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Arte e cultura da sole non fanno una Città della Conoscenza, almeno per come è intesa dalla letteratura in argomento. Si può essere città d’arte e cultura senza mai giungere ad essere compiutamente una Città della Conoscenza.
Una città della Conoscenza è tale nella misura in cui è in grado di attrarre, per le opportunità che offre, talenti nell’ambito dell’arte, della cultura, della ricerca e delle scienze.
Se questo accade, non lo si può che salutare con grande soddisfazione, l’avvento non può che essere carico di promesse e la cittadinanza tutta si arricchisce di una importante risorsa.

Se un artista, uno scienziato, un ricercatore eleggono una città come luogo del loro lavoro, come ambiente più idoneo ad esprimere se stessi, significa che in quella città hanno trovato condizioni, atmosfere, relazioni, strutture e clima confacenti con il proprio impegno artistico o scientifico.
Se questo è, benvenuto allora Moni Ovadia nuovo direttore del nostro Teatro Comunale.
Vuol dire che la città ha lavorato bene nel tempo, fino a giungere ad esercitare attrazione nei confronti di artisti della caratura di questo grande “ebreo errante”, non possiamo che esserne riconoscenti ed orgogliosi al contempo.

Non è più tempo di mecenati e protettori. Anzi i ruoli si sono invertiti, i mecenati e i protettori di oggi premono per poter accedere alla corte dell’artista.
Governo e amministrazione di Genova hanno dovuto chiedere accesso alla corte dell’archistar Renzo Piano per ricostruire il ponte Morandi.
Pensare che arte, cultura, ricerca e scienza possano essere ricondotte a una parte piuttosto che a un’altra, è un’idiozia dura a morire. Qualcuno di memoria corta ha dimenticato le lezioni apprese dal ventesimo secolo relativamente al rapporto tra arte, cultura, scienza e regimi.

L’espressione del genio umano non conosce biografie e confini. Sono tempi preoccupanti questi in cui si evocano tribunali dell’inquisizione nei confronti di uomini e donne che, a prescindere dal valore delle loro opere, dal contributo dato all’intera umanità, si vorrebbero condannare all’ostracismo per le eresie della loro biografia.
I prodotti del genio umano, se pure portano un nome e cognome, sono destinati ad essere resi impersonali dallo spazio e dal tempo che se ne impossessano per trasformarli in patrimonio universale a disposizione  di tutti.
Nella produzione del genio umano c’è il capolavoro della sorpresa, della meraviglia, del passo avanti rispetto a dove eravamo, dello sguardo che improvvisamente si accorge di non vedere e altrettanto improvvisamente, per un insight, riacquista la vista.

L’epoca dell’indottrinamento, dei Concili di Trento, delle culture di destra e di sinistra, dei regimi non dovrebbe appartenerci più, neppure sfiorarci il pensiero che l’opera del genio umano possa rientrare nelle categorie di destra e di sinistra, categorie che semmai appartengono al modo di vedere dello spettatore, che non è né artista né scienziato. Di questo spettatore dobbiamo sospettare, come dei ‘muttandari’ del Giudizio universale. L’arte e la scienza sono le vittime privilegiate di personaggi come il sapiente, a cui Brecht nel suo Galileo fa dire: “Aristotele è l’autorità riconosciuta non solo da tutta l’antica sapienza, ma anche dai grandi padri della chiesa”. È qui che nasce il cancro del rapporto tra potere e cultura, tra potere e conoscenza.

Ognuno è libero di interpretare la realtà come più gli aggrada, di accarezzare le ricette che ritiene più opportune per risolvere le contraddizioni e i conflitti del mondo. Può pure pensare che essere ‘mutandaro’ è moralmente più sano e formativo del lasciare che l’opera d’arte si esprima per quello che è, come atto creativo di libertà e di liberazione.
Ma tutto questo è ininfluente, perché la forza dell’arte e della scienza non ha confini, sopravvive e si trasforma in cultura e conoscenza per nuove sfide. È il motivo per cui possiamo ammirare tranquillamente il Giudizio Universale di Michelangelo, come le opere di De Pero, che certo non è ricordato per il suo libro A passo romano, così come il palazzo dei Congressi all’Eur.

Arte e scienza, la cultura, non hanno visioni del mondo a cui aderire, perché il loro compito, per fortuna è quello di nutrire il dubbio, di saper guardare oltre le visioni del mondo che condizionano i nostri occhiali e di offrirci lenti nuove. Poi ognuno è libero di usarle o meno, ma ormai quelle lenti sono state prodotte e nonostante le censure delle proprie visioni di destra o di sinistra, quelle lenti appartengono per sempre alla umanità e alla sua storia.
Se c’è ancora qualcuno che si dilania tra una cultura di destra e una di sinistra lasciamolo alle sue pratiche autolesioniste.
Noi crediamo nel valore dei valori, nell’etica del peso della responsabilità, dove portano a far pendere la bilancia le condotte di ciascuno di noi.

C’è una domanda che ancora è senza risposta, ed è quella da cui ha preso avvio il nostro articolo. Una domanda alla quale non si trova risposta nell’intervista che Moni Ovadia ha rilasciato al quotidiano Libero. Perché Ferrara. Perché la nostra città. In sostanza che cosa della città l’ha condotto tra noi.
Una domanda che ne suscita altre.
Il Moni Ovadia ‘intellettuale’ abiterà con noi, o sarà il ‘consulente’ pendolare pagato dall’amministrazione? Contribuirà a fare della nostra città una capitale della conoscenza che dialoga con le altre capitali? Il discorso si è concluso nel triangolo Fabbri, Sgarbi, Ovadia, o è solo l’inizio per la città di una nuova dialettica?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Cover: Moni Ovadia a Siena, aprile 2010 (Wikicommons)

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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