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La vita come scuola: all’Ariostea Fioravanti ragiona del modello educativo di Freinet

Fautore di una “pedagogia popolare” e della necessità di laicizzare la scuola”, Célestin Freinet – pedagogista ed educatore francese – ha sviluppato un sistema didattico noto come “metodo naturale”, la cui peculiarità è quella di fare sistematicamente riferimento alla vita reale sia per quanto riguarda gli strumenti, che per quanto concerne le prassi di lavoro.
Coerentemente con questo approccio, la struttura cooperativa, necessaria per gestire l’École Freinet, viene impiegata allo scopo di rendere i ragazzi compartecipi dei problemi, anche finanziari, legati alla gestione della loro attività, permettendo così a ciascuno di acquisire il senso della responsabilità d’azione e di strutturare un sistema di valori che comprende il rispetto del bene comune e della qualità funzionale del gruppo. Attraverso l’impiego delle più moderne tecnologie, l’operosità si traduce nel conferimento di una dignità di “prodotto culturale autonomo” al lavoro degli alunni.
Oggi alle 17 alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea, per il ciclo ‘Viaggio nella Comunità dei Saperi’, Giovanni Fioravanti terrà una conferenza dal tema “Quando la tipografia era una tecnologia avanzata – Freinet e le scuole in rete”. Introdurrà l’iniziativa, a cura di istituto Gramsci di Ferrara e istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Sandra Carli Ballola.

Amore in tempo di crisi

Nato sul web, con budget limitato, siamo di fronte a una pellicola simpatica e ironica, ma con temi importanti sullo sfondo, un film carino che celebra l’amore in tutte le sue sfaccettature. Il film mette in scena quattro storie che raccontano l’amore oggi, al tempo della crisi, del dominio incontrollato e prevaricante dei media, del narcisismo maschile e dell’ipocrisia; ci conduce attraverso diversi modi di vivere la relazione affettiva con il proprio partner.

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La locandina

Nel primo episodio, “Precari”, Andrea (Andrea Boschi) e Luisa (Sara Zanier) sono una giovane coppia serena, nonostante le difficoltà quotidiane e lavorative. Desiderosi di mettere su famiglia, decidono di rivolgersi a un medico esperto in fertilità (Rocco Siffredi). Dopo aver perso tutti i loro risparmi nel crack finanziario del loro istituto di credito, la Credici Bank (nome improbabile ma davvero simpatico), la coppia decide di inventarsi un lavoro fuori dagli schemi. E li vedremo benestanti. Perché e come dopo tanti licenziamenti e traversie? Perché lavoreranno sì in banca, ma come rapinatori, mentre il figlioletto farà da palo inconsapevole. Preoccupante ma ironico.

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Andrea e Luisa
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Mimmo e Valerie

Nel secondo episodio, “Ragazza dei miei sogni”, Mimmo (Giancarlo Fontana) è un giovane operatore video che, durante una processione religiosa a Matera, inquadra una bellissima e affascinante ragazza. Innamoratosi di lei perdutamente, Mimmo cerca di rintracciarla in tutti i modi, utilizzando volantini, tv e social network. Facebook, in particolare, gli rovinerà la vita, perché, postando in rete il suo numero di cellulare, diventerà bersaglio di telefonate anonime e di una folla impazzita di ragazzine innamorate dell’idea stessa dell’amore. Una simpatica Caterina Guzzanti, con una prima intervista televisiva, apre a Mimmo il mondo del reality show. Un astuto produttore televisivo, infatti, lo convincerà a incontrare la sua amata, a Parigi, sotto l’occhio indiscreto e continuo delle telecamere. Lei, Valerie (Mily Cultrera Di Montesano), è una brillante studentessa italo-francese, i due si piacciono davvero e scappano al tormento televisivo per rifugiarsi, soli con il loro amore, in campagna. Mimmo scoprirà, però, che la sua amata non è poi così disinteressata alla fama e allora… ci si chiede che fine farà Valerie… Finale brillante ma tragi-comico.

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Paride prima
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Paride dopo

Nell’episodio 3, intitolato “Narciso”, Paride (Edoardo Purgatori) è un giovane poco affascinante, piatto, prevedibile, grassoccio e abitudinario, dedito alla vita sedentaria, ai videogiochi, ai panini da fast food e alla birra. Quando viene lasciato dalla fidanzata (Giulia Lapertosa), dopo lo sconforto e la paura iniziali, decide di riconquistarla mettendosi a dieta e affidandosi alla cure di un personal trainer duro e inflessibile. Dopo essere diventato un bel ragazzo sexy, vincente e corteggiato dal fisico scolpito, fra anabolizzanti, flessioni e beveroni di vario genere, capisce di amare più se’ stesso che l’ex-fidanzata. Simpatico, spensierato e originale.

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Mario Marinelli

Nel quarto e ultimo episodio, “Il campione” (con Alessandro Tiberi, Neri Marcorè, Enrico Bertolino, Gianluca Vialli, Fabio Caressa, Jacopo Maria Bicocchi, Ugo Piva ed Emilio Fallarino) il protagonista è Mario Marinelli, un calciatore di serie A, costretto in panchina dopo un grave infortunio. Le cronache parlano più dei suoi veri o presunti flirt con belle modelle piuttosto che delle sue imprese calcistiche. In realtà, Mario è omosessuale e deve nascondersi dallo spietato mondo del calcio fatto di omofobia e dirigenti senza scrupoli. Gli vengono offerte varie possibilità prestigiose e di carriera, inclusa la partecipazione ai Mondiali di calcio brasiliani, per non parlare, per non gridare al mondo quel segreto che potrebbe minare la reputazione di un’intera squadra di calcio, fatta di uomini “veri”. Dovrà decidere se continuare a mentire o assecondare i suoi sentimenti. Sceglierà bene, pensiamo. Romantico, sognatore e coraggioso.

Un film in crescendo, riuscito soprattutto negli ultimi due episodi, che affronta con garbo, freschezza e simpatia due temi non facili come il culto dell’immagine maschile estetizzata e l’omosessualità in campi considerati ancora regno del maschio duro e puro. Moderno e attuale.

“Amore oggi”, di Giuseppe G. Stasi, Giancarlo Fontana, con Alessandro Tiberi, Jacopo Maria Bicocchi, Andrea Bosca, Sara Zanier, Giancarlo Fontana, Mily Cultrera di Montesano, Caterina Guzzanti, Edoardo Purgatori, Giulia Lapertosa, Simone Sabani, Neri Marcorè, Rocco Siffredi, Italia, 2014, 91 mn.

LA RIFLESSIONE
Un uomo che avrei voluto conoscere

È difficile ricordare qualcuno che non abbiamo conosciuto e che è divenuto un mito proprio per il silenzio di cui ha saputo circondarsi. Rigoroso nel non rilasciare interviste e disponibile a parlare con le persone che lo incontravano per strada, Michele Ferrero era un uomo di un altro tempo. L’applauso che lo ha salutato ad Alba esprime l’autenticità di sentimenti che vengono da lontano e si sono tramandati in forma di storie.
Ciò che le persone pensavano di lui lo capivi parlando con gli autisti, lungo il tragitto che da Asti conduce ad Alba, tra colline morbide, dopo che ogni traccia delle strade trafficate era stata abbandonata e sembrava lontana. Raccontavano piccoli aneddoti per dire del signor Michele: contadini entrati negli anni cinquanta nella fabbrica della Nutella, che non volevano separarsi dalla loro terra e ricevevano un permesso speciale nella stagione del raccolto delle nocciole; persone che gli erano grate per l’aiuto ricevuto anche direttamente e non solo attraverso le opere di beneficienza, raccontavano che ogni domenica andava in una chiesa diversa per poter distribuire equamente il suo obolo. E poi ricordavano quella volta dell’alluvione, quando gli operai erano andati tutti di mattina prestissimo con stivali e pale per ripulire la fabbrica dal fango. Esempio di come non vi sia bisogno di coordinamento se le scelte sono condivise. E in azienda io, affascinata e curiosa chiedevo ancora: mi raccontavano che il Signor Michele assaggiava di persona la mitica Nutella per verificare che fosse tutto “giusto”, che progettava e pensava a nuovi prodotti che replicassero il successo dei tanti che avevano fatto la storia del cibo che si mangia “per piacere”.
Io raccontavo che con gli Ovetti avevo allevato mia figlia: gli Ovetti erano il gesto dell’incontro, lo spazio di un sorriso per recuperare il contatto dopo l’assenza. Gli Ovetti hanno accompagnato il ritorno a casa di molte generazioni di genitori: per questo hanno mantenuto il carattere di archetipo della sorpresa, persino ora che di giochi ce ne sono tanti.
Mi affascinava, tra l’altro, il fatto che lui, un uomo anziano, mantenesse l’ostinata religione del lavoro e forse era lo stesso sentimento di ammirazione che legava le persone nel racconto di lui. Mi dispiace non averlo conosciuto di persona Michele Ferrero, non leggerò la biografia che molti avrebbero voluto scrivere e a cui lui, schivo, si è sempre sottratto; ma proprio per questo non posso sottrarmi al desiderio di scrivere questo breve pensiero. E se l’autorevolezza e la visibilità possano essere espressione di un lavoro tenace e silenzioso? Mi sembra questa la domanda che ci lascia.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi. Studia le scelte di consumo e i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network.
maura.franchi@gmail.com

L’EVENTO
Nascita, rinascita e sfascio di una casa del popolo

Costruzione e decostruzione della casa del popolo “Rinascita” di San Vito di Spilamberto (Modena), attraverso corpo e voce di Elsa Bossi e Giulio Costa, ovvero: il riciclaggio umano e morale delle casa del popolo, dalle origini ai giorni nostri. Lo spettacolo “Immobili”, scritto da Giulio Costa, ultima replica sabato 21 febbraio (ore 21) al Teatro Off di Ferrara, racconta in due punti di vista a volte dissonanti, a volte in perfetta sintonia, ma esposti attraverso il contrasto di genere, un pezzo di Novecento italiano attraverso una istituzione fondamentale per chi l’Italia l’ha fatta. Gli attori raccontano, a fine spettacolo, la passione che ha portato alla nascita della pièce minimale e incisiva, già portata in tournée tre anni fa e riproposta per raccontare ancora una volta la storia di una casa che rischia di essere spazzata via da una nuova distorsione storica e speculativa. In un dibattito ancora aperto e urgente: Rinascita è a oggi di nuovo indifesa, a rischio chiusura, grazie all’ennesimo intervento residenziale.

casa-del-popolo-immobiliSul palco, all’inizio dello spettacolo, c’è una timida e innocua scatola di cartone. Il prete a mo’ di don Camillo preoccupato della nascita di una casa del popolo sfoga in un concitato e caldo dialetto modenese le sue preoccupazioni con la perpetua sul confessionale, timoroso che il bracciante voglia mangiarsi non solo gatti ma anche il parroco. Si trasforma poi nel sindacalista visto come un demonio dal prete di pochi minuti prima, mentre lei a estrarre numeri, e lui sul pulpito a parlare della nascita della cooperativa di lavoro consumo, il cui compito sia quello di regolare i prezzi, dare solidarietà al lavoratore e resistere al padrone. Quel padrone osteggiato da una donna fiera e progressista, erede di suffragette e sostenitrice del diritto di sciopero, che avrebbe voluto studiare e che invece è piegata sotto al bastone del padrone. Lei, la sorella, reclama il diritto alla cooperativa per essere tutelata e il dovere del lavoratore di fare sacrifici per ottenere diritti e una paga adeguata; lui, il fratello, difende il padrone nel quale vede il diritto alla propria continuità di esistenza, di fronte al quale obbedire e piegare la testa.

casa-del-popolo-immobiliCi prova un altro lui, a farle piegare la testa: arriva il 19 luglio 1921, i diritti operai sono aboliti. I fascisti bruciano le case di associazione, tra queste anche Rinascita. Lui srotola le calze lungo il polpaccio, camicia nera e piglio arrogante e ‘super partes’ interroga lei, una insegnante che tenta di difendersi verbalmente dalle sue violenze fisiche e verbali, che la accusa di non essere all’altezza della patria. Poi lei è una staffetta impegnata in gruppi di difesa della donna, che tiene testa a un lui partigiano e risolutorio. Passano i mesi, ad alta voce: novembre, poi febbraio, poi marzo. Giornali, vestiti, lettere, e arriva il settembre 1943. Rinascita viene faticosamente ricostruita dopo la Liberazione, sull’altalena del contrasto tra comunisti e democrazia cristiana. Con fatica, con amore, meticolosamente, prima; poi non più.

casa-del-popolo-immobiliAlla fine dello spettacolo la scatola di cartone si è moltiplicata, ingrossata come un tumore, è diventata un casino di cemento spartito tra gli ex compagni, sbrigativi e annoiati, ben ripuliti, che pensano di essere andati oltre i giochi dei comuni mortali. La casa del popolo è sfasciata senza dibattito, una ragazzina molestata dal gruppetto di amici del cuore che è diventata tutto a un tratto il “branco”. Di rosso è rimasto il colore della polo, indumento di scena, su cui ammicca un coccodrilletto: ha vinto lui. Le sane gazzarre tra Don Camillo e l’onorevole Peppone sono spente per sempre nei vecchi televisori stipati nelle soffitte. Roba da rigattieri, ormai.

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Foto di Daniele Mantovani

L’osteoporosi si previene anche a tavola e non solo con il latte

L’osteoporosi si evidenzia molto nell’immobilizzazione. Se si conduce una vita sedentaria o non si fa esercizio fisico, si può determinare una riduzione delle forze meccaniche sulle trabecole dell’osso, aumentando la progressione della patologia. Anche una dieta eccessivamente acida (troppo ricca di proteine) conduce a una demineralizzazione dell’osso nel tentativo di tamponare tale carico acido.

Che cos’è l’osteoporosi
Di preciso non si sa con esattezza perché ci si ammala di osteoporosi, ma è assodato che si tratta di un disturbo che incide sul normale processo di rimodellamento osseo. Le ossa sono costituite da tessuti viventi, per lo più da collagene, una proteina che forma una struttura morbida, e da fosfato di calcio, un minerale che indurisce l’osso. Nel corso della vita, le ossa si rinnovano continuamente, l’organismo deposita nuovo tessuto osseo e rimuove quello vecchio: durante l’infanzia la quantità di osso nuovo che si forma è maggiore rispetto a quella di osso vecchio che viene distrutto; il tessuto osseo ha un picco di densità e forza intorno ai trent’anni. In seguito, l’organismo inizia a rimuovere più tessuto vecchio di quanto ne produca di nuovo. Questo processo è detto turnover o rimodellamento osseo.

Le cause dell’osteoporosi

1- Nelle trasmissioni televisive, nelle riviste o anche dai medici si consiglia spesso un consumo massiccio di latte e derivati come rimedio principale all’osteoporosi. Questo tipo di messaggio non è corretto, perché se si eccede nell’alimentazione iperproteica, l’organismo deve provvedere a compensare il disequilibrio neutralizzando gli acidi in eccesso e utilizzando una grossa fonte di ioni positivi, cioè il calcio nelle ossa. Da qui la demineralizzazione ossea, quindi l’osteoporosi. L’apporto di verdura cruda, invece, tende a basificare l’organismo. Non a caso, storicamente, nei ristoranti di una volta, la bistecca (acida) veniva servita con insalata e limone (che è incredibilmente basica). Anzi sappiamo che un eccesso di latte e derivati, insieme ad un’alimentazione iperproteica (in particolare di origine animale), causa l’acidificazione del sangue. In sostanza, affinché il corpo sia in equilibrio acido/basico, deve mantenere un ph pari a 7,4.

2- Per tutte le problematiche che ci affliggono non c’è mai una causa sola ma una serie di con-cause che tuttavia hanno un peso diverso. Nel caso dell’osteoporosi, un’altra concausa molto importante è la mancanza di carico fisico prolungato. La maggior parte delle casalinghe, pur muovendosi in casa sono lontane dal produrre un carico sulle ossa e un movimento tale da giustificare da parte dell’organismo un investimento in termini di apporto di calcio alle ossa. Valga per tutti l’esempio della demineralizzazione ossea che subiscono gli astronauti nella loro permanenza nello spazio. Non essendoci carico, il corpo non ritiene opportuno “investire” il calcio nelle ossa.

3- Non ultimo è l’apporto carente di vitamina D che, come sappiamo, è stimolata dall’esposizione alla luce solare, anche in questo caso le nostre casalinghe hanno difficoltà a recuperare la dose giornaliera consigliata: la luce cura!

I sintomi dell’osteoporosi
Nelle prime fasi dell’osteoporosi, di solito non si avverte né dolore né alcun altro sintomo, però, una volta che la patologia ha indebolito le ossa, si iniziano ad avvertire segni e sintomi tipici della malattia, tra cui:
– mal di schiena, anche intenso, provocato dalla frattura o dal collasso di una vertebra;
– diminuzione della statura;
– postura curva;
– frattura delle vertebre, del polso, del femore o di altre ossa.

Consigli e rimedi naturali per prevenire l’osteoporosi
– Fare tutti i giorni una passeggiata all’aria aperta di almeno 30 minuti senza interruzioni;
– fare una seduta osteopatica per accertarsi che l’intestino funzioni al meglio, perché quello che conta non è solo ciò che mangiamo ma ciò che digeriamo;
– seguire un’alimentazione a base di frutta, verdura, cereali vari e un apporto di diversi tipi di proteine soprattutto di origine vegetale, ma in quantità contenuta;
– per integrare, mangiare degli alimenti con un buon contenuto di magnesio;
– assicurarsi un adeguato apporto di vitamina D;
– assicurarsi un adeguato apporto di calcio: mandorle, broccoli, spinaci, cavoli cotti, salmone in scatola (con lisca), sardine e prodotti derivati dalla soia, come il tofu, sono tutti ricchi di calcio. Come abbiamo già detto, la quantità di calcio necessaria per stare in buona salute cambia nel corso dell’esistenza, l’Oms consiglia i seguenti apporti giornalieri di calcio, da ricavare dagli alimenti e solo eventualmente dagli integratori:
– fino a 1 anno: da 210 a 270 mg
– da 1 a 3 anni: 500 mg
– da 4 a 8 anni: 800 mg
– da 9 a 18 anni: 1.300 mg
– da 19 a 50 anni: 1000 mg
– oltre i 51 anni: 1200 mg

Lo stile di vita è importante per alleviare i sintomi dell’osteoporosi e prevenire la rottura delle ossa, cosa fare e cosa no:
– mantenere una buona postura (testa in alto, mento verso l’interno, spalle in fuori, schiena diritta e parte inferiore della spina dorsale inarcata) aiuta a non accumulare tensione sulla colonna vertebrale;
– mentre si è seduti o si sta guidando, mettere un asciugamano arrotolato contro la parte bassa della schiena;
– evitare di leggere o lavorare da sdraiati;
– per sollevare un peso, piegare le ginocchia e non la schiena, e scaricare il peso sulle gambe, tenendo dritte le spalle;
– prevenire le cadute;
– indossare scarpe con tacchi bassi e suole antiscivolo, e controllare che in casa non ci siano cavi volanti, tappetini scivolosi o superfici che potrebbero farvi inciampare o cadere;
– illuminare bene le stanze, posizionare opportune maniglie dentro e fuori dalla doccia e controllare di poter salire e scendere dal letto con facilità;
– non sottovalutare il dolore cronico, se non lo curate può limitare la mobilità e diventare ancora più difficile da sopportare: chiedere consiglio al medico per quanto riguarda le terapie contro il dolore.
– è infine consigliabile affiancare gli esercizi per la forza a quelli per la resistenza. Gli esercizi per la forza vi aiutano a rafforzare i muscoli e le ossa delle braccia e della parte alta della schiena, mentre quelli per la resistenza (camminare, fare jogging, correre, fare le scale, saltare la corda, sciare o praticare sport a impatto globale) coinvolgono soprattutto le ossa delle gambe, il femore e la parte bassa della schiena; nuotare, andare in bicicletta e allenarsi sulle macchine, ad esempio, possono rappresentare un buon allenamento cardiovascolare, ma questi esercizi sono a basso impatto, e quindi non sono efficaci per migliorare la salute delle ossa come quelli di resistenza.

Chiedere il parere del proprio medico prima di mettere in pratica qualsiasi consiglio o indicazione riportata, ed evitare di assumere troppi farmaci.

IL PUNGOLO
Festival Lgbt, il vescovo Negri sarà “prudente” come promesso a papa Francesco? [ascolta l’audio della telefonata]

Si prospetta una settima difficile per il nostro vescovo Luigi Negri. Dal 27 febbraio al 1 marzo Ferrara ospiterà “Tag”, festival di cultura Lgbt. Di recente il massimo rappresentate della diocesi ferrarese ha dichiarato che “la legge contro l’omofobia è un delitto contro Dio e contro l’umanità”. Nel medesimo messaggio il vescovo ha affermato anche che “la legge sull’aborto invece non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa crisi economica”. Come al solito, parole trancianti e poco allineate con quelle di papa Francesco. E infatti la redazione della Zanzara, popolare programma satirico di Radio 24, non si è fatta sfuggire l’occasione per giocare al monsignore uno scherzo pienamente riuscito. Grazie a una perfetta imitazione, ha inscenato una telefonata del papa al vescovo di Ferrara il quale, richiamato per ben due volte a “maggiore prudenza nelle dichiarazioni”, accoglie l’invito con un “va bene va bene” che tradisce tutto il suo imbarazzo. “Noi abbiamo il dovere di stare vicini con chi soffre” ricorda a “don Luigi” il falso (ma molto credibile) papa. Credibile evidentemente anche per il vescovo, non solo per l’abilità palesata da Andro Merkù (l’imitatore), ma proprio perché il senso delle parole appare autentico anche a lui.
Ma ora che l’intervista è andata in onda, l’impegno “alla prudenza” del vescovo Negri paradossalmente resta valido. Per forza: se lui lo ha pronunciato credendo di proferirlo al papa non è che adesso che ha scoperto che l’interlocutore non era il pontefice possa rinnegarlo. E infatti, pochi giorni dopo ha dichiarato al Carlino: “Mi sono ripromesso di essere prudente, e non solo perché ogni volta che parlo rischio di ritrovarmi in una gogna mediatica. Ma non posso che ripetere quello che ho detto anche nella telefonata al Santo Padre, quando pensavo che fosse quello vero”.
Il problema per lui, che sul tema dei diritti degli omosessuali a luglio si era schierato idealmente accanto alle Sentinelle in piedi con una plateale presa di distanza da Comune, Provincia e Università, è farlo davvero. Ci riuscirà o tornerà a proferire i soliti anatemi?

Ascolta l’audio della telefonata del “papa” al vescovo Negri

L’EVENTO
Presentato TAG, il festival di cultura LGBT dal 27 febbraio a Ferrara. Ospite Mario Venuti

E’ stata presentata oggi alla stampa la seconda edizione di TAG – Festival di cultura LGBT ideato da Arcigay Ferrara.
Dal 27 febbraio al primo marzo, tre giorni di incontri, spettacoli e dibattiti per conoscere e capire il mondo gay, lesbico, bisessuale e transessuale.
“La sede principale degli eventi – ha spiegato Massimiliano De Giovanni, presidente di Arcigay Ferrara – sarà la Sala Estense, una location importante perché proprio nel cuore della città, ma abbiamo organizzato anche eventi in altri luoghi per coinvolgere varie realtà”.

E’ un momento cruciale questo, per il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, che sono al centro di un acceso dibattito politico, sociale e religioso. La comunità locale LGBT risponde proponendo appuntamenti culturali che possano coinvolgere tutti i cittadini nel confronto e nel dialogo.

“Tutto è partito alla fine del 2013, quando abbiamo proposto la prima edizione di TAG all’interno del Festival di Internazionale, poi il Comune ci ha esortati a continuare con le nostre gambe e a organizzare un evento che fosse solo nostro. Abbiamo voluto mantenere il taglio culturale e di approfondimento perché riteniamo che l’omofobia si combatta solo con l’educazione”.

Saranno cinque i macrotemi attorno ai quali ruoterà il festival: il coming out, le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero, la pubblicità, i migranti e lo sport.
Accanto ai momenti di approfondimento ci saranno anche quelli di intrattenimento con nomi di spicco, uno fra tutti: Mario Venuti.

mario venuti
Mario Venuti (foto di Luigi Marino)
Roosters Rugby Seven
i Roosters Rugby Seven
Carlo Gabardini
Carlo Gabardini

Di rivelazione del proprio orientamento sessuale si parla venerdì 27 febbraio alle 16 nell’incontro Le ricette del coming out perfetto, con Rita de Santis di Agedo (associazione dei genitori di figli omosessuali) e Chiara Reali che si occupa di un progetto di sostegno agli adolescenti LGBT (www.lecosecambiano.org).

Di matrimoni tra persone omosessuali si parla sabato 28 febbraio alle 11 nel dibattito Sposi in Europa, coinquilini in Italia con Monica Cirinnà, la senatrice PD relatrice del testo base sulle unioni civili che dovrebbe essere votato in Senato a marzo, il giudice Marco Gattuso, l’avvocato Luca Morassutto, Anotnella Risi e Sarah Bonte, una coppia il cui matrimonio è stato trascritto a Milano da Pisapia. Nel frattempo prosegue la raccolta di firme per la trascrizione anche a Ferrara, alla quale dopo il primo banchetto di sabato scorso hanno aderito oltre duecento persone.
Ne avevamo parlato qui.

Di pubblicità a favore o contro gli omosessuali si parlerà sempre sabato 28, ma alle 16 nell’incontro Le nuove famiglie italiane della pubblicità, con la pubblicitaria Annamaria Testa, la corporate PR di Ikea Valeria di Bussolo, e Fulvio Zendrini esperto di marketing e comunicazione di GF Group.

Particolarmente delicato, come ha spiegato Manuela Macario di Arcigay, il tema dei migranti in fuga dai loro paesi per discriminazioni sessuali che verrà affrontato domenica 1 marzo alle 11 nel dibattito L’amore rubato con il giornalista Michele Sasso de L’Espresso, Massimo Cipolla di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), Paola Pirani di Amnetsy International e Johnatan Mastellari di MigraBo LGBT, un gruppo di assistenza alle persone immigrate di Bologna.

Infine l’incontro che ha anche dato il titolo e l’immagine al festival: Diritti alla meta, sul rapporto tra sport, omosessualità e omofobia che si tiene sempre domenica alle 16. Francesco Altavilla, giornalista e rugbista incontra i Roosters Rugby Seven, l’ormai celebre squadra di rugby a sette nata dal Cus Ferrara con l’esplicito intento di lottare, oltre che per la vittoria, anche contro l’omofobia. Ci sarà anche l’attore Carlo Gabardini, famoso per il ruolo di Olmo in Camera Café, ma anche per il suo coming out e la sua partecipazione al bel video dei Lions Bergamo. Per l’occasione ci sarà anche un collegamento dallo stadio San Siro con i giornalista di La7 Paolo Colombo che lancerà la nuova campagna Allacciamoli di Paddy Power.

Accanto a questi, ci saranno vari altri momenti di spettacolo cui l’incontro con il cantante Mario Venuti, che sabato alle 18 parlerà del suo nuovo album Il tramonto dell’Occidente, ideato, scritto e musicato con Francesco Bianconi dei Baustelle e Kaballà.
“E’ un disco che prospetta una rinascita socio culturale, e il cui messaggio fa da collante di tutto il festival”, ha concluso Salvo Finistrella, uno degli organizzatori.

Di seguito il programma completo.

[clic sull’immagine per ingrandire]

IL FATTO
David Carr: il giornalismo resta vivo se c’è onestà e ferocia intellettuale

Morire in scena, dicono che sia privilegio dei grandi. Anche se la scena è la redazione di un giornale, il loro trono una scrivania da ufficio. David Carr, morto il 12 febbraio in una ordinaria giornata di redazione dopo avere moderato un dibattito per il documentario “Citizenfour”, si occupava di cinema sul suo blog Carpetbegger e di media, economia e cultura per il New York Times, a cui era approdato dopo aver scritto sull’Atlantic, sul New York Magazine e sul Twin Cities Reader. Ospite del festival di giornalismo Internazionale a Ferrara nel 2012, in cui aveva dialogato con il direttore del “Guardian” Alan Rusbridger, Carr era un personaggio anomalo e affascinante; ed è stata la sua vita particolare, prima ancora che la sua penna, a fare capire che non serve un foglio di carta per esserlo, un giornalista. In due sensi ben diversi. Il primo: la rivoluzione mediatica che ha investito il mondo del giornalismo, raccontata nel documentario del 2011 “Page One: Inside the New York Times”. Voce narrante e protagonista, Carr racconta qui il lavoro all’interno della redazione del Times, compreso il difficile passaggio affrontato dal cartaceo nell’era del digitale e i passi del giornale in una terra che vede coesistere scettici, entusiasti e disillusi di un mestiere che sta cambiando inesorabilmente faccia. Carr tentava di cambiarne anche la mentalità: nella sua rubrica “The Media Equation”, che teneva ogni lunedì, analizzava i cambiamenti nel mondo di editoria, televisione e social media, e le interconnessioni tra questi ultimi e il giornalismo, le sue trasformazioni e le implicazioni etiche che ne derivavano.
Il secondo: che bastano onestà personale e ferocia intellettuale, nei confronti di se stessi e degli altri, per fare buona informazione. Che ogni passaggio obbligato e devastante della vita può insegnare qualcosa: a essere migliore o peggiore, ma sicuramente diverso da quello che si è stato. Dalla persona che guarda allo specchio anche solo fino al giorno prima. Carr lo dimostra con il libro “The Night of the Gun”, autobiografia-inchiesta pubblicata nel 2008 in cui racconta il suo passato di tossicodipendente. Di redattore in una paesino del Minnesota alla deriva personale, fatta di botte, di cocaina e di abbandoni, alla fine degli anni Ottanta.
Non nasconde niente di tutto questo, anzi va a cercarlo di nuovo, ancora una volta. Cerca i poliziotti che lo hanno arrestato, le donne che ha picchiato, gli spacciatori da cui si è fornito e gli altri episodi pieni di vergogna di cui è stato protagonista. Chiedendo, da giornalista, di raccontare il punto più basso che ha raggiunto come uomo, con tanto di prove e testimonianze. Da cui non prende le distanze neppure quando ormai è il conclamato uomo di punta: “Sono David Carr e sono un alcolista”, è stato il preambolo con cui si è presentato gli studenti della scuola di giornalismo dell’Università di Berkeley.

Poco importa che lo abbia fatto per esorcizzare il passato o per mettersi in mutande di fronte al mondo: lo ha fatto e basta, e tanto basta. Lavando in pubblico panni sporchi non per inquinare, ma per essere il primo racconto da cui trarre una lezione. Per essere letame, e non diamanti. Senza mai trasformare questa vita vissuta al massimo e al limite nella bella copia di uno spin off, o nella rivincita di un perdente mancato. Mantenendo freddezza, linearità e sincerità brutale che caratterizzavano il suo stile, tanto amato quanto criticato, e guadagnandosi sul campo il diritto di farsi odiare – un privilegio per pochi eletti abbandonati, Indro Montanelli, Oriana Fallaci. Costruendo di fatto un esempio rigoroso di ‘fact checking’, il controllo chirurgico di ogni fatto, ogni dettaglio di un articolo giornalistico necessario alla sua dignità di pubblicazione, che riversa nella vita personale prima ancora che in quella professionale. Profetico nell’anticipare colossali vicende politiche, italiane e non, in cui privato e professionale si annodano malamente in un miscuglio in cui un inutile idiota cerca di nascondere le malefatte successe dietro le quinte senza riuscirci, alla disperata ricerca di qualcuno su cui scaricare il barile di colpa e accusa. Nel ribaltare la prospettiva prima ancora che l’idea diventasse istituzione; nella sua ultima vita piena strabordante di fama e successi e risposte secche come la sua voce roca, vita che forse, a suo stesso dire, non meritava di vivere; nelle storie che raccontava e nella crudezza con cui le raccontava, meritava di essere impiccato con una corda d’oro.

Il nuovo cd di Marco Ferradini, un tributo a Herbert Pagani

“Prendi una donna, dille che l’ami, scrivile canzoni d’amore… prendi una donna trattala male lascia che ti aspetti per ore…”. Questi sono i versi di “Teorema”, la canzone di Marco Ferradini inserita con altre venti nel doppio cd “La mia generazione”, tributo a Herbert Pagani, autore del testo di quel brano e protagonista della scena musicale degli anni ’70 e ’80. Herbert Pagani era anche pittore, poeta, disc-jockey (Fumorama a Radio Montecarlo), scultore, scrittore e attore, nonché pacifista ed ecologista.

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La copertina del cd

Ferradini ha affrontato il difficile compito di mettere mano al vasto repertorio di Pagani scegliendo e arrangiando le canzoni con José Orlando Luciano, un lavoro durato ben due anni per la necessità di cambiare gli arrangiamenti originali, decifrare tonalità e accordi allo scopo di renderli eseguibili alla chitarra e adattarli alle diverse tonalità di voci. Il progetto si è completato con un libro di testimonianze e uno spettacolo teatrale. Marco Ferradini ha duettato con numerosi artisti legati a Pagani da amicizia, affinità musicali e passione per l’arte, affidando a ognuno di loro la canzone più adatta: Alberto Fortis, Andrea Mirò, Anna Jencek, Caroline Pagani, Eugenio Finardi, Fabio Concato, Fabio Treves, Federico L’Olandese Volante, Flavio Oreglio, Giovanni Nuti, Legramandi, Lucio Fabbri, Mauro Ermanno Giovanardi, Moni Ovadia, Ron, Shel Shapiro, Simon Luca, Syria.

ferradini-paganiNell’estate del 1980 Ferradini e Pagani trascorsero un fine settimana in montagna, in cui scrissero canzoni che sarebbero entrare nella storia della musica italiana: “Week-end”, “Schiavo senza catene”, “Teorema”, “Bicicletta” e “Fratello mio”. Furono quattro giorni intensi e creativi, come dimostra il brano “Un letto in riva al mare”, rimasto inedito per tanti anni prima di questa occasione. La canzone è legata alla mania di Pagani di raccogliere tutto quello che trovava in spiaggia per trasformarlo in sculture.
Il disco si apre con “Stelle negli oroscopi”, brano che racconta le gioie e le difficoltà dell’inventare canzoni, scritto da Ferradini e interpretato con Ron e Fabio Concato. Si tratta di un commovente ricordo che descrive l’atmosfera carica di speranze e attese di quando Marco e Herbert si trovavano a lavorare insieme, protagonisti e spettatori della nascita di una canzone.
“Albergo a Ore” di Marguerite Monnot, con il testo di Pagani, è forse il simbolo di questo progetto, dove le voci di Ferradini, Giovanni Nuti e Syria si fondono con i suoni dell’adattamento yiddish, in un’atmosfera musicale acustica che accompagna tutto l’album. “Cento scalini” era il lato B del 45 giri di “Albergo a ore”, sono passati tanti anni ma il tema della necessità di emigrare, purtroppo, è sempre attuale; una storia di amore giovanile si contrappone a un destino di separazione. Indovinato e piacevolmente sorprendente il duetto con Fabio Concato.

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Herbert Pagani

E’ sempre un piacere riascoltare “Cin cin con gli occhiali”, brano apparentemente leggero che la musica di Edoardo Bennato ha reso semplice e orecchiabile. “Un capretto” estremizza con un parallelo terribile il macello di un cucciolo di animale e quello di un cucciolo d’uomo, un riferimento ai bambini vittime dei conflitti bellici, uno stimolo per gridare: “No alla guerra!”. Il testo è la traduzione di una famosa composizione di Sholom Secunda che la scrisse nel 1935 basandosi su una canzone popolare polacca. Il testo originale in yiddish è di Aaron Zeitlin, la strofa del bambino e del soldato, nella traduzione di Pagani, pur riprendendo la struttura della canzone originale, sembra essere una sua innovazione, forse con lo scopo di chiarire ulteriormente il vero senso della canzone.
“Jean e Paul” è una canzone di Ferradini del 1995, scritta dopo avere letto un bel libro di Joseph Joffo, sicuro che Pagani l’avrebbe voluta cantare con lui.Tutti i brani sono costruiti con pazienza, passione e maestria artigianale, ognuno di essi è un piccolo gioiello, da “L’erba selvaggia” con Eugenio Finardi e Moni Ovadia, sino alla politica “Signori presidenti” (sembra scritta oggi), senza tralasciare “La mia generazione”, in cui descrive la sua famiglia con lucida e impietosa ironia.
Chiude l’album “Ti ringrazio vita”, cover di “Gracias a la vida” di Violeta Parra, con il testo di Pagani, cantata in italiano, spagnolo e francese che termina con la frase: “Ti ringrazio vita… che mi hai dato Herbert”.
Il tributo a Herbert Pagani rende omaggio e giustizia a un grande artista, proponendolo all’attenzione del pubblico in un “festival” di suoni, colori, coinvolgimento e forti emozioni. Marco Ferradini interpreta i brani come se fossero tutti suoi, immedesimandosi con l’amico chansonnier, sino quasi a ricordarlo in alcune espressioni vocali.

Special “La mia generazione – Herbert Pagani” raccontato da Marco Ferradini [vedi]

LA RIFLESSIONE
Avanzi di colonialismo: forme sottili e potenti di predominio

da BERLINO – Avanzi. Non quelli dal piatto e tantomeno (ahimè) quelli dei tempi gloriosi di Corrado Guzzanti. Bensì ciò che ‘avanza’, ovvero, ciò che (ci) resta dalla storia e dal passato. In altri termini: rovine, reliquie, fossili e resti dal passato. Di questo ha parlato sostanzialmente Ann Stoler ospite al berlinese Institute for Cultural Inquiry, solitamente docente di Antropologia e Storia alla nuovissima New School for Social Research di New York.

La sua conferenza è partita da una differenza sottile tra il fatto di concepire un avanzo come ciò che “è avanzato” nel corso del processo storico e il fatto di concepirlo come ciò che effettivamente “ci continua a restare” ovvero ciò che è coinvolto in un processo continuo di deperimento e decadimento. Il primo è poco importante per il presente: è una sorta di resto antiquato del passato che probabilmente non ha più alcuna importanza, a parte appunto il fatto di essere ciò che è: un avanzo. Per definizione qualcosa che è in più, poco importante, secondario, superfluo, nel senso preciso che si tratta di qualcosa che rimane rispetto all’intero che è andato in frantumi. Per cui insomma si può passare ad altro, andare avanti.
Ma se concepiamo l’avanzo come qualcosa che resta ma che continua a decadere, ecco che le cose si fanno più difficili. Non è possibile sbarazzarsene semplicemente sostenendo che si tratti di qualcosa di antiquato, sopravvissuto dal passato. Infatti, si tratta di un atto che continua ad accadere anche ora e che coinvolge la realtà stessa che va essenzialmente in rovina.

Se applichiamo queste osservazioni forse un po’ astruse alla realtà sociale contemporanea, come suggerisce Ann Stoler, possiamo trarre da questa idea un particolare insegnamento sul rapporto tra gli imperi coloniali passati (residui, in ogni senso del termine) e le loro colonie passate (residue, in ogni senso del termine). Si tratta di un rapporto che, ben investigato, potrebbe gettare miglior luce sui recenti eventi medio-orientali, prossimi a coinvolgere anche il nostro mediterraneo. Qual è, infatti, il rapporto che si è stabilito e continua sempre a stabilirsi tra le ex colonie mediorientali e i loro ex padroni europei? Non si tratta semplicemente di una guerra, che alcuni vagheggiano come una incipiente “guerra civile europea” (secondo il senso dato dal controverso giurista Carl Schmitt) bensì di qualcosa più sottile, ovvero di un confronto agonistico che si manifesta come un continuo rapporto di attrazione e repulsione tra le ex colonie e la vecchia Europa: combattere la vecchia Europa che è avanzata dalla sua (in)gloriosa epoca coloniale, e in un qualche modo farsi riconoscere dall’antica padrona, cioè farsi conoscere come pericolo, minaccia, o vendetta. Ma certo non restarle indifferenti.
Cos’è quindi questa strana forma di colonialismo che continua a legarli insieme? Non è una forma di colonialismo morbido perché non esistono di fatto più colonie né di diritto né di fatto, ammesso che non si voglia confondere gli effetti (evidenti, eclatanti) di una guerra di predominio economico del Primo mondo verso il Terzo mondo. In verità, così sembra dire Ann Stoler, il colonialismo è stato e continua ad essere qualcosa di molto più sottile e potente del semplice predominio economico.

Un esempio molto eloquente portato da Stoler è quello denunciato recentemente da una organizzazione non profit: il progetto di archiviazione di 10.000 documenti dell’amministrazione palestinese senza che sia ancora stato effettivamente istituito uno Stato palestinese. Qual è dunque il senso di istituire un archivio (una memoria) per ciò che non è ancora stato fondato? Personalmente azzarderei una risposta: quello di costruire una memoria ufficiale, una tradizione da cui costruire prossimamente uno Stato. Insomma una versione moderna del mito antico. Così come, avrebbe potuto aggiungere Ann Stoler, tanti altri Stati (non solo europei) abbisognano dei loro miti fondatori. Non sempre particolarmente edificanti o positivi.

LA CURIOSITA’
Infanzia sovietica

Da MOSCA – Sono curiosa, i bambini e i loro giochi mi sono sempre piaciuti. Se poi si tratta di vedere come si è giocato nell’infanzia, considerata uno dei periodi più belli e spensierati della vita, sono davvero pronta. I giocattoli mi hanno sempre incuriosito, sono l’espressione della fantasia, dei sogni, dell’immaginare quello che si vorrebbe fare veramente da grandi.

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaEccomi, allora, alle porte del Museo della città di Mosca che, dal 28 Novembre scorso al 15 marzo 2015, ospita una mostra dedicata all’’infanzia sovietica’. Qui potrò vedere giochi, libri, vestiti, mobili, che circondavano i bambini dell’Urss degli anni ‘60-‘80. Dal momento in cui si entra in casa, appendendo abiti e guantini, fino a quando si gioca con pentolini, bambole e macchinine, si ascolta la radio e si guardano i cartoni animati alla televisione.
Quando siamo bambini, non si hanno preoccupazioni e problemi, non ci affannano un lavoro da trovare o da coltivare, una famiglia da sfamare e ci si può dedicare a giocare con gli amici, a mangiare, a dormire, insomma a godersi la gioventù, se si ha la fortuna di nascere nel posto giusto (con questo pensando almeno a un Paese dove non ci siano guerra ed estrema povertà…). Cosa non daremmo per tornare a quegli anni spensierati!

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaLa mostra che mi trovo davanti ci presenta quanto hanno in comune generazioni di moscoviti, nonostante le loro differenze di stili di vita e di interessi, pur nei cambiamenti del paese e delle città avvenuti nel tempo. Molti sono cresciuti tutti sugli stessi libri, imitato gli stessi eroi del cinema, comprato per decenni gli stessi giocattoli. Oggi la vita è diversa, si comprano nuovi giochi, ma per molti moscoviti l’esperienza infantile li unisce e li accomuna. La mostra vuole ricordare un mondo infantile ricco e variegato, un’ideologia sovietica che si prendeva molta cura dei bambini, per vederne gli aspetti positivi.

infanzia-sovieticaMolti di noi, per restare alla mia generazione, coglieranno elementi comuni della nostra infanzia (e suona strano ritrovarne alcuni elementi in una mostra… siamo già, ahimè, da esposizione ???), se non altro perché, con gli stessi giochi, non avevamo preoccupazioni, inquietudini o paure, provenienti dal mondo esterno, stavamo all’aria aperta, trascorrevamo l’intera giornata fuori casa a giocare, andando in bicicletta, pattinando, rincorrendoci, giocando a palla, a tennis e a nascondino o semplicemente passeggiando.

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaNon esistevano telefonini né custodi e ci era permesso andare ovunque desiderassimo senza doverlo dire ai nostri genitori, bastava rimanere nel quartiere, finché mamma ci chiamava dalla finestra. Anche noi facevamo parte degli scout, o della banda delle giovani marmotte, se pur con una filosofia ideologica diversa da quella del partito comunista sovietico, che addestrava i propri membri sin da giovanissimi (dalla prima elementare, ai bambini veniva conferito il titolo di “oktyabrenok”, “figlio dell’Ottobre Rosso”, e consegnata una piccola spilla a forma di stella sulla quale c’erano Lenin da bambino e la scritta ‘sempre pronto’). Si diventava poi ‘pionieri’, con al collo una sorta di bandana rossa).

infanzia-sovieticaAnche a noi, però, come a quei giovani ‘pionieri’, s’insegnava a prenderci cura e a proteggere la natura, a sopravvivere nei boschi e ai ruscelli. Una delle attività preferite dei ‘pionieri’ sovietici era quella di fingersi infermieri e curare gli alberi. Armati di valigette della Croce Rossa fornite di bende, forbici, cotone e disinfettante, i bambini partivano in missione per ‘curare gli alberi’. E quando trovavano dei rami rotti, dei tronchi piegati o dei cespugli spezzati applicano disinfettante e fasciature. Era un gioco che faceva sentire bene e sviluppava un senso di attenzione e amorevolezza. Se ci si faceva male, i rimedi della nonna erano pronti a soccorrerci. Noi in Italia come loro in Urss. Noi andavamo in villaggi a piedi di Alpi o Dolomiti, loro nelle foreste siberiane. L’importante era, per tutti, il contatto con la natura, conoscerla, toccarla e conviverci, respirare aria fresca e pura e starsene lontano dalla città.

infanzia-sovieticaLa disciplina c’era, orari, ginnastica e regole. Ma un po’ ci vuole e l’ideologia sovietica dava molto peso ad essa. Il tempo ai campeggi era organizzato in base a un programma quasi di tipo militare: sveglia alle sette, ginnastica e poi colazione tutti insieme, prima di dedicarsi ad attività manuali, alla musica o alla danza. Le giornate trascorrevano così, semplici. Il momento più bello era la sera, quando con la chitarra ci si sedeva accanto al falò per cantare o fare giochi di gruppo. Lo ricordiamo anche noi. Molti giocattoli, poi, che vediamo qui sono davvero simili a quelli dei nostri anni ‘70. Non si è tanto diversi, quando si è bambini.

infanzia-sovieticaNella mostra di Mosca, si espongono pure tanti libri: il retaggio più prezioso dell’epoca sovietica è rappresentato dalla diffusione dell’istruzione gratuita. Per i cittadini sovietici il socialismo si tradusse nell’opportunità di studiare, imparare e conoscere. Belli poi i manifesti che ricordano ai bambini l’importanza dell’igiene quotidiana (lavarsi regolarmente i denti, fare esami della vista, avvertendo la maestra se non si vede bene…).

infanzia-sovieticaDopo un periodo in cui si è demolito tutto quello che aveva a che fare con quell’epoca, oggi la maturità di una riflessione culturale più attenta e oggettiva ne fa risaltare i valori positivi. Perché non è tutto da dimenticare e da gettare alle ortiche. Il bello di questa mostra è proprio questo, l’aver saputo cogliere la bellezza di quell’infanzia, da ricordare, nei suoi valori e nella sua allegra e leggera spensieratezza. Vale per loro, come per noi.
Se poi l’anziana signora all’uscita ti chiede se la mostra ti è piaciuta, e, in tal caso, di tornare con i tuoi amici, significa che un po’ di nostalgia c’è e che può fare anche bene…

“Infanzia sovietica”, al Museo della città di Mosca, Bd. Zubovsky 2, fino al 15 marzo 2015, visita il sito della mostra [vedi].

Ringrazio la responsabile dell’ufficio stampa del Museo di Mosca, Anastasia Fedorova, e la guida del Museo, Anna Ludina, per avermi condotto in questo viaggio nel passato e per averci fornito alcune delle foto (le altre sono di Simonetta Sandri).

Istruzioni per il disegnatore: l’amore ai tempi dell’incomunicabilità

Roberta Bergamaschi qualche tempo fa ha esordito nella narrativa con un romanzo intelligente e raffinato. Edito per la collana I libri dello Zelig (Mobydick editore), questo libro colpisce per il senso di misura delle sue parole, per l’incedere chiaro, rigoroso e un intreccio davvero interessante.
La storia dei protagonisti Marguerite e Moustache, per contrappasso, è quella della mancanza di parole, dell’incomunicabilità. Lavorano entrambi, con ruoli diversi, a un manuale di lingua francese per ragazzi, e i personaggi “messi in scena da una misteriosa Autrice”, corretti dalle istruzioni di Marguerite per il Disegnatore, prendono vita portando alla mente i Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello. In fondo si tratta di un meta-libro. Un po’ come se qualcuno strappasse quel cielo di carta proprio mentre Oreste stesse per vendicare la morte del padre, sempre per dirla con l’agrigentino autore de “Il fu Mattia Pascal”.
“Istruzioni per il disegnatore” è un libro dotato di grazia e leggerezza, pervaso da una amara ironia. E questo ricorda Calvino. E’ un libro che parla di chi non sempre riesce a prendere la vita per il verso giusto. Parla del tempo e dei fallimenti, dell’egoismo e di una certa grammatica dei corpi e dei pensieri, che è grammatica dell’amore. Lo fa con consapevolezza. Suona note stonate, vibra colpi, avendo cura di risparmiare il dramma e il lieto fine. E’ come se chi scrive avesse ben chiaro che sarebbe inutile condividerlo fino in fondo, il dramma. E’ come se Roberta Bergamaschi dicesse che tanto, alla fine, ognuno rimane solo con la sua vita infilata al contrario, con gli errori, le incomprensioni, col suo dolore. E questo è il Buzzati de “Il deserto dei Tartari”.
Nella selva del mondo editoriale italiano il lettore è chiamato a un ruolo di ricerca sempre più attivo. Chiunque voglia scovare lavori di qualità rischia di rimanere preda di un’editoria attenta alle vendite, come è giusto che sia, a scapito del coraggio. E allora mi piace scrivere di questo piccolo libro elegante e sornione, della sua qualità.

“Istruzioni per il disegnatore”, collana I libri dello Zelig, Mobydick editore, romanzo d’esordio di Roberta Bergamaschi

L’EVENTO
Carnevale Venezia, una vera meraviglia che colpisce tutti i sensi

2. SEGUE – “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”. Forse è racchiuso in queste poche parole di Oscar Wilde il motivo per cui, ogni anno, centinaia di persone si travestono, si aggirano per le vie di Venezia e, senza dire una parola, si mettono in posa e si lasciano ammirare da chi si ferma a guardarle affascinato. L’aspetto che più colpisce di questo carnevale unico al mondo sono i suoi protagonisti: non bambini o ragazzi, bensì adulti vestiti con abiti mozzafiato.
La famosissima festa mascherata veneziana è stata per me una gran bella esperienza durante la quale la città si è tinta di mille colori e ha accolto persone provenienti da ogni parte del mondo: gruppi di amici, famiglie e coppie di innamorati si sono recati a Venezia sia per assistere, sia per partecipare a questo ricco evento. Dal 31 gennaio al 17 febbraio la città ha preso vita tanto di giorno quanto di notte. In ciascuna giornata dedicata al carnevale, ad ogni ora e in tantissimi luoghi diversi (cinema, piazze, musei, teatri) si sono tenuti spettacoli, eventi e feste per intrattenere persone di ogni età.
Una delle esperienze più originali che ho vissuto è stata “Women in Love – Ovvero le donne di Shakespeare”, uno spettacolo itinerante, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, che si è tenuto in parte a Ca’ Rezzonico, in parte al Palazzo Mocenigo. Il titolo si riferisce alle varie donne protagoniste delle opere del grande poeta; le attrici recitano testi scritti dal regista e autore di teatro Giuseppe Emiliani e, solo in parte, tratti dai capolavori originali. Ho assistito alle performance di Marta Paola Richeldi nei panni di Lady Macbeth e di Margherita Mannino, calata nella parte di Jessica, la figlia di Shylock de “Il mercante di Venezia”. La recitazione, alternata alla musica di un giovane con la fisarmonica e unita alla visita al Palazzo del ‘700 veneziano, ha dato vita ad un’esperienza visionaria, sospesa tra realtà ed immaginazione. Le giovani attrici, vestite e truccate da scena, hanno recitato nelle lussuosissime sale del Palazzo, ad un metro dagli spettatori. Un’esperienza estremamente suggestiva che, grazie alla totale assenza della quarta parete, ha coinvolto ed emozionato i presenti.


Il cuore del carnevale è stato sicuramente il Gran Teatro di Piazza San Marco dove è avvenuta la qualificazione per la finale del Concorso per la maschera più bella. Il carnevale di quest’anno è stato definito “la festa più golosa del mondo” proprio perchè dedicato al cibo made in Italy. Tutti i presentatori erano infatti vestiti da cuochi e, sullo sfondo, dei maxi schermi mostravano il logo dell’Expo, per segnalare il collegamento tra questi due eventi unici. Sul palco le maschere hanno sfilato mostrando i costumi più stravaganti: da quelli dedicati alle diverse epoche storiche, a quelli legati alla mitologia; alcuni relativi al mondo delle fiabe ed altri personificazione di concetti astratti come “l’oscurità” o la “golosità”, fino a quelli più creativi ed originali come “le arti in maschera” e “la regina del mare”. Ma i più originali sono stati quelli che hanno aderito al tema di quest’anno, l’alimentazione appunto. Hanno sfilato singole persone, coppie e gruppi di gente provenienti da ogni regione d’Italia e da diverse nazioni d’Europa, portando sulla scena costumi dai titoli bizzarri, come “Il re e la regina della cucina”, “Gateau papillon” e i “Baci di Dama”. Sia il primo che il secondo lotto di maschere, ciascuno composto da 12 concorrenti, sono stati seguiti dalle votazioni del pubblico seduto nel parterre del teatro che ha selezionato i finalisti. Dopo la prima sfilata si è tenuta l’esibizione di un’acrobata irlandese, mentre dopo la seconda gli spettatori hanno potuto assistere alle coreografie del “Nagasaki swing team”. La mattinata di sabato 14 si è conclusa con un flash mob dedicato alla festa di San Valentino: dopo il countdown dei presentatori la piazza si è colorata di centinaia di palloncini rossi che hanno preso il volo.
La finale del concorso si è tenuta domenica 15 febbraio con la premiazione per categorie: la maschera più originale è stata vinta da “Monsieur Sofà e Coco Chanel”; la maschera più a tema da “La cucina veneziana di Vicenza in costumi del Settecento”, ma il vincitore assoluto della maschera più bella del carnevale 2015 se lo è aggiudicato un trio tedesco travestito da “Marte, Venere e Cupido” a cui è stato consegnato il premio offerto dalla Promovetro, un consorzio nato per la promozione del vetro artistico di Murano.
Anche le notti a Venezia sono state magiche. Lo spettacolo all’Arsenale è stato riproposto ogni sera, a partire dalle ore 19 con l’animazione della compagnia Nu’Art, lungo la “riva delle meraviglie”. In seguito è stato riprodotto un video che ha racontato la storia del “baccalà” e di come questo pesce è arrivato a Venezia (le immagini sono state proiettate sulla torretta che in passato serviva per l’avvistamento delle navi). Sucessivamente, sull’acqua e in cielo, sono esplosi fuochi d’artificio sensazionali, uniti a lingue di fuoco e raggi di luce di tutti i colori. Uno spettacolo suggestivo ed ancora più emozionante perchè l’esperienza visiva andava a ritmo di musica, seguendo i crescendo e i diminuendo delle note di Ludovico Einaudi e Klaus Badelt.
Ai fuochi d’artificio è seguito uno spettacolo aereo e verticale all’interno dei magazzini. Si sono esibiti tre ragazzi e tre giovani donne in acrobazie circensi, volteggiando in aria con il solo supporto di corde elastiche. Ogni serata si è conclusa con l’Arsenale Carnival Experience, un’occasione per i ragazzi di ballare sulla musica di famosi dj, fino a notte fonda.
Domenica un altro evento ha riunito migliaia di persone a Piazza San Marco: il “Volo dell’Aquila”, interpretato da Giusy Versace. Tra la folla si sussurava quanto fosse ardita e coraggiosa l’atleta paralimpica italiana che ha emozionato il pubblico volando dal campanile al palco del Gran Teatro sulle note di “Because you loved me” di Celine Dion.
Il carnevale è terminato martedì con la proclamazione della Maria 2015, Irene Rizzi, e il “Volo del Leon” accompagnato dall’inno di San Marco, a simboleggiare la chiusura del carnevale.
Oltre a questi grossi eventi a cui ha partcipato un elevatissimo numero di persone, il carnevale di Venezia ha offerto concerti, esibizioni teatrali per adulti e bambini, seminari, spettacoli di marionette e burattini, cene sofisticate e feste a tema nei sontuosi e regali palazzi della città.
Ma il carnevale non è solo questo, è anche un’occasione per immergersi nell’arte e nella cultura di una città che ha tantissimo da offrire. La galleria “Contini”, ad esempio, merita di essere visitata per la singolarità delle opere esposte, realizzate con i materiali del bosco, e le installazioni tecnologiche che creano simpatici effetti d’acqua. Al Palazzo Barbarigo Nani Mocenigo è invece possibile osservare i gioielli della mostra “Precious – Da Picasso a Jeff Koons”, oltre ai meravigliosi affreschi ottocenteschi e tardo-barocchi. Il Palazzo Fortuny ha invece allestito una mostra, in occasione della grande festa mascherata, interamente dedicata alla Divina Marchesa Luisa Casati, musa di Boldini, che spesso la ritrasse nelle sue tele.
In numerosissimi negozi di Venezia, specialmente in occasione del carnevale, è possibile acquistare maschere e costumi, ma un posto in particolare mi ha colpita. Si chiama “Ca’ Macana Venezia” ed è una piccola bottega dove trovare le maschere del film “Eyes wide shut” del grande Kubrick, non realizzate appositamente per la pellicola, ma scelte dal regista tra quelle già esposte nel negozio.
Il carnevale di Venezia è stata per me un’esperienza unica, vetrina d’arte, fantasia e creatività a cui personalmente credo valga la pena assistere e partecipare almeno una volta nella vita. La ricchezza che Venezia offre in poco più di due settimane è in grado di coinvolgere tutti i sensi, senza mai smettere di stupire ed emozionare.

Per leggere la prima parte clicca qui.

NOTA A MARGINE
“Il rischio mafia esiste, compito di tutti è mantenere sana la città”

“Nelle zone di origine e presenza endemica, oltre a un vero e proprio controllo del territorio le organizzazioni mafiose hanno una funzione di mediazione sociale che permette loro di acquisire consenso; i risultati sono perdita di competitività del tessuto produttivo e deficit di cittadinanza. Ma il nord è diverso, è zona di colonizzazione: qui si fanno investimenti per riciclare i proventi delle attività illecite e sempre di più il metodo di infiltrazione non si basa sulle intimidazioni, ma su corruzione e strumenti del credito, con la costruzione di un sistema di connessioni in loco attraverso la connivenza di quell’area grigia formata da burocrati, politici, professionisti e imprenditori. Ecco perché Giovanni Tizian scrive di ‘holding finanziaria’ e il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti parla di ‘una visione politica del radicamento’”.

Fulvio Bernabei (foto di Aldo Gessi)
Fulvio Bernabei (foto di Aldo Gessi)

A sottolinearlo è stato Fulvio Bernabei, intervenendo al secondo incontro del ciclo “Chiavi di Lettura, opinioni a confronto sull’attualità” organizzato da Ferraraitalia con lo scopo di chiarificare nodi controversi del nostro vivere quotidiano. Ieri, in biblioteca Ariostea, si è dibattuto di mafia a Ferrara fra allarmismo e rischi reali, per cercare di capire quanto la nostra provincia è davvero permeabile e quali siano i segnali a cui dobbiamo porre attenzione.

Bernabei (Guardia di finanza) e Federico Varese (Oxford university) hanno fornito un inquadramento generale di cosa significhi mafia oggi: un fenomeno complesso e diversificato a seconda delle differenti aree della nostra penisola.
Il problema della diffusione al nord è noto. Il più recente documento che si occupa di illegalità diffusa nel nostro territorio è il rapporto “L’economia illegale in Emilia Romagna”, realizzato per Osservatorio della legalità e Unioncamere regionali dal professor Andrea Mazzitelli di Universitas Mercatorum. E proprio questo documento è stato il detonatore dell’appassionato confronto che ha attratto in biblioteca un folto e attento pubblico. “La nostra ricerca – ha spiegato Mazzitelli in collegamento Skype da Roma – indaga in particolare la presenza del fenomeno illegale nel tessuto produttivo legale, reso più fragile dalla crisi economica di questi anni: attraverso l’individuazione di indicatori e di campioni statistici ripetibili, si sono resi evidenti ‘i fattori di rischio’ e ‘la vulnerabilità economica e sociale’, considerandoli segnali anticipatori dell’infiltrazione”. Ed è “l’ormai palpabile sfilacciamento del tessuto sociale e produttivo”, fotografato anche dal rapporto di Mazzitelli, che ci deve preoccupare, non solo come ferraresi ed emiliani, ma a livello generale, perché è fra queste crepe di illegalità diffusa che le mafie si infiltrano con agilità.

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Varese e Mazzitelli in colelgamento Skype (foto di Aldo Gessi)

Varese – criminologo noto a livello internazionale in collegamento Skype da Oxford – ha però preso le distanze dalle conclusioni dello studio di Unioncamere, sostenendo che il giudizio è “falsato dalla considerazione di troppe fattispecie di reato non propriamente ascrivibili alle modalità d’azione delle organizzazioni mafiose e che, al contrario, nei settori tipicamente infiltrati dalla mafia (edilizia, movimentazione terra, stoccaggio rifiuti) a Ferrara si è registrata negli ultimi anni una contrazione del volume di attività”. Acqua sul fuoco dunque, accompagnata però dalla raccomandazione di non abbassare la guardia perché le insidie sono reali, come dimostrano le vicende delle vicine province di Reggio e Modena.

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Tito Cuoghi (foto di Aldo Gessi)

Sintetico ma significativo ed eloquente è stato il contributo di Tito Cuoghi (Anpar) sui rischi di presenza e le modalità d’azione delle ecomafie negli appalti, con specifici riferimenti alla ricostruzione dopo il sisma dell’Emilia.

Donato La Muscatella (foto di Aldo Gessi)
Donato La Muscatella (foto di Aldo Gessi)

Infine, il referente del coordinamento provinciale di Libera, Donato La Muscatella, ha concluso che il problema del radicamento in Emilia Romagna ormai è innegabile e anche a Ferrara “il rischio esiste: è necessario quantificarlo”. Per quanto riguarda il contrasto e la prevenzione, La Muscatella ha sottolineato che “il fenomeno criminale è competenza di magistrati e forze dell’ordine, ma il fenomeno sociale riguarda tutti; perciò benché non ci sia un vero e proprio allarme, la guardia va tenuta alta ed è compito di tutti i cittadini farlo per ridurre le occasioni di infiltrazione”.

 

Emilia Romagna all’avanguardia nello smaltimento dei rifiuti

E’ da tempo evidente quanto il sistema Italia risulti essere inadeguato e arretrato rispetto agli indirizzi contenuti nelle direttive comunitarie in materia di recupero e valorizzazione delle frazioni presenti nei rifiuti ed è del tutto assente su scala nazionale un modello di gestione rifiuti basato sul “sistema di gestione integrata”. I sistemi di gestione dei rifiuti sono diversi e diversificati tra i paesi industriali a livello europeo; negli ultimi anni pur essendo aumentati i sistemi di recupero, riciclaggio e di termotrattamento, in molti paesi rimane però l’uso della discarica l’elemento principale caratterizzante lo smaltimento (per l’analisi degli inceneritori si rimanda allo specifico articolo del 19 ottobre 2014, leggi qua).
La tecnologia dell’interramento controllato oltre ad essere la tecnologia di smaltimento più diffusa è infatti anche la più semplice poiché presenta una grande flessibilità di gestioni e di criteri organizzativi tali da rendere difficile una corretta analisi ed articolazione degli stessi (con conseguente forte criticità); a livello generale ci si riferisce a criteri in relazione alla protezione dell’ambiente circostante (comprese le acque superficiali e sotterranee) dei sistemi di difesa ambientale (e dunque l’impermeabilizzazione, il trattamento del percolato, etc), dei processi di stabilizzazione dei rifiuti e più in generale alla protezione dai rischi per la salute umana. I danni provocati da una discarica (e dunque il tempo necessario di controllo e di post-gestione) sono quantificabili in “almeno” trent’anni (per alcuni anche cinquanta); comunque è bene verificare sempre nel tempo ( per periodi ancora maggiori) gli effetti ambientali e fare controlli.
In Regione Emilia-Romagna la situazione impiantistica è sicuramente tra quelle con minor criticità. In questi anni, con la riorganizzazione del sistema impiantistico, si è determinata infatti una progressiva diminuzione di utilizzo della discarica come principale forma di smaltimento e un progressivo aumento di nuovi impianti per la produzione di compost e per il recupero di energia dai rifiuti. Tale sistema colloca la Regione ad un grado di efficienza ed efficacia paragonabile ai più avanzati sistemi impiantistici delle regioni europee. Il sistema impiantistico è in grado di soddisfare completamente il fabbisogno di smaltimento, rendendo autosufficiente il territorio regionale (pur con qualche disomogeneità a livello dei territori provinciali) e conseguentemente di attuare limitate azioni di soccorso nei confronti di territori extraregionali in emergenza.
Cresce l’attenzione sulla gestione degli impianti, sulla sicurezza, sull’applicazione delle migliori tecnologie e con essi cresce la necessità di una maggiore conoscenza dello smaltimento. Una questione delicata e importante è relativa alla tipologia dei rifiuti ai fini dello smaltimento. Non si può più infatti, quando si parla di impianti, tenere separati i flussi tra rifiuti urbani, assimilati e rifiuti speciali. Se si escludono gli inerti da demolizione, comunque a livello nazionale si presume un monte complessivo vicino ai cento milioni di tonnellate di cui un terzo urbani ed il resto derivati da attività produttive e d artigianali, oltre a quelli di residui di lavorazioni e di trattamento. La stessa proporzione si valuta esserci in Emilia Romagna con un monte totale di oltre 10 milioni di tonnellate (esclusi gli inerti) di cui oltre una metà probabilmente va a recupero e circa 4 milioni di tonnellate a smaltimento (le stime risentono comunque di limiti di conoscenza). Una quantità rilevante che comunque rappresenta nel suo complesso un problema e su cui dunque è importante saper programmare le migliori soluzioni di smaltimento. La capacità impiantistica di un territorio deve infatti saper trovare le corrette soluzioni di trattamento anche per queste tipologie di rifiuti e la pianificazione impiantistica di una regione è opportuno che da ciò sia condizionata.
Ma il tema principale è e deve essere la qualità di questi impianti. Deve crescere l’attenzione e conoscenza sulla miglior tecnologia, sulla complessità impiantistica, sui principi della buona gestione, sulla efficacia di controlli e analisi, sulla certificazione e sulla sicurezza. Vogliamo saperne di più.

LA STORIA
Andrea Poltronieri, note e risa in punta di sax

“Il giullare era quello che veniva pagato dal re perché lo facesse ridere e anche piangere. Non era facile trovare una persona di questo tipo, è una figura affascinante.” Andrea Poltronieri racconta “Note appuntate” (Edizioni La Carmelina), incalzato da Stefano Bottoni, direttore artistico del Ferrara Buskers Festival, e presentato da Federico Felloni e Vincenzo Iannuzzo, per il ciclo “Autori a corte” alla libreria Feltrinelli.

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La presentazione del libro

“Note appuntate” si presenta come un block notes libero che spazia tra pensieri personali tra vita e carriera, scritti di getto; la sezione “Dicono di me” che include ricordi e dediche di personaggi famosi con cui ha lavorato, da Paolo Cevoli a Cristina D’Avena fino a Duilio Pizzocchi.
E le sue parodie di canzoni, da “La bici della Gina” (“Amici come prima”) a “Bepi” (“Happy”), brano che il 26 febbraio sarà interpretata in versione lirica dalla soprano Benedetta Kim in Sala Estense, in occasione del primo Festival della Canzone Ferrarese con il gruppo Made in Fe e musiche dei 60 lire.

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Stefano Bottoni e Andrea Poltronieri
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Il duetto Bottoni-Poltronieri

Tra una battuta e un silenzio, Bottoni e Poltronieri ricordano la prima scintilla scoccata tra di loro: “Era il 1988, c’era di mezzo Haji Akbar e vedevo la faccia di Poltronieri sfrecciare sugli autobus. Perché allora non poterci sfrecciare insieme, su un autobus come ai Buskers?”. Tra musica e comicità, alla continua ricerca di un teschio che è memento mori ma anche il ricordo ormai emaciato ma ancora solido di una risata prepotente. Non è una persona seria, chi non sa ridere.
Il giullare è quello che ti diverte, ma anche quello che ti riporta a quei giorni di liceo fuori provincia in cui sentivi cantare strofe demenziali su musiche note in un dialetto che non era il tuo, senza sapere che si chiamassero “centoni”. Su un tale di nome Gino, bottegaio che lavorava al Famila, alle prese con asparagi e agguerrite vecchiette alla ricerca di ortaggi freschi, tra una nota e l’altra di “Rivers of Babylon”. O a quella volta che hai ascoltato il centone che parodiava “Back for Good” dei Take That di ritorno dall’impossibile esame di tedesco superato per una manciata di voti. Il giullare, lo spiritello ex machina che canti sovrapponendo la tua voce stentorea alla sua, che esce sicura dall’autoradio: è Poltrosax, e te ne accorgi quando lo vedi.

Andrea Poltronieri è singolare. É la Nives, arzilla ottuagenaria treccine rosse spritz nato su due piedi in una serata tra le nebbie della Bassa Padana per colmare il silenzio di un guasto tecnico. É il sassofonista emozionato che stringe la mano a Lucio Dalla il 4 marzo, prima di suonare in Piazza Maggiore, cercandone poi ossessivamente il profumo che conserva intonso e intoccabile nelle mani, e il bambino che riceve in regalo dal papà la sua prima tastiera, una Bontempi, la notte di Natale del 1973. É il bacio in fronte di Lucio Mongardi, il capitano della squadra più ambita, in una domenica da bambino sugli spalti. É New York con il produttore Davide Romani, il girovagare per Washington Square, suonare in metro occupando il posto di un altro musicista che ti rampogna per avergli occupato il suo, di posto, e scusarsi con un sorriso e uscire da lì sentendo di avere già fatto centro, abbozzare qualche nota in re minore, al sax, unico bianco tra musicisti neri nel “Village”.

É plurale, Andrea Poltronieri. Sono le corde della chitarra che gli regala una persona la cui presenza gli riempie la vita, e sono i 56 passi che lo separano da una camera d’ospedale che sta per salutare per sempre questa persona, ma piena ancora della sua presenza. Sono gli studi all’Accademia di Belle Arti con Concetto Pozzati e i concerti da musicomico, tra dissacrante e melomania.
I concerti con gli Stadio e quello per l’Emilia al Dall’Ara di Bologna. Gli impossibili da ritrovare qui sulla Terra, perché sono tutti raccolti al Genius Bar, locale stile Roxy bar in cui ogni grande è perso dietro ai fatti suoi e ancora reclama il legittimo posto che ha preso nel mondo.
Sono Emma e Alice e anche Satin – non la protagonista del Moulin Rouge di cui condivide l’origine parigina bensì l’adorato sax che gli procura il nome d’arte Sax Machine, donne nell’anima.
Sono le note appuntate, quelle scritte in punta di penna per non dare fastidio, scritte di getto per rovesciare l’anima su una pagina bianca, scritte per condividere un ricordo o una risata o una malinconia con chi ti legge, fino a fare uscire i suoi, di ricordi.
Tra un manifesto e lo specchio, tra un re che ha bisogno del suo giullare per trovarsi di fronte alla sua nudità, ed essere in grado di riderne e piangerne.

IL TEST
Walkman, hi-fi & co: il design giapponese anni ’70

3. SEGUE – Sanyo Electric Co. Ltd. era una società giapponese di elettronica, con sede a Moriguchi in Giappone, fondata il 1° aprile 1950 da Toshio Iue, cognato di Konosuke Matsushita proprietario della Matsushita (Panasonic), che rilevò e sviluppò una vecchia fabbrica in disuso per avviare una propria attività.

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Walkman della Sanyo

Negli anni ’70 il design giapponese s’indirizzò verso le esigenze degli utenti, studiandone i comportamenti sociali e cercando di incidere sul loro modo di vivere. Fu grazie a quest’attenzione che nel 1979 Sony, presto seguita su questa strada da Sanyo, produsse il walkman, che ben rappresenta il modo di vivere sempre in movimento dell’era moderna, oltre ad innescare la spirale di miniaturizzazione che influenzerà i decenni successivi.

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Registratore a cassetta RD-5300

Negli anni ’70 si stava compiendo un processo di omologazione estetica degli apparecchi Hi-Fi, salta quindi subito agli occhi il lavoro di stilizzazione e ingegnerizzazione che c’era dietro ai componenti Sanyo. Tra questi il deck a cassette RD-5300 del 1976, dal design basato sul contrasto tra alluminio e plastica nera, ora tanto di moda nei notebook di importanti marchi.

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Sintoamplificatore Sanyo fine anni ’70

Il sintoamplificatore Sanyo modello DCX 2000L del 1977, oltre ad avere un suono brillante, è l’esempio della qualità costruttiva degli anni settanta. Il frontale e le manopole sono interamente in metallo, la protezione della scala della sintonia è di vetro, lo chassis è di legno, tutti materiali da tempo sostituiti dalla plastica.

La radiosveglia a cartellini Sanyo 6ca-t45z, mostrata recentemente anche in uno spot televisivo di una nota banca italiana, rappresenta quel filone del design anni ’70 denominato “Space Age”. Questo stile, tra gusto pop e desiderio di avanguardia, prende piede tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, sulla scia delle imprese spaziali che, nell’immaginario collettivo, dovevano rappresentare l’inizio di una modernità creativa e progressista. Esempi di quel modo di intendere il design (oggetti e abiti futuribili) li ritroviamo nel cinema e nella Tv di allora, basti pensare a “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e alla serie “UFO S.H.A.D.O.”.

Design 'Space Age' per la Phonosphere di Sanyo
Design ‘Space Age’ per la Phonosphere di Sanyo
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Sanyo Decorator Clock Radio

In quel periodo furono realizzate lampade che sembrano missili, televisori simili al casco degli astronauti, poltrone a forma di guscio, compatti Hi-Fi (Phonosphere), come se fossero progettati per l’interno di una navicella spaziale. In un certo senso si può affermare che la corrente di gusto denominata “Space Age” trasformava il salotto di casa in un’astronave. Osservando la radiosveglia di Sanyo, la Phonosphere e l’orologio Decorator ci si accorge come le forme tonde e morbide prendano il sopravvento, rispetto a quelle squadrate del decennio procedente, con un massiccio utilizzo della plastica, materiale ideale per generare superfici prive di asperità e lisce. I designer di riferimento di quell’epoca sono il milanese Joe Colombo, il danese Verner Panton e il finlandese Eero Aarnio (creatore della famosa sedia Palla o Globo per Asko, vista anche nella serie cult “Il prigioniero”).

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Storica pubblicità della Sanyo a Piccadilly Circus, Londra

L’archeologia tecnologica trova spazio tra retrò e vintage, riscoperta e nostalgia ma, soprattutto, rappresenta l’occasione per rivedere giudizi e teorie senza l’influenza di antichi condizionamenti.
La nostra inchiesta ha evidenziato la validità di numerosi componenti Hi-Fi del colosso giapponese, progetti interessanti come quelli della “Series plus” e del cosiddetto “CCI”, la collaborazione con Grundig, l’innovazione e la ricerca nell’ambito dei riproduttori di audiocassette, giradischi e amplificatori. All’epoca il marchio non fu apprezzato come avrebbe meritato, oggi, fuori da ogni logica commerciale e grazie alla disponibilità dell’usato, si ha la possibilità di esprimere un giudizio più obiettivo. Qualche mese dopo che Sanyo fu incorporata in Panasonic, lo storico pannello pubblicitario di Piccadilly Circus a Londra, è stato spento e ceduto alla società automobilistica coreana Hyundai. Era l’unico a non essere animato.
Goodbye Sanyo!

Per leggere la prima parte dell’inchiesta clicca qui.
Per leggere la seconda parte dell’inchiesta clicca qui.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi], Innokentiy Fateev [vedi].

IL CASO
Il bad boy della danza russa è virale

In pochi giorni ha totalizzato oltre 5 milioni di visualizzazioni. Lo merita. Perché è meraviglioso, coinvolgente, travolgente, forte, immenso, doloroso, intenso e sexy.
Parliamo della stella del balletto russo Sergei Vladimirovich Polunin, che interpreta magistralmente “Take me to the Church”, del cantautore irlandese Hozier, successo musicale nominato ai Grammy Awards. La coreografia è di Jade Hale-Christofi, l’americano David La Chapelle lo dirige, in una serie di piroette acrobatiche uniche e sauté che aleggiano in uno spazio vuoto illuminato, una stanza bianca che contrasta con l’energia nera del blues. Polunin, chiamato il ‘bad boy’ del balletto russo, forse perché ha numerosi tatuaggi sul corpo perfetto, ma anche perché ha sempre fatto un po’ di ‘bizze’ nei teatri in cui si è esibito, indossa un collant color carne e un mosaico di tatuaggi che esibisce come in un quadro (nelle performances abituali sono solitamente coperti dal trucco). Solo con questi colori tenui e la forza e l’energia pura dei suoi muscoli, tiene lo spettatore incollato allo schermo, in una sorta di possessione spirituale. I movimenti forti e decisi, resi quasi eterei e leggeri dalla luce che filtra dalle finestre, esprimono perfettamente l’intensità emotiva del brano. Bianco e nero si rincorrono, l’energia vola sui passi leggeri, eterei.
Sergei Polunin, venticinquenne di origini ucraine, ha iniziato a danzare a 4 anni e all’età di 12 anni si era già diplomato al Kiev State Choreographic Institute. Dopo un passato al British Royal Ballet (ove era approdato all’età di 13 anni con una borsa di studio delle Fondazione Rudolf Nureyev, ma dal quale si era allontanato per l’eccessiva disciplina che non sopportava più), Sergei è oggi il primo ballerino allo Stanislavsky Music Theatre di Mosca e al Novosibirsk State Academic Opera and Ballet Theatre. Ha ricevuto numerosi premi, incluso lo Youth America Grand Prix nel 2006, è stato nominato Young British Dancer dell’anno 2007 e in lizza per il riconoscimento di miglior ballerino del mondo, nel 2014. La performance che sta facendo il giro del web lascia davvero senza fiato. Forse perché porta con sé, nella danza i demoni di una vita giovane ma non semplice.

Guarda il video

L’incubatrice, ovvero di una scuola che ha bisogno di nuovo ossigeno e nutrimento

Avete mai pensato alla nostra scuola come a una incubatrice? Entri a sei anni e ne esci a diciotto, se tutto va bene. Se l’incubatrice o l’incubato non hanno crisi di rigetto. Entri che non sai né leggere né scrivere, esci che sai di lettere, di matematica, di fisica, di lingue e di filosofia. Insomma esci che sei quasi una enciclopedia, una persona colta. Appunto coltivata, incubata.
Per che cosa? Per l’università o per il mercato. Che non ti prenderanno così come esci dalla scuola, perché a loro volta ti vorranno fare l’analisi del sangue. Occorre che nel frattempo non ti prenda il sospetto circa il senso di quello che vai facendo. Perché fa parte delle regole di partecipazione alla cultura della tua specie. Agli animali va meglio, il periodo dell’addestramento è molto più breve rispetto agli umani e poi sono liberi di scorrazzare nella natura.
Noi la natura dobbiamo invece dominarla, governarla. Noi dobbiamo costruire le cattedrali antiche e moderne. Noi dobbiamo servire la nostra generazione, quelle che ci hanno precedute e quelle che verranno. Noi viviamo e cresciamo per il grande contenitore che ci contiene che sono i nostri simili. È questo contenitore che ci dà senso, a partire dai nostri genitori che ci hanno desiderato. Sono loro che hanno iniziato a scrivere la nostra narrazione.
“Ciascuno cresce solo se sognato” recitava Danilo Dolci e il grande psicologo statunitense Jerome Bruner aggiunge che “Non si ha una vita se non la si racconta”. Avere una vita da raccontare, avere una vita perché qualcuno ti ha sognato. È possibile passare da una scuola che incuba cittadini, a una scuola che li sogna? Che racconta la storia di ragazze e di ragazzi per ciascuno dei quali coltiva un sogno? Se non sei una storia da raccontare, se non appartieni a un sogno, sei un indistinto, uno dei tanti da prendere quando è giunto il tuo tempo e da mettere insieme agli altri nel reggimento di una caserma o nella classe di una scuola. Dipende dalla tua età e dal tuo destino.
Comunque quando è ora inizia anche per te il tuo addestramento. In fila con gli altri, in banco con gli altri, con la divisa o senza la divisa, non ha importanza, perché per tutti sarai un alunno, un allievo, un discente, uno studente, uno scolaro, sarai per quello che farai, mai per quello che sei, un essere ordinato in un luogo, in un’ora, in un’attività, in un fluire del tempo tutto uguale a quelli dei tuoi simili per età e per destino.
La raccolta dei nostri affetti nell’anonimato di uno spazio, di un luogo, di un tempo. Classi, scuole che sono non luoghi, come sale d’attesa della vita. Ecco il trattamento quotidiano che riserviamo nelle scuole della repubblica ai nostri figli e alle nostre figlie. Loro portano il peso degli zaini, come ogni soldato alla battaglia, noi portiamo il peso delle nostre responsabilità. Dell’incapacità di offrirgli una scuola diversa, che non sia più quella dei nostri tempi, che non sia più il regime-scuola, che non sia più “la scuola”, che non sia più imparare dal banco, dalla lavagna, dal libro di testo, dalla voce dell’insegnante.
Noi portiamo il peso della nostra pigrizia intellettuale, della pigrizia di chi dovrebbe praticare la cultura e invece la consuma senza rigenerarla, perché non ha spirito, perché non ha invenzione, perché non ha intelligenza. Portiamo il peso di finanziare intellettuali senza intelletto, ripetitori, megafoni del passato, lacchè del politico di turno. Non siamo capaci di pensare e di disegnare un’altra scuola, un altro modo di imparare, una nuova umanità di apprendimento. Grigie cattedre di pedagogia senza fantasia, senza la sete del nuovo, nel totale squallore intellettuale, incapaci di immaginare una scuola diversa, una scuola nuova da offrire ai figli del nostro Paese.
Sono morti i tempi dei grandi pedagogisti, dei maestri quotidiani, coraggiosi pionieri di ogni innovazione, portatori di spiragli di luce nella monotonia delle nostre scuole. Pare che l’obbligo scolastico sia per le persone, non per lo Stato che non si occupa delle condizioni che impone. Come l’obbligo militare una volta. L’obbligo da noi fa dovere al cittadino ma non all’istituzione.
Se l’istruzione è un diritto è come il diritto alla vita, alla libertà di espressione, il diritto è una libertà non un’oppressione. La cultura non è schiavitù, non è umiliazione, non è mortificazione, è liberazione, non è sopraffazione dell’accademico sul discente, è affiancamento, incoraggiamento, accompagnamento, gratificazione. La cultura è apertura, è l’ossigeno che ovunque si respira, è la fame di sapere, si nutre dalla nascita e dalla nascita si familiarizza, dopo è troppo tardi. Ma anche questo è da sapere, anche questo è da capire.
Dopo c’è solo la liturgia, l’ingessamento della lezione, la nozione, l’esercizio, la ripetizione, i voti, l’interrogazione e gli esami.
La cultura invece è un abito da apprendere subito, è applicazione, è provare, è riuscire, è conquistare, è misurarsi nel saper fare, riprovare e riprovare se necessario, è come le cose e la vita di tutti i giorni. Non è un compartimento separato, una tradotta su cui salire senza destinazione, tutti indistintamente ammassati.
L’istruzione è un obbligo, come l’obbligo di nutrirsi per non lasciarsi morire. “Nutrire il Pianeta” è lo slogan di Expo 2015. Istruire il Pianeta, forse sarebbe stato preferibile, ma non abbiamo sull’istruzione un “eataly”, cibi di alta qualità da distribuire, nessuna riflessione sull’istruzione sostenibile oggi. La pancia è meglio della mente, del resto a pancia vuota non si ragiona. Evidentemente la pancia del nostro Paese da troppo tempo è vuota per essere in grado di ragionare sulla scuola dei suoi figli.
Che va bene così, perché così è sempre stato, perché la scuola deve formare dei buoni cittadini e poi ognuno se la vedrà, perché non abbiamo soldi e poi, tanto, è mica a scuola che si impara… A scuola si socializza, si apprende a superare le frustrazioni, ci si abitua all’impegno, ai compiti, ad essere valutati, la scuola irrobustisce. Insomma la scuola è una palestra!
Ah, dimenticavo, l’educazione fisica della vita … l’istruzione è tutta un’altra cosa.

NOTA A MARGINE
Il senso dei canadesi per lo spettacolo. Sul palco la bibbia laica dei Ballets Jazz de Montréal

E’ uno SPETTACOLO tutto maiuscolo quello che il direttore artistico Louis Robitaille ha portato in città. Tre momenti di danza interpretati da tre coreografi diversi per un unico spettacolo entusiasmante che ha fatto saltare i ferraresi sulle poltrone del Teatro Comunale domenica.
E’ una sorta di bibbia laica quella che vediamo sul palco. Nella prima coreografia, Zero in on, di Cayetano Soto, ci sono solo un uomo e una donna, che interagiscono e si respingono. Passi a due atletici, ma con una chiara matrice classica. Poi arriva tutta la compagnia nel folgorante Kosmos, qui in prima nazionale, di Andonis Foniadakis, dove la compagine dei danzatori di nero vestita travolge tutto come la frenesia urbana che vuole rappresentare. Gesti precisi, alienati in un crescendo di potenza che culmina con una specie di estasi mistica, di intimo raccoglimento come opposizione al caos cosmico.
C’è tutto, dalla danza tribale a quella classica, passando per la jazz fino alla contemporanea.
Le musiche di Julien Tarride sono un accompagnamento incalzante e coinvolgente, e le luci minimali, ma di grande efficacia di James Proudfoot, completano la scena senza bisogno di nessun altro elemento. Tutto è essenziale e necessario, ed è evidente come questo risultato derivi da un lavoro enorme.
Potranno fare meglio? Ci si chiede dopo Kosmos. Poi arriva Harry di Barak Marshall, uno degli allestimenti di maggior successo dei Bjm. Non è meglio forse, ma è complementare. Riporta la scena in una più colorata ambientazione anni ’40-’50 dove questi danzatori senza limiti vengono anche fatti recitare, attorno alla figura di Harry, grottesca caricatura dell’essere umano, continuamente coinvolto in conflitti intimi, come quelli tra uomo e donna, o sociali, come la guerra. E da questi costretto a morire e rinascere in continuazione, interrogandosi ogni volta sul senso di tutto ciò, con la leggerezza di ci sa che una risposta non c’è.

I danzatori sono da spellarsi le mani dagli applausi. Tengono dall’inizio alla fine un ritmo elevatissimo, sono simpatici e sanno trasformarsi in ogni coreografia.

Il bello di questo spettacolo tardo pomeridiano è anche che dopo arriva Robitaille stesso per un incontro col pubblico, e conferma una serie di pensieri fatti disordinatamente durante la visione.
I canadesi riescono a produrre spettacoli così, perché hanno un governo che investe. Ed è un investimento che dà i suoi frutti dal momento che la compagnia è in tournée dai quattro ai sei mesi all’anno in tutto il mondo. Una dimensione globale di cui i Bjm non hanno paura. Loro pensano in grande e guardano avanti chiamando non i grandi nomi, come ha spiegato Robitaille, ma i giovani più talentuosi di ogni paese, li fanno crescere, permettono loro di lavorare da professionisti e ovviamente alla fine, li rendono tali. Una lungimiranza che a noi italiani, benché non privi di talenti, di idee e di esperienza, purtroppo manca. E poi i canadesi, figli di secoli di migrazioni, non hanno paura delle mescolanze e delle contaminazioni: tra razze, generi, stili. Prendono il meglio di tutto e ce lo restituiscono col sorriso.
Grazie!

Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
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Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)

L’INTERVENTO
Il vescovo, i cattolici e il dibattito pubblico. Nannetti: “Negri smentisce papa Francesco”

di: Edoardo Nannetti

Raccolgo la sollecitazione di Fiorenzo Baratelli che, in relazione alla polemica sulle parole del vescovo circa l’influenza degli aborti sulla crisi economica, chiedeva conto ai cattolici del loro silenzio nel dibattito pubblico. Credo che Baratelli abbia ragione e colga un punto importante al di la del tema specifico: il silenzio del mondo cattolico rispetto alle ‘provocazioni’ del Vescovo e, ancora di più, rispetto a quanto si muove di fecondo nella chiesa di Papa Francesco.

In quanto cattolico voglio quindi tentare di rompere il silenzio.

Il nostro vescovo è intervenuto spesso nei mesi scorsi su vari temi e con posizioni assai discutibili , di solito opposte a quanto il papa va dicendo, oppure talora con argomenti condivisibili ma posti in un modo (che fa sostanza) che ritengo negativo.

Comincio con l’ultima affermazione di mons. Negri che tanto ha fatto discutere: la legge 194 avrebbe consentito tanti aborti che hanno inciso sulla natalità riducendo la popolazione e con ciò alimentando la crisi economica..

Non credo ci si possa aspettare che la chiesa rinunci alla condanna dell’aborto; d’altra parte sarebbe utile rammentare che neppure i sostenitori della L.194 si possono definire ‘abortisti’, infatti dicono da sempre che l’aborto è cosa dolorosa che la legge deve solo far emergere per fare prevenzione, evitare gli aborti clandestini con rischio per la salute delle donne; la differenza con la chiesa è che questa fino ad ora non condividere questa ‘strategia normativa’. Se i due ‘schieramenti’ prendessero atto della diversa posizione sulla normativa e si impegnassero semplicemente su ciò che condividono (la necessità di prevenire l’aborto) si eviterebbero i toni da crociata, si avvierebbe una proficua collaborazione per la prevenzione e ci si accorgerebbe che il tema della ‘apertura alla vita’ può essere condiviso e forse sviluppato in modo inaspettato ben oltre il tema dall’aborto, contro la vera cultura di morte dei poteri economici e finanziari che creano povertà e morte e distruggono il pianeta consegnatoci in custodia da Dio.

Detto questo, il punto posto dal vescovo è nuovo e singolare: gli aborti provocano la denatalità che alimenta la crisi economica. Nel merito si potrebbe obiettare che la legge ha portato alla luce aborti che ci sono sempre stati e che ci sarebbero stati comunque, perciò non ha inciso sulla natalità. Tuttavia il punto che mi preme è un altro.

Trovo singolare che si sposti sul piano economicistico una questione etica e profondamente umana che dovrebbe essere sottratta al ‘dio mercato’ ed alla sfera dell’economico. Sarebbe come dire che la denatalità dipende dal celibato dei preti, che se mettessero su famiglia la crisi si supererebbe. E’ evidente che nessuna delle due questioni si basa su un discorso economico. Il vescovo non si accorge del rischio che corre con il suo intervento: sostenere la posizione antiaborista con tali argomenti economici significa che, se qualcuno dimostrasse che l’aborto aiuta l’economia, allora sarebbe bene abortire. Non si accorge il vescovo che con le sue parole conferisce potere e si rende subalterno proprio a quel dio mercato che la chiesa dovrebbe contestare nel nome di altri valori.. Insomma un autogol. Da quanto si è letto circa la sua lectio di qualche giorno fa, deve essersene accorto ed ha tentato di correggere il tiro.

La tesi economica del vescovo, poi, cozza con quanto va dicendo in ogni occasione il papa sulle cause della crisi e della povertà: le strutture di mercato e del potere finanziario che alimentano la povertà per arricchire pochi. Il tema è ampiamente trattato nella ‘Evangelii gaudium’ e in numerosi altri discorsi del pontefice che raccoglie ma va oltre la tradizionale dottrina sociale della chiesa, superando una concezione banalizzante della solidarietà e chiedendo che questo valore si traduca in critica politico-economica per il superamento delle strutture del potere economico finanziario che generano sfruttamento dei popoli e cultura dello scarto. Il vescovo sembra non aver colto questo passaggio e anche in questi giorni ripropone la dottrina sociale della chiesa citando Benedetto XVI e ignorando il recente e innovativo contributo di Papa Francesco.

Questo mi consente di rilevare le numerose altre discrasie del nostro vescovo rispetto al vento di innovazione che il pontificato di Bergoglio fa soffiare.

Non che questo sia di per sè illegittimo: fa parte del dibattito nella chiesa. Tuttavia sarebbe bene esserne consapevoli anziché alimentare, come ha fatto anche il vescovo, una falsa idea di continuità tra questo pontificato e quelli precedenti o, peggio, una falsa adesione al nuovo Papa mentre se ne contraddicono le proposte. Non toccherò i singoli episodi, magari lo farò in altro intervent se mi sarà consentito. Dico solo che molti cattolici sentono una grande distanza tra la pastorale di mons. Negri e quella del Papa. Lo stesso dibattito sui temi del sinodo sulla famiglia, che il Papa ha voluto libero e aperto, qui è stato soffocato e ridotto alla riaffermazione delle posizioni più chiuse. Ma il problema qui non è il vescovo, bensì lo strano rapporto tra credenti e gerarchie che porta il popolo di Dio, la chiesa come popolo, ad essere quasi sempre subalterna alle gerarchie che non vanno contraddette. Il papa invece ci sta insegnando che una chiesa che discute liberamente ed apertamente, che ascolta il popolo, è una chiesa viva, altrimenti muore negli steccati normativi lontano dalla vita delle persone. Ecco il punto posto da Baratelli (che cattolico non è) ai cattolici: uscite allo scoperto e discutete. E’ un tema importantissimo per noi cattolici. Ciò vale anche per il bene del vescovo. Non basta che ci chieda di pregare per sostenerlo nelle sue battaglie (che possiamo considerare sbagliate); serve invece che il popolo della chiesa si faccia sentire per dare al suo vescovo, anche contraddicendolo, elementi di comprensione e punti di vista differenti che gli consentano di pensare il suo ruolo come in cammino ed in trasformazione insieme a noi, non sopra di noi. Lo Spirito Santo cammina nel cuore e con le gambe di tutti noi e non può arrestarsi di fronte alle gerarchie. Un merito delle provocazioni del vescovo è averci costretto a portare allo scoperto questo tema. Credo che il nostro vescovo troverà appoggio ed aiuto da una maggiore dialettica, ed anche certe sue posizioni potranno meglio precisarsi perdendo aspetti  talora truci e ‘vendicativi’ (come su halloween, dove ha detto cose interessanti in modo inutilmente repressivo di innocenti giochi di bimbi) per far emergere il loro fondo gioioso e di vita, superare una pastorale del ‘no’ per passare alla pastorale del ‘si’, della misericordia. Il Papa nella ‘Evaangelii gaudium’parla di questa pastorale, fatta meno di ‘ legge’ e più di ‘Grazia’, di una chiesa non ‘dogana di controllori’ ma che facilita ‘con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone’ nella loro ‘ vita faticosa’ , che non appesantisca con precetti che fanno apparire la religione come schiavitù ma faccia emergere il messaggio di libertà e di gioia. .

Potrà il nostro vescovo convertirsi a questo metodo? Io penso di si: con l’aiuto dello Spirito Santo  e con l’aiuto ed anche l’affetto di tutti i credenti che si fanno portatori dello Spirito. E’ una conversione che non riguarda solo lui ma tutti noi, tutta la chiesa.

 

LA RIFLESSIONE
Un ‘Doppio taglio’ che si rimargina cambiando il punto di vista

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La locandina dello spettacolo

Cambiare il punto di vista. E’ questo il monito più forte sortito dal potente spettacolo “Doppio taglio” messo in scena venerdì sera al teatro Off (leggi la nostra recensione). Degli stravolgenti effetti sulla comprensione determinati dalla mutazione dell’angolo visuale in letteratura è maestro Pirandello, in sociologia Goffman. Il professor Keating (quello dell’Attimo fuggente, magistralmente interpretato dal compianto Robin Williams) lo insegnava ai suoi ragazzi: guardando il mondo da un’altra prospettiva cambia la percezione, cambia il senso delle cose, cambia la realtà, cioè quell’idea che ci facciamo del mondo e che impropriamente chiamiamo verità.

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Marina Senesi, un’interpretazione intensa

Così è anche per la violenza che tragicamente si consuma ogni giorno sulle donne, vista, analizzata, fotografata, scandagliata dalla stampa sempre nella considerazione della donna-vittima guardata dal punto di osservazione del carnefice. E’ questo che testimonia la ricchissima documentazione antologica di testi giornalistici serviti da base per lo spettacolo teatrale allestito e interpretato da una convincente Marina Senesi e nato sulla scorta del certosino lavoro svolto dalla ricercatrice Cristina Gamberi. Un progetto realizzato con il patrocinio di ‘Pari opportunità Rai’, a cui hanno dato il proprio contributo anche Filippo Solibello e Marco Ardemagni per le voci fuori campo, Lucia Vasini per la regia e la musicista inglese Tanita Tikaram che ha regalato allo spettacolo l’inedito “My Enemy”.

il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)

‘Cambiare la prospettiva’ in questo caso vale in prima istanza come esortazione agli operatori dell’informazione, ma anche come linea di condotta da seguire per le prossime attività formative rivolte ai giornalisti stessi. Erano loro i destinatari privilegiati dello spettacolo di venerdì, non solo perché è il loro lavoro che ha originato la stesura del testo, ma perché la rappresentazione rientrava nel novero delle attività di aggiornamento professionale da un paio d’anni rese obbligatorie per la categoria. Il ricorso a una modalità di comunicazione non tradizionale ha costituito una riuscita innovazione rispetto ai canoni usuali. Raramente, nei precedenti incontri, si era registrata tanta partecipe attenzione: il messaggio teatrale ha una forza di coinvolgimento superiore a una comunicazione ordinaria. Così il pubblico dei giornalisti ha riguardato il proprio lavoro allo specchio, scoprendo ciò che nel trantran quotidiano normalmente non si coglie come peccato di superficialità: l’essere schiavo di stereotipi.

Marina Senesi
Marina Senesi

È stato utile a tutti questo spettacolo. E potrà contribuire a migliore la qualità dei nostri giornali se aumenterà la sensibilità di chi li scrive. L’auspicio è che possa entrare anche nelle scuole, per fungere da antidoto con cui vaccinare le nuove generazioni. E al contempo la speranza è che questo riuscito esperimento induca l’Ordine dei giornalisti a contemplare fra le sue attività formative – in via continuativa e non estemporanea – anche iniziative con modalità di comunicazione originali ed eterodosse come questa.

Un monaco e una macchina fotografica per unire Oriente e Occidente

Guido Santi e Tina Mascara sono due registi di origini italiane, residenti a Los Angeles, autori del documentario “Monk with a Camera: the life and journey of Nicholas Vreeland”, presentato in anteprima all’International documentary film festival di Amsterdam (Idfa 2013), ha già fatto il giro del mondo, America, Taiwan, Australia, India, Israele.

monaco-macchina fotografica
La locandina

Il film racconta la storia vera di un uomo che non ha avuto paura di impegnarsi in un percorso diverso – hanno dichiarato Guido Santi e Tina Mascara – in cui trova una ragione in più per portare avanti il suo lavoro di artista. E’ un racconto sul legame profondo tra Oriente e Occidente, su come trovare un punto di equilibrio in un mondo sempre più instabile, per aiutarci a capire meglio noi stessi e il tempo in cui viviamo. La storia è quella di Nicholas “Nicky” Vreeland, figlio di un ambasciatore e nipote della mitica direttrice di Vogue Diane Vreeland. Nicky è stato per molti anni un importante fotografo del jet-set e del mondo della moda (allievo e assistente di Irving Penn e Richard Avedon), diventato il primo abate occidentale a condurre un monastero buddista in Tibet. Questo cambiamento di vita è avvenuto dopo che ha incontrato il venerabile maestro buddhista Khyongla Rato Rinpoche, fondatore del Tibet Center in New York e avere studiato con lui per numerosi anni.

L’importante fotografo ha abbandonato i privilegi della mondanità e del successo per seguire l’ideale buddista e trasferirsi in India. Quando il Dalai Lama l’ha nominato abate del monastero di Rato Dratsang, gli disse: “Il tuo compito è di colmare la tradizione tibetana e il mondo occidentale”. La mostra itinerante, con le fotografie in bianco e nero realizzata dallo stesso Vreeland, ha fatto proprio questo, riuscendo a raccogliere 500.000 dollari, utilizzati per la ristrutturazione della sede indiana di Rato Dratsang. Il monastero è stato ricostruito grazie all’abilità di Nicholas, ritornato a impugnare la macchina fotografica dopo 28 anni, soltanto con l’obiettivo di contribuire a questa nobile causa. Il documentario consente di conoscere Nicky e il suo straordinario viaggio spirituale, restando dietro la tenda del buddismo tibetano ed entrando nel cuore e nella mente di un uomo. Osservandolo si arriva a capire il lento percorso che l’ha portato lontano da una vita di successo, apparentemente già impostata, per abbracciarne un’altra completamente diversa, attraversando quindi il paradosso tra fama e umiltà.

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Nicky e il Dalai Lama

Nel documentario, diretto da Guido Santi e da Tina Mascara, questa grande storia è raccontata con il contributo di personaggi come il Dalai Lama e l’attore Richard Gere. La colonna sonora è stata composta da Pivio e Aldo De Scalzi, che si sono ispirati al minimalismo americano degli anni ‘70 e in particolare a maestri come Steve Reich e Philip Glass. Nella realizzazione delle musiche i due musicisti hanno aderito pienamente ai contenuti spirituali del film, basandosi su strumenti quali marimba, piano, xilophono, chitarre e un quartetto d’archi eseguito dallo Gnu Quartet, un gruppo musicale composto da Raffaele Rebaudengo (viola), Francesca Rapetti (flauto), Roberto Izzo (violino) e Stefano Cabrera (violoncello). Non mancano, naturalmente, i riferimenti alle musiche devozionali dei luoghi in cui il buddhismo è più praticato.

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Tina Mascara e Guido Santi

Guido Santi è un regista e produttore nato in Italia, vive e lavora Los Angeles, dove è anche insegnate di “Estetica e storia del cinema” presso il College of the Canyons a Santa Clarita. Santi ha realizzato il film “Mandala: The journey of a dancer” (2002) e, con la moglie Tina Mascara, il documentario “Chris & Don. A love story” del 2007, sulla vita dello scrittore Christopher Isherwood e del pittore californiano Don Bachardy. Santi ha lavorato in Italia scrivendo e dirigendo cortometraggi, inoltre, ha collaborato per quattro anni con il progetto/scuola “Ipotesi Cinema”, il laboratorio fondato da Ermanno Olmi e Paolo Valmarana nel 1982 a Bassano del Grappa. In seguito ha conseguito un Master in produzione cinematografica all’University of Southern California e ha prodotto special televisivi e documentari.

Tina Mascara è una regista e produttrice americana, nata nel West Virginia, che ha studiato giornalismo e fotografia all’Istituto d’Arte di Pittsburg e si è laureata in Film Program al Los Angeles City College. Tina ha prodotto e diretto due film: “Jacklight” nel 2000 e “Asphalt stars” nel 2002. Il documentario “Chris & Don”, realizzato insieme al marito, è considerato un cult.

Official Trailer su Youtube [vedi]

Fotografie dal sito “Monk with a camera” [vedi]

IL TEST
Deck Tape e amplificatori, quando il suono scorreva su nastro

2. SEGUE – Il nome Sanyo significa “tre oceani” ed è riferito all’ambizione del fondatore di vendere i propri prodotti, a livello mondiale, attraverso l’oceano Atlantico, Pacifico e Indiano. Le prime produzioni riguardarono fari per biciclette, radio di plastica (1952) e lavatrici a pulsanti, una novità per il Giappone del 1954. La società nipponica ha collaborato con Sony per la creazione dei formati video Betamax e Video8, poi le strade si sono divise per questioni legate alle nuove tecnologie: Sanyo ha supportato il formato Hd Dvd per i film ad alta definizione, mentre Sony ha puntato sul Blu-Ray, divenuto in seguito lo standard di riferimento per i nuovi dischi a lettura ottica. Sanyo ricevette, per tre anni consecutivi, il premio J.D. Power and Associated per la maggiore soddisfazione dei clienti degli 8 più famosi produttori di telefoni cellulari, nell’ultimo decennio questo premio è stato assegnato ad Apple per l’iPhone.
Il 7 novembre 2008 il consiglio di amministrazione annunciò che la società sarebbe stata incorporata da Panasonic, creando così il più grande polo mondiale nel settore Hi-Tech.
Il 1º marzo 2011 Sanyo ha cessato di esistere.

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Deck Tape Sanyo RD-5500

Abbiamo testato alcuni componenti Hi-Fi Sanyo riscontrando spesso un “valore aggiunto” rispetto ai prodotti concorrenti, per esempio nei Deck Tape è quasi sempre presente la regolazione del suono in uscita, negli amplificatori si può selezionare il reverse tra il canale destro e sinistro, per non parlare della presenza del circuito di equalizzazione (JA 7110, JA 300). Tra i registratori di audiocassette ci ha incuriosito l’RD-5500, costruito con una sofisticata ingegnerizzazione meccanica ed elettronica, in grado di alloggiare al suo interno la cassetta e di gestirla tramite spie e sensori.

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Particolare della componentistica di un Tape Deck Sanyo
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Il particolare vano cassetta della piastra RD-5500

Ricerca, design e genialità sono alla base di questo progetto, il cui risultato ha prodotto un apparecchio stilisticamente originale e dal suono “imbarazzatamente” brillante. Lo stesso deck fu commercializzato con il brand “Otto” mentre, con il marchio Grundig, fu prodotto il “gemello” RD-5600, del tutto simile al precedente ma privo dell’originale sistema di alloggiamento del nastro.

 

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L’RD-5500 accoglie al suo interno la cassetta, appositi led esterni hanno il compito di segnalare eventuali anomalie

I nostri test sono proseguiti con l’amplificatore DCA 611 e il tuner FMT 611UL, riportati “in vita” da Innokentiy Fateev, un noto pittore russo con la passione dell’Hi-Fi: “Non sono un tecnico ma mi piace studiare l’elettronica. Mi ha stupito la semplicità con cui è stato disegnato il circuito. Certo, già da qualche tempo i giapponesi avevano cominciato a semplificare i circuiti per tagliare i costi della mano d’opera, quindi l’introduzione dei moduli STK all’interno dell’ampli finale sostituivano i componenti discreti. Sui blog si trovano varie opinioni riguardo a come la qualità del suono sia migliorata o meno con queste modifiche, il fatto che l’ampli in questione sia arrivato fino ad oggi con i suoi STK originali funzionanti mi fa pensare che siano stati costruiti molto bene. Un’altra cosa che mi ha stupito è che, nonostante le condizioni nelle quali l’ho trovato (era messo male, l’ho comprato forse per pietà), dopo la pulizia dalla ruggine e dalla sporcizia, tutti le luci funzionavano! Su un blog americano ho letto un paio di storie di gente che ha trovato lo stesso apparecchio abbandonato per strada, in condizioni pietose e, con un po’ di lavoro, è riuscita a rimetterlo “in moto”; come dicono gli amici su audio karma: “… costruito come un carro armato”. Ho fatto alcune prove paragonando il suono con il mio Marantz 2270 (restaurato di recente con i condensatori nuovi) e con il Pioneer SX 780 e direi che il suono assomiglia più al Pioneer, che tende verso un suono frizzante, meno colorato del “caldo” Marantz, suono dinamico e pronto.”

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Sanyo DCA 611
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Sintonizzatore Sanyo FMT 611UL

E continua, “La canzone “Owner of a lonely heart” degli Yes, suonata con un DCA 611, è veramente un perfect match… Questa, comunque, è una questione di gusti, piccole sfumature. Rimane un amplificatore ampiamente sottovalutato, sconosciuto, che sicuramente meriterebbe un posto d’onore a fianco dei suoi competitori giapponesi”.

 

Continua… Il prossimo articolo prenderà in esame il design giapponese degli anni ’70 e ’80, la cui evoluzione si ispirò al movimento postmoderno italiano di Memphis e Studio Alchimia.

Per leggere la prima parte dell’inchiesta clicca qui.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi]
Innokentiy Fateev [vedi].

L’amore che cambia (e l’amore che resta)

“Ritornerò da te con questo cielo in mano…” canta al Festival di Sanremo Giovanni Caccamo; poco dopo nello spazio televisivo dedicato alla pubblicità, lo spot dei Baci Perugina recita gli eterni versi di Prevert “i ragazzi che si amano”, eterna suggestione dello stato nascente. Romina Power e Albano cantano insieme perché la gente, che ne ha fatto il prototipo della coppia felice, non ne vuole sapere delle storie che li hanno portati in altre vite. Sul Corriere della Sera del 13 febbraio Silvia Avallone ripropone l’elogio della lunga durata dell’amore che accompagna la vita di chi invecchia insieme. Troppo facile parlare dell’amore appassionato, della sicurezza arrogante di un corpo capace di suscitare desiderio e, al contrario, della bellezza perduta.
L’eterna suggestione dell’amore, ben oltre la festa di San Valentino, alimenta il bisogno di continuità e di emozione, di riconoscimento e di rinnovamento: emozioni che parrebbero inconciliabili e che pure, ognuno, si illude di conciliare.
E ora c’è la rete: l’amore al tempo di Internet propone contatti (non solo virtuali, ovviamente) in pochi minuti utilizzando i vantaggi del mobile e della geolocalizzazione è possibile combinare incontri; moltissimi siti ormai propongono l’incontro dell’anima gemella, attraverso gli algoritmi che elaborano gusti, passioni, “qualità” dichiarate per offrire profili compatibili. La rete cambia tutto e nulla allo stesso tempo. Cambia le forme del contatto e del corteggiamento, la fonte delle gelosie, i modi di essere presenti anche a distanza, attraverso video e chat, non cambia le emozioni, la tensione verso la sicurezza, il bisogno di continuità, come le tentazioni di fuga.
Bisogna riconoscere che la parola amore riconduce ad unità (inevitabilmente banalizzando il tema) una larga varietà di sentimenti ugualmente importanti per la vita e che non possono essere interpretati con l’antinomia passione/solidarietà. Non vi è dubbio che l’amore è anche amicizia, che comporta la capacità di coltivare le relazioni, di prendersi cura, avere la pazienza dell’ascolto, guardare (ed essere guardati) con occhi benevoli e non giudicanti. Come dice Francesco Piccolo (Corriere della sera, 9 febbraio) amarsi vuol dire anche farsi compagnia in alcuni pomeriggi piovosi della domenica e desiderare di eliminare gli stessi concorrenti di Masterchef. Ma oggi, dopo la stigmatizzazione dell’amore liquido, dell’amore “usa e getta” (banale descrizione dell’aspirazione all’autenticità con cui gli individui hanno cercato di misurarsi), l’accento torna sull’amore “sentimentale”.
Il discorso sull’amore riflette lo spirito del tempo. Il discorso odierno sull’amore esalta la continuità, quella tenacemente costruita. Non a caso: questo tempo sollecita il bisogno di legami, già il lavoro è sufficientemente precario, che almeno l’immaginario emotivo sia alimentato da sentimenti di lunga durata! Anche il discorso sull’amore, così eterno e universale, è influenzato dal clima sociale e dal tempo della storia.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi. Studia le scelte di consumo e i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Il viaggio della nave italiana in fuga dalla Libia

Cielo nero sulla Libia. Mentre la nostra ambasciata a Tripoli sospende le attività e l’esodo italiano comincia (o meglio continua, perché era già iniziato e intensificato dopo gli eventi dell’hotel Corinthia dello scorso 27 gennaio), non possiamo che dare uno sguardo al mare. Quel mar Mediterraneo che è sempre stato la culla di tante civiltà, un mare magnum oggi diventato cimitero di barconi, con le sue rigogliose sponde terribilmente trasformate, infuocate e piene di disperati che cercano solo una via d’uscita. Questa partenza non è sicuramente paragonabile a quella storica degli anni Settanta, quando gli italiani furono cacciati da Gheddafi, o a quella del 2011, quando era scoppiata la guerra per rovesciarlo. Ma ogni volta che si lascia un Paese dove si è vissuto, incontrato tante persone uniche e conosciutone la storia, si va indietro con la memoria e un po’ ci si immedesima con quelle stesse sensazioni che tanti italiani avevano provato. Immaginiamo, quindi, che oggi sia un po’ come allora. Mentre la nave rientra, e, scortata, viaggia verso la Sicilia con tappa a Malta, si lasciano indietro i ricordi, le paure e il terrore provati sentendo spari di proiettili e urla concitate, intravedendo bandiere nere all’orizzonte. Quando si sentono i vetri tremare e si vedono fumo e camionette cariche di militari non si sa mai cosa attendersi, dove andare, dove scappare. Si pensa alla propria vita ma anche a quella di chi a fianco a te non avrà la possibilità di andarsene. Mentre tu sì, avrai qualcuno che penserà a te, che potrà portarti via da lì. Credo che quando si parte in questo modo, lasciando una vita alle spalle costruita con fatica e sacrificio (perché nell’esodo ci sono tante famiglie miste), si perde parte di sé, della propria storia, la propria speranza. In una Libia che brucia, con il califfato che avanza, non si può non pensare agli amici che si lasciano lì, ai giorni trascorsi a bere il tè, ai tramonti tripolini sul mare dorato, alle passeggiate nella Medina, alle case coloniali, alle belle moschee ricamate, al richiamo del muezzin che svegliava la mattina presto, a quel dolce rumore delle onde che lambivano spiagge oggi terrificate. Tanti italiani hanno vissuto queste sensazioni. Tanti le lasciano qui, ai loro amici, nella speranza di tornare a riprendersele, ma le porteranno anche con sé, per sempre.
La Libia è vicina, è nei nostri occhi, nei nostri ricordi, nei nostri cuori, nelle colonne di Leptis Magna che fanno ombra a pensieri di gioia, a ricordi di momenti spensierati trascorsi a passeggiare fra quelle rovine. In quelle stesse colonne che fanno ombra all’amore per quella terra, per quella storia che è anche la nostra, che richiamano gli imperatori che guardavano quegli stessi alberi che oggi, sotto il sole cocente, sono bruciati e arsi dal fuoco delle armi inclementi. La Libia è quei minareti che fanno ombra al colore della terra che tende le braccia al cielo, aspettando le stelle. Un giorno.
Nel 2012, la bandiera libica sventolava leggera, il popolo voleva solo libertà e democrazia. Si parlava di futuro, di progetti di ricostruzione, di cultura che avanzava. C’era speranza. Oggi si ha di nuovo paura, aldilà e al di qua di quelle coste del Mediterraneo che si colorano di nero. Il nero delle bandiere e della terribile morte che porta quel mare dove ci si butta per cercare di scappare lontano. Una preghiera intensa, allora, si levi al cielo, perché quel nero non prenda mai il sopravvento, perché l’uomo diventi Uomo, una buona volta, fermando una catastrofe che sembra imminente e inarrestabile. Perché torni a pensare e a sentire il profumo della terra e dei limoni del Mediterraneo.

LA RIFLESSIONE
Il viaggio della vita di Severgnini sbarca a teatro e porta speranza

Un lieve velo di ironia che fa riflettere e per una volta apre la mente alla speranza. Si è svolto venerdì 13 febbraio, nella splendida cornice di un affollatissimo Teatro Comunale “De Micheli” di Copparo, lo spettacolo La vita è un viaggio, con protagonisti Beppe Severgnini e Maria Isabella Rizi, le musiche originali dal vivo di Elisabetta Spada e la regia di Francesco Brandi.

Liberamente ispirato agli ultimi due libri di Severgnini (“Italiani di domani” e l’omonimo “La vita è un viaggio”), lo spettacolo è il racconto di una notte passata all’aeroporto di Lisbona da un uomo di mezz’età (Beppe Severgnini) e da Marta (Maria Isabella Rizi), una ragazza ventottenne, ambedue in attesa della fine dello sciopero che impedisce ad entrambi di partire per le rispettive destinazioni: lui in viaggio verso Boston a tenere conferenze; lei verso il Brasile dove, dopo aver abbandonato la carriera di attrice poiché poco riconosciuta, si è decisa ad aprire un chiringuito insieme al fidanzato surfista. Sarà proprio una litigiosa chiamata in lingua inglese tra quest’ultimo e Marta ad attirare l’attenzione dell’uomo, il quale non solo non si fa alcun problema a bombardare la scontrosa ragazza di domande, ma si dimostra inoltre incurante del suo disinteresse e della sua chiusura nell’instaurare un qualsiasi dialogo. Ecco però che questo insolito incontro, nel bel mezzo della notte, in un aeroporto apparentemente vuoto, diviene un pretesto per i due di conoscersi meglio e di interrogarsi sulle rispettive vite. Le prime interminabili e a volte anche presuntuose domande dell’uomo serviranno alla ragazza per ripensare bene al suo passato, alle sue scelte, al suo futuro. Ma serviranno nel medesimo modo all’uomo, perché non è poi così scontato che un divulgatore di innumerevoli consigli di vita sia poi così sicuro di ciò che vorrà fare da “ancora più grande”. Alla fine quindi i viaggi dei due, probabilmente, non saranno più gli stessi.

Beppe Severgnini sceglie il teatro per dare continuità al successo dei suoi ultimi libri. Uno spettacolo leggero ma estremamente profondo, interpretato dai due attori con quel godibilissimo filo d’ironia che rende il tutto veramente piacevole da guardare e, allo stesso tempo, un pretesto per pensare e riflettere. Ed è così che dubbi, perplessità, debolezze, arrabbiature sono i tristi sentimenti che emergono dalle risposte alle tartassanti domande dell’uomo da parte della ragazza, la quale si trova ad incarnare gli stessi sentimenti di un’intera generazione italiana, rimasta senza fiducia nel proprio paese e pronta, se necessario, appunto, a partire. Il tutto impreziosito dalle musiche di Elisabetta Spada (nei panni di una “terza incomoda” passeggera, anch’essa in attesa) che intervallano lo spettacolo scandendone i vari capitoli.

Seguo spesso Severgnini, leggo i suoi articoli ed il blog che tiene da tempo per il Corriere della Sera, i suoi libri, e ho partecipato a vari eventi che lo hanno portato in giro nei vari festival di tutta Italia. E come spesso avviene, anche questa volta ma nell’insolita veste di attore teatrale, è riuscito ad entusiasmarmi ma soprattutto a suscitare in me qualcosa di speciale: speranza. E chi conosce Severgnini sa bene che in Italia sono pochi i personaggi noti così attenti alla questione giovanile del nostro Paese e, ancora più importante, pochi sono quelli che riescono a fare dell’ottimismo un vero e proprio marchio di fabbrica. Esattamente come nei suoi libri, Severgnini anche in questo spettacolo mette i giovani al centro, senza preoccuparsi di apparire presuntuoso ed essere etichettato come il solito borioso adulto saccente. Al contrario, dall’alto della sua esperienza, l’unico suo intento è trasferire i suoi consigli (frutto di una vita spesa tra molti viaggi in giro per il mondo e la scrittura) ai giovani d’oggi, sempre più demoralizzati e senza alcuno stimolo, senza prospettive, al punto di intraprendere un viaggio per non si sa bene dove e nemmeno veramente il perché; l’unico pensiero è andarsene. Ecco invece che il noto giornalista ci ferma, ci parla e si preoccupa di farci pensare più intensamente a noi stessi e alle nostre capacità, sottolineando il fatto che soprattutto noi giovani italiani abbiamo potenzialità da non sprecare per nessuna ragione; potenzialità ben più forti delle difficili barriere che la triste situazione del giorno d’oggi ci mette davanti. Le regole per riuscirci in fondo sono poche ma fondamentali: tenacia nell’inseguire i nostri obiettivi, tempismo perché di treni ne passano molti e la difficoltà sta nel prenderli, ma soprattutto la ricerca profonda del nostro vero talento, quell’elemento che ci contraddistingue e incanala in quello che siamo veramente portati a fare. Il tutto senza screditare l’importanza del viaggiare e del conoscere il mondo, perché a detta sua solo chi viaggia è in grado di superare quel sentimento di intolleranza che dilaga in quantità sempre maggiori, oltre al non scordarsi mai che la conoscenza del mondo che ci circonda è la prerogativa fondamentale per viverci bene. Quello che importa è non dimenticarsi della propria terra e, se possibile, tornarci. Tornare in questa Italia per ricostruirla e riportarla in alto tramite le sue eccellenze e le sue bellezze delle quali proprio noi giovani dobbiamo essere portabandiera.

Ecco quindi quel bellissimo concetto, oggi quasi scomparso, di nome speranza. Ascolto Severgnini e mi accorgo sempre di più come a noi servano più personalità come la sua, in grado cioè di parlare apertamente di un futuro migliore ma per davvero, senza slogan o manifesti ma solamente ritornando a farci credere in noi stessi. E ancora, qualcuno in grado di sapersi aprire ad una pura autocritica, capace cioè di ammonire la generazione degli “anta” circa il fatto che “arrivati ad una certa età, non saper diffondere consigli ai più giovani è da cretini più che da irresponsabili”.
Impariamo tutti quindi, grandi e meno grandi, da questi preziosissimi consigli; impariamo a valorizzare nel modo giusto noi stessi; impariamo a (ri)valorizzare la nostra bellissima Italia.

La metà dell’amore

Da una separazione imposta, da uno strappo nasce la ricerca di unità e ricomposizione del tutto. Lo sosteneva anche Platone, nel Simposio, che le due metà cercheranno sempre quell’interezza che chiamiamo amore. Questo spasmo verso una cosa che è stata negata, lo vive la donna protagonista del racconto “L’uomo seme” di Violette Ahilaud, edito da Playground e che ha ricevuto numerose segnalazioni anche sulla stampa nazionale.
Lei, privata del suo uomo, rimane monca, le si azzera la proiezione di futuro che con lui poteva avere. Chiamati alle armi, gli uomini del villaggio se ne vanno, l’amore delle loro donne diventa dolore e poi odio, l’odio dell’impotenza. Senza uomini, la vita non può generare altra vita, che destino potrà mai esserci davanti?
Le donne del villaggio sono compatte, devono essere pronte se mai dovesse, un giorno, arrivare un uomo che sarà l’uomo seme, con nessun’altra funzione che inseminarle, loro così “gravide di dolore”. Come delle Ecclesiazuse, ma senza il comico, le donne governano il villaggio, stabiliscono regole, pianificano l’arrivo dell’uomo seme: se lo divideranno, niente amore né sentimenti, solo un atto meccanico, uno scambio per non scomparire.
Lei è la prima donna che lo incontra e, quindi, avrà il diritto di essere la prima anche di fronte alle altre, sarà come Eva, con un diritto di precedenza, tutte le altre dopo.
L’uomo seme si chiama Jean, assolve il suo compito, ma con lei, solo con lei, quell’atavica ricerca di completezza non può rimanere fine a se stessa, l’amore è più forte e s’annida, assieme al seme. La felicità si mette dentro alla disgrazia, una felicità spuria perché genera in lei turbamento e senso di colpa: l’amore non può essere cristallizzato verso Martin che non c’è più e chissà se tornerà dal fronte, l’amore chiama ed è chiamato, va verso l’uomo seme.
Jean ha la capacità di amare, i suoi gesti lo confermano, Jean legge e con lei parla, tra loro nasce una condivisione complice che non si spezza.
Ma la vita gira, i cammini proseguono e la felicità vissuta non si dimentica.

“L’uomo seme”, Violette Ahilaud, Playground, Roma, 2014, pp. 64

Ferraraitalia ha di recente pubblicato un’intervista al fondatore e direttore editoriale della casa editrice Playground [vedi] che racconta anche la scoperta del manoscritto francese: Violette Ailhaud (1835-1925) racconta una storia vera vissuta in prima persona nella seconda metà dell’800; scrive il romanzo all’età di 84 anni, nel 1919, che viene pubblicato in Francia postumo nel 1950.