attraverso un sano e corretto rifiuto di discussione che non sia veramente motivata. Tutto nasce dall’avere visto “Il giovane favoloso” e di esserne rimasto così turbato (sì lo confesso anche con le lacrime invano ricacciate indietro) proprio perché avevo la certezza di trovarmi di fronte a un capolavoro dovuto alla regia di Martone e alla bravura di uno dei più grandi attori dei nostri tempi, Elio Germano. E quando sento certi colleghi “esperti” catalogare il film come puerile e didattico mi salta la mosca al naso. Si spieghino gli illustrissimi accademici e non e mi diano le ragioni “vere” di questo atteggiamento sussurrato con la boccuccia a “cul de poule”. Loro sono abituati al Leopardi e alla sua protesta civile secondo le indicazioni del mio maestro Binni e di Cesare Luporini? Va bene. Ma che dire come qui, nel film, l’infelicità e il dolore mettano in causa attraverso il dubbio la protesta del nostro stato e alla fine trovano una spiegazione attraverso la “social catena” umana della “Ginestra” che nel dolore trova e dà senso al vivere?
Altro che il “romantico” Leopardi a cui ci avevano abituato. Si romantico perché titanico: come Chopin ridotto fino alla mia generazione a musicista da signorine.
Ha ragione la mia amica Anna Dolfi autore di tre splendidi saggi su Leopardi ad avermi rimproverato la mia indifferenza verso quel poeta in tanti anni di commercio intellettuale. Ma non è mai troppo tardi. Anch’io alla mia venerabile età sono arrivato attraverso un film a capire le ragioni leopardiane. E per questo che difendo questo valore ritrovato nel momento che solo l’eticità di quella posizione è “rimedio unico ai mali” che in questo nostro deluso e deludente presente ci renderebbe degni di chiamarci popolo o meglio nazione. E i giovani lo sanno. Mi dicono che a Firenze la proiezione per le scuole superiori sia stata seguita in religioso silenzio e che Martone fino alle una di notte ha dovuto rispondere alle domande dei ragazzi.
Alla buonora! E perciò non mi vergogno d’aver pianto e di difendere questo film che è o sarà amato dalla meglio gioventù…

La supremazia del battito

Molto in fondo, oscuro e oscurato da sopvrapposizioni di anni ci sta il cuore primitivo, nucleo emotivo di tutto. A teorizzarlo è Craig Nolan, antropologo e accademico.
Mara Abbiati, sua moglie, scultrice di gatti nel tufo, quel cuore primitivo lo sente sotto la pelle che batte sempre più forte. Il cuore erutta e fa rumore (dum dum dum), si impone su ogni convenzione, buon senso, opportunità e logica. Basta sollecitarlo e parte. Proprio come aveva scritto suo marito Craig, attento studioso di uomini e civiltà lontane.
Ci prova Maria a fare resistenza a Ivo, così diverso e distante da lei, ci prova a seppellire il cuore primitivo che sente lì pronto ad attivarsi, è tutto un battere, un dominio di sensazioni e istinto. È un’attrattiva irrazionale quella che Mara sente, i gesti sono la logica conseguenza di un non senso che prevale.
Ma sono poi così diversi lei e Ivo? Quando si trovano vicinissimi, quando si sentono l’uno nell’altra, sembrano coincidere più che divergere. Mai si sarebbe avvicinata a uno come Ivo, eppure. Perchè questo fa il cuore primitivo: spacca. Così come si spacca il blocco di tufo che Mara sta scolpendo quando Ivo le è accanto, troppa forza, troppa brutalità nelle sue braccia forti di donna artista che non riesce a domarsi. È violenta, senza misura, piena di rabbia e tutto va in frantumi. Crac.
“Cuore primitivo” è un romanzo di suoni, rimbombi e sottofondi. De Carlo è abilissimo nel far sentire ciò che sta succedendo attorno a Craig, Mara e Ivo, ma soprattutto dentro di loro. Fa rumore il sangue bollente che scorre, il cuore che accelera, gli impulsi che attraversano i corpi.
Che fare dopo quello che è successo? Qualcosa si è spaccato. O aperto. Dipende da dove lo si guarda. Mara non può ignorare il blocco di marmo che è andata a prendere insieme a Ivo, sì proprio il marmo che lei aveva sempre rifiutato, è la sua nuova materia, una nuova scultura l’attende da quel blocco informe, qualcos’altro deve nascere dalle sue mani. Un’altra opera d’arte vuole liberararsi da quella pietra.
Ivo non capisce perchè una donna come Mara lo possa attrarre e gli faccia venire certi pensieri, non gli appartiene quell’approccio con le donne, lui è sempre stato diverso. È Mara che è diversa dalle altre, è concreta, materica. Sente che sta per precipitare in un senso di vuoto se lei se ne va. Stesso vuoto dentro di lei, quanto tempo potrebbe metterci a superarlo? Ma ha senso sforzarsi di capire l’incontrollabile?
Craig nota e sa, sa che quell’atteggiamento di Mara è chiaro indice di frattura, sa che c’entra la legge del cuore primitivo di fronte al quale l’equilibrio di coppia, già molto messo alla prova, non può reggere.
Supremazia del battito fuori controllo, dum dum dum.

Andrea De Carlo, Cuore primitivo, Bompiani 2014