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LA PROVOCAZIONE
Dal dottore: Renzi
e la mitomania

di Edoardo Nannetti

Paziente: Renzi Matteo;
Professione: presidente del consiglio e segretario Pd;
Anamnesi: fin da piccolo non distingue la destra dalla sinistra (probabile stereoagnosìa);
Fattori di rischio ambientale: frequenta assiduamente e segretamente Silvio Berlusconi; stringe affinità con Marchionne; ha tra i suoi amici e finanziatori il finanziere Davide Serra che vuole limitare il diritto di sciopero; preferisce gli imprenditori che vogliono licenziare a quelli che vogliono investire;
I sintomi:* nonostante il PD abbia perso 700 mila voti alle regionali in Emilia Renzi Matteo è convinto di avere riportato una sfolgorante vittoria; * mentre tutti attribuiscono la forte astensione elettorale in una regione che sempre vota ai massimi (l’Emilia) alla delusione verso il PD ed alle inchieste giudiziarie, il paziente dice che dipende da “una generale disaffezione verso la regione come istituzione”; * nello stesso giorno in cui escono i dati sulla disoccupazione aumentata ininterrottamente da marzo ad oggi, il paziente afferma che da quando c’è lui ci sono 100 mila posti di lavoro in più e rifiuta l’evidenza dei dati; * invita a cene di finanziamento persone che possono pagare da 1.000 euro a testa in su ed è convinto di aver organizzato una festa di finanziamento popolare per un partito popolare che fa interessi popolari; * il paziente veste sempre con jeans e camicia bianca con maniche rimboccate, anche d’inverno pensando che sia sempre primavera, anche a letto convinto che così è sempre all’opera pure di notte; * il paziente è convinto che il diritto di voto ce l’abbia solo chi ha uno smartphone (e una camicia bianca), a chi gli fa presente la Costituzione della Repubblica risponde che “la Costituzione è come una cabina telefonica a gettoni ed è meglio lo smatphone”; * con il Jobs act si può licenziare di più e senza tutele contro i licenziamenti illegittimi ma il paziente continua a ripetere ossessivamente che ci saranno più diritti per i precari (senza dire quali diritti); * l’evasione fiscale aumenta ma il paziente, di fronte ad una nutrita platea, dice trionfalmente e con sguardo esaltato che ‘è finito il tempo dei furbi’ (senza dire cosa farà contro l’evasione); * c’è l’alluvione a Genova e il paziente dice che è colpa del Tar che ha bloccato i lavori e gliela farà vedere lui (ma il Tar non ha mai sospeso i lavori); * il paziente ha affermato che avrebbe riformato la pubblica amministrazione il primo mese di governo, il lavoro nel secondo mese, il fisco nel terzo mese, la giustizia il quarto e così via (delirio di onnipotenza?);* il paziente si allea col pregiudicato Berlusconi ma dice che con lui ci sta solo gente per bene (comizio di Bologna) e che la Cassazione non è l’ultimo grado di giudizio (a chi gli mostra il codice di procedura civile replica che quello l’hanno scritto degli intellettuali del cavolo e non conta niente);*il paziente sostiene, senza accettare alcuna evidenza critica, che l’anno prossimo cominceremo ad uscire dalla crisi pur sapendo che le previsioni di tutti gli istituti economici ed anche di Confindustria dicono che non è così…
Da un manuale di psichiatria:“La ‘pseudologia fantastica (altrimenti nota come mitomanìa) risponde ad un bisogno morboso di costruire resoconti fittizi più o meno fantastici, in cui il soggetto stesso progressivamente finisce per credere, passando dalla menzogna all’autoinganno ed abbandonandosi ad una vita illusoria”
La diagnosi: a voi la diagnosi del caso concreto..
Possibile terapia: molte manifestazioni che consentano al paziente di riacquistare il rapporto con la realtà; in presenza del paziente vanno assolutamente evitate frasi del tipo “lasciatelo lavorare” in quanto aggravano i sintomi e provocano una confusione identitaria con Berlusconi; è raccomandato comunque al paziente un lungo periodo di riposo quindi l’interruzione delle attuali occupazioni politiche.
F.to Dr. Edoardo Nannetti

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LA RIFLESSIONE
La guerra dei tomi

Con l’approssimarsi della stagione dei regali natalizi capita sempre più spesso di leggere e ascoltare numerosi consigli e sconsigli per gli acquisti. Fra questi sono numerosi quelli che ruotano attorno alla ormai ‘vexata quaestio’ se sia meglio regalare libri cartacei o in versione digitale corredati da apposito lettore. Prima di esprimere la mia opinione sulla materia, premetto due definizioni, mutuate ed adattate dall’informatica, che possono aiutare a mettere la questione nella sua giusta prospettiva.
Dicesi ad “accesso sequenziale” un dispositivo che privilegia la fruizione di contenuti in modo continuo, con poche o nessuna possibilità di potersi posizionare in un punto qualsiasi del flusso. Tipicamente sequenziali sono ad esempio la fruizione di televisione, cinema e dirette di ogni genere. In termini generali possiamo dire che l’accesso sequenziale caratterizza la fruizione dei contenuti multimediali; i dispositivi che si adoperano sono di conseguenza specializzati per questo utilizzo.
Dicesi invece ad “accesso diretto” un dispositivo che consente con facilità di “saltare” da un punto all’altro di un flusso informativo. Naturalmente un dispositivo ad “accesso diretto” consente sempre di essere usato in modo sequenziale. Per poter funzionare esso necessita di una struttura di “indici” che descrivono il contenuto e che servono all’utente per posizionarsi in punto specifico. Le indicizzazioni sono, ad esempio, la successione delle pagine di un testo, l’indice generale o l’indice analitico.
Alla luce di queste definizioni è del tutto evidente che un libro, a seconda del contenuto e del tipo di fruizione, può essere inteso sia come un dispositivo ad accesso diretto che sequenziale. Un testo di filosofia o il manuale di riparazione della moto sono tipicamente ad accesso diretto, in quanto è normale dover tenere aperte più pagine contemporaneamente e muoversi sul testo in entrambi i sensi. L’ultimo romanzo di Jo Nesbø, un fumetto e la narrativa in genere sono invece intrinsecamente ad accesso sequenziale. Ovviamente, il tipo di accesso ad un libro cambia a seconda del tipo di lettore: il “professionista” (critico, filologo, ecc.) o anche l’accanito hanno, rispetto ad altri, una maggiore necessità di poter disporre dell’accesso diretto.
E’ allora evidente dove si vuole andare a parare. Un lettore di ebook è un dispositivo che privilegia l’accesso sequenziale, mentre il tomo cartaceo tradizionale consente un migliore accesso diretto. E’ possibile che le future generazioni di lettori possano migliorare le loro capacità di accesso diretto, ad esempio usando schermi touch (già peraltro disponibili) e, soprattutto, strutture di indicizzazione più adeguate alle loro caratteristiche, ma è indubbio che molto difficilmente riusciranno a replicare in modo efficace la possibilità, comune per un volume cartaceo, di tenere contemporaneamente fino a quattro ‘segni’ nel testo con le dita della mano sinistra.
In definitiva il lettore di ebook è un oggetto economico (60 euro), facile da usare, leggero e poco ingombrante ed in grado di contenere migliaia di libri, che ha senso utilizzare per letture cosiddette d’evasione, come ad esempio sono quelle che si fanno in vacanza (con buona pace di quelli che si portano Proust e Schopenhauer sotto l’ombrellone). E’ un dispositivo oltretutto molto utile per chi ha problemi di vista, dato l’ottimo contrasto e la facilità con cui poter cambiare la dimensione del carattere. Per letture più serie e meditate, nonché per lo studio, continua a mio parere ad essere preferibile il tomo tradizionale; per questo l’idea di sostituire completamente nelle scuole i libri di testo con un lettore mi lascia perplesso. Per alcuni (antologie ed eserciziari) non c’è alcun problema, per i manuali propriamente detti invece sarebbe meglio di no.
Sono quindi da evitare inutili “guerre di religione” che, capita di leggere, raggiungono a volte vette di esaltazione al limite del comico, con accuse sanguinose – “disboscatori” da un lato, “fatui e superficiali” dall’altro, decisamente degne di miglior causa. A Natale, a chi già non lo possiede, consiglierei pertanto di regalare un lettore di ebook, che non è un tablet, come ad esempio l’iPad: un oggetto diverso, con ben altro costo e caratteristiche e sul quale leggere è molto meno confortevole rispetto ad un lettore dedicato. Oppure libri, di carta o digitali, a seconda del contenuto e del tipo di lettore.

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LA SEGNALAZIONE
Arte al Cinema, ora tocca a Matisse

“Occorre guardare tutta la vita con gli occhi di un bambino”, Henri Matisse
Dopo il grande successo della scorsa stagione, che ha portato decine di capolavori della storia dell’arte in oltre 1.000 sale cinematografiche di tutto il mondo, continuano gli appuntamenti con “La Grande Arte al Cinema”. Un’inedita serie di eventi cinematografici che, fin dal mese di ottobre, e grazie alla tecnologia del cinema digitale, faranno condividere ancora una volta in contemporanea mondiale tutta la ricchezza dell’arte e dei luoghi che ne sono custodi. Abbiamo già parlato del film dedicato ai 250 anni del Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo, oggi invece ci dedicheremo ai “dipinti con le forbici” di Henri Matisse, che il 9 Dicembre sarà al Cinema Apollo di Ferrara, per un giorno, in contemporanea con tanti altri cinema italiani. Seguiranno “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer, la retrospettiva su Rembrandt e Vincent Van Gogh, a 125 anni dalla sua morte. Per chiudere con la meravigliosa arte degli Impressionisti.

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La locandina

Il film su Matisse è di fatto un tour che guiderà gli spettatori tra le sale della mostra “The Cut-outs” della Tate Modern di Londra e del Moma di New York. Costretto da una malattia all’intestino e da un delicato intervento chirurgico a utilizzare la sedia a rotelle e a rinunciare alla pittura, Matisse cominciò nell’ultima parte della sua vita a dedicarsi ai “dipinti con le forbici”, realizzando i suoi celebri collages, l’arte cui questa mostra è dedicata. L’evento al cinema svelerà così un mondo intimo e un dietro le quinte emozionante, alla scoperta dell’artista della “gioia di vivere”, la “belva” che spinse all’estremo i principi impressionisti trasformando i propri quadri in pura sintesi di linee e colori. Il film sarà arricchito da immagini di repertorio di Matisse al lavoro e da uno spaccato sui preparativi della mostra che a ottobre, dopo la tappa londinese della Tate Modern, si è spostata al Moma di New York.
Il tour cinematografico proporrà anche preziose interviste a esperti (come il direttore della Tate, Nicholas Serota, e il direttore del Moma, Glenn Lowry) o vibranti letture dell’attore britannico Simon Russell Beale, che darà voce a Matisse.

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La tristezza del re, Henry Matisse, collage
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Il circo, Henry Matisse, collage

Il pubblico cinematografico potrà ammirare spettacoli di musica e di danza ispirati proprio ai ritagli di Matisse. Quest’ultima arte ha sempre affascinato Matisse, ispirando una delle sue composizioni più famose, “La Danza” del 1909, che mostra cinque figure danzanti in cerchio. Nel 1937, inoltre, Matisse disegnò scene e costumi per un balletto con coreografia di Léonide Massine, basato sulla sinfonia n. 1 di Dmitri Dmitriyevich Shostakovich. Per questo il coreografo di fama mondiale Will Tuckett ha creato, assieme alla prima ballerina del Royal Ballet di Londra, Zenaida Yanowsky, una “risposta” all’opera di Matisse: un nuovo pezzo di danza che riflette i colori, il dinamismo e la libertà dei ritagli e si basa proprio sulla musica prorompente di Shostakovich.
Osservare quadri e sculture nel dettaglio, ascoltare il racconto degli organizzatori, entrare nelle segrete stanze e negli spazi in genere inaccessibili che hanno visto la mostra prendere forma sarà, ancora una volta, un’occasione unica per tutti gli appassionati d’arte, di viaggi e di cultura alla scoperta di storie che segnano il nostro modo di essere e di vivere. Molti di noi ci saranno. Alla ricerca del bello, sempre.

Aspirazioni, delusioni, menzogna e omicidio… tutto in 13 minuti

Diretto da Olivier Treiner, “L’accordeur” ha ottenuto numerosi premi, tra cui il prestigioso Cesar per il migliore cortometraggio nel 2012.
Il protagonista è un giovane prodigio, che non riesce a superare un concorso molto importante. Reagisce a questo evento decidendo di diventare un accordatore, fingendo oltretutto di essere cieco. Questa scelta è motivata dal desiderio di volere entrare nell’intimità dei suoi clienti, siano essi una giovane donna che si spoglia, oppure una famiglia che vive in assoluta libertà in casa.
Come ben descritto nella scena in cui il giovane racconta il suo modo di vivere al proprio datore di lavoro, questi decide di vivere indisturbato la sua finta infermità, per meglio osservare le persone, esaltando il voyeurismo che evidentemente è parte di sé. Inoltre, i suoi clienti lo credono in possesso di maggiore sensibilità, proprio per via della sua situazione sensoriale.
Questo sotterfugio pone l’accordatore di fronte a numerose situazioni, ma lo porta anche a essere testimone di un omicidio, coinvolgendolo in un finale aperto, ma dall’esito che si presume drammatico.
La scena del dialogo che ha come protagonista il suo datore di lavoro è un piccolo capolavoro di caratterizzazione di un personaggio minore, difficile da sviluppare in un cortometraggio. Con poche battute è svelato il suo modo di vivere i sentimenti, vedi il riferimento alla chat su Internet e il suo pensiero nei confronti dell’accordatore.

aspirazioni, delusioni, menzogna, omicido
La locandina

In pochi minuti il regista riesce a costruire, con maestria, una trama che implica aspirazioni, delusioni, menzogna e omicidio. Da notare che la sequenza iniziale e quella finale sviluppate in situazioni completamente diverse, sono uguali.
“L’accordeur” può essere visto nella versione integrale di quattordici minuti su YouTube [vedi]. Buona Visione.

L’accordeur”, di Olivier Treiner, con Grégoire Leprince-Ringuet, Grégory Gadebois, Danielle Lebrun, thriller, Francia, 2010, 13 min

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L’EVENTO
Il libro è servito: presentazioni letterarie con degustazione

Presentato oggi all’Hotel Carlton il programma di “Autori a corte”, cui si aggiungono gli appuntamenti di “Autori a merenda” e “Antipasto d’autore”, il tutto a ingresso libero.
L’iniziativa, a mò di menu completo, si propone di unire presentazione letteraria e degustazioni culinarie nelle giornate del 16 e 23 dicembre alla Sala Estense, con la collaborazione di 20 soggetti tra enti e istituzioni, l’Istituto di storia contemporanea e l’Istituto Vergani Navarra, di cui verranno coinvolti i ragazzi, e due sponsor, Banca Mediolanum e la testata locale estense.com.
“Autori a corte – racconta Federico Felloni di La Carmelina edizioni, format editor dell’iniziativa insieme a Vincenzo Iannuzzo – è nata per sfida durante la scorsa estate, nel Giardino delle Duchesse. Solo a causa della pioggia uno degli incontri era stato spostato alla Sala Estense, e lì ci siamo accorti che la location calzava a perfezione con l’iniziativa, lasciando quindi invariata l’ambientazione.”
L’iniziativa punta su autori ferraresi perché “Ferrara ha eccellenze, letterarie e non, che vanno messe in mostra”, ricorda Riccardo Roversi. Lo dimostra anche l’assortimento di temi dei libri: dalla genetica alle fiabe, dal disegno alla musica.

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Il programma dell’evento

Si comincia il 16 con “Le fiabe colorate di Miriana” di Miriana Trevisan dedicato ai più piccoli, proseguendo con Franco Mari e Gianfranco Dall’Olio presentati da Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara. Due temi affini i loro, scritti su tessuto storico e reale, esperienze che offrono spunti simili, editi entrambi da Este Edition: “Il dito di Dio” racconta di un sequestro durante il regime totalitario di Ceausescu nella Romania dei primi anni Settanta; “La generazione imperfetta” ruota intorno alla gioventù ferrarese durante il fascismo, analizzando ideali, motivi e disillusioni che hanno permeato i giovani che hanno abbracciato il regime.
Per terminare con il genetista Guido Barbujani e il suo libro “Lascia stare i santi”, intreccio sapiente di scienza, avventura e religione.

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La presentazione

Il 23 sarà la volta di Daniela Pareschi, scenografa teatrale e cinematografica che presenterà “Disegniamo insieme”, un libro dedicato alla pratica del disegno, utile a bambini e adulti. Seguirà il giornalista Gian Pietro Testa con “Interviste infedeli”, in cui due chiacchierate con Dio e Satana sono gli originali e ironici spunti per una riflessione sull’uomo. Terminerà il programma il musicista Andrea Poltronieri con le sue “Note appuntate”, “un bloc-notes – racconta l’autore – che nasce da pensieri e appunti, scritti di getto, magari dopo una serata”, completo della sezione “Dicono di me” con aneddoti e commenti di amici e colleghi – tra cui Stadio, Giuseppe Giacobazzi, Paolo Cevoli e Cristina D’Avena.

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La ‘Qualità della vita’ in Emilia, Ferrara fanalino di coda

Il rapporto sulla “Qualità della vita” delle province italiane, uscito alcuni giorni fa e pubblicato, come avviene regolarmente da ben venticinque anni, dal quotidiano economico Il Sole 24 ore, risulta chiaro ed evidente: se letto nel triennio 2012-13-14 e su tutti i 36 parametri suddivisi in sei capitoli, le città che si trovano lungo l’asse della via Emilia, province incluse, si posizionano vicinissime tra di loro nei punteggi e con scarti irrilevanti.
Il distinguo lo si vede là dove ti distacchi da quest’asse ed in particolare su Ferrara, in modo consistente con meno di 30/40 punti, mentre Ravenna, in certi casi, la si trova vicino al vertice, Rimini altalenante e Bologna ben posizionata anche rispetto alle città capoluoghi di regione.
Possiamo dire, come ormai noto, che la parte centrale della via Emilia è l’asse portante del quadro emiliano romagnolo, al di là di alcune piccolissime differenze che, di anno in anno, si possono manifestare.
Se ci soffermiamo, inoltre, sui parametri dell’economia, questa parte centrale risulta marcatamente evidente, quasi a voler dare il primato alla sua crescita, riconosciuta da quando i distretti industriali si sono radicati ed innovati in processi ed in prodotti, e come parte che crea valore, parte alta della filiera produttiva.
Piacenza e Rimini, infine, si possono riconoscere, anche per la loro collocazione geografica: la prima come un pezzo già strutturato con lo sguardo alla Lombardia e a Milano; la seconda, come il primo, il più grande e consolidato distretto turistico balneare italiano.
Che Ferrara sia la criticità è anche nell’analisi tendenziale delle cifre, dei comportamenti e della sua storia a partire dal valore aggiunto pro-capite alle infrastrutture, dall’export al quoziente femminile dell’occupazione, dai laureati alla cultura, anche con forti negativi scostamenti, a volte non comprensibili e con una significatività statistica molto singolare.
Non è una casualità che su ben 36 parametri, ben tre su quattro siano sotto la media di posizionamento e molto distanti da quelle della via Emilia; potremmo dire che il ferrarese sta sempre nelle seconde file e a ridosso delle terze come punteggio.

Di seguito i sei capitoli e i trentasei parametri utilizzati per quantificare la qualità della vita:

Affari & Lavoro: 1.imprese 2.impieghi/depositi 3. fallimenti 4. export 5. occupazione femminile 6. start up innovative
Ordine pubblico: 1. scippi-borseggi 2. furti casa 3. furti auto 4. estorsioni 5. truffe e frodi 6. delitti
Popolazione: 1. densità abitativa 2. saldo scritti e cancellati anagrafe 3. divorzi e separazioni 4. popolazione tra 0-29 anni 5. laureati 6. Stranieri
Servizi & Ambiente: 1. infrastrutture 2. indice legambiente 3. indice clima 4. emigrazione ospedaliera 5. asili nido 6. cause civili
Tempo libero: 1. librerie 2. cinema 3. ristoranti e bar 4. banda larga 5. volontari 6. indice sportività
Tenore di vita: 1. valore aggiunto pro-capite 2. depositi bancari 3. media pensioni 4. consumi pro-capite 5. inflazione 6. costo casa

Le posizioni e i punti delle Province dell’Emilia Romagna – anno 2014:

Via Emilia

PC pos. 22 punti 567
PR pos. 19 punti 571
RE pos. 5 punti 591
MO pos. 3 punti 59
BO pos. 7 punti 584
FC pos. 18 punti 572
RN pos. 32 punti 557

Costa adriatica nord
RA pos. 1 punti 600
FE pos. 43 punti 546

Il lettore, e forse anche le istituzioni ferraresi, comprese le loro forze sociali, potranno ridire su questi numeri riportati, sul metodo, sulle rilevazioni e sulle considerazioni, ma quando i fenomeni si ripetono nelle loro tendenze resta difficile commentare diversamente.
Se poi ti sforzi di entrare nelle misure, di capirne la composizione, l’evoluzione, il senso e ricavarne anche l’anima e i sentimenti di una difficile condizione del vissuto indigeno, forse ti puoi anche riprendere e reagire all’andazzo che da tantissimo coinvolge un territorio.
Questo quotidiano ha compiuto già un anno di vita, sulle sue pagine molti hanno cercato di scuotere un contesto ancora sonnolento, pur con lo sforzo di qualcuno.
Ma se non c’è una visione ed un cambiare verso, veramente, l’inizio per il futuro del nostro territorio non troverà una adeguata partenza.

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LA SEGNALAZIONE
E’ tempo di leggere

Dal 4 all’8 dicembre torna “Più libri più liberi”, al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma. Un avvenimento che si rinnova ogni anno, dal 2002, con il supporto del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, di Roma Capitale, della regione Lazio, dell’Associazione italiana editori e della Camera di commercio di Roma. Quest’anno ci saranno 400 editori, oltre 300 eventi e 5 giorni di esposizione ad aspettare i lettori. Molti eventi e curiosità. Ma soprattutto tanti libri.

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Logo della fiera

“Più libri più liberi” [vedi], la Fiera nazionale della piccola e media editoria, nasce nel dicembre del 2002, da una felice intuizione del Gruppo piccoli editori di varia dell’Associazione italiana editori. L’obiettivo è di offrire al maggior numero possibile di piccole case editrici uno spazio per diffondere la propria produzione, spesso ‘oscurata’ da quella delle case editrici più forti, grandi e potenti; e insieme di realizzare un luogo d’incontro per gli operatori professionali, per discutere le problematiche del settore e per individuare le strategie da sviluppare. Perché piccoli può essere bello.
Caffè letterari, letteratura e scuola, laboratori di storytelling, l’integrazione, Leopardi, la disabilità, voci di donne, spazi ragazzi, una giornata a Repubblica, uffici stampa e comunicazione digitale, il self publishing, gli ebook, il calcio, i crimini dell’amore, la mafia, i videogiochi, questi alcuni dei temi che verranno discussi e trattati. Con tanti autori noti e meno noti, con tante voci diverse e tanta voglia di dialogo e scambio.
Ogni anno in Italia vengono pubblicate oltre 50 mila novità. Di queste il 25%, cioè un libro su quattro, è pubblicato da un piccolo e medio editore ma difficilmente riesce a superare i tanti ostacoli che affollano la strada che lo separa dal magazzino alle vetrine delle grandi librerie. L’iniziativa di Roma nasce per questo, per garantire ai piccoli e medi editori italiani la vetrina che meritano. Una vetrina d’eccezione, al centro di Roma e durante il periodo natalizio, di una cultura che arriva “dal basso”. Facciamoci una passeggiata spensierata alla fiera, allora, e buona lettura a tutti, grandi e piccini.

LA STORIA
Dai fotoromanzi al cinema, Franco Gasparri e la saga di ‘Mark il poliziotto’

I fotoromanzi hanno una matrice italiana, c’è chi ne fa risalire la paternità a Cesare Zavattini, uno dei massimi esponenti del neorealismo cinematografico, e a Damiano Damiani, regista de “La noia”, “Il giorno della civetta”, “La piovra”.

Gli anni sessanta videro l’affermarsi della Lancio, nata inizialmente come società di pubblicità nel 1936 per opera di Arturo Mercurio e trasformatasi in casa editrice di fotoromanzi nel 1960. La Lancio portò al successo numerosi personaggi: Franco Gasparri, Michela Roc, Franco Dani, Adriana Rame, Katiuscia, Kirk Morris, Pierre Clement, Paola Pitti, Jean Mary Carletto, Alex Damiani, Claudia Rivelli (sorella di Ornella Muti).

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Un fotoromanzo della Lancio, in copertina Franco Gasparri

Nel 1976 la tiratura delle case editrici di fotoromanzi raggiungeva in Italia la quota di oltre otto milioni e seicentomila copie al mese, di cui cinque milioni vendute dalla sola Lancio.
Come era inevitabile anche il cinema iniziò a corteggiare i protagonisti dei fotoromanzi, grazie all’enorme popolarità raggiunta, Franco Gasparri venne scelto per interpretare Mark.
Dopo le prime apparizioni in alcune pellicole peplum (film a carattere mitologico) come “Goliath contro i giganti” (1961) e “La furia di Ercole” (1962), con la saga di “Mark il poliziotto” il cinema gli spalancò le porte. Tutti e tre i film di “Mark”, diretti da Stelvio Massi, ebbero incassi eccezionali al botteghino e si inserirono al vertice del filone “poliziottesco”.

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Locandina del secondo film della serie “Mark il poliziotto”

“Mark il poliziotto”, “Mark il poliziotto spara per primo” e “Mark colpisce ancora”, tra il 1975 e il 1976, attirarono nei cinema milioni di italiani, ampliando la popolarità di Franco Gasparri, che riuscì a crearsi un suo pubblico cinematografico. Il cinema di “genere” italiano, rivalutato da Quentin Tarantino in anni recenti, era appannaggio di registi quali Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi, Lucio Fulci, Lamberto Bava, grazie al personaggio interpretato dal divo dei fotoromanzi, anche Massi entrò in questa ristretta cerchia. In “Mark il poliziotto” Gasparri interpreta il ruolo del commissario Terzi, impegnato a sconfiggere i malavitosi. Mark non dosa umorismo e azione come il tenente Callaghan e non cerca neppure di fargli il verso, ma non mancano citazioni e analogie, per esempio la scena dell’uccisione dei due poliziotti in auto, oltre all’inseparabile pistola fuori ordinanza. L’attore si cala bene nel ruolo, con naturalezza e spontaneità, anche se il personaggio, sarà meglio caratterizzato nel film successivo.

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Foto di scena di “Mark colpisce ancora”

Girato e ambientato a Milano, la trama del film si sviluppa sui sospetti di Mark verso un rispettabile imprenditore milanese, che in realtà è il capo di un’organizzazione di trafficanti d’eroina. Nel cast nomi eccellenti: Lee J. Cobb, Giorgio Albertazzi, Giampiero Albertini. Il ruolo del killer è affidato al pugile campione europeo dei pesi medi e superwelter Juan Carlos Duran, ritiratosi a Ferrara, dopo avere chiuso con il ring.
Nello stesso anno uscì il sequel “Mark il poliziotto spara per primo”, che risultò migliore del primo episodio. Il commissario Terzi è trasferito a Genova per occuparsi di una serie di omicidi, provocati da un killer che si firma “la sfinge”. Il “trait d’union” con il primo film è il personaggio interpretato da Lee J. Cobb, divenuto rispettabile e potente. Nel cast Massimo Girotti sostituisce Albertazzi, nel ruolo del capo di Mark, mentre Nino Benvenuti subentra a Duran, nella parte del violento.

Le scene d’azione sono ben realizzate, senza troppe concessioni al sensazionalismo, girate nei vicoli di Genova e Savona, dove Mark insegue, pistola alla mano, un delinquente fino all’interno del cinema Astor, dov’è in programmazione proprio un poliziottesco “La polizia ha le mani legate”, uscito nelle sale in quel periodo.
La sceneggiatura, ben articolata, agevola il lavoro di Franco Gasparri, sempre più a suo agio con il mezzo cinematografico, che si appropria del personaggio e lo rende credibile, facendo intravedere potenzialità interpretative ancora maggiori. La regia di Massi acquista spessore, notevoli alcuni cambi di fuoco, che valorizzano la fotogenia e l’espressività del protagonista.

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Mark e la famosa pistola fuori ordinanza

“Mark colpisce ancora” è il terzo episodio, ma in realtà è un capitolo a parte della serie, in quanto il protagonista non è il commissario Terzi, ma un agente di polizia il cui cognome è Patti. Il personaggio è caratterizzato in modo diverso, con capelli ricci e qualche concessione in più verso il mondo femminile. Il film avrebbe dovuto avere un altro titolo, ma per evidenti motivi di cassetta fu legato alla saga di “Mark”. La storia racconta di terroristi e attentati, ma il ruolo di Gasparri non si discosta dalle pellicole precedenti. Nel cast John Saxon e John Stainer.

Rivedere Franco Gasparri ci porta indietro nel tempo, così come ricordare l’Italia degli anni ’70, non meno violenta di oggi, ma certamente più idealista e romantica.
La figlia Stella ha scritto e diretto il documentario “Un volto tra la folla”, una serie di appunti e contributi su suo padre, visto come attore e come uomo, utile per ricordarlo e farlo conoscere alle nuove generazioni.

I film della trilogia di “Mark” sono disponibili in DVD e, saltuariamente, nella programmazione del canale Iris sul digitale terrestre.

Si ringrazia Stella Gasparri, figlia di Franco, per la collaborazione e la disponibilità del materiale fotografico.

LA RIFLESSIONE
Heidegger e il secolo mefistofelico

Qualche anno fa il mefistofelico Al Pacino, un satana istrionico nei panni del capo di uno studio legale (allegoria quanto mai azzeccata) rivendicava con forza le malefatte del Novecento: “chi può davvero negare che il Ventesimo Secolo sia stato interamente mio?” Del resto, due guerre mondiali, la Shoah e la bomba atomica non potevano che confermare questa impressione.

Nel culmine di quegli anni, nel 1944, quando la Germania nazista non era ancora caduta, la Shoah era ancora in opera e la bomba atomica non era stata sganciata, Heidegger sfidava la pazienza dei suoi (presumibilmente pochi) studenti e gettava loro in faccia la sua interpretazione dell’Antigone di Sofocle attraverso la non facile mediazione del suo poeta prediletto Hölderlin.

Questa dottissima, erudita (ma diciamolo pure: noiosissima!) lezione di Heidegger è stata dettagliatamente letta ed esaminata da un’autorità nella cosiddetta decostruzione letteraria della scena americana: Samuel Weber, promotore di Derrida e Lacan sul suolo tedesco e americano. Samuel Weber [vedi] si è lanciato in una complessa ma mai noiosa rilettura delle lezioni di Heidegger, davanti a un pubblico che ha sfidato il freddo per raggiungere l’Institute for cultural inquiry a Berlino.

Ha preso le mosse dal celebre verso del coro dell’Antigone di Sofocle: “Molte sono le cose terribili, ma di tutte la più terribile è l’uomo.” Questa traduzione è solo una delle tante possibili. ‘Terribile’ in greco si dice ‘deinòs’ che però significa anche ‘meraviglioso’. Per cui l’uomo è colui che è ‘meraviglioso’ e al contempo “terribile.”
Heidegger, nota Weber, rifiuta il doppio senso del testo greco e offre la famosa traduzione: ‘unheimlich’, ‘inquietante’, uno dei grandi termini della psicologia freudiana, ma senza alcun intento psiconalalitico. Il grande e compianto traduttore di Heidegger Franco Volpi l’avrebbe infatti tradotto come “spaesato,” ovvero ciò che non trova una propria ‘patria’ (Heimat), che non è mai a casa propria.
E quindi, nella lettura di Samuel Weber, ‘spaesato’ sarebbe quello stesso uomo che ora va perdendo in una lotta presso il fiume, nelle valli del Caucaso: “E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, tanto antiche voi siete, a voi paradisi di là e ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti.”
Quel Caucaso in cui, ha ricordato Samuel Weber nella sua penetrante lettura teologico-politica, si decidevano i destini di Stalingrado e con essi i destini del mondo. Su quelle sponde venne infatti respinta quella “razza dei Tedeschi” (das deutsche Geschlecht), la cui origine Heidegger voleva collocare ad Est, verso una qualche parte di un Caucaso mitizzato.

Sono queste parole, queste fantasie profetiche e queste velleità filosofiche che ora andrebbero rilette e misurate alla luce dei famigerati “Quaderni Neri”, pubblicati l’anno scorso e oggetto, tra l’altro, dell’ultimo libro dell’ottima Donatella Di Cesare, in un volume appena uscito che promette di fare fuoco e fiamme [vedi].

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L’IDEA
Ricostruire la mia città: quella che era, quella che è

da MOSCA – “L’architettura è una scultura abitata” (Constantin Brancusi)
Sapere (ri)costruire la propria città può essere un’avventura davvero entusiasmante oltre che altamente istruttiva ed educativa. Può essere un viaggio nel magico passato, utile per comprendere il presente complicato e immaginare il futuro speranzoso. Non sto certo parlando dei giochi che vanno per la maggiore sui social network, quegli orrori tipo City empires o Rising cities, che peraltro detesto, né mi riferisco a belle città virtuali, senza periferie pericolose e abbandonate o con giardini e palazzi da favola immaginari e futuristici. Né tantomeno penso ai Lego e ai suoi numerosi mattoncini colorati, che lo scorso mese di febbraio, per due giorni, hanno entusiasmato Ferrara.

costruire-mia-cittàPenso, piuttosto, a quello che ho visto qui, a Mosca, lo scorso settembre, il giorno del compleanno della città. Questa è una metropoli che rispetta la sua storia, nel senso che la fa conoscere e la diffonde, a tutti, grandi e piccini, che rispetta i suoi bambini, dando loro spazi verdi per giocare e spazi creativi per costruire edifici che c’erano e che ci sono ancora e che vengono plasmati ed eretti da giovani mani creative e desiderose di sapere, di vedere, di immaginare, di costruire, di plasmare, di volare, di curiosare. Una città che vive il presente con il rispetto del passato e lo sguardo al futuro. Eccoci allora nel cortile del Museo dedicato alla storia della capitale russa, sul grande e trafficato boulevard Zubovskiy.

costruire-mia-cittàcostruire-mia-cittàQui c’è tanto polistirolo bianco, montagne di blocchi con i quali si possono costruire gli edifici. Ci sono le colle per unire i pezzi, i colori per adornarli e dar loro vita, i disegni per ispirarsi e non sbagliarsi troppo. Ognuno può animare come vuole quelle case, mettendoci dentro una famiglia felice, magari con un cane o un gatto, un gruppo di amici, tre o quattro batteristi chiassosi o un paio di poeti e di scrittori silenziosi. O, perché no, ci potranno stare nonne e nipoti, zie e amici, torte e pasticcini. Si potrà sentire una macchina da scrivere che ticchetta, un trenino che sbuffa sulle rotaie, una bambola che ride, un giocattolo di legno che scivola sul pavimento, i tasti d’avorio di un antico pianoforte, il suono di una balalaica. Rumori che varieranno con l’epoca in cui si vorrà far vivere quell’edificio, con la gioia e la fantasia di ogni bambino. Potranno cambiare anche le lingue, le inflessioni dialettali, le espressioni dei tempi, le note musicali, le canzoni canticchiate o fischiettate, i dolci che si mangiano, le caramelle che si scartano, le bevande che si gustano. Tutto dipenderà solo dalla fantasia e dalla storia.

costruire-mia-cittàAllora, mi domando, perché non farlo anche a Ferrara? Sarebbe bello, per un giorno, vedere bambini che costruiscono il Castello Estense e il suo fossato, il Duomo (quelli più abili e grandicelli), o i vialetti del Parco Massari (i più piccoli), con il recinto delle caprette che ci portavano a vedere, da bambini, la domenica mattina o le gabbie dei pappagalli dispettosi che ripetevano malamente i nostri nomi. Sarebbe bello vedere blocchi di polistirolo che ridanno vita a una Ferrara che non c’è più, tanto per chi la ricorda che per chi non l’ha conosciuta così, quella dei negozi Perugina di viale Cavour o dei bellissimi locali dei Grigioni di Piazzetta Municipale, dove si restava inebriati dall’odore della cannella e del cioccolato fondente.

costruire-mia-cittàPotrebbero esserci poi, anche, i vecchi magazzini di vestiti del centro, l’antico mercato coperto o la merceria, dove si compravano tessuti, filati, nastri e bottoni. Sarebbe bello costruire i palazzi e intanto esplorarne la storia, diffonderne la conoscenza ai giovani che ancora non l’hanno, ridare ai più anziani teneri ricordi non perduti. Colorando pareti e alberi, potremo esplorare più facilmente le radici lontane e affascinanti di questa meravigliosa città. Per non perdere la storia passata, ma anche quella più recente. Sarebbe bello…

Le fotografie sono state scattate al Museo della città di Mosca da Simonetta Sandri

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La sindrome della rana

Quando Jean Paul Sartre scriveva “L’età della ragione” pensava di raccontarci le vicende di un gruppo di giovani impegnati, negli anni immediatamente precedenti l’ultimo conflitto mondiale, a conquistare ‘l’età della ragione’.
Da allora sono trascorsi i decenni e con i decenni anche la ragione ha cominciato a risentire degli acciacchi del tempo, tanto che i nostri giovani devono prepararsi ad entrare “nell’epoca della non ragione”, come è stato definito l’avvento del nuovo millennio da Charles Handy, uno dei più grandi guru del management internazionale.
Un mondo rovesciato, un mondo oltre lo specchio. È il destino che già provano i nostri giovani, istruiti in un mondo e per un mondo che è diverso da quello in cui si trovano e si troveranno a vivere. E questo sarà ancora per molto tempo il loro male di vivere.
È la sindrome della rana del famoso esperimento di fisica che finisce bollita, perché non si accorge che la temperatura dell’acqua sta alzandosi.
Questo accade quando i tempi cambiano e noi continuiamo a non renderci conto che dobbiamo cambiare con essi, o siamo terribilmente in ritardo lungo questa strada.
Ho l’impressione che questo sia lo specchio della situazione in cui versa il nostro Paese. Ogni giorno pare un bollettino di guerra, come conseguenza di un’ostinata resistenza o come una arresa a un cambiamento che siamo costretti a subire nostro malgrado.
Eppure la maniera di impadronirci, di governare il cambiamento anziché subirlo, ci sarebbe e consiste nell’intraprendere con coraggio la strada maestra della discontinuità.
Il cambiamento di per sé non è né una crisi né una calamità che ci vengono imposte.
‘Cambiamento’ è solo un altro modo di dire ‘apprendimento’. Le persone che imparano di continuo sanno anche lasciarsi condurre dal cambiamento e vedere nel mondo che cambia una fonte di opportunità, non di problemi. È come dire se volete essere padroni del vostro cambiamento, date più importanza all’apprendimento.
‘Imparare a imparare’, è da tempo che lo sappiamo, sul tema c’è un’ampia letteratura che risale al secolo scorso, eppure pare che sia molto difficile da tradurre in pratica, tanto che le nostre stesse scuole e università non sembrano in grado di fornire i nostri giovani di questo strumento necessario a vivere domani qualunque sia la società che si troveranno di fronte.
Non possiamo nasconderci che nella maggioranza dei casi, salvo significative eccezioni, il nostro sistema formativo è ancora il luogo in cui si comunicano problemi che sono già stati risolti da qualcuno, dove le risposte stanno già da qualche parte, o in fondo al libro di testo o nella testa dell’insegnante. Dove imparare significa trasferire le conoscenze da una mente all’altra, dal docente al discente. Questo è tutto fuorché apprendimento, niente che abbia alcuna attinenza con l’idea di cambiamento.
Apprendimento è un continuo interrogarsi, formulare domande a cui la teoria fornisce risposte da verificare nella pratica, dando luogo a riflessioni, innescando nuove domande che alimentano il ciclo continuo dell’apprendimento, dell’imparare a imparare, della formazione di competenze.
È questa la ruota della vita. Chi ne esce si fossilizza e diventa un peso per gli altri. Il problema è che, per la maggior parte di noi, e per la maggior parte del tempo, la ruota non gira. S’inceppa o si blocca.
Scriveva George Bernard Shaw che ogni forma di progresso dipende dalla donna e dall’uomo irragionevoli, che non si adattano al mondo, ma insistono nell’adattare il mondo a se stessi.
A ben riflettere è quello che fanno i bambini, per i quali la ruota dell’apprendimento gira ad alta velocità. Ma noi adulti siamo riluttanti al cambiamento, e pare che solo le crisi e le calamità ci spingano ad agire.
Certo fare girare la ruota dell’apprendimento è difficile. Per alcuni non parte mai. Sono le persone che non hanno domande e non cercano risposte. Soddisfatte delle loro certezze e dei loro punti di vista. Questo però non può e non deve accadere nelle nostre scuole, che devono essere il luogo per eccellenza delle discontinuità, dell’incertezza, del dubbio, gli unici ingredienti che possono alimentare le intelligenze, l’apprendimento continuo come costante dell’esistenza di ogni singolo individuo.
Si crede di avere imparato quando si conoscono le risposte, come in un quiz televisivo. Un’idea davvero strana, di sapere come somma di risposte. Tante stringhe per ogni occasione. Come dire, la morte di ogni crescita, di ogni cambiamento.
Se imparare fosse come studiare, il ciclo dell’apprendimento si arresterebbe ad ogni fase di studio. Fortunatamente è molto di più, perché è un atteggiamento, un’abitudine di vita, una forma mentis, un modo di pensare e di crescere. L’apprendimento non si misura con gli esami e con i test, ma col progredire delle esperienze, della capacità di indagare, di comprendere e di verificare.
Tutto ciò non è mai né automatico né meccanico, richiede energie, riflessione, coraggio, supporto.
Imparare non è scoprire quello che altri già sanno, ma è risolvere problemi, interrogarsi finché la soluzione non diventa una nuova parte della nostra vita.

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LA PROPOSTA
Incentivi per la raccolta differenziata

Fare la raccolta differenziata è un dovere di ogni cittadino, ma se non la fai cosa succede? Io credo che per prevenire o ridurre la produzione dei rifiuti o per ottimizzare il recupero, si possano premiare i cittadini virtuosi. Perché allora non introdurre sistemi di valorizzazione dei comportamenti dei cittadini individuando metodiche di riduzioni, agevolazioni, premi, e incentivi per le utenze domestiche e non domestiche che partecipano?
Un atteggiamento virtuoso dell’utente consente e assicura un aumento del valore economico dell’ambiente e dunque permette di ridurre i costi del servizio; se questo reale beneficio permette anche di ritrovarsi bollette più leggere e più eque da pagare, agevola quel cambiamento culturale che consentirà una crescita culturale verso una gestione sostenibile del territorio e dell’ambiente.
Per incentivare i cittadini a questi atteggiamenti, già molti anni fa con il dlgs 152/06 (art.238 comma 7) prevedeva l’obbligo da parte delle pubbliche amministrazioni di predisporre azioni di “Best Practice” per la riduzione della quantità di rifiuti, per favorire il massimo recupero, riutilizzo e riciclaggio delle frazioni organiche e dei materiali recuperabili. Non se ne parla più.
Certo il sistema di tassazione, rispetto ad una tariffa, non aiuta, ma non è impossibile trovare soluzioni compatibili con il metodo applicativo; anzi, fortunatamente, alcune vengono attuate.

Provo a fare qualche esempio:
– compostaggio: riduzione fissa annua per ogni componente del nucleo familiare oppure agevolazione su acquisto compostiera o fornitura gratuita da parte del gestore;
– utilizzo isola ecologica: riduzioni legate al peso o al tipo di rifiuto conferito, contributi specifici per materiale concessi per conferimento a cura dell’utente presso l’isola ecologica;
– utenze non stabilmente attive, abitazione ad uso limitato, emigrato da almeno un anno: riduzione dal 30 al 50% della qv della tariffa, varie norme inserite nel regolamento comunale;
– riduzioni per disagio (distanza da cassonetto): riduzione della tariffa in base alla distanza, naturalmente con differenze se il cassonetto all’interno del centro urbano o fuori dal centro urbano;
– agevolazioni a favore di soggetti anziani o in grave disagio economico: riduzione dal 30 al 50% in base ai valori reddito Isee oppure esenzione totale o parziale in casi di particolari casi di grave disagio;
– agevolazioni di tipo partecipativo per gli utenti che dimostrino di aver sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti o una riduzione volumetrica;
– attenzione specifica per gli utenti artigianali o industriali tendenti alla migliore igiene e al miglior decoro della zona in cui ha sede l’esercizio, ma anche per gli operatori facenti parte di un unico comparto produttivo non-domestico che producano un tipo di rifiuto omogeneo il cui smaltimento comporta una particolare economia di servizio o per le aziende che sperimentano scarti di lavorazione riutilizzabili e riciclabili.

Insomma, i cittadini ringrazierebbero se aumentasse il rapporto sincero e trasparente del corrispettivo per un servizio reso, rispetto al solito “zitto e paga”.

IL FATTO
Liberiamoci dal Pil, un’altra economia è possibile

“Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.[…] Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” (Robert Kennedy, 18 marzo 1968).

Quella appena trascorsa è stata la sesta Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, nata all’interno del Programma LIFE+ della Commissione europea con l’obiettivo primario di sensibilizzare istituzioni e consumatori sulle strategie e sulle politiche di prevenzione dei rifiuti messe in atto dall’Europa. Pubbliche amministrazioni, associazioni e organizzazioni no profit, scuole e università, imprese e cittadini hanno proposto azioni volte alla riduzione dei rifiuti, a livello nazionale e locale: dalla cucina con gli avanzi agli eco-acquisti, dai laboratori di compostaggio con gli scarti organici a quelli di riuso e riciclo per i bambini e gli adulti. In tutto sono state 5643 le azioni validate per questa sesta edizione, che aveva come tema la lotta allo spreco alimentare. Una delle modalità di adesione scelte dall’amministrazione comunale di Ferrara è stata la presentazione dei risultati per il 2013 di “Last Minute Market stop allo spreco!”. Il progetto, attivo a Ferrara dal 2004 e coordinato da Last Minute Market srl – società spin off dell’Università di Bologna, nata da un’idea del professor Andrea Segrè – facilita il recupero di prodotti non commercializzati attraverso la realizzazione di reti locali costituite dalle imprese, dal terzo settore e dalle istituzioni. Nella pratica Last Minute Market diventa perciò un servizio concreto per la prevenzione dei rifiuti e il loro riutilizzo a fini sociali, che applica concretamente i principi del km zero e della filiera corta. A Ferrara, sono una decina le onlus che ricevono beni alimentari con cadenza giornaliera o settimanale da circa 20 esercizi commerciali, fra supermercati e negozi al dettaglio di prodotti da forno e gastronomia, frutta e verdura e altro. Nel 2013, la quantità di prodotti alimentari recuperati è pari a 74.600 kg per un valore economico dei prodotti alimentari recuperati pari a circa 279.000 €.
Ferrara è stata anche il terreno di un altro progetto Life+: l’esperimento di economia circolare “Lowaste-Local waste market for second life products”, costruito sulla considerazione dei rifiuti come base di partenza per una nuova produzione e su una logica di partnership pubblico privato. Partendo da alcuni progetti pilota nel settore del tessile sanitario, degli inerti da demolizione, degli arredi urbani, degli oli e degli scarti alimentari, sono nate vere e proprie filiere circolari che formano il distretto locale di economia verde LOWaste, inoltre si è formata LOWaste for action, la community dei designer, maker, artigiani, cooperative sociali e Pmi che progettano e realizzano i riprodotti.
Ora tocca al distretto di economia solidale, una delle realtà riconosciute e sostenute dalla nuova legge regionale n°19 del 23 luglio 2014 sulle “Norme per la promozione e il sostegno dell’economia solidale”. Produzione agricola e agroalimentare biologica e biodinamica, filiera corta e garanzia della qualità, bioedilizia, risparmio energetico, commercio equo e solidale, gruppi di acquisto solidale e finanza etica, dall’estate scorsa sono quindi tutte realtà riconosciute e sostenute da una legge regionale dell’Emilia-Romagna. Per far conoscere il nuovo testo alla cittadinanza e per raccogliere manifestazioni di interesse da parte degli operatori e delle associazioni locali rispetto alla possibile costituzione di un distretto di economia solidale a Ferrara, il comune e il coordinamento “Verso il Des Ferrara”, con la collaborazione del Creser-Coordinamento regionale per l’Economia solidale Emilia Romagna, hanno organizzato un incontro pubblico al Teatro Ferrara Off. Questa legge è un traguardo importante per il processo partecipativo che ha portato alla sua approvazione: i primi incontri del gruppo di lavoro sono stati dedicati allo sviluppo di un linguaggio comune su cosa significasse ‘economia solidale’, poi si è passati all’elaborazione di una proposta di testo legislativo, ma la peculiarità di questo testo di 8 articoli è che rende l’Emilia-Romagna la prima regione che ha formulato e approvato una legge su questi temi con un processo di condivisione e un dialogo paritario fra le realtà coinvolte e le istituzioni. Il risultato è una reinterpretazione delle politiche economiche locali, sancita nell’articolo 1: “per promuovere lo sviluppo civile, sociale ed economico della collettività, la Regione Emilia-Romagna riconosce e sostiene l’Economia Solidale, quale modello sociale economico e culturale improntato a principi di eticità e giustizia, di equità e coesione sociale, di solidarietà e centralità della persona, di tutela del patrimonio naturale e legame con il territorio e quale strumento fondamentale per affrontare le situazioni di crisi economica, occupazionale e ambientale”. Inoltre, si attiva l’Osservatorio dell’economia solidale dell’Emilia Romagna, che avrà una funzione di verifica e monitoraggio delle attività del circuito solidale regionale e che per la prima volta dovrà elaborare indicatori di benessere, equità e solidarietà, uscendo finalmente dall’ottica del Pil. Bob Kennedy aveva iniziato il discorso di quel 18 marzo 1968 con queste parole: “Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni”. Tutti questi esempi dimostrano che un’altra economia è possibile.

L’INTERVISTA
Renzo Zenobi, l’Aviatore che vola sulle note delle canzoni

Renzo Zenobi, come scrive Pino Stillo nella biografia inserita nel libro “Canzoni sulle pagine”, è un protagonista atipico del filone della canzone d’autore italiana. Con un linguaggio a volte sofisticato, altre volte semplice, ma sempre finemente poetico, è riuscito a imporsi come un delicato inventore di atmosfere liriche e musicali, in anni in cui le ‘mode’ indicavano prevalentemente tutt’altre direzioni.

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‘Canzoni sulle pagine’, il libro con tutti i testi di Renzo Zenobi e un cd di inediti

Come è iniziata la sua carriera?
Tutto è cominciato quando Edoardo De Angelis mi chiese di suonare la chitarra nel disco di De Gregori “Alice”. Da quel momento Francesco mi portò al Folkstudio e in seguito anche alla Rca, dove mi fecero un contratto per incidere dischi. Con la Rca ho inciso 7 Lp e naturalmente 7 singoli, com’era d’uso in quegli anni.

Recentemente lei si è esibito alla Sala Estense, com’è stato accolto dal pubblico ferrarese?
Il pubblico di Ferrara ha gradito le canzoni e devo dire che sicuramente doveva essere già preparato a gradirle; la serata, infatti, comprendeva anche l’esibizione di Massimo Bubola dunque chi è venuto ad ascoltarci sapeva benissimo a cosa andava incontro. Aggiungo che il pubblico di Ferrara, che comprendeva anche gente mai vista ai miei concerti, si è dimostrato molto affettuoso verso di me e anche i giornalisti locali che voglio ora, da qui, ringraziare.

“Silvia” è dedicata a Silvia Draghi, com’è nata questa bella canzone?
La canzone “Silvia” prende spunto da un week end trascorso a Firenze presso Silvia Draghi che avevo conosciuto tramite amici comuni, lei all’epoca cantava canzoni folk, una sorta di stornelli toscani, ma la canzone è una costruzione trasfigurata che dalla realtà passa alla fantasia.

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Renzo Zenobi in un momento di relax

Sono passati più di 40 anni da “Silvia”, com’è cambiato il suo pubblico?
Il pubblico che viene ad ascoltarmi è sempre lo stesso, cioè gente che rispecchia i propri pensieri e le proprie sensazioni nelle mie canzoni. Alcune persone sono proprio le stesse di tanti anni fa, altri sono giovani ma con lo stesso sentimento. Ricevo però, a volte, e-mail di giovani che vogliono discutere con me delle mie canzoni e spesso ricordano “Silvia”, che avranno sicuramente ascoltato su qualche vecchio disco dei genitori o degli zii: la cosa mi fa piacere.

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Renzo Zenobi, ha suonato la chitarra nell’album “Alice” di Francesco De Gregori

Il Folkstudio e il Cenacolo Rca, erano punti di aggregazione della creatività?
Il Folkstudio sì. Era un punto di aggregazione in cui tutti erano liberi di fare ascoltare le proprie invenzioni e, infatti, la domenica pomeriggio bastava dare il tuo nome ed eri messo in scaletta e cantavi la tua canzone. Se la gente reagiva bene, potevi tornare altrimenti…
il Cenacolo no. Era un posto della Rca in cui si facevano i provini dei dischi o le prove dei tour. C’erano vari studi con un registratore e prenotandoti potevi provare le tue canzoni e le musiche, almeno per noi cantautori, gli altri provavano ciò che creavano in base al loro mestiere. A pranzo poi arrivavano, a volte, i capi dalla Rca e si mangiava tutti insieme, si mangiava benone!

Ennio Melis è stato un grande manager per la discografia e un punto di riferimento per gli artisti, che ricordo ha di lui?
Si direi che Melis è stato uno dei più ispirati direttori di case discografiche. Lui sceglieva seguendo il proprio gusto più che il mercato e questo al 90% lo ripagava in pieno. È questo suo modo di fare che ricordo con grande stima e affetto, perché certo mi riporta a un tempo e a uomini ormai difficili da trovare.

Il direttore della Rca non riusciva a spiegarsi perché il pubblico non la seguisse come riteneva che lei meritasse, ha mai sofferto di questo?
No perché, nonostante io vendessi forse meno dischi degli altri, comunque facevo parte di quella grande squadra e questo non mi faceva sentire solo e neppure meno importante.

“Telefono elettronico” ci riporta a Lucio Dalla, cos’ha rappresentato per lei il cantautore bolognese?
Lucio per me è stato dapprima un grande amico e poi un grande professionista da cui si poteva soltanto imparare. Imparare tanti modi diversi di affrontare la registrazione di un disco, dunque quando scrissi le canzoni di “Telefono Elettronico” e lui le lesse decidemmo insieme che fosse lui a farne l’arrangiamento e la produzione.

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Renzo Zenobi prosegue la sua attività live

Lei, Piero Ciampi, De Angelis e Nada avete cantato insieme in alcuni concerti e registrato uno special tv…
Furono le prime date che io feci per la Rca: eravamo io, Nada, De Angelis e Ciampi in un teatro qui di Roma, se non ricordo male era il Teatro dei satiri. Ricordo che Piero qualche volta recitava delle sue poesie e che Nada cantava le canzoni che lui aveva scritto per lei. Da quell’esperienza credo che poi nacque il desiderio di Nada di incidere la mia canzone “Giornate di tenera attesa”. Una canzone che lei cantò magnificamente.
Lo special fu organizzato dopo i concerti, con Paolo Conte. Registrammo questa trasmissione per la Rai a Torino che si chiamava “Tre Uomini e una Donna”. Cioè Nada, Paolo Conte, Piero Ciampi e Renzo Zenobi: cantavamo dal vero e la trasmissione credo sia andata in onda alle due di notte in agosto! Pochi l’hanno vista e ancor di meno la ricordano.

“Bandierine” è l’album della sua collaborazione con Morricone, il brano “E ancora le dirai ti voglio bene” lo troviamo anche nel suo ultimo cd…
A me era sempre piaciuto il modo di arrangiare di Ennio Morricone e quando scrissi “Bandierine”, facemmo con Melis il tentativo di proporglielo e a lui le canzoni sono piaciute e accettò di realizzarle. Il disco non passò mai per radio o tv ma secondo me è stato ed è un bel disco. Ho deciso di inserire “E ancora le dirai ti voglio bene”, brano di quell’album, nel mio nuovo cd perché credo sia una delle mie canzoni più belle, senz’altro fra le mie preferite, che se caso mai questo nuovo album dovesse capitare in mano di chi non conosce il mio passato musicale ritengo sia giusto ne venga a conoscenza.

Quando usci “Proiettili d’argento”, Dalla fece un gesto inusuale, scrisse alle radio chiedendo di prestare attenzione al suo nuovo lavoro…
Come dicevo prima Lucio era un grande amico, dunque a lui piacque molto la canzone “E noi piccoli piccoli” così decise di scrivere una lettera alle radio per chiedere, se non altro, di ascoltare il disco che gli era stato mandato. Ricordo con grande nostalgia che Lucio ascoltava questa canzone anche negli anni successivi e sulle sue note spesso mi chiamava per salutarmi: prima dai telefoni fissi, poi da quelli elettronici …

“Il ritratto” apre il nuovo cd, è da ritenersi il manifesto di quest’ultimo lavoro?
“Il Ritratto” a me piace abbastanza, specialmente l’arrangiamento, e mi sembrava giusto aprire il cd con questo brano. In effetti, le canzoni sono un po’ dei ritratti dunque quale pezzo migliore per iniziare e per presentare un album?

“… stiamo come due caffè che aspettano sul tavolino, freddi perché è tardi ormai, tragici perché tu non arriverai…” rendere semplici figure e situazioni complesse è poesia?
Non ne ho idea! Non è il mio mestiere quello di critico ma spesso capita di leggere nelle poesie queste trasfigurazioni della realtà quotidiana come le intende lei. Non so dirle effettivamente se quei versi della mia canzone sono poesia, in fondo non sta a chi scrive giudicarlo, posso però dire che io scrivo e musico e se la poesia è solo scrittura, come ci hanno abituato a scuola, tragga lei la risposta…

Lei, che è un “Aviatore”, ci presta un sogno per volare via?
Io credo che tutta la vita sia fatta di sogni e di mete da raggiungere. I sogni, infatti, secondo alcuni ci indicano le mete che vogliamo raggiungere, poi sta alle persone tenerseli ben stretti e farsi portare fino allo scalo, magari da un volo che ci accompagna solo fino a casa!

Si ringraziano Renzo Zenobi e Pino Stillo per la gentile collaborazione.

La verità secondo me

“La verità, secondo me”: su questo ossimoro si basa gran parte della comunicazione scambiata in rete e nella vita quotidiana. Affermiamo un punto di vista, un’opinione, che è per lo più un coacervo di emozioni e di credenze e che non si basa quasi mai su nessuna seria istruttoria degli oggetti di discussione. Tutti ci sentiamo di esprimere il nostro punto di vista su qualunque fatto del mondo, dall’economica alla politica, dagli Ogm al cambiamento climatico, agli effetti delle tecnologie della comunicazione sulla crescita dei bambini.
Questa enfasi sulla legittimità del punto di vista soggettivo trova l’apoteosi nei talk show e, in generale, nella comunicazione mediatica. Ne sono espressione le interviste, le storie di vita, le opinioni chieste a personaggi dello spettacolo su fatti sociali e politici. Quali sono le ragioni della diffusione di questo linguaggio della “soggettività” e quali le implicazioni?
Accenno solo a due punti: il primo è la legittimità assunta dalla soggettività e dal vissuto di ognuno; il secolo del soggetto e dell’inconscio ci ha indotto a ribaltare l’importanza delle percezioni rispetto ai fatti, assolutizzando il valore del vissuto soggettivo e il primato di questo sui fatti stessi che divengono assolutamente secondari.
Il secondo punto è correlato alla forma narrativa assunta dai messaggi. Nelle reti ogni messaggio è rivisitato a valanga e ogni contenuto informativo è filtrato soggettivamente. Il principale obiettivo di chi parla è sollecitare empatia e identificazione. Informazioni e narrazioni erano collocati in passato su piani distinti, attribuendo alle informazioni il compito di documentare fatti e alla narrazione la funzione di fornire orizzonti di identificazione, di partecipare alla ricerca di un senso condiviso con altri. Oggi la narrazione è lo schema di ogni discorso. Ogni storia si svolge secondo uno schema: un protagonista, un antagonista, un alleato, un conflitto, un obiettivo, prove e ostacoli da superare, una rivelazione che consente al protagonista di sconfiggere il nemico. La narrazione non richiede prove documentarie, ma solo esempi, casi e testimonianze in prima persona. Le storie hanno un particolare contenuto di “verità”, in quanto emergono da una domanda che si dispone su un piano diverso da quello dell’informazione.
Lo scenario dei social media assottiglia progressivamente la distinzione tra le due forme di comunicazione, in un processo che, a dire il vero, è iniziato ben prima, con i mezzi di comunicazione di massa e con l’allargamento del pubblico dei lettori e degli ascoltatori. Tutti i messaggi, assumendo una forma narrativa, propongono una diversa idea di verità, fondata sulla testimonianza. Le informazioni scambiate in rete sono filtrate dalla prima persona, ogni fatto diventa un esempio, vale a dire una “dimostrazione” di una tesi.
La testimonianza individuale ha un valore collettivo. Il singolo testimone assume la responsabilità di proporre la sua verità. L’informazione si sottopone ad una interpretazione continua, è valutata e verificata alla luce della esperienza di chi ascolta. Si afferma un linguaggio soggettivo che assume come materiale primario l’esperienza diretta. L’uso massivo di immagini enfatizza il contenuto emozionale del racconto.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Ignazi: “I partiti di massa sono finiti, inutile l’accanimento terapeutico”

“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” – Costituzione Italiana, art.49
Sembra quasi fatto apposta: il quarto appuntamento del ciclo “Passato Prossimo”, dedicato al tema della partitocrazia italiana e alla sua presunta crisi dopo Tangentopoli, si è svolto all’indomani della tornata elettorale che ha registrato il più alto tasso di astensionismo della storia della nostra regione. Forse per questo le parole di Gaber, recitate da Marcello Brondi in apertura, “Belle le elezioni!” sono suonate così stranianti.
Ho scritto “presunta crisi” perché per entrambi i relatori, il politologo bolognese Piero Ignazi e il costituzionalista ferrarese Roberto Bin, le cose sono un po’ più complesse rispetto ai soliti luoghi comuni: i partiti non interpretano più le opinioni dei cittadini, pensano solo ai loro interessi, sono corrotti, inefficienti e incapaci, sono ferri vecchi ereditati da un passato lontano, morto e sepolto, creano solo disordine e divisione. Tutto vero, ma questa è solo una parte dell’analisi.
Secondo il professor Bin, in realtà, il tratto più profondo della società contemporanea è una “crisi della politica” di cui i partiti sono soltanto una delle vittime: “ha vinto Adam Smith e l’economia prevale sulla politica”. L’esempio più eclatante sarebbe proprio l’Unione europea: in realtà non c’è una crisi della democrazia europea perché questo sistema di governance non è nato “con una natura politica ma tecnocratica”.
Secondo Piero Ignazi, prima di tutto non c’è alcuna peculiarità italiana su questi temi, in secondo luogo i partiti “hanno sempre avuto una pessima fama, perché portano nel loro nome la radice della divisione”, che mette a rischio l’ideale di una società armoniosa e, soprattutto nei primi tempi, l’ordine garantito dal potere costituito. Dopo uno sforzo plurisecolare per essere accettati come interpreti della partecipazione dei cittadini e attori dello spazio pubblico, “l’unico vero momento d’oro della legittimazione dei partiti”, secondo Ignazi, è stato all’indomani della Seconda guerra mondiale, ma non certo per “virtù dei partiti”: dopo l’era del partito unico e dei totalitarismi, “nell’opinione pubblica l’identificazione fra negazione del pluripartitismo e guerra era immediata”. Ma qui è scattata anche la trappola per i partiti di massa, che da quel momento sono legittimati “solo se rispettano e rispecchiano quel dato modello”, cioè “lo spirito pubblico dell’immediato dopoguerra”. In conclusione, non sarebbero i partiti tout-court a essere in crisi, ma quella particolare conformazione del partito di massa che aveva una così stretta connessione con la società uscita dal secondo conflitto mondiale: nell’era postmoderna e postindustriale “ogni tentativo di accanimento terapeutico sul partito di massa è destinato a fallire o a creare un Frankenstein”. A essere in crisi, insomma, è quel radicamento nel territorio che incarnava ideali di passione e dedizione, di impegno e convinzioni che pretendono ancora di sbandierare come connaturati alla loro esistenza, mentre sono diventati “agenzie pubbliche preposte a selezionare candidati”. Hanno colonizzato la società e drenato risorse pubbliche dallo Stato diventandone parte, più che controparte: la verità è che i partiti sono “straordinariamente più ricchi rispetto al passato”, ma questi bilanci accresciuti vengono gestiti da strutture sempre più accentrate a livello nazionale.
Infine Ignazi ha fatto un accenno alla questione della personalizzazione dei partiti: “l’enfasi di oggi sulla personalizzazione è eccessiva, i grandi leader ci sono sempre stati”. Il punto è che oggi “gli strumenti di comunicazione sono molto più potenti”, perciò la capacità comunicativa risulta amplificata. Si potrebbe proporre, invece, di spostare l’angolo visuale chiedendoci se esistono ancora grandi leader o se questa personalizzazione avvenga a favore di figure che non sono all’altezza, in più di un senso. In altre parole ci si potrebbe domandare se questi mezzi di comunicazione così potenti non siano la cassa di risonanza di personalità che non hanno la statura del leader.

Vibra in scena ‘Il berretto a sonagli’ di Pirandello

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Il berretto a sonagli, regia di Giulio Bosetti, Teatro Comunale di Ferrara, dal 15 al 18 febbraio 2001

E finalmente ritorna uno dei capolavori di Luigi Pirandello: “Il berretto a sonagli”. Del resto questa straordinaria opera del grande drammaturgo agrigentino è quasi di casa a Ferrara, infatti è già stata rappresentata al Teatro Comunale nelle stagioni 1972/73 (con Turi Ferro e Ida Carrara), 1988/89 (con Tino Schirinzi e Maddalena Crippa) e 1993/94 (con Giustino Durano e Paola Borboni). Il nuovo allestimento è prodotto da Teatro Carcano di Milano – Teatro Biondo Stabile di Palermo, porta la regia di Giulio Bosetti e vede lo stesso Bosetti nel ruolo del protagonista.
La trama è notissima. Ciampa, scrivano “povero e vecchio”, sospetta il tradimento della propria giovane e bella consorte con il padrone, la gelosia della moglie di quest’ultimo fa scoppiare lo scandalo e Ciampa non esita a porre come risolutrice questa alternativa: o uccidere l’adultera e il suo amante oppure far credere pazza la padrona. Ed è proprio la (forse temporanea) pazzia, che insorge improvvisa nell’animo dell’accusatrice, a condurre verso il paradossale ma non per questo meno alienante epilogo della commedia. Solo se dichiarata pazza di fronte alla collettività, la donna potrà gridare a tutti, ovviamente non creduta, la presunta verità.
Composto da Pirandello (prima in siciliano e poi in lingua italiana) fra il 1916 e il 1918 e rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma, nel testo in dialetto siculo interpretato da Angelo Musco, “Il berretto a sonagli” è il logico porto d’approdo dell’odissea artistica di Giulio Bosetti, regista e attore, dopo anni di assidua frequentazione dell’universo pirandelliano. Poiché “Il berretto a sonagli” rappresenta in qualche modo l’equilibrio, per quanto precario e vacillante, tra la marmorea identità della persona e la labilità del ruolo attribuitole dal contesto, in ultima analisi fra la vita e la sua forma. La rilettura di Bosetti, fedelissima ai canoni e alla poetica dell’autore, stringe saldamente nelle mani le redini di quella sorta di cavallo ombroso che attraversa come impazzito tutte le “storie” pirandelliane sconvolgendone il conformistico e precario equilibrio e lasciando, quasi sempre, che questo si ripristini mentre finalmente cala ormai quieta la polvere della concitazione e il galoppo si allontana.

L’altra faccia di Mozart

Appassionato di musica classica e di classicità, Paolo Melandri, insegnante di materie umanistiche al liceo scientifico di Faenza, musicologo e poeta ha dedicato a Mozart un lavoro di ricerca e studio per capirne la persona e il personaggio. “La cetra scordata, due secoli di dissonanze”, e-book edito recentemente da La Carmelina (Ferrara) con prefazione di Roberto Guerra, è un viaggio dentro l’uomo anche oltre il musicista.
Professor Melandri, che immagine di Mozart ne esce?
Ero quasi infastidito dal mito creato attorno a Mozart, considerato un genio che miracolosamente partorisce, un mito a cui ha sicuramente contribuito, dopo la morte prematura, la moglie Costanza che era un personaggio d’affari e desiderava venderne gli autografi.
Un mito romantico del genio insondabile e misterioso che, però, avrebbe risposto ai gusti del pubblico di allora…
Senz’altro. Mozart è stato ritratto come un genio spontaneo che non fatica a comporre, in realtà, i manoscritti dimostrano che faceva e rifaceva, ci sono lavori che lo hanno impegnato anni.
Nella sua opera, lei propone un ritratto estetico, ma anche fisiognomico del musicista. Che uomo era?
Non dava nell’occhio, era basso di statura e aveva delle idiosincrasie come non riuscire a tagliare la carne, aveva anche delle tendenze regressive infantili, paura degli animali, cose così. Aveva, soprattutto, un lato umano che ho ritenuto interessante. Per umano intendo uno spiccato interesse per le vite degli altri, amava farsi raccontare dalle persone e questo lo ritroviamo in numerose lettere da cui, peraltro, emerge una certa stoffa da romanziere, scriveva molto bene e conosceva diverse lingue.
E, tra l’altro, non scrisse solo musica.
Nella sua produzione, ci sono scritti in cui riflette profondamente sull’uomo e sulla vita, per lui sono i casi a determinarla.
Come ha potuto ricostruire la persona più che il personaggio?
Da appassionato, conosco la bibliografia in cui si è parlato di lui, negli anni settanta e ottanta si tentò anche un’interpretazione psicanalitica, molto interessante, inoltre, un documentario della Bbc. A ogni modo, mi premeva approfondire la vicenda umana che reputo non meno importante, oltre quel mito romantico e la carriera che tutti conoscono.

SETTIMO GIORNO
Tasse e baci, ‘In qualche modo’, La ricerca e le biciclette

LE TASSE E I BACI – Sono andato dalla mia commercialista a pagare le tasse novembrine e ho avuto conferma di ciò che temevo, sono aumentate, le tasse, ormai si viaggia verso il cinquanta per cento del reddito, un balzello che per alcuni cittadini forse sarà sopportabile, ma per un pensionato proprietario di casa (unica eredità), come sono io, no, proprio no. L’arrivo del signor Renzi mi ha definitivamente messo in ginocchio. Ma finalmente, da quel pirla che sono, ho capito la tattica del toscano, ci ho messo del tempo, ma ora… ora so che quando il boy-scout dice faccio così, di lì a poco farà colà: ricordate quand’è arrivato? Abbassare le tasse per rimettere in moto il mercato fermo. Diceva. Sono di sinistra, diceva, sono con i lavoratori, diceva e via l’articolo 18; mai con Berlusconi, diceva, e vai con il patto del Nazareno (che se fossi il Nazareno m’incavolerei di brutto); giù le tasse, diceva, poi con le tre tavolette ecco le tasse aumentate. Ma c’è un boccone indigesto che proprio mi è rimasto sul gozzo, del quale è necessario incolpare tutta la, si fa per dire, sinistra di governo e d’opposizione. Ricordate quando si tuonava che era, è, necessario recuperare le tasse non pagate dagli evasori? Sono decine e decine di miliardi di euro. Bene: ora l’argomento è chiuso. Evadete, cittadini, evadete, il presidente che non avete eletto vi benedice, ma ieri, parlando alla Guardia di finanza ha detto che bisogna agire contro gli evasori, forse pensava ai piccoli, alla minutaglia, i grandi imprenditori, quelli che gli hanno spianato la strada davanti, non si toccano, quelli si baciano come il nostro Matteo fa con la Marcegaglia e con Squinzi, due baci all’una, e va bene, due baci all’altro (le immagini sono di tre giorni fa), questo va meno bene. Un po’ di contegno in pubblico per favore.

IN QUALCHE MODO – Le orecchie ronzano, la televisione le imbecerisce, un profluvio, una smitragliata di “in qualche modo” offende il mio vecchio udito, non c’è persona ignorante o colta che riesca a sfuggire all’intercalare, anche quando non c’entra con il discorso. Per favore, popolo mio, cambia “in qualche modo” espressione e non è sufficiente mutare in “qualche maniera”.

LA RICERCA – Il bombardamento mediatico non risparmia i grandi argomenti, anzi li esalta. Da tutte le parti – televisione-radio-al telefono-per strada – una voce ti esorta a donare soldi per la ricerca scientifica contro le malattie, tutte le malattie, perfino (direbbe Jerome K. Jerome) per la cura del ginocchio della lavandaia. Va bene, ma nessuno ricorda che le più grandi multinazionali mondiali sono quelle farmaceutiche, le quali hanno utili che la mia debolezza in aritmetica non saprebbe mai scrivere: e, allora, mi domando, perché dobbiamo regalargli, alle multinazionali dico, i nostri soldi per trovare nuove medicine che pagheremo noi e faranno ingrassare ancora più gli utili delle varie industrie farmaceutiche? Prego una risposta.

LE BICICLETTE – Amo la bicicletta, come oggetto e come mezzo di deambulazione urbana. Ne ho tre, compresa quella da corsa. Ma confesso che mi fa paura quando la biga viene inforcata da signore che non arrivano a terra coi piedi, da ragazzi i quali la usano per fare gimcane velocissime nelle vie pedonali, da vecchi, che forse i giovani familiari mandano in giro nella speranza di un incidente (che sia la volta buona?). Nessuno di questi personaggi, o quasi nessuno, conosce una sola regola del codice stradale: destra, sinistra, contromano, senso vietato, semaforo rosso. Qualsiasi birichinata è inclusa nella silente licenza consegnata al ciclista. A volte la licenza è fatale. E così sia.

LA RIFLESSIONE
La faciloneria linguistica degli italiani

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe – Eugenio Montale
Sarà l’età che avanza, sarà l’eco ancora strepitosa della bellissima conferenza di ieri tenuta da Stefano Prandi su Ennio Flaiano per il ciclo “Italiani brava gente. Rileggere il carattere degli italiani”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea, ma la condizione del nostro popolo e di una parte di quest’ultimo, vale a dire quella dei vecchi, mi spinge a riflettere su certe cadute linguistiche e quindi anche culturali che sembrano essere d’uso comune proprio nella comunicazione.

Prandi riferiva ieri di una parola assai comune letta in un giornale cittadino e scritta con un grosso errore ortografico. Oggi un conduttore di una rete televisiva cittadina nel commentare la prossima settimana alti studi dell’Istituto di studi rinascimentali, vedendo scritto Duerer al posto di Dürer, ha proprio letto Duerer! Non è che le notizie fornite in quel servizio fossero di per sé eclatanti ma, quando vengono fornite in quel modo, riconosci comunque che il carattere degli italiani non cambia: disprezzo o meglio ignoranza per le regole grammaticali, per la forma, per le lingue. Sommo rispetto invece per qualcosa che poi si trasforma in “politichese”: frasi fatte, metafore, simboli, oltre all’ignoranza patologica delle lingue straniere.

E, si badi, non è il dialetto la causa prima di questa faciloneria linguistica ma l’uso della sbrigatività come mezzo utile per arrivare allo scopo. Poi, ed è pensiero comune, tutti debbono capire l’italiano! Sono lontane le radici di questa incuria. Per secoli la nostra lingua ha rappresentato un modello, poi è stata soppiantata da altre: prima il francese e poi l’inglese che hanno strutture linguistiche diversissime che noi tentiamo di riflettere. “E il bicchier mezzo vuoto” e la “sintesi” e tutto l’armamentario di una lingua che fa finta di essere informata e che poi rigetta per indigestione le stesse pseudo regole che si è data. Non parliamo poi della lingua scritta nei media come twitter o facebook. Alla fine siamo più affascinati dalla selva di microfoni che “imboccano” il parlante (quasi sempre un politico che di quello che costui sta dicendo; oppure da figure ormai familiari come quella di un signore che si mette la penna in bocca e fa finta di registrare sempre, ossessivamente, presente ovunque si materializzi un politico oppure di un suo gregario, un paffuto giovinetto rossiccio che spalanca la bocca pur di essere ripreso dalle telecamere.

Che pena!

Eppure oggi, svogliatamente, facendo zapping (sì! anche i soloni della lingua fanno certe cose o parlano come i media!) e dovendo riposare gli occhi, mi capita di vedere su una rete dedicata alla musica uno spettacoloso documentario “Casa Verdi” che racconta la vita nella gloriosa casa milanese dove sono ospitati gli artisti che non possono più vivere da soli ma sono protetti dignitosamente.

Una signora, con ancora un filo di voce e con i gioielli rimasti di una forse fastosa carriera, canta “La vergine degli angeli”; altri la guardano e applaudono: volti anonimi comuni che non hanno più nulla dell’eleganza, dell’eroismo, della leggerezza a cui votarono la loro vita.

Eppure meravigliosi, quasi che il contatto diretto con la bellezza avesse lasciato per sempre un segno di nobiltà. Così vorresti abbracciare il cantante che è stato imitato, lui racconta, da Di Stefano, e che, quando lo pensa gli viene “il mal di gola”. Meravigliosa metafora e traduzione da cantante del termine “nodo alla gola”. E la danzatrice di tip tap che sa benissimo per avere sposato un americano che si chiama, in inglese, “step dance” e che quando vede ballare Fred Astaire e Cyd Charisse esclama: “Ora Cyd, poverina” dice Tata Vanoni così si chiama, “è morta”. Ma non lo dice del grande Fred Astaire.

Un’umanità nobile che si rivela fatta di fango ma destinata alle stelle della musica. Della danza, della prosa e di tutto ciò che rende meno triste la vita.

Un medico le accarezza chiede se vogliono risentire ancora Montserat Caballè nel “O mio babbino caro” e tutti dicono di sì chiudono gli occhi o come fa la bellissima arpista strofinano impacciate il sacchetto dei medicinali.

Non credo, e lo penso con tristezza, che quella bellissima Casa Verdi sia mai stata visitata da un comico che si è fatto politico e che mai nella sua espressione più proterva ha saputo esprimere con pari dignità il senso di un mestiere e di un’arte che lo hanno reso famoso.

Così al suo Forrest Gump, al suo declino triste, come quello di chi è solo, le parole hanno deciso per lui.

LA NOVITA’
Gianni Morandi, un ragazzo 7.0

L’11 dicembre Gianni Morandi compirà 70 anni, un traguardo importante, vissuto tra autoscatti, Facebook, televisione, canzoni, cinema, concerti, libri, radio, giornali, video e ogni tipo di mass media il terzo millennio ci abbia regalato.

“Autoscatto 7.0” è il titolo dell’antologia natalizia uscita il 25 novembre, che comprende anche il duetto “Credo nell’amore” con Alessandra Amoroso (versione breve) e i due brani inediti tratti dalla colonna sonora del film “Padroni di Casa” di Edoardo Gabriellini, interpretato dallo stesso Morandi: “Amor mio” e “Lascia il sole”.

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Autoscatto 7.0, la nuova compilation

Il doppio album contiene 33 brani, di cui 20 scelti dai suoi fan di Facebook (oltre un milione), tramite un vero e proprio referendum. Il 15 ottobre 2014 il cantante bolognese e sua moglie Anna sono stati una notte e un giorno davanti al computer a leggere i quindicimila commenti con i quali i fan suggerivano i titoli delle canzoni da inserire nella compilation. Il brano più gettonato è risultato “Uno su mille” seguito da “C’era un ragazzo”. Il terzo inedito, del ‘social album’, si intitola “Io ci sono”, scritto da Emiliano Cecere, Valerio Marconi, dallo stesso Morandi e dal centese Saverio Grandi, autore, quest’ultimo, di oltre 250 brani, per artisti come Eros Ramazzotti, Vasco Rossi, Patty Pravo, Laura Pausini, Fiorella Mannoia, Raf, Alessandra Amoroso, Emma, Valerio Scanu, Marco Mengoni.

Morandi lo si può facilmente incontrare in una delle tante spiagge della riviera romagnola, nell’atto di togliersi il cappellino, per una fotografia da postare nella sua pagina Facebook, dove giornalmente cura un diario fatto di notizie, considerazioni e momenti di vita famigliare, oltre a offrire spettacolo con i suoi “clippini”. Si tratta di un’estensione degli appunti che da oltre cinquant’anni scrive su carta, in parte pubblicati nel libro “Diario di un ragazzo italiano”.

Grazie al social network lo abbiamo visto partecipare alle maratone (Ravenna, Bologna, Boston), mangiare tagliatelle in qualche ristorante dell’Appennino emiliano e nelle trattorie vicine casa sua, in gita con moglie e amici, negli autogrill (durante i numerosi spostamenti per lavoro), nel centro di Bologna intento a fare spese, alle feste di paese e della parrocchia, in attività di solidarietà e allo stadio Dall’Ara a tifare per il Bologna.

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La pagina Facebook di Gianni Morandi

Da qualche tempo gli ex-dipendenti della Rca, organizzano un raduno periodico, con relativa visita alla vecchia sede dello stabilimento di Roma, auspicando l’apertura di un museo, che ricordi l’importanza avuta da questa casa discografica, nella storia musicale italiana. Morandi, venuto certamente a conoscenza della cosa, con discrezione e senza preavviso, ha pubblicato su Facebook la foto che lo ritrae davanti all’entrata della ex-Rca, con questo commento: “5 settembre, Roma ore 17, arrivare in questo luogo è un vero tuffo al cuore. In questo edificio, al km 12 della via Tiburtina, c’era la gloriosa Rca Italiana, con gli studi più belli d’Europa, dove Morricone ha diretto e registrato molti dei suoi capolavori, dove sono passati artisti di caratura mondiale come Frank Sinatra e Artur Rubinstein, dove sono nati musicalmente grandi cantautori come De Gregori, Cocciante, Zero, Dalla, Venditti e tanti altri, dove a sedici anni io ho fatto il mio primo provino e inciso le mie canzoni più significative. Negli anni ’60, la Rca è stata la casa discografica più importante d’Italia, costruendo in gran parte la storia musicale di quegli anni irripetibili”.
5.0 anni di spettacolo l’hanno reso ancora più attento alle novità, pronto a cavalcare i nuovi media, con l’originalità che soltanto la semplicità e la sincerità sanno creare, senza riempire le sue pagine di pettegolezzi, stupidaggini o catastrofismi, preferendo diffondere fiducia e ottimismo.
Quest’anno Morandi è ritornato a esibirsi dal vivo, dopo tanto tempo, spinto dal successo dello show dell’anno scorso all’Arena di Verona, trasmesso da Canale 5. Tra pochi giorni si esibirà sul palcoscenico di Radioitalialive, che trasmetterà la performance in radio e in televisione (canale 70 digitale terrestre, 725 di Sky e 35 di Tivusat).

La Tv l’ha recentemente visto protagonista in una puntata di Zelig, condotta insieme a Geppi Cucciari, mentre il giornalista Mario Pezzolla, su Radio Margherita, gli ha dedicato la trasmissione “Andavo a 100 all’ora”. Per numerose settimane, Pezzolla ha accompagnato i radioascoltatori nel mondo di Gianni Morandi, proponendo una scaletta di oltre 400 brani, con notizie musicali, di costume, di intrattenimento e la partecipazione di artisti, giornalisti e personaggi dello spettacolo.

Michele Perfetti e la psicopoesia senziente

Scrittura verbo-visiva, così l’ha definita il critico ed artista Lamberto Pignotti, oppure “Poesia Totale” (Adriano Spatola), più specificatamente, a seconda dei ‘file’, si narra di poesia sonora, poesia tecnologica e poesia visiva (Perfetti, il Gruppo 70 ed altri).
Per la poesia visiva, nello specifico, dagli anni ’60 e dal Gruppo 70 di Firenze, avanguardia supportata e promossa da critici e artisti quali, infatti, Pignotti, Spatola e altri, protagonista indiscusso, di fama planetaria, nel settore, fu Michele Perfetti, mostre in Italia, Europa, Sud America… e a Ferrara.

Dalle primissime esplorazioni ormai storiche, poesia tecnologica e frammenti quotidiani, “000 più 1″, a poesie tecnologiche visive, “Black Notes”, alle mostre più recenti, “Un excursus a zig zag”, la parola che diventa mutante, post-tipografica, fino all’auto azzeramento nel puro segno, sogno, immagine… e alle personali più relativamente recenti: ad esempio il quasi florilegio storico Virtuale con lo stesso Pignotti (“Belle Lettere”).
Oppure, Perfetti, tra i principali psicopoeti, capace di captare il cosiddetto inconscio tecnologico di Franco Vaccari memoria, altro protagonista di quelle avanguardie, e cristallizzarlo dinamicamente
in opere d’arti inedite al gusto estetico comune.
La poesia come video game senziente, in una nano danza, orizzontale, verticale, obliqua,
dribblando anche, mossa non sempre prevedibile in tale post letteratura sperimentale, certo
ridondante concettualismo.
Michele Perfetti è scomparso nel 2013: così lo ricorda, significativamente l’Archivio Adriano Spatola: “Poco più di un anno fa scompariva a Ferrara Michele Perfetti, poeta visivo della prima ora e fedele sostenitore di questo genere di “controinformazione” letteraria e artistica, sino a farne una missione, per tutta la vita. Nato a Bitonto nel 1931, aveva manifestato già negli anni 50 la sua propensione a nuovi modelli di scrittura poetica, ma fu dopo il 1963, grazie alla scoperta del neonato Gruppo 70 fiorentino, che la Poesia Visiva gli aprì nuovi orizzonti artistici, poetici e politico-filosofici.
All’epoca il Circolo culturale Italsider di Taranto (quando l’acciaieria, ancora statale non si limitava ad avvelenare il territorio) metteva a disposizione uno spazio per i nuovi fermenti che germogliavano a profusione fra i giovani artisti e poeti, consentendo inediti rapporti a livello nazionale e internazionale. Michele Perfetti, con la collaborazione di un altro entusiasta sostenitore di queste novità, Vittorio Del Piano, vi organizzò numerose mostre, collettive e personali. Fra queste una di sue poesie visive intitolata …000+1, in occasione della quale pubblicò il libro qui riprodotto, con le brevi prefazioni di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti: fondatori questi ultimi del Gruppo 70 (movimento a cui Michele Perfetti aveva aderito) insieme con Luciano Ori, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca e il musicista Giuseppe Chiari, uno dei pochi artisti italiani presenti nel movimento Fluxus, nato in America e rapidamente divenuto globale.”

da Archivio Adriano Spatola, “Michele Perfetti (1931-2013), la Poesia Visiva come missione”
Per leggere il testo completo scarica il pdf [vedi]

Per saperne di più sull’artista visita il sito di Edizioni Riccardi [vedi]

da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)

LA STORIA
Quando una vecchia fabbrica fa design…

da MOSCA – Un muro che acquista improvvisamente un nuovo look, una parete che rinasce e si risveglia, lasciando da parte le ombre che l’hanno occupata, uno spazio che rivive. Arrampicato su una scala lunga e un pochino instabile, scalpello in mano, berrettino triangolare rigorosamente fatto a mano, un muratore gratta i vecchi mattoni uno a uno, riporta alla luce gli antichi colori, ridà luce a immagini spente e ormai sbiadite. La storia fa capolino, chiede di presentarsi e di non scomparire, di rimanere, magari con un altro vestito, ma di non essere dimenticata, di poter servire ancora a qualcosa e a qualcuno. Non vuole l’oblio, vuole esserci, ancora oggi. Presente e viva.

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Mosca, Museo dell’ ebrasimo
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Mosca, Museo dell’ ebrasimo

Piano piano quel muro acquista l’aspetto lindo e inconfondibile delle aree industriali rimesse a nuovo, vecchie ciminiere imperiose, un tempo fumanti, e design ultramoderno, formula vincente dei distretti creativi di New York, Helsinki, Londra o Berlino ma anche di Mosca. Qui le zone industriali occupano un quinto della città, un immenso patrimonio che si presenta agli occhi del turista e dell’abitante curioso man mano che il comune trasferisce la produzione fuori dal centro. Ma l’era post industriale qui è giovane, le aree dismesse di cui il mondo della cultura si impadronisce per dare sfogo alla creatività sono realtà recenti. «Nascono in luoghi che ormai erano non-luoghi, spazi fuori dal tempo – dice Serghey Nikitin, professore universitario di Architettura e storia di Mosca – fabbriche sprofondate in una città per cui non avevano più alcuna importanza, relitti di un’altra epoca». E, allora, in questi luoghi, rinati, fioriscono centri culturali, bar, pub, scuole di fotografia e di design, scuole di danza, musei, ritrovi vari.

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Mosca, Winzavod

Vecchi garage e vecchie fabbriche vengono occupate dall’estro e dalla fantasia. Brulicano di artisti, giovani fotografi e designer. Tutto bolle, tutto ferve. Le menti sfavillano. I luoghi rivivono, di una nuova e splendida vita, ripensata, ricolorata, rifatta, rinnovata.
Così, ad esempio, al Centro d’arte contemporanea Winzavod, s’incontrano e concentrano molte menti creative moscovite. Dopo un lungo isolamento, gli artisti russi si sono messi di nuovo a confronto con i colleghi europei, mostrando, ancora una volta, di non essere da meno. Winzavod è un’ex-fabbrica prima di birra (la Moskovskaya Bavaria) e poi di vino, trasformata, dal 2007, in uno spazio espositivo di più di 20.000 metri quadri, con varie gallerie permanenti e temporanee, librerie, scuole e caffetterie. Un vero e proprio quartiere, dove chi vuole isolarsi dalla confusione della città, si può rifugiare, uno spazio che ha conservato le vecchie strutture in mattone arancione e le tubature a vista, come a voler ricordare che quella è ancora una fabbrica, non più di bevande ma di arte. Io mi ci ritrovo.

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Ottobre Rosso, Mosca

Oppure basta andare nella zona della ex fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata Ottobre Rosso, dove si trova molta della vita culturale moscovita attuale. Nel 2007, lo stabilimento fu spostato a nord della città e la centralissima area fu riconvertita, secondo le esigenze più moderne di una capitale in rapida e vorticosa trasformazione. Dal 2010, Ottobre Rosso – il cui nome ben si addice se si osservano i bellissimi bricchi color rosso acceso – non ha più niente a che fare con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle classiche tavolette che si acquistano come souvenir. Mi viene in mente il bambino Charlie Bucket dell’omonimo film con Johnny Deep, pur non avendo nulla a che fare, lo so, ma questo posto fa pensare a una favola buona, dal finale dolce e zuccherino, ignoro il perché. Pura e semplice fantasia libera e liberata … Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su una altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, con esposizioni temporanee, il Museo di fotografia Lumiere, il suo fornito bookshop.

Si parla, a proposito, di archeologia industriale, anche in Italia molte vecchie fabbriche riprendono vita. Nuova vita ai vecchi edifici, allora. Importante per storia e memoria. E se, come diceva Jean Rostand, “un uomo non è vecchio finché è alla ricerca di qualcosa”, cerchiamo il nuovo in quel vecchio, sempre, un vero riciclaggio del passato. Per restare sempre ed eternamente giovani, noi e le vicende di quei luoghi lontani.

Fotografie di Simonetta Sandri

L’EVENTO
Pink Floyd in latino stasera a Ferrara

di Stefano Gueresi

Pink Floyd in versione latina in scena a Ferrara: stasera (ore 21) il concerto in Sala Estense, piazza Municipale di Ferrara. Il progetto si chiama “Occulta lunae pars”, ovvero “The dark side of the moon”. I testi sono tradotti in latino da una prof del liceo, Valeria Casadio, adattati in metrica e approvati dagli stessi Floyd. Li porteranno in scena i Mojo Brothers (Silvia Zaniboni – chitarra solista, Nicola Scaglianti – voce, Thomas Cheval – tastiere, Michele e Filippo Dallamagnana – basso e batteria).

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Studenti del liceo Roiti di Ferrara cantano brani dei Pink Floyd in latino in Biblioteca Ariostea, giugno 2014 (progetto dell’editore Nicola di Cristofaro di Agendae Res)

“The dark side of the moon” è un album entrato nella storia della musica. Ne racconta alchimie e segreti Stefano Gueresi, musicista e compositore, che le caratteristiche di questi brani le ha approfondite anche grazie a una lunga chiacchierata con Alan Parsons in occasione di una delle sue ultime tournée italiane.

Parlare di un disco come “The dark side of the moon” dei Pink Floyd potrebbe sembrare un’operazione superflua. Quante recensioni ha ricevuto questo disco, la cui copertina indimenticabile fece capolino nelle vetrine dei negozi specializzati a cavallo tra il 1972 e il 1973? Probabilmente è l’opera più famosa della storia della musica rock, e uno dei più venduti in assoluto negli ultimi decenni. Spesso si è parlato della “longevità” di questo gioiello, che a distanza di decenni lascia ancora stupefatti per la qualità del suono e per la genialità delle idee. In effetti si tratta di un lavoro assolutamente unico nel suo genere, unico anche nella storia del complesso inglese, per una serie di motivi contingenti e in virtù di quella alchimia magica che rende possibile la nascita di un capolavoro in determinate situazioni, con un gruppo di lavoro affiatato, uno studio di registrazione speciale , una supervisione attenta e ispirata.

Sicuramente i Pink Floyd erano arrivati a un bivio della carriera. Potevano farsi risucchiare nella schiera dei tanti gruppi pop-rock di un certo rilievo che si sciolsero anzitempo per mancanza di coesione, di vedute, o semplicemente di idee. Potevano finire smembrati e riciclati in tante formazioni diverse come accadde a tanti gruppi storici dell’epoca.”The dark side of the moon” segnò la grande svolta per la band, consacrandola sul gradino più alto della popolarità mondiale, secondi soltanto agli inarrivabili Beatles. La creatività e la magia di queste pagine musicali non furono più replicate dal complesso inglese.

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Alan Parsons

Tanti i motivi. Sicuramente un valore aggiunto fu rappresentato dalla presenza di Alan Parsons in veste di “ingegnere del suono”. Parsons aveva già colaborato con i Beatles durante la lavorazione del celeberrimo “Abbey road”, e dopo l’esperienza con i Floyd e altri gruppi intraprese una fortunatissima carriera solista. “The dark side of the moon” nasce da una stratificazione di ispirazioni, da spunti nati in lunghe sedute di registrazione, in intervalli di sessions, nelle lunghe ore di attesa tra un “take”  e l’altro. Di questo lento processo v’è traccia nel video “Pink Floyd at Pompei”, dove, tra una ripresa e l’altra nel magico sito archeologico, tra la posa dei cavi e degli strumenti e l’allestimento del set, scorgiamo il tastierista Richard Wright accennare agli accordi pianistici di “Us and them”, una delle canzoni più suggestive ed eteree dei Floyd.

Alan Parsons valorizzò la vena creativa della band, inserendo molte delle trovate più indovinate. E’ il caso della inquietante e magnetica sovrapposizione dei suoni di sveglie e orologi in una camera di riverberazione in “On the run”. Idea sua  l’inserimento dei suoni di un registratore di cassa e di macchine calcolatrici in “Money”, il battito del cuore che scandisce alcuni passaggi delle due suite da venti minuti che compongono il disco. Viene inserito grazie al suo contributo il sax di Dick Parry, malinconico e struggente, ma anche i cori di Lesley Duncan, Lisa Strike e Doris Troy, e la sensazionale voce di Clare Torry per “The great  gig in the sky” che conclude la prima parte.

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Syd Barrett in primo piano davanti agli altri membri dei Pink Floyd sulla copertina di un album (Photo by Keystone Features/Getty Images)

A livello musicale e strumentale i Pink Floyd offrono in questo lavoro il meglio della loro lunga carriera. Il preciso lavoro fatto di ritmi suadenti e di atmosfere oniriche della sezione ritmica di Waters e Mason, i sognanti tappeti sonori delle tastiere di Wright, e il lirismo elegante e profondo della chitarra di David Gilmour, regalano momenti davvero indimenticabili. Così come le voci, molto “british”, quasi indolenti nel raccontare storie di vita quotidiana, dove si parla di stress, di consumismo, della voracità del tempo odierno e anche della mente, delle sue pieghe angosciose e delle sue tare. Evidente il riferimento alla vicenda umana di Syd Barrett, il fondatore del gruppo, che si bruciò letteralmente per l’uso smodato di Lsd abbinato ad altre sostanze  allucinogene e a farmaci come il Mandrax. A Syd Barrett verrà dedicato l’intero disco successivo dei Pink Floyd, “Wish you were here”, uscito nel 1975.

“The dark side of the moon” ha venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo e ha conquistato più di una generazione, ponendosi senza alcun dubbio tra le opere più importanti della storia della musica moderna. Interessante sentirne, stasera a Ferrara, la versione latina interpretata da una giovane band.

Dopo la piena

“L’ultima finitura poi, nella quale si scorgeva la sottigliezza di un’arte e esperienza di secoli, stava dandola il reggitore della famiglia, l’anziano, che ripassava attento e leggero, in punta di vanga, le scoline. Striavano queste, rete varia e capricciosa, dietro infinite vene d’acqua da seguire o attrarre o respingere, da arginare e da raccogliere; striavano le fette di quel grigio, forte e fertile limo di Po, che ormai era pronto, assestato, sminuzzato delicatamente; e odorava di un sottile sentore di terra asciutta. Il contadino aveva l’arte avita di riconoscere a palmo a palmo, da un colore della zolla, da un filo di erba vegetata, quasi al fiuto, i più lievi indizi dei minimi tratti dove affiorava acqua interna, o dove ristagnava la piovana a far pozza, con danno futuro del frumento e della canapa. Sulla traccia di tali indizi, apriva con la vanga piccoli solchi, rigagnoli, e meno che rigagnoli, lievi ed accorti inviti all’acqua delle piogge autunnali e delle nevi invernali e degli acquazzoni primaverili, che fluisse alle scoline, ai fossatelli ed ai fossi. Egli era di quelli che sapevano, per antica scienza istintiva, aprire e mantenere senza aiuto di strumenti un declivio di pochi pollici in un solco lungo centinaia di passi. Era l’ultima rifinitura delle terre, dunque, innanzi d’aprir la bocca al sacco delle sementi scelte; innanzi di tornarvi sopra per l’ultima volta a spargere con il gesto largo e regolato del seminatore in testa alla fila dei lavoranti, uomini, donne, ragazzi, che, rastrellando e zappettando con mano leggera, ricoprivano il seme, sotterravano, a che germogliasse, la speranza dell’annata. Finalmente, su ogni fetta seminata veniva piantata una croce di legno o di stelo di canapa, benedetta dal prete.” (Riccardo Bacchelli, “Il mulino del Po” volume secondo, capitolo VII).

La piena del Po è passata, ormai non fa più notizia. Passiamo oltre e dimentichiamo il problema, lo nascondiamo come polvere sotto il tappeto, in attesa di un’altra emergenza che ci metta di fronte alla nostra stupidità. Un problema, sempre lo stesso da anni, qui, lungo gli argini maestri del nostro grande fiume, come in tutte le altre zone sinistrate d’Italia, che si chiama: acqua. Noi siamo acqua, viviamo grazie all’acqua e l’acqua è sacra come sacra è la terra. Gli antichi imparavano a loro spese che a queste divinità bisognava chiedere il permesso per abitare. Il permesso era concesso quando gli uomini imparavano il rispetto della terra e dell’acqua attraverso un’esperienza diretta, brutale, che non lasciava alternative. Questa esperienza diventava cultura.
Una cultura vera, specializzata e molto raffinata, fatta di mille mestieri, come quello descritto da Bacchelli in questa pagina straordinaria, di colui che conosceva “l’arte” di tirare i tracciati delle scoline più fini, il primo elemento di una gerarchia di canali che disegnava la terra della pianura, e sapeva ottimizzare il drenaggio, aiutando l’acqua, nei momenti di abbondanza, a scendere verso i fiumi senza fare danni. Ogni volta che leggo questa pagina mi colpiscono le parole e gli aggettivi che sottolineano la gentilezza verso la terra, la mano di chi la lavorava doveva essere leggera, sottile, attenta, come la mano di un amante che accarezza la sua donna. Siamo diventati dei bruti violenti e la terra ci ripaga con la stessa moneta, nessuna meraviglia, solo la consapevolezza delle migliaia di occasioni sprecate, dello sperpero incalcolabile di denaro pubblico, della colpevole ignoranza e della ipocrisia schifosa e feroce che ci tocca ascoltare nei piagnistei di chi ha sprecato l’occasione di valorizzare questa conoscenza antica, con le tecnologie e i mezzi che abbiamo oggi a disposizione.

Foto di Francesca Vincenzi

LA SEGNALAZIONE
Ciak, adolescenti in scena: corso di recitazione
fra cinema e teatro
sotto la stella del Giffoni

“Corso di preformazione attoriale”. Il nome, promettente e ambizioso, prelude a un a un sogno: quello che alcuni adolescenti ferraresi potranno coltivare, impegnandosi nelle molteplici attività proposte dalla scuola di recitazione, con la speranza un giorno di essere parte del panorama artistico nazionale. Il percorso che li attende si svilupperà nell’arco di un biennio e culminerà con la realizzazione di un’opera audiovisiva, ammessa fuori concorso al prestigioso Giffoni Film Festival.
La presentazione del progetto ha coinciso con l’inaugurazione della sede di Fonè Teatro. E c’è un misto di orgoglio, felicità e soddisfazione nelle dichiarazioni rilasciate dal suo presidente, Massimo Malucelli, quando proclama ufficialmente l’apertura della scuola e della sede dell’associazione in via Arianuova 128. Partecipe di tutto anche il direttore artistico del Giffoni, Claudio Gubitosi, a testimoniare la solidità del sodalizio. L’evento è stato scandito dall’avanscoperta del nuovo “quartier generale”, dove tre piani spaziosi e accoglienti ospiteranno tutti coloro che, appassionati di recitazione, decideranno di sfidare sé stessi nell’attesissimo corso.
“E’ un progetto che ha superato il mio sogno di sempre” ha affermato il direttore artistico del corso ed ex allievo di Fonè Stefano Muroni, il quale, insieme a Malucelli, ha descritto il programma dell’attività ripercorrendo la sua ricca esperienza professionale. Dal triennio trascorso presso il Centro Sperimentale di Cinematografia alla stimolante carriera di conduttore intrapresa al Giffoni Film Festival, il giovane attore di Tresigallo ha ricordato ai presenti che, con l’impegno e la determinazione, ogni desiderio può essere realizzato. E, con un pizzico di fortuna, addirittura superato: “Ho già lavorato con importanti figure del mondo del cinema, come Monica Guerritore e Giorgio Colangeli. Sono state occasioni che hanno oltrpassato le mie aspettative”, ha aggiunto Muroni, ricordando quando, da bambino, gli amici appassionati di calcio non capivano il suo sogno di diventare attore. “Per questo, oggi, ho voluto impegnarmi in questo corso di preformazione, offrendo ai ragazzi un’opportunità per vivere fino in fondo la loro passione” ha concluso rivolgendosi soprattutto ai giovani talenti ferraresi che, presenti all’inaugurazione, si metteranno in gioco nel corso promosso da Fonè.
Un’opportunità accolta con entusiasmo anche dal vicesindaco nonché assessore alla Cultura Massimo Maisto, il quale ha chiarito le ragioni per cui il Comune di Ferrara ha patrocinato questa iniziativa. “C’era l’esigenza di promuovere una cultura diffusa – ha spiegato – scommettendo su un lavoro capillare e quotidiano al fine di stimolare i giovani in età scolastica. La nostra città ha bisogno di attività creative e fantasiose, senza perdere il senso della professionalità”, ha aggiunto il vicesindaco, che non ha negato di aver appoggiato il progetto anche per motivi personali: “Mi ha colpito la sfida lanciata da Stefano, il suo coraggio di rischiare proponendo idee nuove” è stato il commento dell’assessore, seguito dalle dichiarazioni rilasciate da Paolo Govoni. Ribadendo la necessità di finanziare le attività culturali e artistiche per contrastare l’attuale crisi economica, il direttore della Camera di Commercio di Ferrara ha elogiato il progetto teatrale realizzato da Fonè. Un progetto che, riscoprendo le qualità del territorio, “valorizza i giovani e stimola il cambiamento sociale grazie alle eccellenze”.

“Possiamo rilanciare una società pronta a cambiare e a riproporsi” ha aggiunto Malucelli nel corso dell’inaugurazione, caratterizzata anche dall’intervento di Paolo Marcolini. Il presidente Arci ha dichiarato di apprezzare un’idea che “cerca di unire il mondo della recitazione e della cultura all’attività imprenditoriale”. Due realtà diverse e contrastanti, due “iceber alla deriva” che, come affermato da Malucelli, “hanno deciso di intraprendere un percorso nuovo coordinando gli sforzi e l’impegno per realizzare un obiettivo condiviso”. Grazie a un programma che vede Ferrara scintillare tra le stelle della cultura e dell’arte, l’inaugurazione della sede di via Arianuova si è trasformata in un’occasione per riscoprire la ricchezza di un Paese alla deriva. Una ricchezza che è stata elogiata anche da Gubitosi, figura di spicco dell’inaugurazione svoltasi martedì. Spronando i presenti a impegnarsi nella ricostruzione di uno Stato che deve tornare al primo posto nella classifica dei Paesi più visitati al mondo, il direttore artistico di Giffoni si è soffermato sulle potenzialità del cinema e del teatro italiani. “Non dobbiamo delocalizzarci, ma, coscienti della nostra cultura, dobbiamo impegnarci a esportarla. Il festival che ho realizzato a partire dal 1973 punta proprio a questo e abbiamo contatti con molti Paesi esteri, come il Qatar” ha spiegato Gubitosi, complimentandosi con Muroni. “E’ un buon elemento. Mi piacciono la sua arroganza, la sua presunzione e la sua ambizione”, ha scherzato il direttore artistico, il quale, senza nascondere quella verve napoletana che mette in luce le potenzialità di una regione dalle mille sfaccettature, si è rivolto ai ragazzi del corso incentivando il loro lavoro.
Certo, non mancheranno i sacrifici, “fondamentali per ricostruire le briciole”. Ma Gubitosi non ha dubbi e, concludendo l’intervento prima dell’atteso banchetto offerto dal ristorante pizzera catering L’Archibugio, ha ricordato a tutti i presenti la necessità di amare sé stessi: “Solo se vi amate, riuscirete in questo mestiere. Se non lo fate, cambiate lavoro”. Parole incoraggianti. Ma, soprattutto, parole di sfida e di sprone, che condurranno i talenti di domani alla scoperta di un‘esperienza unica, in cui la passione, coniugandosi con l’arte, darà origine a qualcosa per cui varrà la pena essere spettatori.

Un gioco da ragazzi, tanto serio quanto la vita

Il palcoscenico del Teatro comunale Claudio Abbado come “spazio ludico, allo stesso tempo indeterminato e regolamentato”, nove “adolescenti kamikaze” che rispondono in diretta a un corpus di quesiti, condividendo un inventario di comportamenti, ma senza sapere in base a quali parametri di selezione verranno chiamati in gioco: “ciascuno risponde in diretta autodefinendosi”. Questo è la performance ideata da Francesca Pennini e Angelo Pedroni di CollettivO CineticO insieme ai nove ragazzi che sono andati in scena ieri sera: Tilahun Andreoli, Samuele Bindini, Thomas Clavez, Marco Calzolari, Camilla Caselli, Jaques Lazzari, Matteo Misurati, Emma Saba, Martina Simonato.
Ma in realtà c’è di più perché, partendo dal concetto di indeterminazione e di sperimentazione caratteristico del grande compositore, diventa un percorso, un processo alla ricerca della definizione e dell’autodefinizione del sé, anche in relazione agli stimoli che provengono dal contesto esterno.

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Quadro, La competizione

I nove adolescenti che abitano il palco hanno memorizzato una serie di gesti associati a stati d’animo, conformazioni emotive e comportamenti e viene loro chiesto di “rappresentarli” a comando. In un angolo giace, infatti, quello che diventa una sorta di principio generatore: un computer portatile, che Angelo usa per proiettare le istruzioni ai performers. L’habitat viene costruito gradualmente, Angelo si procura gli oggetti necessari e li dispone sul palcoscenico dopo averli mostrati per qualche secondo al pubblico, rendendo evidente il meccanismo teatrale, ‘mettendolo in scena’ tramite la sua composizione in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori. I ragazzi poi siedono muti sulle panche, si alzano a turno o in gruppo per andare a occupare il palco eseguendo i gesti imparati dai propri corpi, rispondendo in maniera diretta alle istruzioni proiettate sul fondale, fino a che Angelo non suona un gong che determina il passaggio al quadro successivo.

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Quadro, La costruzione

Come nelle pagine di un bestiario medievale, con l’aria sulla quarta corda di Bach in sottofondo, gli spettatori vedono aprirsi davanti ai loro occhi una sorta di inventario umano diviso in tre capitoli. Il primo capitolo è quello delle descrizioni degli “esemplari”: esemplari pessimisti, logorroici, che parlano da soli o che sanno mentire. Gli adolescenti che si riconoscono nella descrizione si alzano in piedi e stanno fermi per qualche secondo davanti al pubblico, fino al suono del gong che li manda a sedere. Il secondo capitolo si intitola “comportamento”: gli esemplari egocentrici sono chiamati al comportamento di salto, quelli disorganizzati al comportamento in codice e quelli stitici al comportamento di canto, oppure ancora gli esemplari arrapati – naturalmente tutti maschi – al comportamento lisergico. Infine nel terzo capitolo tutti e nove compongono azioni coreografiche: dall’addestramento all’equilibrio, dall’allarme alla transumanza alla competizione, dalla costruzione alla decostruzione, quando ciascuno prende un oggetto dell’habitat portandolo fuori dalla scena.

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Quadro, La competizione

“Age”, spiega Francesca Pennini seduta fra i ragazzi di entrambi i cast – quelli del 2014 e quelli del 2012, che non hanno voluto perdere la tappa ferrarese del loro spettacolo – nell’incontro con il pubblico al termine dello spettacolo, non è uno spettacolo sull’adolescenza ma gioca con la capacità degli adolescenti “di reagire a una situazione mutevole, non predeterminata, come in fondo è la vita che si sta costruendo”. Porta quindi in scena contemporaneamente il coraggio e la sfrontatezza, ma anche tutta la fragilità di quella delicatissima fase della vita che è l’adolescenza, in cui attraverso la continua sperimentazione della propria identità in divenire il gioco si trasferisce dalla fantasia alla realtà: questi nove ragazzi, come tutti i propri coetanei, non sanno cosa li aspetterà nello spettacolo proprio come non sanno cosa li aspetta nella vita. Allo stesso tempo, questi giovani sulla scena sono estremamente sicuri: nascondono l’emozione, sanno come affrontare la sfida, anche grazie al lungo percorso di ‘addestramento’ attraverso cui Francesca e Angelo li hanno guidati. Sembra che voglia dirci anche questo: l’incertezza può essere affrontata dotandosi degli strumenti della conoscenza e dell’allenamento.

Per leggere l’intervista a Francesca Pennini pubblicata su ferraraitalia [vedi]

La foto in evidenza e la prima nel testo sono di ©Marco Caselli Nirmal

LA RIFLESSIONE
Carta o digitale,
il dilemma per il libro
di Natale

“Dobbiamo fornire agli editori ulteriori ricerche e risultati riguardanti i rapporti fra tipo di supporto (iPad, Kindle, carta) e contenuto del testo; dovremmo comprendere quali tipi di testo sono meno influenzati dalla lettura digitale e quali invece dovrebbero essere letti sul cartaceo. Sto pensando che ci sia una notevole differenza fra la lettura di una breve storia su uno schermo, quando non necessariamente devi prestare attenzione a tutte le parole, ed una storia letteraria più complessa, qualcosa come l’Ulisse, che richiede una sostanziale concentrazione per essere letta”.

Queste sono le conclusioni alle quali è giunta la ricercatrice norvegese Anne Mangen della Stavanger University dopo aver studiato 100 lettori ai quali era stato dato da leggere lo stesso libro. Metà dei lettori lo hanno letto nella versione cartacea e metà nella versione digitale (ebook). La ricerca ha mostrato come i lettori su Kindle fossero peggiori dei lettori sul cartaceo nel ricordare la successione degli eventi raccontati nel libro (The Guardian, Giovedì 19 Augusto 2014 [leggi]).

Insomma, per Natale dovremmo regalare libri o iPad/Kindle/computer?
Sembra che i libri cartacei siano in via di estinzione. Di loro esistono poche specie che ancora popolano la Terra e che fra qualche anno scompariranno definitivamente per lasciare la loro nicchia ecologica alla prole filogenetica: il libro digitale. Dobbiamo trasferire tutto su piccoli supporti con grandi memorie, oppure leggere su ebook fa perdere capacità mnemoniche e cognitive?

Leggiamo per vari motivi: per imparare, per divertimento, per passare il tempo, per acquisire informazioni prima di un incontro di lavoro. Qualcuno ha affermato che la tecnologia digitale aiuta la lettura. C’è sicuramente differenza fra lettura ricreativa e lettura di un testo sul quale si dovrà sostenere un esame. L’ebook permette collegamenti ipertestuali, che sono uno stimolo ed allo stesso tempo un altissimo rischio di dispersione. Il modo di leggere sta cambiando. Molti di noi hanno problemi crescenti di attenzione e concentrazione: leggere per intero un lungo articolo in internet è molto complicato, l’attenzione si perde facilmente. Ci si perde in un continuo inseguimento delle parole. Quale problema risolve l’ebook? Sicuramente quello del volume e dello spazio dei libri cartacei. Tuttavia il libro cartaceo ha un peso, ha un’impaginazione personale, occupa spazio, ci da informazioni visive e tattili che rafforzano le nozioni. Sappiamo quanto manca alla fine. Le librerie offrono un potente aiuto alla memoria: spesso basta guardare gli scaffali per riattivare il ricordo delle informazioni. Scorrere una lista su un monitor non ha lo stesso effetto. Io ricordo perfettamente il colore della copertina dei libri che ho letto, conosco sicuramente la posizione dei libri nel mio studio, anche per quel libro che ho sfogliato l’ultima volta dieci anni fa.

Gli ebook vengono proposti come la sicura chiave dell’evoluzione del libro, l’obbligato passaggio al digitale. Vi sono numerosi esempi di tentativi digitali introdotti sul mercato e considerati sicuri mezzi del nostro futuro e poi inesorabilmente falliti e/o caduti nell’obsolescenza (cambiamento di sistemi operativi, formati di file ora illeggibili, memorie di massa non più leggibili, vari tipi di cd/dvd non più leggibili dai lettori digitali). Erano tentativi per un successo economico: una scommessa sul mercato dell’elettronica, sopravvissuti qualche anno, ci hanno illuso di essere eterni. Gli abbiamo dato fiducia concedendogli le foto più care dei nostri viaggi, gli scritti più complicati e personali dei nostri ricordi. L’ebook si può rompere, la batteria diminuirà la sua capacità d’immagazzinare energia, lo schermo si graffierà. Quando il nostro ebook sarà obsoleto dovremmo gettarlo e comprarne un altro, trasferendo tutto il suo contenuto nella nuova memoria. Produrremo un altro rifiuto elettronico. Il lettore digitale è più ecologico di un libro cartaceo? I risultati di vari studi non hanno ancora chiarito quale delle due soluzioni sia più ecologica [leggi in pdf]. L’iPad è responsabile di circa 130 kg di emissioni di gas-serra equivalenti di CO2 durante la sua vita media. Il libro stampato in media è responsabile per circa 4 kg [leggi]. Senza una totale trasparenza nelle informazioni fornite dai produttori di supporti digitali, non è chiaro tuttavia quanto i rifiuti siano ecologicamente riciclabili e quanto si stia effettivamente cercando di migliorare la loro efficienza energetica.

Ho la sensazione che la proposta dell’ebook sia davvero spinta da interessi economici dei grandi produttori, piuttosto che da effettivi vantaggi per il lettore. Un iPad costa mediamente circa 250 euro (un Kindle costa circa 60 euro) ai quali vanno sommati gli acquisti di ebook (circa 7 euro a libro). Se in due anni leggessi circa 20 ebook, avrei una spesa di 140 euro ai quali sommare l’acquisto dell’iPad (per un totale di 390 euro). Se avessi acquistato gli stessi libri, ma in forma cartacea avrei speso circa 300 euro (per un ipotetico costo di 15 euro a libro). Naturalmente, durante i due anni ho avuto da amici ebook gratuiti e ne ho scaricati di piratati. Alla stessa maniera, ho ricevuto in prestito qualche libro cartaceo. Ovviamente mi auguro che in questi due anni il mio iPad non si guasti. Il vantaggio mi sembra davvero puramente volumetrico, e comunque usando l’iPad non saprò come riempire la mia nuova libreria ikea.

Per Umberto Eco ci sono due tipi di libro, quelli da consultare e quelli da leggere.
La lettura del cartaceo riguarda le sensazioni, l’animo, l’arte visiva, letteraria e musicale. Se ha ragione la ricercatrice norvegese, siamo più propensi a ricordare in dettaglio ciò che leggiamo sul cartaceo. Se vogliamo allora provare le sensazioni dell’anima dobbiamo leggere un libro di carta. L’anima ricorda meglio. Il libro per la memoria, l’ebook per gli affari ed il divertimento.

La lettura non è divertimento leggero. L’energia spesa nella lettura dell’imparare è preziosa e desidererei che ciò che imparo rimanesse con me il più a lungo possibile. Alla fine di un bel libro siamo rimasti delusi non potendo più partecipare alle storie e frequentare i personaggi del romanzo. Gli ultimi capitoli li abbiamo millesimati, sperando che la posizione del segnalibro arretrasse ogni volta che riprendevamo in mano il libro. Le ultime pagine le abbiamo centellinate, come l’ultimo sorso di quell’ottimo vino che abbiamo gustato quella volta. Poi abbiamo voltato l’ultima pagina, chiuso il libro ed ammirato la copertina. “La forma libro è determinata dalla nostra anatomia” (Umberto Eco, La bustina di Minerva, 17/03/1995).
Abbiamo bisogno di sapere quanto manca alla fine: è quello che stiamo cercando da sempre.