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Ci racconta Socrate, nel Fedro di Platone, che per Thamus, sovrano dell’Egitto, la scrittura ideata dall’ingegnosa divinità Theuth, anziché sapienza, avrebbe inculcato nell’uomo il germe della dimenticanza. I segni estranei della scrittura erano destinati a produrre solo dei portatori di opinioni, anziché dei sapienti. Mito che riecheggia timori e pregiudizi nei confronti di tutto ciò che per l’uomo è nuovo, che l’uomo non ha ancora sperimentato. Di fronte alle tecnologie e alla scienza prende il sopravvento la parte più primitiva del nostro cervello, la diffidenza, come la repulsione innata verso i rettili.

Ma è che il nuovo, nel senso di modus, di moderno ci scuote nelle fondamenta. Paradigmi e strutture mentali vengono rivoluzionati, il pensiero di prima non è più quello di dopo, neppure le abitudini e le condotte. C’è sempre qualcuno che si affatica a tradere, a trascinarsi dietro la tradizione da consegnare ai tempi nuovi, perché il distacco da ieri non produca l’abbandono della sapienza consolidata, a prescindere dalla sua utilità.
Il nuovo produce accelerazioni, più avanza, più si genera rapidamente. Il secolo breve di Hobsbawm, tra catastrofi, frane e ideologie malate, ha assistito a rivoluzioni nel campo delle tecnologie e della ricerca scientifica mai così impensabili e numerose. Scienza e tecnologia hanno rivoluzionato i nostri paradigmi, le nostre modalità di ragionamento, i nostri approcci con la realtà e con il sapere.

In un secolo abbiamo assistito al sopravvento delle automobili e degli aerei, dei trasporti veloci, fino ai viaggi interplanetari, allo sviluppo della cinematografia, all’avvento della radio e della televisione, sino alle nuove tecnologie informatiche, alla scoperta di cure e vaccini che ci hanno consentito di sconfiggere malattie mai prime debellate, di migliorare la qualità della nostra vita e di prolungarne la durata. Siamo il prodotto di rivoluzioni culturali che hanno inciso sul nostro modo di essere e di pensare e tutto lo abbiamo vissuto come il risultato naturale del progresso, frutto delle ricerche e del genio umano. Una umanità avventurosa nei secoli passati, che ora pare aver paura di se stessa, che ha perduto l’entusiasmo della conquista, come se si fosse sconfitta da sola. La gara con la vita è sospesa, il mito prometeico relegato in soffitta. Diffidenti di noi e degli altri siamo precipitati nel sospetto che tecnologia e scienza siano alleate in un progetto di manipolazione biologica, di mutazione genetica, di controllo delle nostre esistenze, di sfruttamento degli individui, di limitazioni delle libertà personali.

L’uomo si ripete. Il mito di Theuth e Thamus ci racconta delle resistenze nel passare dall’oralità alla nuova tecnica della scrittura: farmaco del ricordo o inibitore della memoria? Così l’avvento della stampa: tecnologia di controllo o tecnologia di libertà? Sarà proprio la stampa della Bibbia che consentirà a Lutero di sperimentare la più grande forma di libertà che l’umanità abbia mai conosciuto: la libertà di pensiero.
Per non parlare della tecnologia del cannocchiale di Galileo che ha portato alla rivoluzione di tutto il sapere, affrancando la conoscenza dalla dittatura delle sacre scritture.

Siamo divenuti schizofrenici. Da frenetici compulsatori di telefonini e computer, al sospetto che le protesi delle nostre vite quotidiane ci si possano rivoltare contro. Abbiamo coniato i ‘nativi digitali’ e la ‘generazione zeta‘ per prenderne le distanze e nello stesso tempo nascondere i nostri sensi di inferiorità. Scordandoci che, noi figli della cultura libresca, dei testi, delle scritture e degli alfabeti, siamo stati gli dei creatori degli idoli di queste ragazze e ragazzi, noi che veniamo dal secolo passato. Pare quasi che misconosciamo le nostre creature, che vogliamo liberarci dalle nostre responsabilità, come se ci fossero sfuggite di mano, scatenando effetti che non avevamo conteggiato. E mentre crescono le cattedrali del digitale, noi ci ritiriamo nelle nostre antiche chiese a contemplare quanto era bello giocare a pallone in mezzo alla strada, anziché trascorrere le giornate a messaggiare col telefonino, o di fronte al desktop del personal computer.

Spendiamo parole di retorica sulla didattica in presenza per quanto manca, condanniamo la didattica a distanza, scordando che quella roba lì l’abbiamo inventata noi del secolo scorso. Non la chiamavamo didattica a distanza, la chiamavamo Telescuola. Un progetto formativo innovativo con quattro milioni di ascolti giornalieri, che dal 1958 al 1966 ha consentito il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie.
Perché, non era forse didattica a distanza Non è mai troppo tardi? A fronte dell’elevato analfabetismo nell’Italia degli anni ’60, le quotidiane lezioni del maestro Manzi hanno permesso a un milione e mezzo di italiani di conseguire la licenza elementare.

Allora il problema non è la didattica a distanza che comunque è una soluzione, il problema invece siamo noi. Lo scriveva uno dei pensatori più originali del Novecento, Vilém Flusser, nel suo La cultura dei media. Viviamo in un mondo che non è più sinonimo di progresso, ormai non racconta più storie e vivere in esso significa smettere di agire.
È possibile che l’avvento della pandemia abbia dilatato questa sensazione, ma l’impressione è che a scomparire siano sempre più i pensieri, le intelligenze, le idee e le riflessioni. La capacità di immaginare domani possibili, un’impotenza a cui pare incatenato il nostro tempo.

La crisi di valori alla quale spesso ci appelliamo, non è una crisi etica, ma una crisi di significato, di significati condivisi. Non sappiamo deciderci a compiere il passo definitivo, incerti tra il nostro mondo di testi, di scrittura alfabetica, di logiche matematiche, ancora del secolo scorso, e il nuovo mondo della tecnologia e dei suoi valori, il mondo delle generazioni che non vengono dal nostro lontano, ma dal nostro vicino, quello a cui ancora guardiamo con dissimulato sospetto.
Da questo stallo dovrebbero liberarci la cultura, la scuola e le università, ma anche loro di fronte al nuovo non stanno dando il meglio di se stesse, prigioniere del passato faticano a scavallare il secolo.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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