Skip to main content

di Altilia Mascalese

Quando pensiamo alla moda, a ognuno di noi viene in mente un’immagine diversa: una modella in posa su una rivista, la Fashion Week, le ultime tendenze… In ogni caso l’immaginazione ci figura davanti agli occhi un bellissimo capo finito e pronto da indossare; il pensiero difficilmente ci trasporta in una fabbrica fatiscente in Cina, India, Bangladesh o Nord Africa piena di sfruttamento e pratiche vietate.

Rovine del palazzo Rana Plaza

Il servizio di Report andato in onda su Rai3 il 3 dicembre scorso ha messo invece a nudo le pratiche attuate dai fornitori di brand fast fashion come Zara e H&M, che al consumatore offrono un prezzo quasi irrilevante e allettanti saldi che non mancano mai. Dal servizio però si evince la partecipazione a queste pratiche di alcuni grandi brand, che nel periodo di crisi cercano di rimanere competitivi e salvaguardare la marginalità economica, producendo gli articoli altrove, tradendo consapevolmente i loro sostenitori che si fidano da sempre del made in Italy di qualità, garantito dalle aziende altamente specializzate presenti nel nostro paese. Lo sfruttamento, la disponibilità di servizi vietati in altri paesi come la sabbiatura, per citarne uno, e l’avvelenamento delle falde acquifere del nostro pianeta con sostanze tossiche pericolose per i lavoratori, quasi sempre non protetti, sono solo alcuni degli aspetti del rovescio della medaglia dell’apparente prezzo basso. Del resto se non lo paghiamo noi, probabilmente lo paga qualcun altro, come le 1.129 persone morte e i 2.515 feriti del palazzo Rana Plaza crollato a Dacca in Bangladesh.

È importante però specificare che non tutti i brand ricorrono a delocalizzazioni o materie prime scadenti. Tra i big per esempio è noto l’impegno ecologico di Stella McCartney; tra i piccoli artigiani fortunatamente trovare prodotti etici e sostenibili è più facile e si possono trovare articoli per tutti i gusti: borse e scarpe in sughero, abiti o borse in fibra vegetale (bambù, arancia, ananas), prodotti con materiali di riciclo come borse realizzate con cinture di sicurezza delle auto rottamate. Inoltre la certezza dei prodotti artigianali è che non ci sono sfruttamenti, perché sono quasi sempre realizzati direttamente dal creatore del brand.

Abito Cerimonia “Kromika” di Rdress (www.rdresscouture.com)

Parlando del nostro territorio, possiamo conoscere un brand molto particolare che mette insieme arte, sartorialità e innovazione tecnologica. “Perché le opere d’arte devono restare appese al muro? Perché non indossarle?” – sono queste le domande da cui ha avuto inizio Rdress couture, il brand fondato ufficialmente nel 2015 in Svizzera, ma ideato nel 2013 durante la mostra d’arte alla Galleria Wikiarte di Bologna. Il primo elemento fondamentale infatti è l’arte, reso possibile dall’artista Raffaela Quaiotti, maestra d’arte ma anche ex docente di sostegno ai ragazzi con disabilità più o meno gravi per 38 anni nella regione Veneto. Per lei la pittura non è solo un’espressione dell’anima, ma soprattutto dei sentimenti, uno sfogo mediato da carboncino, cartoncino e colori più o meno sgargianti, soprattutto nell’ultimo periodo della sua carriera. Attualmente la collezione è di oltre 100 opere d’arte, ormai quasi un museo personale.
Ma torniamo all’abbigliamento, il secondo punto fondante del brand è la sartoria: curata nei minimi dettagli come una volta, con gli abiti, per lo più di seta, cuciti da sartorie esperte in Italia e in Svizzera esclusivamente su ordinazione. La seta è stata una scelta obbligata secondo il General Manager: “Il nostro cliente deve avere il meglio. Un abito Rdress couture non è solo particolare perché raffigura un’opera d’arte, è anche prezioso, confortevole e avvolgente grazie alla seta elasticizzata ed è totalmente anallergico grazie ai pigmenti innovativi a base d’acqua”. Spesso altri artigiani come Rdress producono su ordinazione, certamente non è lo shopping immediato a cui siamo abituati, ma indubbiamente è utile al pianeta in quanto si evita di inquinare con la realizzazione di prodotti non necessari che rimangono invenduti; in fondo è indubbiamente un ottimo motivo per aspettare un prodotto che qualcuno realizzerà esclusivamente e appositamente per noi.

Per approfondire
Report 3 dicembre 2018
www.fashionrevolution.org
www.agoefiloshop.com
Altraqualità
The true cost – (documentario che mostra il funzionamento e le conseguenze del fast fashion)

Leggi anche
Alla fiera della vanità con la fast fashion: 52 stagioni all’anno e uno sfruttamento intensivo della manodopera

tag:

Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it