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3. SEGUE – Quando cominciai questo mestiere di manovale del pensiero il mondo era fermo a secoli fa, forse millenni, a parte alcuni particolari, importanti sì – elettricità, radio, automobile, telefono, aeroplani a elica e poi la biro, la televisione era un ridicolo mobile – in pochi anni è avvenuto ciò che era successo prima in secoli e secoli di vita, in cui le piccole scoperte di sconosciuti inventori non avevano mutato più di tanto la società umana: quando un ingegno ignoto aveva introdotto nei cessi lo sciacquone nessuno gridò oooohhhh il miracolo, no, tutti si limitarono a tirare la catena e l’oscuro scienziato finì anch’egli travolto dalla burrasca che si era sprigionata nella tazza e lì dimenticato. Lo sviluppo della tecnica prima e della tecnologia informatica poi ha sospinto l’uomo verso un futuro sconosciuto, pieno di incognite e, perché no?, di rischi, ai miei tempi di ragazzo (che tristezza parlare come hanno sempre fatto i vecchi!) s’imparava un qualsiasi rudimento, che era immutabile nel suo settore e che nella nostra mente sarebbe rimasto inalterato per tutta la vita: adesso?, per carità, due giorni e via!, la verità è cambiata e bisogna leggere le cose a rovescio per riuscire a capirle. Per spiegarle ci vuole il giornalista, cioè quella persona che illustra agli altri ciò che lui non sa o non ha capito.

Il giornalismo non è un lavoro senza regole, anzi le norme ci sono, eccome. C’è, per esempio, la regola inglese delle cinque “W”, who-what-when-where-why, affinché la notizia sia completa, regola soppiantata negli ultimi anni dalla norma ferrea delle cinque “S”, soldi-sesso-sangue-salute-successo, che rappresenta la miscela informativa capace di penetrare profondamente nella testa e nelle tasche del pubblico, oggi non interessa più che la notizia sia completa, l’importante è che faccia orrore, o, peggio, com’è venuto in uso di recente, crei polemica, se, per caso, l’avvenimento non comporta discussioni, allora bisogna creare scontro o controversia: come si fa? Semplice: si chiama una persona che abbia un qualsiasi interesse nell’avvenimento, o, più semplicemente, sia un esperto del settore e, tra rigorose virgolette, gli si fanno dire cose che possano urtare un eventuale nemico, il quale risponderà e così nasce la polemica, di una semplicità esemplare. Importante è non dimenticare le virgolette, hai messo le virgolette?, chiede il capo, tutto virgolettato, risponde il cronista, entrambi pensando erroneamente che le virgolette rappresentino uno scudo sicuro contro le querele. Ma ignoranza e stupidità sono gli strumenti di maggiore importanza per fare di un giornalista un grande, per aiutarlo a diventare un capo o un famoso inviato speciale. C’era un mio collega che proprio non sapeva (o non voleva) essere usato come uomo-macchina, cioè uno di quelli che costruiscono il giornale, i famosi culi di pietra, ma non sapeva nemmeno scrivere, quando arrivava alla frase relativa perdeva il controllo e i verbi si accatastavano a casaccio, gli dissi di lasciar perdere con le relative, che abbisognano della consecutio temporum e di impegnarsi in una scrittura neorealista, all’americana degli anni Quaranta, soggetto, verbo e complemento oggetto. Stop. Era un ragazzo intelligente, comprese e divenne un maestro di quella narrativa mozza, sincopata che il giovane Steinbeck ed Erskine Caldwell insegnarono a tanti aspiranti scrittori. Fu così che il collega, gettandosi dietro le spalle le frasi subordinate e i “che”, divenne un notissimo inviato speciale. Naturalmente molto attento, ma dignitosamente, al pensiero padronale, altrimenti non avrebbe fatto carriera: e questa, ripeto, è la prima regola del giornalismo. E’ un principio che la Chiesa inaugurò solennemente con l’introduzione dell’indice, l’elenco dei libri proibiti (Index librorum proibitorum), nel 1557 per ordine del papa Paolo IV, idea geniale che piacque moltissimo ai potenti di allora, piacque tanto che al cardinale di Francia Richelieu venne un’idea straordinaria: il furbissimo e spietato ecclesiastico aveva compreso che quel foglio, la “gazzetta”, a cui l’invenzione della stampa da parte di Gutenberg aveva regalato velocità, sarebbe diventato uno strumento insostituibile del potere per conformare e controllare l’opinione pubblica. La famosa canaglia ecclesiastica, Richelieu, conferì l’incarico di giornalista del re a Théophraste Renaudot, il quale aveva una strana idea della cronaca e della storia. Scrisse: “La storia è la relazione delle cose avvenute, la gazzetta soltanto dei rumori che corrono. La prima è tenuta a dire sempre la verità, la seconda fa già molto se impedisce di mentire. E non mente nemmeno quando riferisce notizie false che le sono comunicate come vere”. Poi aggiunse, forse per una tarda presa di coscienza, o per salvare la faccia: “Solo la menzogna diffusa coscientemente come tale può renderla degna di biasimo”. Era la benedizione definitiva alla pubblicazione di notizie taroccate, prassi diffusissima (sempre più praticata) da allora fino ai tempi nostri. Nessuno ha poi mai tentato di spiegare come da notizie false sia possibile costruire una storia veridica, sempre che sia possibile scrivere la storia senza l’intrusione definitiva dei vincitori.

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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