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Siamo ormai giunti al 22 di dicembre e in ogni casa, attraverso i vetri appannati delle finestre, si possono intravedere le luci del presepe in attesa del bambinello e dell’albero di Natale, o perlomeno uno dei due, diventati nell’immaginario comune gli emblemi della festa del 25 dicembre insieme a dolci come il pandoro e il panettone. Ma vi siete mai chiesti da dove derivi un altro dolce natalizio molto diffuso: il tronchetto di Natale?
Il suo nome originale è Bûche de Noël e proviene dunque dalla tradizione natalizia francese. Riprende nella forma il ‘grande ceppo di legno’, trasportato solennemente in casa e acceso poi nel caminetto la sera della vigilia: un’usanza meno conosciuta, ma diffusa fino almeno alla prima metà del Novecento nelle campagne dell’Inghilterra, della Francia e dei paesi slavi, ma che abbiamo incontrato anche scrivendo delle usanze natalizie in Romagna.
Le cerimonie più elaborate erano quelle dei popoli dell’Est Europa. Per esempio in Serbia e in Croazia si abbattevano due o tre giovani querce per ogni casa, a volte una per ciascun componente maschio della famiglia, e al tramonto della vigilia di Natale si trasportavano i ceppi in casa e si collocavano nel caminetto: mentre il capofamiglia oltrepassava la soglia con il primo ceppo tutti si disponevano ai lati con in mano candele accese e venivano lanciati granoturco e vino. A Ragusa di Dalmazia, l’attuale Dubrovnik, era invece proprio il capofamiglia a compiere questa sorta di benedizione ripetendo “Benedetta sia la tua nascita!” e in alcune zone della Bassa Dalmazia donne e ragazze avvolgevano i tronchi delle querce con drappi di seta rossa e filo dorato e li adornavano con foglie e fiori. Mentre nel Montenegro l’uomo di casa solitamente spezzava un pezzo di pane non lievitato lo poneva sopra il ceppo e vi versava del vino. Tornando alla Francia, quella del ceppo di Natale era una tradizione seguita soprattutto nel sud: in Provenza la vigilia l’intera famiglia usciva per cercarlo intonando un canto e pregando per ottenere benedizioni ed era il componente più giovane a versare il vino sul ceppo che poi veniva gettato nel fuoco.
In diverse zone alle ceneri o al tizzone venivano anche attribuiti poteri magici: proprio in Francia si pensava che la sua cenere proteggesse la casa dai fulmini, mentre in alcune regioni la parte che non era bruciata veniva usata per l’aratro credendo che potesse rendere i semi più prosperi, altrove erano invece le ceneri ad essere sparse sui campi o intorno agli alberi da frutto per aumentarne la produttività. Queste capacità di protezione e di fertilità erano un elemento ricorrente del folklore popolare, si ritrovavano infatti anche in regioni tedesche, come la Westfalia e l’Assia, e in Inghilterra, dove era usanza accendere il ceppo con il tizzone dell’anno precedente.
Vi abbiamo già raccontato dell’usanza romagnola di vegliare alla luce del fuoco acceso dal capofamiglia fino all’ora della messa di mezzanotte, ma in realtà la tradizione del ceppo di Natale un tempo era molto diffusa in diverse zone d’Italia: se in Toscana era conosciuto come ‘ciocco’, in Lombardia diventava il ‘zocco’. Un libro stampato probabilmente a Milano alla fine del XV secolo fornisce diversi particolari riguardo il rituale di accensione: la vigilia di Natale l’intera famiglia si riuniva solennemente intorno al camino dove il capofamiglia accendeva il ceppo nel camino, ai piedi era stato posto del ginepro e sopra del denaro che veniva poi distribuito ai servi; infine, dopo aver offerto da bere a tutti i presenti era di nuovo l’uomo di casa a versare per tre volte il vino sulle braci.
Non è un caso che in tutti i paesi europei si ripetano queste usanze che hanno come fulcro il focolare casalingo: alcuni studiosi leggono questi gesti rituali di accensione come la trasformazione e il perpetuarsi sotto altre spoglie del rito di accensione del fuoco sacro, centro della vita famigliare e dimora degli spiriti degli antenati, che proteggevano la propria discendenza attraverso le fiamme che continuavano a crepitare nel camino.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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