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Che noia le feste! Che noia ascoltare i sapientini che discettano per ore su tutti i talkshow, chi per promuovere i propri libri, chi per dar man forte al governo o combatterlo, chi per ‘esserci’. Poi una specie di illuminazione: perché non ascoltare e vedere il programma dedicato a Celentano nell’anniversario della nostra comune età? Così dismetto i panni di colui che ha ammesso Chopin solo da poco tra gli immortali, di colui che adora Muti, Pollini, Argerich, la divina Maria e in tal modo, miracolosamente, sul filo del ricordo, si ricompone la vita spiegata sull’onda di canzoni dimenticate, di gambe impazzite, di un bel viso che si è macchiato di cuperose, di denti ingialliti un tempo forti e bianchi. E con quelle canzoni si dipana il filo dei ricordi e le tappe della nostra gioventù.

Si sa. Il ritorno al passato non sempre è produttivo. Balzano e si evidenziano nello specchio della memoria le scelte fatte, i condizionamenti, i compromessi, ma anche gli atti di una responsabilità che ti rende uomo, che finalmente ti fa capire chi sei e cosa ti ha prodotto tale in un certo momento, specie se la tua gioventù si è svolta nel momento più acuto delle ideologie novecentesche. Così una canzone da strada come quella che Celentano cantava e il cui ritornello era “Chi non lavora, non fa l’amore” ci piaceva perché in essa si realizzava quella parola oggi ormai desueta: “impegno”, che oggi sembra sparita. Anzi abborrita.
Certe situazioni poi prospettavano l’uso dell’ironia, che nel vocabolario salviniano è priva di senso tanto da rendere ancora più greve la “pesanteur” della sua retorica e della sua didattica. Una di queste mi rimane impressa.
Arrivo finalmente all’Università e Claudio Varese mi conduce al colloquio, fondamentale, con colui che lo sostituirà come Maestro, Walter Binni. Impietrito dal timore che potessero venire evocate le scelte fasciste della mia famiglia, non ancora a 17 anni consapevole di cosa volessero dire ‘destra’ e ‘sinistra’ nonostante i tre anni passati alle secondarie con Varese, ingozzato di libri di cui ancora non distinguevo il fondo politico, mi ero inventato se non una fede almeno, secondo le mie confuse idee, una risposta che mi avrebbe salvato dall’interrogatorio di Binni, uomo della Costituente. Così alla domanda per quale scelta politica avessi optato, serenamente risposi: “monarchica”. Vidi il bel viso del Binni abbuiarsi, vidi che guardava incredulo Varese e che mestamente scuoteva la testa. Poi col tempo, con la frequentazione nelle lezioni e lo schiarimento delle idee imboccai quella strada che solo ora mi accorgo mi ha reso eticamente consapevole delle scelte che ho fatto d’allora in poi. I miei compagni di corso ridevano perché Binni, che il primo anno arrivava tutto affannato da Genova, se non mi vedeva in aula (eravamo in trenta giovani e forti) domandava curioso: “Il monarchico non viene”?

Ora di fronte a scelte gravi, quasi inaspettate per chi sta concludendo il proprio percorso, ascolto incredulo i contorcimenti politici tesi a risposte che non facciano male a nessuno o che lascino lo spazio necessario per accodarsi al carro del vincitore se non rimane altra strada. Sento, con orrore che si traduce in una nausea fisica, un ministro che rifiuta l’attracco dei migranti sballottati nel gelo del mare su una nave che non può attraccare a cui si rifiuta l’ingresso. Ascolto incredulo un altro politico che suggerisce di far sbarcare donne e bambini e non gli uomini forse considerati una specie minore e i commenti di un’autorità religiosa che mi stringe lo stomaco. A me laico, figurarsi ai cristiani! Non tutti però, come si evince dal seguito nutrito che il prelato può vantare.
Così a vedere Celentano che canta a Bologna davanti al Papa Woitila la sua canzone di fede mi vien la malinconia.

Svegliatevi bambini – per parafrasare una vecchia canzone qui riprodotta al maschile – fra poco è primavera. E bisognerà votare.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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