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L’INTERVISTA
Il centro Perez, un rifugio sull’orlo dell’abisso: “Qui si impara
ad affrontare la propria sorte”

“Questo è un luogo di esercizio quotidiano, di resilienza: un carattere del quale oggi si parla molto e che ben descrive l’atteggiamento mentale richiesto a una persona che ha subito un trauma grave e cerca di ricominciare a vivere”. A dirlo è Anna Perale, coordinatrice del centro Perez della Città del ragazzo di Ferrara. “E’ come parlare di amore sull’orlo di un abisso. L’abisso per queste persone c’è sempre, accompagna la loro esistenza. La consapevolezza che ciascuno ha della propria condizione e la sostanziale capacità di affrontare la realtà non prescinde da momenti di disperazione e dolore. Il senso di perdita è sempre in agguato. Ci si fa forza reciprocamente, si vive profondamente il senso di solidarietà. Qui si è senza maschere, affrontare la propria disabilità con serenità non è semplice: la serenità va continuamente sostenuta e sorretta”.
Per riuscirci, Anna, i suoi collaboratori Conrad Binder e Maria Grazie Aretusi, il tirocinante Marco Borgatti, la decina di volontari che dedicano una parte del loro tempo e delle loro energie al centro Perez, cercano di offrire ai 28 ospiti della struttura giornate piene e ricche di stimoli. La mattina dalle 8,30 alle 12,15 si lavora: attività di corniceria, tipografia, stampe digitali, assemblaggi manuali di varia natura su commissioni esterne, cioè lavori richiesti e pagati. Poi mansioni di orto-giardinaggio nello spazio esterno al centro, che occupa la palazzina fra l’edificio principale e la palestra della Città del ragazzo.

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Anna Perale, coordinatrice del centro Perez

“Il pomeriggio – riprende Anna, laurea in Farmacia e qualifica di educatrice professionale – alterniamo il laboratorio teatrale all’attività motoria, al ballo, ai canti corali”. Al corso di ballo può partecipare anche chi è in carrozzina o ha problemi di mobilità. Gli educatori della cooperativa Indaco sperimentano per la prima volta in Emilia Romagna tecniche di coinvolgimento che non escludono nessuno. I canti corali sono diretti da una giovane psicologa diplomata al conservatorio musicale: non hanno solo valore ludico, ma anche riabilitativo per chi soffre di afasia o disartria, cioè problemi nell’emissione e nella deglutizione causati, per esempio, dall’intubamento post coma.

Gli ospiti attuali sono tutti in età adulta, come Gianluca Melloni che ha raccontato su ferraraitalia la sua storia [leggi]. Il centro è intitolato a Francesco Perez, nobile veronese che nell’Ottocento cedette tutti i suoi beni e si mise al servizio dell’Opera fondata da don Giovanni Calabria, di cui la Città del ragazzo è parte. E’ sorto nel 1999 per fornire sostegno a persone con disabilità conseguenti a trami di varia natura: incidenti, ictus, trombosi, emorragie, ischemie…
“Nel tempo la vocazione della nostra struttura è mutata – racconta Anna Perale, in servizio dal 2006 -. All’inizio forniva essenzialmente un servizio mirato alla valutazione e al reinserimento socio-lavorativo dei traumatizzati. Poi si è progressivamente orientata alla formazione e alla riabilitazione. Comuni, Asl, Azienda ospedaliera, Opera Don Calabria sostengono questo progetto. Le leggi sull’inserimento lavorativo di persone con disabilità sono bellissime – afferma la coordinatrice – ma le aziende fanno fatica ad accettare persone con gravi inabilità. La maggiore collaborazione c’è da parte di enti pubblici, cooperative e imprese del terzo settore. Poi va fatta una considerazione: in un incidente stradale può essere coinvolto chiunque, ma i problemi vascolari normalmente colpiscono persone in età matura, dai 50 anni in su. E persone di questa età incontrano più ostacoli delle altre nel reinserimento”.
Il risultato è che il Perez si è progressivamente trasformato in un centro diurno specializzato, a sostegno di uomini e donne alle prese con una situazione della quale hanno consapevolezza. “A differenza di chi ha disabilità congenite, i nostri ospiti hanno lucida coscienza di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ “. Il demone è l’evento che ha cambiato le loro vite. “Il lutto della perdita affiora di continuo. Per chi si trova in questa condizione l’accettazione del proprio stato è faticosissima”. Lo è anche per le famiglie: alcune resistono altre si disintegrano. “I genitori restano sempre accanto ai figli, mogli o mariti non sempre ce la fanno a sostenere i congiunti”.
E nel dolore emergono le sfumature caratteriali di ciascuno. “In generale chi si sente responsabile della propria sorte, per un’imprudenza o un eccesso compiuto, si pacifica con se stesso prima degli altri. Ma chi si reputa vittima non riesce a farsi una ragione di quel che gli è capitato. Non ci si rassegna. Non si perdona. Le domanda ‘perché io’, perché proprio a me’ ricorrono quotidianamente”. Insomma, con la disabilità si convive, con l’evento che ha sconvolto la vita è più difficile. “Ogni giorno si riapre il dialogo su questo. Canto e teatro costituiscono forme espressive che ci aiutano a dare sfogo a queste angosce e a rappresentare tutti i vissuti. La cosa che più conforta è percepire che qui non si è giudicati ma sempre accolti”.
Ogni tanto ci sono momenti di tensione. “Per stemperarli un giorno, anziché incartarci nelle rimostranze, ciascuno ha scritto le cose che lo fanno stare bene. Le abbiamo raccolte in un elenco”. Fra le tante si legge: “Mi fa stare bene sentirmi nel cuore e nei pensieri degli altri”.

Riccardo Roversi, sereno
post-futurismo

Fra le nuove generazioni poetiche, storicamente parlando dal/del duemila, parallelamente a sterili imitazioni del passato sempre care ai letterati italiani, è possibile osservare almeno due direzioni innovative (a livello, ora, ovviamente succintissimo). L’una, erede del futurismo e delle avanguardie, continua a sperimentare e scoprire il nuovo, tra “poesia totale” (Adriano Spatola) e neoavanguardia (Paolo Ruffilli); l’altra pur attraversando tale tradizione del nuovo, viene anche da un altro moderno, tra simbolismo ed ermetismo, inventando la nuova bellezza con sguardi forse meno eretici ma più sereni. Fra i nuovi poeti, Riccardo Roversi opta probabilmente per quest’ultimo gioco poetico, come traspare nelle opere finora pubblicate. In “Serenezze”, “Nonostante” e “Proesie”, i versi e le parole sono combinate ed elaborate con mano leggera ma persuasiva, la poesia come Farfalla intelligente in volo libero… La poesia di Roversi nasce dal linguaggio, ma è un al di là, innesta nel simbolo le varianti e le possibilità dell’anima umana, vaghe ma al passo coi tempi, illuminate; nello stesso tempo l’autore miscela la parola nella bellezza, senza eccessi appunto linguistici, distante dall’intellettualismo di certa poesia italiana. Nell’ultimo, Roversi incontra il futurismo della parola che si abbandona alla sperimentazione, come in “Nonostante”, quando il paesaggio in primo piano evoca la “Padania” di Corrado Govoni o lo stesso Paolo Buzzi, forse il più classicheggiante dei poeti futuristi, dove Roversi in “Serenezze” e “Proesie” insiste felicemente sul verso prezioso e musicale. Tale non frequente alchimia tra sperimentazione e nuovo classicismo elettronico è poi consapevolmente emersa nelle opere successive, ovvero in “Trappola Minimale”, soprattutto con il canovaccio poetico-teatrale di “Periplo di Millennio” (Este Edition, 1999), più volte messo in scena a Ferrara e altrove con la regista parigina Alexandra Dadier: quest’ultimo percorso, appare più prossimo al Teatro d’avanguardia e alla Poesia sperimentale, tra surrealismo e teatro dell’assurdo remixati in chiave postmoderna.
Un postmoderno, peraltro già post anch’esso, poiché – per così dire – di stile europeo o persino neorinascimentale, come nell’umanesimo italiano fiorentino, come trend successivo chiarissimo anche nel Roversi critico letterario (‘segnalato’ anche nel libro manifesto “Nuova Oggettività” a cura di Sandro Giovannini), o (tra le numerose opere più recenti, tra letteratura, guide su Ferrara e monografie ecologiche) in “Canzoni Scordate” (Este Edition, 2011). Parole e segni oltre l’esperimento artistico, verso – ora – un’avanguardia virtuosa evidenziata anche da chi scrive in “Futurismo per la Nuova Umanità” (Armando editore, 2012). Recentemente, Riccardo Roversi (come si sa anche giornalista del Resto del Carlino Ferrara e editore), già noto per un antologico volume sulla parola ferrarese contemporanea (“Percorsi Letterari Ferraresi, Liberty House), ha dato alle stampe una esemplare ricognizione sulla letteratura estense dal Rinascimento a oggi: 50 letterati ferraresi, da Celio Calcagnini e Pietro Bembo a Corrado Govoni e Giorgio Bassani, etc., recuperando anche parecchie figure del passato di grande stoffa letteraria perdute o quasi nella memoria attuale. E con la casa editrice Este Edition ha curato una recente rassegna di gran spessore nazionale “Autori a Corte”, con ospiti i vari Achille Occhetto, Roberto Pazzi e Marcello Simoni. Ha collaborato e collabora con numerose riviste: tra esse Roma Futurismo Oggi e Teatro.it (Portale del Teatro Italiano), Ferraraitalia ecc.

da Roby Guerra “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition, La Carmelina ebook, 2012

Per saperne di più di Riccardo Roversi visita il suo sito [vedi] e quello di Este Edition [vedi].

“Vita agli arresti
di Aung San Suu Kyi”,
dal 18 novembre al 14 dicembre
al Teatro Rasi di Ravenna

da: Teatro delle Albe

di Marco Martinelli

ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari con Ermanna Montanari,
Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu incursione scenica Fagio
musica Luigi Ceccarelli spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde realizzazione suono Edisonstudio Roma foto di scena Enrico Fedrigoli regia Marco Martinelli produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro
in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione

Inizio spettacolo ore 21, domenica ore 15.30. Riposo il lunedì e il giovedì

“Tutto parte dalla domanda con cui si apre questa Vita: è distante la Birmania? Evidentemente no. È ‘poco lontano da qui’, come ogni luogo del pianeta. La Birmania nella nostra Vita è una maschera per parlare anche di noi. Si racconta il lontano per trovarlo sorprendentemente ‘prossimo’.
C’è qualcosa di scandaloso nella vita di Aung San Suu Kyi: la mitezza d’acciaio, la compassione, la ‘bontà’, un termine che avrebbe fatto storcere il naso a Bertolt Brecht. La nostra Vita è anche un dialogo con Brecht, con quella Anima buona del Sezuan che qualche anno fa volevamo mettere in scena. Non lo facemmo allora, e questa Vita ci ha spiegato anni dopo il perché. La ‘bontà’ intesa come la intende Aung San Suu Kyi, e come prima di lei una teoria di combattenti, da Rosa Luxemburg a Simone Weil, da Gandhi a Martin Luther King, da Jean Goss a Aldo Capitini, (più i tanti, innumerevoli ‘felici molti’ di cui ignoriamo il nome), è scandalo in quanto eresia, ovvero, etimologicamente, scelta: si sceglie di non cedere alla violenza, alla legge che domina il mondo, si sceglie di restare ‘esseri umani’: nonostante tutto.
Interrogarci sulla vita di Aung San Suu Kyi ha significato interrogare il nostro presente: cosa intendiamo per ‘bene comune’? Per ‘democrazia’? Cosa significano parole come ‘verità e giustizia’? Ha senso usare queste parole, e come? Non sono ormai usurate, sacrificate sull’altare della chiacchiera dei media? O hanno senso proprio partendo dalla volontà di un sereno, paradossale, gioioso ‘sacrificio di sé’? Di un silenzioso, non esibito eroismo del quotidiano? Di un cercare nel quotidiano ‘ciò che inferno non è’, e dargli respiro, spazio, durata?”

Marco Martinelli

L’INCHIESTA
Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico
e disintossicarsi”

Intolleranze alimentari, allergie, intossicazione spesso nemmeno riconosciute come tali, “malattie autoimmuni”… Viviamo in un ambiente fortemente inquinato, continuamente sottoposti a rischi e insidie per la nostra salute. Dalla scienza medica “ufficiale” non sempre arrivano risposte soddisfacenti. Iniziamo un viaggio nei sentieri della medicina alternativa.

“Il medico dovrebbe tornare a fare il terapeuta, senza deliri di onnipotenza”. Che a sostenerlo sia proprio un medico rende l’affermazione particolarmente significativa. “Terapia significa ‘aiutare’, aiutare il nostro organismo a ritrovare il proprio equilibrio”.
Il discorso, partito dalla medicina ‘ufficiale’ e transitato per quelle alternative, è scivolato sulla fitoterapia e sulla possibilità che i benefici che ne derivano possano talvolta essere indotti da una sorta di effetto placebo. “Poco conta – ammette il dottor Angelantonio Pedata – quel che importa è il risultato e il benessere dell’individuo”.

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Il professor Angelantonio Pedata riceve i pazienti a Ostia e a Ferrara

Il dottor Pedata ha quarant’anni di esperienza alle spalle e una specializzazione in pediatria. Da tempo segue un approccio olistico, ossia orientato alla valutazione dell’equilibrio complessivo dell’organismo. Ha un ambulatorio a Ostia e ogni 15 giorni è a Ferrara per incontrare i suoi pazienti. “La prima cosa che devo capire è perché quella persona è seduta davanti a me, qual è il sintomo, il disagio che avverte. Ma questo non basta: devo sapere chi ho dinnanzi, come è fisiologicamente: come mangia, come dorme, come va di corpo, come sono le mestruazioni, che cosa c’è nella sua storia medica (che cosa t’abbiamo fatto noi medici! – scandisce con amabile autoironia – T’abbiamo tolto, tonsille, appendice, imbottito d’antibiotici…)”.
Insomma, non si parla della ‘malattia’ ma dell’equilibrio di un individuo. “Per comprendere la patologia devo inquadrare il soggetto, le sue componenti mentali, emozionali, caratteriali…”.
L’approccio è sostanzialmente differente da quello cui siamo ormai abituati. La sensazione è chi il dottor Pedata applichi i fondamenti della cura così come li concepisce il filosofo Paul Ricoeur, nel senso di reale presa in carico, di solidale alleanza medico-paziente per il ripristino delle condizioni di benessere. Anche nella diagnostica non segue i percorsi convenzionali. “Dopo un approfondita indagine sulla persona, mi avvalgo delle tecniche della biorisonanza e della bioimpedenza, verificando la risposta dell’organismo”. Alla base di questo metodo c’è l’idea che la salute è il risultato di un complessivo equilibrio energetico.
Un comune disturbo viene analizzato non solo comparando i valori rilevati con quelli standard, ma considerando stili e abitudini di vita del paziente poi applicando in fase terapeutica i principi della bioenergia. “Questo tipo di approccio – sostiene Pedata – è molto diffuso in Paesi come Austria e Germania, mentre da noi è demonizzato e ridicolizzato. L’Ordine dei medici a riguardo non si pronuncia…”.

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Angelantonio Pedata ha un approccio di tipo olistico

Cerchiamo allora di capire meglio questo sistema di cura basato sul riequilibrio energetico. “Il punto di partenza – spiega il medico – è la valutazione dei flussi negativi che l’ambiente esercita sull’essere umano. Oggi si parla molto di malattie ‘autoimmuni’. Il problema è che il sistema-uomo è andato in tilt a seguito delle continue aggressioni che subisce a causa dell’inquinamento, di cibi adulterati, dei farmaci stessi… Così per difesa spara in tutte le direzioni, cannoneggia le formiche!”.
Per tutelarsi dai rischi occorre agire preventivamente “curando le persone quando ancora non presentano sintomi di cedimento massivo – spiega Pedata – Bisogna essere attenti ai segnali, ai primi disagi e contrastare il malessere con terapie chelanti”, ossia con sistemi orientati a eliminare le tossine che si accumulano nell’organismo e nel sangue.
Il sistema è quello del drenaggio, della disintossicazione. Da cosa? “Dai metalli che assorbiamo: il ferro, il piombo, il mercurio, l’alluminio, il cadmio. Stanno ovunque: nei cibi, nell’acqua, nelle sigarette, nell’aria, nelle scatole in cui si conservano gli alimenti, nei manufatti con i quali siamo costantemente in contatto… E sono alla base di tante comuni patologie: cefalee, insonnia, depressione, ansia, irritabilità, coliti, ma anche allergie, perdite di memoria, osteoporosi, alzheimer”.
Negli Stati Uniti questo tipo di intervento è molto praticato ormai da tempo. Sono i rimedi agli effetti della moderna civiltà. Basti pensare che la quantità di piombo nel nostro organismo nel corso degli ultimi cento anni è aumentata di 500 volte…
Il dottor Pedata applica con successo i suoi metodi. Da molti anni ha virato su questo versante rimettendo in discussione l’approccio tradizionale che spesso si rivela perdente. “A Ostia sono attivo da sempre, a Ferrara da un anno svolgo il mio lavoro collaborando con il dottor Marco Morelli, un collega che si occupa di equilibrio neuro-motorio, specializzato in patologie rachidee e problemi posturali. E” lui che mi indirizza la maggior parte dei pazienti. Inizio ogni processo di disintossicazione con l’impiego di farmaci omeopatici e lo porto avanti fino al ristabilimento dei normali equilibri bioenergetici della persona in cura”.

1. CONTINUA

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’INCHIESTA
(Salute a rischio. Morelli: il benessere è nell’equilibrio delle energie vitali)

REPORTAGE
Scene dal Jazz Club: musica
oggi e domani

Un  cartellone di appuntamenti musicali di grande rilievo quello in programma al Jazz club Ferrara. Questa sera – nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167 – l’appuntamento con The Claudia quintet: Chris Speed clarinetto e sax tenore, Matt Moran vibrafono, Red Wierenga fisarmonica, Robert Landfermann contrabbasso e John Hollenbeck batteria. Domani, invece il grande lirismo del pianista inglese John Taylor, tra i massimi esponenti della musica contemporanea.

Entrambi questi ultimi appuntamenti sono frutto della collaborazione tra Jazz club Ferrara e Bologna jazz festival. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento.

Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di lunedì scorso con i Sonic Boom, Uri Caine al piano e Han Bennink alla batteria. Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Uri Caine al piano (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Han Bennink alla batteria (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Uri Caine al piano (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Uri Caine e Han Bennink (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Uri Caine e Han Bennink (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Han Bennink alla batteria (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Han Bennink alla batteria (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Han Bennink alla batteria (foto di STEFANO PAVANI)
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Sonic Boom lunedì scorso al Jazz club Ferrara con Uri Caine e Han Bennink (foto di STEFANO PAVANI)

Aristotele e il sesso

Da BERLINO – Non dovrebbe stupire se si riempiono i locali per una conferenza di stampo accademico, tenuta da rinomato professore americano della prestigiosa università del Michigan a Ann Arbor nonché attivista gay. Se non vogliamo indulgere in lazzi di tardo-berlusconismo (in cui evidentemente continuiamo a vivere come dimostrano recenti discutibilissimi servizi fotografici su stampa prezzolata), dovremmo dire che la sessualità ovviamente è una componente fondamentale della natura umana, sia essa negata con ascetismo, esagerata con la pornografia, normalizzata con i diritti umani oppure vivisezionata con gli studi accademici.

È da questo punto che è iniziata la brillante conferenza di David Halperin, tenuta abilmente al berlinese Institute for Cultural Inquiry tra istrionismo, ironia, filosofia greca (in greco) e post-strutturalismo.

Dopo un inizio brillante, Halperin passa a trattare un passo di Analitici Priori (Anal. 68a25-27) sulla teoria del male preferibile per cui di fronte ad un bene maggiore ed un male maggiore è (eticamente) preferibile un bene minore ed un male minore. È curioso però che Aristotele spieghi questo sillogismo applicandolo al caso dei rapporti sessuali ed erotici (Anal. 68a39-b2) per cui si giunge alla conclusione che è preferibile avere un partner che è innamorato ma non vuole avere rapporti sessuali piuttosto che un partner che non è innamorato ma preferisce avere rapporti sessuali. Per Aristotele la verità di questo sillogismo risiede appunto nella differenza tra amore e attrazione sessuale con l’implicito presupposto che l’amore sia fondamentalmente migliore del sesso: “amore quindi è preferibile al rapporto sessuale secondo il desiderio erotico” (Anal. 68b2-6).

La questione quindi è fino a che punto amore e sesso si possono sovrapporre? Oppure, per dirla altrimenti, a cosa serve il sesso?

Il rigore analitico di Aristotele non sembra lasciare scampo: qualsiasi sia lo scopo, questo è comunque sottoposto all’amore persino a costo della sua sparizione.

Osservando però il sillogismo più attentamente nel testo greco Halperin è in grado di dimostrare due cose: innanzitutto che il rapporto d’amore / sessuale qui indicato non è eterosessuale bensì omosessuale, più specificatamente “pederastico” secondo l’uso greco, cioè un “rapporto” tra un maestro (più anziano) e pupillo (più giovane); questa asimmetria quindi si riverbera quindi sulla vera natura del sillogismo che stabilisce un ruolo attivo di dare amore e il ruolo passivo di ricevere in cambio non amore bensì benevolenza.

Dalla logica piuttosto complessa del male minore si deduce quindi che Aristotele presuppone una connessione finalistica tra sesso e amore ovvero che il sesso ha come finalità intrinseca l’amore e quindi come tale può persino sparire quando il suo scopo è terminato.

L’argomento che Halperin muove contro questo edificante sillogismo aristotelico è forse crudo ma è stato posto con notevole eleganza, non priva però di una certa triste ironia: un gay può frequentare una sauna gay per avere contatti sessuali da parte di persone che senza alcuna ombra di dubbio non sono interessati né a lui in quanto persona bensì a lui i quanto “corpo,” corpo desiderante (oppure come si usa dire nella più bieca pornografia di basso livello “meathole”). Si tratta di una sorta di scambio crudele ma giusto, si sembrerebbe dire, per cui essere desiderati esclusivamente per il proprio corpo e nient’altro è irrefutabilmente vera proprio perché accade in questi termini. Ma non è questa però la confutazione più veritiera dell’edificante sillogismo aristotelico? Ovvero che il sesso abbia senso quando non ha senso (oltre che se stesso)?

È nello scontro tra queste due probabilmente estreme posizioni che si profila ma ahimè si interrompe l’interessante disquisizione suggerendo che sarebbe necessaria una combinazione tra sesso (qui declinato in termini crudelmente omosessuali) e un amore-erotismo (declinato in termini tipicamente romantici) una sorta di “queer sexuality” che implichi una complessa dialettica (addirittura metafisica) l’una con l’altra.

LA SEGNALAZIONE
Torneranno i prati.
Rimanga sempre la memoria

Era gremita la sala del cinema Apollo per la proiezione in anteprima del nuovo film di Ermanno Olmi “Torneranno i prati”, anticipata in videoconferenza da alcune interviste agli attori da parte del critico cinematografico Gianni Canova e da altre clip con interviste al regista stesso, impossibilitato ad essere presente in sala a causa di una lieve malattia che, da qualche giorno, lo costringe in ospedale. Per la stessa ragione, Olmi non ha potuto presenziare martedì alla prima assoluta della sua nuova fatica, alla presenza del ministro Franceschini e del presidente Napolitano.
Sì perché c’era molta attesa per “Torneranno i prati”, film girato sugli altopiani di Asiago interamente sommersi di neve, mettendo in scena una notte dei soldati italiani al fronte e in trincea, durante gli ultimi durissimi combattimenti della prima guerra mondiale nel 1917. Un film ambizioso ma allo stesso tempo essenziale, girato in condizioni reali al limite dell’estremo e ultimato in tempo per le ricorrenze del centenario del primo conflitto. Una trama non costruita, senza una narrativa ben specificata, una storia volta puramente a descrivere, mostrare, una vera e propria “esperienza della memoria” come intende specificare Olmi nella sua intervista, “un modo per ricordare coloro che non hanno più avuto memoria se non tramite le fanfare; non serve ricordare tutti i giorni, basta farlo in maniera corretta”.
Ed ecco che l’intento è pienamente riuscito, la pellicola emoziona e immerge lo spettatore all’interno della trincea rendendolo partecipe di tutte le atrocità che i nostri soldati vissero all’interno di quei luoghi di tortura, un’esperienza sicuramente inedita e particolare, nuova per quanto riguarda la filmografia bellica. Negli occhi degli ottimi protagonisti (tra i quali Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria), spesso rivolti in camera, si legge tutta la disperazione e la rassegnazione di coloro che erano uomini prima che soldati, inconsapevoli prima di partire per il fronte di quello che avrebbero dovuto passare e della snervante e terrorizzante attesa quale era diventata quella guerra, per la prima volta statica ed immobile, priva di assalti e attacchi di massa. La profonda e interminabile aria di quiete e pace che solo nelle nevose notti in quota si può assaporare, ha tutt’altro sapore quando anche il singolo movimento di una volpe, il fruscio di un larice, la luce di un razzo segnaletico, diventano presagi per un bombardamento, ancora una volta, nuovamente, il timore di perdere la vita.
Tutto ciò Ermanno Olmi riesce a metterlo ben in risalto nel suo lavoro, diretto con la solita maestria anche all’età di ottantatré anni e supportato egregiamente dal figlio Fabio, abile direttore della fotografia e complice sulla scelta della decolorazione della pellicola: quello che apparentemente sembra un bianco e nero è in realtà gioco di luce, ogni particolare significativo viene esaltato e il colore potenziato, in modo tale da far cadere l’occhio di chi guarda esattamente dove dovrebbe cadere nella mente del regista. Anche la scelta dei brani musicali, diretti da Paolo Fresu, è perfetta: pochi ma significativi, poiché è il silenzio che regna e “se il cuore non è felice, non si può fare musica”.
Un film quindi assolutamente ben riuscito e da diffondere per la sua capacità di narrare non una storia ma, al contrario, le vite dei soldati al fronte, il nome dei quali nel film mai viene pronunciato dagli stessi e mai menzionato dagli altri: si diventava numeri, semplici numeri che potevano solamente trasformarsi in gradi militari e in qualche onorificenza. Olmi anche in questo caso ci ricorda l’indegno destino verso il quale milioni di uomini, giorno dopo giorno con sempre più consapevolezza, andavano in contro, ammonendo tutti che “in guerra non esistevano “omini” ma, al contrario, identità che oggi dobbiamo essere in grado di tenere in considerazione. Gli “omini” al massimo sono quelli che comandano”. Il ricordo, quindi, imprescindibile nelle nostre vite e doveroso per rispettare chi ha dato la vita con consapevolezza per donarci quello che oggi abbiamo, venendo inesorabilmente dimenticato sotto la neve in inverno, disteso in un prato in primavera. Torneranno (forse) i prati. Rimanga sempre la memoria.

La vita, innocente e accattivante come un cioccolatino

Fine anni Cinquanta, il tranquillo paese di Lansquenet-sous-Tannes, nella tenuemente colorata campagna francese. Qui la parola d’ordine è, appunto, tranquillità, calma, il volersene stare lontani da problemi, complicazioni e storie strane. I cambiamenti non sono ben visti, dalla bigotta e perbenista comunità del villaggio, sulla quale vigila, attento, il morigerato, serio e stimato sindaco Conte de Reynau, impegnato a salvare le apparenze del suo tentennante matrimonio e le cui parole d’ordine sono sempre e solo tre: duro lavoro, moderazione e autodisciplina.

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Una scena del film

Ma il vento del nord ha ben altri piani, lui è irrequieto, agile, curioso, spensierato e fresco e, un bel giorno, decide di portare con sé la bella nomade e stravagante Vianne Rocher (Juliette Binoche), che arriva a Lansquenet con la figlia Anouk. Due spiriti leggeri e liberi, proprio come quel vento che le accompagna. Ecco allora la sorpresa, quel cambiamento che fa paura a tutti, quella novità che spaventa e che fa parlare: Vianne apre un grazioso ed elegante negozio di cioccolato, la grande tentazione, con vetrine accattivanti e tentatrici che si affacciano proprio di fronte alla chiesa. Gli equilibri della comunità sono sconvolti, e non solo da questa iniziativa, ma anche dall’arrivo di un gruppo di nomadi, alla cui guida si trova l’affascinante Roux (Johnny Depp). Un mix esplosivo.

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La locandina

Tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice britannica Joanne Harris, Chocolat, questa bella favola, dove si fantastica di libertà, di lotta a tutto ciò che è convenzionale, offre la possibilità alla cioccolata di scatenare una vera e propria guerra. Strano ma vero.
L’antitesi fra il Bene e il Male è la storia di sempre: novità contro tradizione, desiderio contro astinenza, istinto personale contro buon senso comune, amore contro odio, tolleranza contro intolleranza, chiusura contro apertura, gentilezza contro indifferenza, dolce contro amaro. Vianne rappresenta la Vita in tutta la sua forza e i suoi istinti primordiali: ha una figlia ma non è mai stata sposata, non frequenta affatto la chiesa, offre ai penitenti cioccolata durante la Quaresima e ospitalità agli zingari di passaggio, è bella e passionale.

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La nonna e il nipote

Lo scontro tra i sostenitori del buon costume e questa “strega cattiva” fa scoppiare le antiche tensioni da sempre represse, trasformandosi in una battaglia senza esclusione di colpi che spaccherà in due Lansquenet. Ma la giovane donna è buona e piena di amore per il prossimo: accoglie Josephine, umiliata e picchiata dal marito, fa riavvicinare la vecchia Armande (una fantastica Judi Dench) al suo nipotino vittima delle restrizioni della madre e si mostra amichevole nei confronti della comunità nomade, la cui permanenza è boicottata dai pregiudizi di tutti gli altri. L’amore è l’ingrediente fondamentale delle fiabe, e in questa è raccontato davvero in ogni forma: di una madre per la figlia, di una nonna per il nipote, di due anziani che riscoprono l’emozione perduta. Da parte sua, l’anticonformista Vianne non potrà che legarsi a un’anima libera e senza radici come la sua, quella di Rioux, zingaro chitarrista dallo sguardo magnetico e col fascino da gentiluomo.
Con l’apertura della cioccolateria un vento di cambiamento comincia a soffiare in città, risvegliando le emozioni dei cittadini e degli spettatori. Vianne riesce a cogliere i desideri delle persone e a indirizzarle sul sentiero che hanno smarrito, senza forzarle, ma accompagnandole, con la capacità di saper ascoltare e capire chi ci circonda.

Al centro di tutto, dicevamo, il cioccolato, in tutte le sue belle, molteplici e buone forme, che ci ricorda i piaceri della vita, quelli così piccoli e dolci che ci rendono umani. Perché lasciarsi andare ogni tanto fa bene, il potere liberatorio del piacere e dell’appagamento sono unici, senza inutili sensi di colpa. Allora lasciatevi andare un po’ pure voi, anche con un solo cioccolatino, e la vita sarà sicuramente più bella (e dolce….).

Chocolat, di Lasse Hallström, con Juliette Binoche, Judi Dench, Johnny Depp, Alfred Molina, Carrie-Anne Moss, Lena Olin, Victoire Thivisol, Hugh O’Conor, Peter Stormare, USA, 2000, 121 mn.

LA STORIA
Pochi minuti e la memoria
si cancella. L’uomo che non ricorda il presente

La persona che scrive questa testimonianza soffre di una disabilità gravemente invalidante: la perdita di memoria a breve termine. Ha padronanza di sé e si comporta in maniera normale. E’ sposato, padre di due figli, ha una vita sociale. Rammenta il passato, ma i suoi ricordi presenti durano pochi minuti. Fatica ad apprendere informazioni nuove e deve sistematicamente usare agenda e taccuino per scrivere tutto quel che fa e le procedure che deve osservare. Può capitargli, per esempio, di entrare in un ufficio, svolgere un’operazione e all’uscita avere dimenticato ciò che ha appena fatto. Per evitare di ripetere all’infinito le medesime azioni deve tener nota di ogni cosa. Ad assisterlo è il personale del centro Perez della Città del Ragazzo.
La sua toccante testimonianza è anche un grande inno alla vita.

Mai dire: “E’ finita”
di Gianluca Melloni
Dodici anni fa ero un brillante ingegnere meccanico in carriera: a 40 anni, dopo solo 14 anni di esperienza lavorativa, ero direttore generale di una azienda con 30 dipendenti che operava nel settore della produzione di autovetture. Si progettavano e si producevano impianti per iniezione gas metano e gas propano liquido per veicoli con motori a combustione interna. Quando mi fu proposto di ricoprire la carica di direttore generale, mi sembrò di vivere un sogno. Prima di laurearmi in ingegneria meccanica, quando mi domandavano che cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo:
il direttore generale di un’azienda che lavora nel settore dell’auto (di cui sono sempre stato un grande appassionato). Molti mi guardavano stupiti di tanta determinazione e chiarezza nella visione della vita lavorativa, altri sorridevano. Quindi si era concretizzato il sogno della mia vita.
Ma il lavoro era molto faticoso, 10 – 12 ore al giorno, 80 – 100 mila chilometri all’anno percorrendo, anche due volte la settimana, il tratto di autostrada che da Bologna porta a Torino, sommando ad essi 10 – 15 viaggi in aereo per raggiungere Wolfsburg nel nord della Germania, sede di Volkswagen, piuttosto che Londra, per recarmi negli stabilimenti della Rover, oppure Parigi per contattare Renault, per promuovere la nostra azienda con lo scopo di acquisire nuovi ordini.
Molto spesso capitava che alla sera, quando ero a letto, prima di addormentarmi pensavo che tutto fosse fantastico. Una moglie comprensiva con un carattere forte ma, al tempo stesso, dolce e amorevole, ottima educatrice dei nostri due figli, capace di risolvere in modo efficace la gestione della casa e tutti i problemi tipici di ogni famiglia, mi aiutava tantissimo. Con Lei mi sentivo sicuro e affrontavo le difficoltà del lavoro, i lunghi viaggi e le fatiche delle 12 ore in ufficio, sereno e tranquillo.

Ma un brutto giorno il motore si è… fuso. Era un sabato d’ estate del 2003, parlavo con mia moglie e, improvvisamente caddi a terra privo di sensi. Corsa in ospedale, Tac e diagnosi veloce: “cranio faringioma“ da asportare in pochissimo tempo. Io non sapevo neanche che cosa fosse, ma tre giorni dopo la mia perdita di sensi ero in sala operatoria. L’operazione durò 12 ore e vi risparmio la descrizione, perché ancora oggi mi viene la pelle d’ oca a pensarci. Dopo l’operazione un lungo periodo di riabilitazione, per riacquistare una discreta mobilità e… la perdita del posto di lavoro.
Dopo otto mesi d’ ospedale mi venne proposto di fare un’ esperienza in un centro di riabilitazione socio-occupazionale e formazione per attività lavorative: la “Città del Ragazzo”, distante tre chilometri dalla città. Rimasi stupito, perché la conoscevo soltanto come una scuola professionale per l’avviamento al lavoro di ragazzi con un trascorso difficile e come il luogo dove ci sono tre campi di calcio, sui quali giocai quando avevo 12 – 13 anni. Accettai!

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La memoria a breve termine di Gianluca Melloni si ‘resetta’ continuamente. I ricordi del presente svaniscono in pochi minuti. Per questo deve scrivere tutto ciò che fa

L’esperienza vissuta è e sarà indimenticabile. Personale qualificato, psicologi, ingegneri e tecnici specializzati gestiscono il centro di formazione in modo molto professionale per formare personale qualificato da impiegare nell’industria locale e riqualificare professionisti o lavoratori, obbligati a cambiare vita a causa di incidenti con gravi disabilità acquisite (come nel mio caso!).
Oggi posso dire che, dopo le esperienza vissute, arcispedale Sant’Anna, medicina riabilitativa San Giorgio e Città del Ragazzo, sono tornato ad essere sufficientemente autonomo nelle attività quotidiane in famiglia e in quelle lavorative proposte, pur riconoscendo che, in alcune occasioni, devo essere ancora aiutato. La memoria infatti non è, e non sarà mai più, quella di una volta. Forse non sarò più in grado di lavorare 12-13 ore al giorno, di guidare 100-120mila chilometri in un solo anno, ma potrò insegnare ai miei figli che la vita non è soltanto lavoro e carriera ma anche famiglia e amici e che si deve sempre avere fiducia nelle persone che ti aiutano a ritrovare la strada, anche quando attorno a te c’è il buio.

Sono molto riconoscente alle persone che lavorano al centro Perez della Città del Ragazzo, come a tutto il personale che lavora nell’istituto.
Diverse sono le attività che mi sono state proposte e che sono offerte alle persone che, come me, hanno acquisito una disabilità in età adulta: recitazione nel laboratorio teatrale; palestra con attività motoria adattata due volte la settimana; laboratorio di canto corale; ballo adattato con istruttori qualificati che mi stanno insegnando a ballare di nuovo il “ tango“ e il ”valzer”; corniceria nella quale svolgo quotidianamente la mia attività principale; presenza una volta alla settimana al museo Ugo Marano, dove sono esposte le opere più importanti dello scultore, con l’obiettivo di portare in quel luogo i manufatti delle attività produttive svolte da persone disabili e svantaggiate presso la Città del Ragazzo, per farli conoscere ad un pubblico più vasto.

Sorrido quando ripenso alla risposta che un tempo davo alla domanda: Che cosa c’è alla Città del Ragazzo? Ed io rispondevo: tre campi di calcio. Ora, mio malgrado ma anche per mia fortuna, conosco molto bene il mondo che si apre alla fine di quel lungo viale che da via Comacchio porta all’ ingresso principale della Città del Ragazzo. Sì, in questo mondo super competitivo, c’è un luogo accogliente e ci sono persone che operano soprattutto per aiutare gli altri.

L’OPINIONE
Serve un tavolo di confronto
sulle politiche culturali

Dopo aver letto l’importante analisi che Ranieri Varese compie sulla richiesta approvata in Consiglio comunale di rendere Ferrara polo museale regionale e le sue lucide considerazioni che mettono in evidenza l’impossibilità di procedere su quella strada, vista la mancanza di un assetto legislativo specifico, leggo sui giornali e vedo con stupore sulla tv locale l’indignata e stizzita reazione della dottoressa Luisa Pacelli, direttore di Ferrara Arte e dei Musei civici d’arte moderna che invita il professor Varese a confrontarsi sui risultati da lei ottenuti con le mostre organizzate da Ferrara Arte. Non mi risulta dalla lettura del testo che Varese abbia mai “bocciato” le mostre dei Diamanti, ma ha solo messo in rilievo ed è acclarata la non interazione tra musei e mostre. Un discorso assai complesso che le più importanti Associazioni culturali hanno tentato di instaurare ma che non ha avuto seguito. Mi sembra che questa precisazione sia necessaria, in quanto è indubitabile che le decisioni sulle mostre e sulle proposte sono fatte in assoluta autonomia dalle Amministrazioni e dalla Fondazione Ferrara Arte, senza richiedere alcuna possibilità di confronto con le Associazioni o con coloro che sentono il problema culturale fondamentale per lo sviluppo della città anche visto, ma non prevalentemente, come risorsa turistica. Varese ha puntualizzato il suo intervento non da storico dell’arte ma da competente cittadino privato. Tuttavia non è detto che non si possa e non si debba avanzare qualche riserva sulla politica culturale della città. E in questo caso parlo anch’io come privato cittadino.

Le Associazioni culturali hanno richiesto da anni un tavolo di confronto ma questo non è mai stato instaurato. Abbiamo chiesto di essere tenuti al corrente delle decisioni, avendone in qualche modo la competenza: vedi il tentativo di proseguire sulla linea percorsa con il convegno Musei a Ferrara 2011 che non è stato mai preso in considerazione. La risposta è stata sempre e comunque negativa. Penso pure che le eccellenze e i valori che Ferrara ha saputo esprimere non siano adeguatamente coinvolte nella politica culturale della Amministrazione ferrarese. Ad esempio, ho saputo che l’attesa e meritoria mostra prevista nel 2016 sulla prima edizione dell’Orlando Furioso e il suo riflesso nelle arti non vede nel comitato scientifico il curatore di quella preziosa edizione (la prima dopo quella seguita personalmente dall’Ariosto stesso) il professor Marco Dorigatti dell’Università di Oxford che ha lavorato per e nell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara che si è fatto carico della splendida edizione presso la casa editrice Olschki.

Sia chiaro non è necessario rendere conto di scelte che molto giustamente seguono un iter scientifico già impostato e che dà buoni frutti, ma non ci si lamenti poi se qualche obiezione si può e si deve avanzare. Ancora una volta mi pare evidente che il concetto di “ferraresità” venga usato in modo non pertinente.

Grazie comunque a Ranieri Varese per la lucidità con cui ha saputo porre in evidenza un problema non certamente secondario, se ancora Ferrara si vuole fregiare dell’ambiziosa definizione di “città d’arte e di cultura”.

La galleria degli errori: per l’Italia mozione di sgomento

Diego Bianchi della trasmissione “Gazebo” di Rai Tre, ha compiuto un piccolo capolavoro con la puntata andata in onda domenica 2 novembre. Una lezione d’informazione. E pensare che è bastato accendere la telecamera sulla manifestazione a Roma, il 29 ottobre, degli operai delle acciaierie di Terni, preoccupati per il loro posto di lavoro e per il futuro delle loro famiglie. Con tanti saluti ai tanti (troppi) salotti televisivi che, ormai, hanno stufato anche Maria vergine.
La telecamera di Bianchi ha filmato un’autentica galleria degli ‘erori’, detto alla romanesca.
Primo erore.
I lavoratori inscenano la loro manifestazione sotto le finestre dell’ambasciata tedesca nella capitale, in via San Martino della Battaglia. Nome che si rivelerà come un triste presagio per quello che è successo poi, purtroppo.
Il luogo è stato scelto perché le acciaierie appartengono alla teutonica ThyssenKrupp.
Finalmente, dopo cori e fischi, le porte dell’ambasciata si aprono e una delegazione di metalmeccanici viene ricevuta.
Il risultato del conciliabolo è un comunicato stilato da un funzionario uber alles, affetto da imperdonabile stipsi del tipo: In data odierna (un bell’incipit burocratico non si nega mai a nessuno) una delegazione di lavoratori delle acciaierie di Terni è stata ricevuta nella sede diplomatica della Repubblica federale tedesca in Italia…
Non ci voleva un mago per capire che un testo del genere avrebbe fatto spazientire anche il Dalai Lama. Se solo si fosse aggiunto, metti, che l’ambasciatore si sarebbe attivato in tutti i modi per rispondere alle preoccupazioni dei lavoratori, non avrebbe richiesto una fornitura straordinaria d’inchiostro. Ma dalla diplomazia nibelunga non è uscita una parola in più.
Così, invece di concludersi lì, la manifestazione decide di proseguire sotto le finestre del ministero delle attività produttive per avere qualche risposta meno offensiva.
Il problema è che nessuno che guida il corteo sa come arrivarci.
E siamo al secondo ‘erore’ fatale.
Le forze di polizia schierate e fino a quel momento in pratica inoperose, perdono il controllo della situazione. Anziché interloquire, per esempio, con il leader Fiom, Maurizio Landini, presente alla manifestazione quasi dall’inizio, per chiedere il tempo necessario per organizzare le cose e poi, chessò, scortare il corteo per le strade fino al ministero, vanno in confusione. Le immagini di Gazebo mostrano un paio di dirigenti di polizia che non sanno più cosa fare e a un certo punto parte l’ordine di “caricare”. Diego Bianchi, a scanso di equivoci, trasmette almeno un paio di volte l’ordine. Si scatena il putiferio e iniziano a picchiare i manganelli, con i risultati finiti su tutti i Tg.
Il volto del dirigente di polizia da cui è partito l’ordine è sembrato l’immagine plastica di un Paese nel quale contano più le conoscenze della conoscenza; nel quale merito e capacità rischiano di trovarsi relegati fra manganelli e scudi, anziché con la trasmittente in mano, sempre rassegnati ad eseguire in silenzio gli ordini surreali dei figli di qualcuno.
La fine dell’esemplare puntata è affidata alle parole di Marco Damilano, giornalista dell’Espresso e ospite fisso della trasmissione di Rai Tre. Dopo avere definito giustamente le riprese “Un documento eccezionale”, ha riportato le dichiarazioni testuali rese alla Camera il giorno dopo, il 30 ottobre, dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, su quanto è avvenuto e cioè il terzo erore clamoroso della vicenda.
Parole che fanno letteralmente a pugni con le immagini andate in onda e viste da chiunque.
Fa pensare se un ministro non riesce nemmeno ad ottenere dalla propria struttura l’esatta ricostruzione dei fatti, smentita platealmente dalle immagini di una semplice telecamera.
Hanno ragione Dose e Presta della trasmissione radiofonica “Il ruggito del coniglio”, quando ironizzano sul fatto che al ministro senza il quid, più che una mozione di sfiducia ne andrebbe mossa una di sgomento.
Ultima considerazione.
Tanto per dirne una, diventa persino comprensibile se il commissario europeo per la Crescita e gli investimenti, Jyrki Katainen, decide di fare il pelo e contropelo alla manovra di stabilità del governo italiano, quando all’estero vedono un ex presidente del Consiglio condannato a far passare il tempo agli anziani in una casa di riposo; un presidente della Repubblica che deve rispondere all’avvocato difensore del capo dei corleonesi sulla trattativa stato-mafia; e quando una semplice e pacifica manifestazione di lavoratori, giustamente preoccupati per il loro futuro, viene gestita con uno stile che farebbe rabbrividire persino l’estensore del Manuale delle giovani marmotte.

Piadina, cappelletti e passatelli, tris vincente della cucina romagnola

Pellegrino Artusi (1820-1911), nativo di Forlimpopoli, è stato il più famoso gastronomo romagnolo, la sua opera ha attinto in gran parte dalle tradizioni della cucina della sua terra.
Il manuale gastronomico di Artusi intitolato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, dopo un iniziale insuccesso, nel 1891 fece raggiungere al suo autore la popolarità. Il volume è in stampa da oltre cent’anni, tradotto in diverse lingue e, di fatto, è stato inserito nel canone della letteratura italiana. Dal 1997 la città di Forlimpopoli, in onore del suo famoso concittadino, attribuisce, nell’ambito della festa artusiana, il premio che porta il suo nome.

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La festa artusiana a Forlimpopoli

Nel 1913 Antonio Sassi realizzò un primo censimento della cucina “del popolo”, ritenuta più rispettosa della tradizione romagnola, elencando poche voci: la piadina, i cappelletti (in brodo o asciutti), i passatelli (in brodo o asciutti) e il pollo arrosto. La piadina, che alcuni documenti fanno risalire al 1371 e di cui in Romagna esistono numerose varianti secondo le zone, è una focaccia non lievitata che si prepara con farina di frumento, strutto o olio di oliva, sale e acqua, cotta su un piatto di terracotta chiamato “testo”. La piadina (oppure la pizza fritta) può essere abbinata a salumi, erbe e formaggi freschi, tra cui lo squacquerone, solitamente accompagnato dai fichi caramellati.

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Tagliatelle ai funghi

Prendendo come riferimento la letteratura popolare romagnola è possibile individuare altri primi piatti: i manfrigoli, pasta in brodo preparata nelle cene funebri (al ritorno dai funerali), gli gnocchi di patata, i tortelloni e le lasagne al forno. Per quanto riguarda i secondi non manca la carne lessa (indispensabile per la preparazione del brodo), la carne ai ferri (pancetta, castrato, salsiccia, braciola di maiale, costolette di agnello); tra i salumi la salsiccia, il salame, il prosciutto e la coppa. L’elenco dei dolci comprende, tra gli altri, la ciambella, i sabadoni (tortelli ripieni di castagne cotte e marmellata di mele, pere cotogne o fichi) e la saba, uno sciroppo prodotto con la riduzione a fuoco lento del mosto d’uva bianca o rossa, usato per bagnare i sabadoni.
L’identità della cucina romagnola nasce dalla cultura popolare e contadina, che si esprime soprattutto nelle minestre, la cui sfoglia deve essere rigorosamente “fatta in casa” con farina, uova e senz’acqua. Oltre alle minestre già citate, dalla sfoglia (tirata a mattarello) si ricavano: tagliatelle, tagliolini, quadrettini, maltagliati, strichetti (farfalline) e garganelli. Sempre con la sfoglia, ma senza uova sono fatti gli strozzapreti.

Il vertice della cucina marinara è rappresentato dal “brodetto”, che in Romagna si esige robusto e casalingo, denso di conserva di pomodoro, di aceto e di pepe nero; le capitali del brodetto sono Cervia, Cesenatico e Cattolica. Altrettanto deciso è il sapore del pesce in graticola (la rustìda), infilzato negli spiedini e cosparso con una panatura all’aglio e al prezzemolo. Per meglio degustare queste specialità non possono mancare i vini romagnoli, quelli più noti sono il Sangiovese (rosso) e i bianchi Trebbiano e Albana di Romagna.

L’INTERVISTA
Alessio Boni: “Il dubbio è l’unica certezza dell’uomo”

Quella con Alessio Boni è iniziata come conversazione su “Il visitatore”, il testo di Éric-Emmanuel Schmitt che da oggi a domenica, insieme ad Alessandro Haber, porterà al teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara con la regia di Valerio Binasco. Il drammaturgo francese immagina che nella Vienna del 1938, mentre il padre della psicanalisi sta preparando la sua fuga dall’Austria dell’Anschluss e già presagisce la fine a causa del cancro alla gola che ormai non gli dà pace, Freud riceva la visita di un misterioso individuo con il quale inizia una sorta di duello verbale sui grandi temi dell’Umanità. È proprio Boni a impersonare questo enigmatico personaggio, che per tutta la durata dello spettacolo insinuerà in Haber-Freud e nel pubblico il dubbio sulla sua vera identità: è quel Dio del quale il grande scienziato ha sempre negato l’esistenza o è un pazzo che si crede Dio?
Presto però la nostra è diventata una chiacchierata sul dubbio, sul mistero, sull’etica e la morale, sulla società e sulla contemporaneità in cui non c’è più spazio per la persona e per le diverse dimensioni che racchiude.

Questo testo affronta grandi temi, si potrebbe dire le grandi domande che l’umanità si pone da sempre, però lo fa con grande semplicità, senza altisonanti discorsi filosofici, persino con un pizzico di humor…
Credo sia proprio la forza de “Il Visitatore” di Schmitt e in fondo del teatro, che dalle sue origini cerca di avvicinare la gente, anche quella non ferrata su un determinato settore, prendendo degli spunti, gli aspetti più importanti dell’argomento che vuole trattare, e portandoli in scena, con drammaticità o ilarità, facendo interagire personaggi. In questo caso attraverso l’escamotage di un dialogo tra Freud, il massimo degli atei, e Dio, ovviamente il massimo della fede, ci si porta a casa un sunto dell’esistenza dell’essere umano, poi spetta allo spettatore approfondire il discorso. Qui si scende il primo gradino, poi sta allo spettatore addentrarsi nel tentativo di capire chi è l’uomo pensante e quello non pensante, dov’è l’etica, cos’è la morale, ognuno ha la sua in questa vita, ma dove sta il limite che non si può trascendere in termini sia di etica sia di morale? Questo è il tema, non è una questione di religione, di credenti e non credenti, si cerca di mostrare entrambi i punti di vista: da qui scaturisce il dialogo interessante, tanto che a volte si parteggia per Freud e a volte per Dio, perché entrambi hanno dalla loro argomenti interessanti. La cosa importante è far pensare l’essere umano, certo in modo ilare, leggero, perché vuole essere un input, uno stimolo alla riflessione.

Paul Ricoeur ha definito Freud uno dei tre ‘maestri del sospetto’, insieme a Marx e a Nietzsche. Qui però viene rappresentato in un momento di crisi personale che il misterioso visitatore non farà che aumentare: è come se il dubbio che ha instillato negli altri ora colpisse le convinzioni sulle quali ha costruito tutta la sua vita. O no?
Il dubbio è fondamentale, è una follia pensare di poter avere solo certezze: si prende un personaggio straordinario, con una grande mente, come Freud e in un momento di fragilità lo si colpisce ai fianchi per causare un cambiamento. Schmitt prende un personaggio tutto d’un pezzo, un nichilista, un agnostico e gli infonde il dubbio, ma non sulla fede, bensì su se stesso, sul suo pensiero e sulle sue convinzioni. In altre parole il dubbio non è più una fragilità, diventa una componente fondamentale dell’essere umano, che impedisce che avvitarsi su se stessi, perché spinge al confronto con l’altro, che può dare una chiave di lettura diversa della vita.

Tutta l’azione si svolge nell’appartamento viennese di Freud e questo costringe il pubblico a concentrare la propria attenzione sul dialogo fra i protagonisti. Sintomo di grande fiducia nel potere della parola?
Siamo nella Vienna del 1938 nello studio del fondatore della psicanalisi, ma potremmo essere nell’ufficio del Presidente del Consiglio ieri mattina, in una delle stanze dei bottoni a Wall Street, addirittura in uno degli uffici dell’Onu, perché quando i due personaggi interagiscono in realtà è l’Uomo che parla, e ultimamente c’è una grande necessità, almeno credo, di ritornare all’Uomo, anche per capire da dove viene questa crisi, che è in realtà è una crisi etica prima ancora che economica.
Padre Turoldo una volta in un’intervista disse “In tanti anni che insegno, in scuole private e non, ho conosciuto tutte le classi sociali, ma quando chiedo ‘Cosa vuoi diventare da grande?’ Tutti i bambini, senza alcuna distinzione, mi rispondono con una professione, non ci sono mai stati una bimba o un bimbo che mi abbiano risposto ‘Voglio diventare un uomo’. Diventare un uomo è una delle cose più difficili e importanti di questa vita, ma quasi nessuno la prende seriamente, invece fin da piccoli si tenta di capire cosa fare per potersi inserire nella società, perché altrimenti si è delle nullità. In realtà l’importante non è la professione, ma la base su cui si fonda il nostro operare come uomini e donne, quello che sta succedendo è che la società sta perdendo la sua umanità. Ricostituiamo il senso vero dell’essere uomo, del porci in una relazione con gli altri, una relazione che può essere anche dialettica, che non è solo condivisione, ma può essere anche scontro: questo è il messaggio di Schmitt sul palcoscenico.

Rimanendo in tema, immagino che l’interazione in scena fra lei e Haber sia molto forte. Come è cambiato con il passare delle date il vostro modo di interagire sul palcoscenico?
Tutte le volte è una sfida e un’esperienza diversa, Haber è un professionista che si dà totalmente, quindi si sente una grande professionalità e un grande confronto in scena. Non ci poniamo delle domande sul fatto di evolverci, di cambiare: dopo la prima, lo spettacolo diventa dell’attore e del pubblico, quindi noi percepiamo, ascoltiamo, sentiamo il pubblico e gli rispondiamo, perciò a volte attraverso pause, accenti e tempi diversi cambia il senso che diamo alle battute. Il lavoro dell’attore quando va in scena è sentire il termometro del pubblico, quindi è inevitabile che l’interazione in scena porta a una continua evoluzione.

In conclusione: perché dovremmo venire a vedere Il visitatore?
Quante volte ultimamente ti sei fermata a pensare a te stessa come donna nei confronti del mondo? La verità è che non si parla e non si riflette più su certe cose, si va avanti con la propria vita quotidiana, pensando solo a portare a casa dei risultati. Non si considera più l’importanza del dialogo come occasione di arricchimento interpersonale, sembra non esserci più la voglia di ascoltarsi l’un l’altro, di percepire se stessi come singoli e come esseri in relazione con gli altri, di darsi, eppure è una cosa fondamentale: bisogna vivere ciò che si fa. Ecco in questo testo, invece, questo anelito c’è, perché c’è la possibilità di fare una sorta di terapia di gruppo con il pubblico: spero con questo testo di ampliare l’orizzonte dei dubbi e restringere quello delle certezze del pubblico, spero che si torni a casa con delle domande e con la voglia di allargare il proprio spirito, leggendo un libro o andando a vedere una mostra. La cosa meravigliosa del teatro è proprio la possibilità di estraniarsi per due ore per parlare e riflettere sull’essere umano, sui sentimenti umani: qui sta la sua sacralità, perché parla dell’uomo e comunica emozioni preziose, che colpiscono e possono rimanere dentro il nostro intimo tutta la vita.

Differenziare serve: sale al 93,8% il recupero dei rifiuti raccolti

da: ufficio stampa Hera

Presentata a Ecomondo la quinta edizione del report “Sulle tracce dei rifiuti”: dati e mappe per scoprire dove va a finire la raccolta differenziata, che nel ferrarese è già arrivata a quota 54,1%.


La sfida della green economy: così si controlla la filiera del riciclo

Tracciare la filiera del riciclo, dare garanzie sull’effettivo recupero dei rifiuti, rendere chiaro il processo che si attiva grazie allo sforzo dei cittadini nel fare la raccolta differenziata. Sono questi gli obiettivi di “Sulle tracce dei rifiuti”, il report con cui il Gruppo Hera illustra ogni anno i dati sull’effettivo avvio a recupero dei rifiuti raccolti in modo differenziato.
Uno sforzo di trasparenza verso la comunità locale, per mettere in luce il forte impegno della multiutility sul fronte della sostenibilità, che si snoda durante tutto il processo di gestione dei rifiuti: dalla raccolta fino al processo che permette di dare nuova vita ai materiali che la società scarta. Quella del recupero è infatti una filiera chiave della cosiddetta green economy, tra i settori più promettenti per il futuro dell’economia italiana, europea e mondiale.

Il recupero della raccolta differenziata sale a quota 93,8%

Secondo i dati contenuti in “Sulle tracce dei rifiuti”, in Emilia-Romagna e nel Nord Est, i risultati parlano chiaro: nel 2013 è stato recuperato il 93,8% di verde, organico, carta, plastica, vetro, legno, metallo e ferro. Un dato in leggero miglioramento rispetto al 2012, quando si è recuperato il 93,5%. In media, dunque, la quantità di rifiuti scartata dagli impianti nel processo di recupero (perché, ad esempio, non idonea a essere riciclata o inquinata da corpi estranei) è di appena il 6,2%.
Il report, giunto alla quinta edizione, è stato presentato oggi a Rimini a Ecomondo, la più importante fiera dedicata al mondo del riciclo e alle energie rinnovabili.

Le mappe delle aziende della green economy che recuperano: 191 impianti, di cui 9 nel ferrarese

Sulle tracce dei rifiuti si presenta quest’anno in una versione tutta nuova, con 8 mappe, una per ogni materiale raccolto con la differenziata, che permettono di scoprire quali e dove sono i principali impianti che si occupano del recupero finale dei rifiuti.
In totale gli impianti di recupero coinvolti sono ben 191, di cui 47 collocati nel territorio servito dal Gruppo Hera e, in particolare, 9 nel ferrarese (in prevalenza impianti di recupero della plastica e della carta): attraverso l’impegno nella raccolta differenziata da parte dei cittadini alimentano il settore della green economy dedicato al recupero.

Del ferro non si butta via niente, del verde e del legno quasi nulla

Dall’analisi dei dati, anche quest’anno verificati dall’ente di certificazione indipendente DNV-GL, si nota subito che il materiale che si può recuperare totalmente è il ferro: se ne raccolgono 2,3 kg per abitante e il 100% viene reimmesso sul mercato o trasformato per il riuso nelle industrie metallurgiche o nelle acciaierie. Anche del verde si recupera tantissimo: nel 2013 nel territorio gestito da Hera il 96,6% di sfalci e potature hanno trovato nuova vita negli impianti di compostaggio producendo fertilizzanti e terricci o, in misura minore, in impianti a biomasse producendo energia rinnovabile. Il legno è stato recuperato per il 97,3% (sui 18,1 kg raccolti per abitante) ed è servito a produrre pannelli, cippato o pellet. La plastica, in particolare, viene recuperata all’87% (nel 2012 era all’84,9%), mentre il recupero della carta viaggia ora intorno al 93,8% (sui 61,6 kg raccolti per abitante). L’organico si attesta al 91,5% (con 48 kg annuali per abitanti), il vetro al 94,1%. Infine, i metalli come gli imballaggi in alluminio, acciaio e banda stagnata, al 94%.
Tutti i dati sono disponibili on line nella sezione interattiva e navigabile dedicata a questo tema all’indirizzo www.gruppohera.it/sulletraccedeirifiuti.
Il report, inoltre, sarà in distribuzione nei prossimi giorni anche presso le stazioni ecologiche, gli urp dei comuni più grandi e i principali sportelli clienti del Gruppo.

Raccolta differenziata del Gruppo al 54% nei primi 9 mesi del 2014, a quota 54,1% nel ferrarese

Il miglioramento della percentuale di rifiuti recuperati è legata anche ai buoni progressi della raccolta differenziata: nelle province dell’Emilia-Romagna servite da Hera il dato ha già raggiunto nei primi 9 mesi del 2014 il 54%, in aumento di oltre un punto percentuale rispetto allo stesso periodo del 2012 e di oltre 10 punti percentuali sopra la media nazionale (43,3%).
Nel territorio ferrarese a settembre 2014 la raccolta differenziata è arrivata al 54,1%, in lieve miglioramento rispetto al 53,8% nello stesso periodo del 2013.
La regione Emilia-Romagna, con 142 kg pro capite, è al primo posto in Italia per raccolta di frazione organica, materiale considerato un indicatore importante per valutare la diffusione e l’efficacia della raccolta differenziata nel suo complesso. Emilia-Romagna ed Hera sono ai vertici anche per la raccolta pro capite di carta, plastica, legno e metalli. Le alte rese della raccolta differenziata sono dovute, in particolare, all’assimilazione e alla capillarità dei servizi presenti con differenti modelli di raccolta per i vari target di utenza e i diversi fabbisogni.

Più qualità, meno costi: grazie alla differenziata si risparmiano fino a 24 euro all’anno

Lo scorso anno nel territorio servito da Hera la spesa per il servizio di igiene urbana di una famiglia media di 3 persone in una casa di 80 mq è stata di circa 236 euro. Grazie a una raccolta differenziata di qualità, è stato stimato per il 2013 un risparmio di circa 24 euro per famiglia, pari al 10% della bolletta.
La legge prevede, infatti, che dai costi del servizio di raccolta differenziata, che vanno a comporre le tariffe, vengano detratti sia i contributi che gestori e Comuni ricevono dal Conai (Consorzio nazionale imballaggi) sia i ricavi derivanti dalla vendita del materiale. Il Conai, che non ha fini di lucro e si occupa di avviare a effettivo recupero i rifiuti di imballaggio, si finanzia tramite i contributi delle aziende che producono imballaggi e la vendita dei materiali raccolti. In questo modo, può riconoscere a Comuni e gestori dei contributi economici utili a sostenere la raccolta differenziata. Maggiori sono le quantità e la qualità dei rifiuti raccolti in modo differenziato e ceduti al Conai, più alta sarà la cifra percepita da Comuni e gestori, che potrà poi andare ad abbassare i costi per il cittadino.
Nel 2013 i ricavi ottenuti dal Conai e dalla vendita dei materiali sono stati pari 23,6 milioni di euro, utili a coprire il 25% dei costi per raccolta e recupero di carta e cartone, vetro, plastica, lattine, legno e ferro.
Ecco perché è importante separare bene i rifiuti: fa bene all’ambiente e anche al portafoglio.

Venier: “Grazie agli investimenti nella green economy si generano 800 milioni di euro di indotto”

“Il report che abbiamo presentato oggi è unico in Italia: è una finestra di trasparenza verso i cittadini, che si aggiunge alla rendicontazione che il Gruppo porta avanti da anni con il Bilancio di Sostenibilità e con il report “In Buone Acque” sulla qualità dell’acqua del rubinetto” ha commentato Stefano Venier, Amministratore Delegato del Gruppo Hera. “I risultati positivi sui quantitativi recuperati e sulla differenziata dimostrano l’impegno sempre maggiore del nostro Gruppo nel migliorare l’efficienza di tutta la filiera del riciclo, settore chiave della green economy. A questi numeri siamo arrivati anche grazie a oltre 2 miliardi di euro di investimenti negli ultimi 12 anni: uno sforzo importante che vale 800 milioni di euro all’anno di indotto solo per la parte generata da Hera. Abbiamo inoltre dotato il territorio di impianti come i biodigestori, che recuperano la frazione organica e producono energia elettrica, e di impianti di selezione a lettura ottica per i rifiuti secchi. La tecnologia, da un lato, e lo sforzo dei cittadini, dall’altro, sono quindi gli ingredienti di una ricetta vincente, che proietta il territorio gestito da Hera tra quelli più virtuosi in Europa nella gestione dei rifiuti”.

L’INCHIESTA
Fondo Novelle mantiene in vita
un sogno: il mercato contadino
del Doro

Temerari e coraggiosi, onesti e puri. I coniugi Alessandra e Stefano Galliera dell’Azienda Fondo Novelle di Porporana sono rimasti gli unici produttori ad animare il mercato contadino del Centro Acquisti il Doro, sul lato del Self di Via Modena, con il banchetto della loro frutta su cui sventola la bandiera gialla Coldiretti. Nato quattro anni fa, dall’idea originale e meritevole dei responsabili del Centro Acquisti il Doro, che avevano messo a disposizione gratuitamente il loro piazzale, il mercato per varie ragioni non è riuscito ad attecchire. Tutti i produttori presto lasciano, tranne i Galliera che stoicamente resistono nel nome di un impegno e di un progetto; riescono col tempo a farsi la loro clientela di affezionati, traendone una fonte di soddisfazione economica e personale. I Galliera sono la prova che il progetto può funzionare, dedicandoci il proprio tempo, la costanza e credendoci… credendo nel “mercato che non c’è”.

Ad Alessandra Galliera chiediamo di raccontarci com’era partito questo mercato.

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Alessandra Galliera

Il mercato è stato inaugurato ufficialmente il 7 dicembre 2011 e battezzato “I Sapori del Doro”. All’inizio eravamo partiti bene: eravamo una decina, c’era una bella varietà di prodotti (carne, formaggio, miele, frutta, verdura e fiori) e riempivamo il parcheggio. Poi, dopo quattro mesi, piano piano, a scalare, hanno cominciato a stare a casa un po’ tutti, fino ad arrivare a maggio del 2012 quando siamo rimasti solo in tre: noi, Balboni di San Martino con frutta e verdura e Malaguti di San Carlo col miele.

Questa è una bellissima iniziativa, anche perché arricchisce e dà un tocco di genuinità all’offerta commerciale della zona. Perché gli altri produttori hanno desistito solo dopo quattro mesi?
Perché in soli quattro mesi non si era creato il giro, cosa tra l’altro molto prevedibile visto che avevamo iniziato in pieno inverno, quando la varietà di prodotti come frutta e verdura a km 0 è naturalmente esigua e la stagione non favorevole. Poi c’è stato il terremoto e la Malaguti del miele, che veniva proprio dalle zone più colpite, non è più venuta. Anche la Balboni, a quel punto, ha preferito rinunciare per dedicarsi ai mercati che già aveva.

Quindi a giugno 2012 siete rimasti completamente soli?

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I coniugi Alessandra e Stefano Galliera

Sì, siamo rimasti soli. Abbiamo continuato a venire tutte le settimane, certe mattine con un freddo da morire, ma adesso sono contentissima perché ho un bel giro di clienti affezionati, alcuni sono diventati veri e propri amici: c’è chi si ferma a chiacchierare, c’è chi mi porta il caffè e chi mi presta dei libri, perché parlando hanno saputo che amo leggere. La mia bancarella non è soltanto un punto vendita, è diventata anche un punto d’incontro. Qui sono nate amicizie e questo è l’aspetto che mi dà più soddisfazione e che mi ripaga dei sacrifici fatti in questi quattro anni. Lavoro tantissimo, certe mattine non ho il tempo di respirare e arrivo alla mezza che non me ne accorgo nemmeno. Ora lavoro molto anche con le prenotazioni, i clienti mi prenotano le cassette di frutta di settimana in settimana. Essendo rimasta da sola, mi sono anche scelta la giornata ideale, mi spiego: all’inizio il mercato era di mercoledì, ma io ho preferito spostare al martedì perché in concomitanza c’è il mercato dell’abbigliamento, dall’altra parte della strada, e questo può agevolare un po’ tutti, noi e loro. Grazie ad Elisa Casari, che ci ha dato il permesso, da qualche anno siamo presenti con la bancarella due volte la settimana: il martedì e il venerdì.

Questa è la prova che la costanza premia, e allora come mai nel tempo non si sono trovati altri produttori per ripopolare questo mercato, come mai la Coldiretti non ha promosso ulteriormente l’iniziativa?
Questo non lo sappiamo, anche perché il Centro Acquisti il Doro ha sempre continuato a mettere a disposizione gli spazi gratuitamente a chiunque fosse interessato, Coldiretti e non. Io ho provato anche personalmente a coinvolgere dei produttori che conosco, ne sono passati due o tre ma non hanno continuato.

Ma perché allora, qual è il problema?

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Frutta e confetture

Il problema è che chi arriva si aspetta degli incassi immediati, mentre il mercato è tutto da costruire e bisogna investirci del tempo. Io ho impiegato quattro anni, da sola, a costruirmi la fiducia dei clienti. Noi poi siamo puri, portiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti, mele e pere d’inverno, albicocche, ciliegie, pesche e tutta la frutta estiva, senza aggiungere al banco altri prodotti per ‘mantenerci’ i clienti: noi vendiamo esclusivamente i nostri prodotti di cui possiamo garantire in prima persona, non siamo rivenditori e vogliamo continuare con questo spirito. Ecco perché a fine dicembre ci fermiamo e riprendiamo a maggio dell’anno dopo. Ultimamente, spinti dalle richieste degli stessi clienti, ci siamo messi a coltivare qualche orticola, come zucche, patate e cipolle, per andare loro incontro e soddisfare al meglio le richieste. Ma il nostro prodotto d’eccellenza rimane la frutta.

Questo mercato quindi per voi è diventata una fonte di reddito importante, è così?
Sicuramente non è una fonte di reddito rilevante per l’azienda che ha bisogno di ben altre entrate, ma è diventato un grande aiuto come supporto al reddito familiare, soprattutto da quando è venuto a mancare il mio stipendio , in quanto la ditta per cui lavoravo ha chiuso. Ora il mercato del Centro Acquisti il Doro è diventato il mio lavoro e ne sono fiera.

Elisa Casari, responsabile commerciale del Centro Acquisti il Doro di proprietà della società NL Properties Srl, è l’ideatrice di quest’iniziativa; a lei chiediamo com’è nata l’idea di sviluppare un mercato a km 0 nel parcheggio del loro piazzale.

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Da sinistra Elisa Casari e Alessandra Galliera

Come azienda siamo sempre stati attenti alla sostenibilità; per fare solo un paio di esempi, siamo stati i primi a Ferrara a costruire nel 2007 un edificio a destinazione direzionale e commerciale in classe A (quello che si trova sempre nel perimetro del parcheggio e che ospita, tra glia altri, la sede del Coni) e siamo tra i consulenti di Solidaria che sta realizzando il primo progetto di co-housing a Ferrara. Nel 2011, avendo spostato l’entrata del Self sul lato di via Bongiovanni, i parcheggi del piazzale sul lato via Modena prospicienti la vecchia entrata del Self venivamo molto meno utilizzati, così abbiamo pensato al mercato contadino a km 0, con prodotti locali a filiera corta, nello spirito della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente. Così abbiamo contattato Campagna Amica e Coldiretti per mettere insieme un certo numero di produttori disposti a provare.

Un vero peccato che il mercato non abbia preso piede, vi dispiace?
Sì, un peccato. Dispiace che non se ne colga il valore e che i produttori vengano attirati solo dai mercati più radicati e remunerativi. Noi siamo convinti che questo mercato possa svilupparsi perché è su un crocevia molto frequentato, ma come in tutte le cose ci vuole del tempo; il mercato di Porta Paola, che ora sta andando molto bene, ci ha messo dieci anni a prendere piede e ora c’è una lunga lista d’attesa per entrare.

Le condizioni per il radicamento del mercato ci sono tutte: spazio gratuito, possibilità di parcheggio, a soli 2 km dal Castello Estense, il mercato d’abbigliamento nei pressi. Come giornale abbracciamo e sosteniamo l’iniziativa, ottima in un contesto di crisi come quello che stiamo attraversando. Qualche tua parola per promuoverla ulteriormente?

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Il piazzale del Centro Acquisti il Doro

A noi piacerebbe molto dare vitalità a questa parte del piazzale. Siamo a completa disposizione, il mercato è aperto a tutti i produttori locali a km 0 che operano con metodi sostenibili e in un sistema di filiera corta. Non ci importa a quale associazione appartengono, ma siamo molto attenti al prodotto: la merce esposta deve essere al 100% quella prodotta in azienda, non si possono rivendere prodotti di altri. Per evitare un’insana concorrenza, non possiamo ospitare due bancarelle che vendono lo stesso prodotto, è una questione di correttezza; quindi ben vengano aziende che producono carne, formaggi, birra, vino, pane e tutti i prodotti del nostro territorio, compresi manufatti di artigiano locale. I produttori interessati possono contattarci direttamente o tramite le proprie associazioni. Approfitto dello spazio che ci date su questo giornale per ringraziare i coniugi Galliera che, coraggiosi e temerari, hanno di fatto tenuto in vita il nostro progetto.

Il mercato “I Sapori del Doro” si tiene nel piazzale del Centro Acquisti il Doro, dalla parte di via Modena, davanti al parcheggio del Self, il martedì e il venerdì dalle 7.30 alle 13.

Per saperne di più sull’avvio del mercato il 7 dicembre 2011 [vedi]
Per saperne di più dell’Azienda agricola Fondo Novelle visitare il sito Agrizero.it [vedi
Per saperne di più sul Centro Acquisti il Doro visita il sito [vedi] e la pagina Facebook [vedi]

LA STORIA
L’inganno svelato, ovvero il dosaggio delle immagini

Nel 1954 nella Germania dell’Est, alcuni archivisti ritrovano casualmente in un bunker appartenuto al regime nazista un filmato muto di circa 60 minuti, senza sceneggiatura, intitolato “Il ghetto”: era un documentario girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia nel 1942 per 30 giorni consecutivi, esattamente dal 2 maggio al 2 giugno, tre mesi prima della rivolta.
E’ la storia ripresa dal film proiettato lunedì sera al cinema Boldini (grazie alla collaborazione fra Meis, Memorial della Shoah di Parigi, Pitigliani Kolno’a Festival di Roma e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) nell’ambito della giornata di studio sul Ghetto di Varsavia. Titolo dell’opera “A film unfinished”, autrice l’israeliana Yael Hersonski.

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Varsavia durante l’occupazione nazista

Sotto gli occhi dello spettatore scorrono immagini di ebrei benestanti che sembrano totalmente indifferenti alla sorte della maggioranza della popolazione del ghetto, che vive in condizioni di estrema sofferenza: ebrei ben vestiti entrano in una macelleria, ignorando i bambini che chiedono l’elemosina oppure non prestano attenzione ai cadaveri abbandonati sul marciapiede.
Il film appare da subito una risorsa straordinaria per ricercatori e studiosi della Shoah, proprio perché si presenta come un documento originale, una fonte
 storica, inoltre è uno dei rarissimi filmati dei ghetti girati dai nazisti. Le pellicole vengono consegnate allo Yad Vashem di Gerusalemme creato l’anno precedente, ma non verranno mai mostrate interamente al pubblico. Nei documentari sulla Shoah si selezionano solo le scene che mostrano la grande sofferenza dei prigionieri del ghetto, mentre le scene sugli interni borghesi vengono tralasciate perché, in breve, non si sa come spiegarle. Solo alla fine degli anni Novanta, quando in Ohio due studiosi che stanno cercando materiale filmico sulle Olimpiadi di Berlino ritrovano un’altra bobina con ulteriori 30 minuti, finalmente si comprende la vera natura del documentario. Qui, infatti, si vede il lavoro dei cineasti nazisti per cercare l’inquadratura più efficace, quella più funzionale ai loro scopi propagandistici. Alcune scene sono state girate più volte, con gli ebrei costretti a recitare il ruolo di attori.

Nel 2006 Yael, studente di cinematografia e nipote di una sopravvissuta emigrata in Israele, alla ricerca della propria storia famigliare negli archivi dello Yad Vashem si imbatte in queste bobine e decide di rimontarle fedelmente, rendendo però ancora più evidenti i diversi piani di realtà e mistificazione che si intrecciano in questo documentario che è anche fiction. Per farlo ha chiesto a cinque sopravvissuti del ghetto di commentare la proiezione e ha inserito brani dai diari di Adam Cerniakov, il capo dello Judenrat del ghetto di Varsavia, della testimonianza di uno dei cameramen, Willy Wist, e dai rapporti redatti minuziosamente ogni settimana da Heinz Auerswald, il commissario nazista che sovrintendeva all’organizzazione del ghetto.

Lavori come questo sono di fondamentale importanza per aiutarci a capire quanto sia difficile utilizzare le immagini come fonti, in particolare nel caso della Shoah: siamo di fronte a immagini autentiche dal punto di vista storico, ma costruite e manipolate a fini di propaganda. A questo proposito Barbie Zelizer nel suo “Remembering to forget. Holocaust memory through the camera’s eye”, afferma che non sappiamo ancora abbastanza sul modo in cui le immagini aiutano a narrare gli eventi collettivi e su quale delle due, le immagini o le parole, riesca ad avere il sopravvento in caso di confronto fra ciò che le parole ci dicono e ciò che le immagini ci mostrano. Ancora di meno sappiamo sul funzionamento delle immagini come veicoli della memoria collettiva: le immagini aiutano a stabilizzare la natura mutevole della memoria collettiva nel cinema, nella tv e nella fotografia, però quando le si usa per dare forma al passato collettivo le difficoltà sorgono dal fatto che esse non rendono evidente come costruiscono ciò che ci fanno vedere e quindi ricordare.
È proprio questo processo di costruzione e stratificazione nel tempo che il lavoro di Yael ci aiuta a comprendere. In altre parole: non basta vedere, bisogna guardare dietro e intorno all’obiettivo, interpretare, sempre nella consapevolezza che l’inquadratura ci offre solo una particolare prospettiva della realtà.

Un grido disperato: la sinistra è morta

Carissimo direttore, ti scrivo come cittadino indignato, offeso, preoccupato, arrabbiato. Come cittadino perché vedo restringersi ogni giorno di più gli spazi democratici che con tanta fatica la mia generazione, pur tra errori e presunzioni, ha tentato di aprire alla società; come progressista (se vuoi comunista) perché mi accorgo con orrore che la sinistra è morta. Se esistevano ancora dubbi in proposito, il proditorio attacco poliziesco ai lavoratori delle acciaierie di Terni – che ci ha riportato indietro ai tempi funesti di Scelba – ha dimostrato quanto sia reale il grido disperato di coloro che credono sia possibile costruire un paese non dominato dalla voracità di quattro padroni spelacchiati (e dai loro interessati scagnozzi). Mi pare che l’aggressione scelbiana di Roma sia stata una gentile concessione del nostro governo a un gruppo padronale che ai suoi tempi ha sconvolto il mondo, fornendo a Hitler le armi per ammazzare milioni di persone: sto parlando naturalmente dei Krupp, un gruppo onnivoro che presumo non dispiaccia alla Merkel. E la Merkel non dispiace al boyscout Renzi, pronto a rispolverare Bava Beccaris e a non chiedere scusa, come avrebbe potuto e dovuto fare dopo le manganellate, ai lavoratori, i quali – non dimentichiamo – sono pure coloro che lo hano portato al governo. Eletto no: il presidente Napolitano ha cancellato le elezioni, preferendo le nomine dirette, in rapida successione un-due-tre, Monti-Letta-Renzi. Ma è così: il Vangelo secondo Matteo è fatto in questo personalissimo modo, si va al potere sull’onda di una incazzatura popolare vastissima e poi, su consiglio di Berlusconi (che era considerato nemico del popolo) si cancellano i diritti dei lavoratori, tanto che il presidente degli industriali dice va bene così; ma quello che più mi sconforta, mi addolora, mi fa versare le ultime lacrime tenute in serbo per queste evenienze è l’atteggiamento dei politici (o politicanti?) di sinistra: dove sono, che cosa fanno, che cosa dicono? Un po’ di masturbazione davanti alle accomodanti telecamere e poi a casa, la minestra è pronta.

Nella mia lunga vita lavorativa, tra gli altri incarichi, ho avuto quello di direttore dei “Problemi della transizione”, trimestrale di dibattito ideologico del Pci di Bologna: scorro i nomi dei redattori e collaboratori, da Zangheri a Pietro Ingrao, erano i nomi di intellettuali di sinistra, abituati a discutere e a non avere verità preconfezionate in tasca anche se le carriere fatte avrebbero potuto concedere loro di sprecare qualche volta il pronome personale “io”. Adesso l’”io” si spreca, caro direttore, il Vangelo di Matteo ce lo in segna. Sanno tutto loro, i vari Renzi. Ma perché noi che, invece, sappiamo niente non ricominciamo a discutere, a mettere insieme un po’ di idee nuove, ma veramente nuove, lasciando a Renzi onere e onore di fare patti con Berlusconi? Proviamo a capire se, oltre il decotto capitalismo, esiste qualcosa d’altro. Proviamo.

Caro Gian Pietro, attraverso questo giornale – e quindi anche con il tuo prezioso contributo – cerchiamo ogni giorno di fare esattamente ciò che auspichi: mettere insieme un po’ di idee nuove, fornire stimoli alla riflessione e aprire spazi di confronto. La tua indignazione è condivisa da tanti, però è difficile indirizzare positivamente la rabbia per propiziare una svolta reale, un cambiamento radicale.
Ci esorti ad analizzare in particolare le ragioni della crisi della sinistra. Tempo fa abbiamo avviato un’inchiesta sulla crisi della partecipazione e della rappresentanza politica, nei prossimi giorni intendiamo riprenderla con nuovi interventi e altre analisi. In fondo anche questa è una chiave di lettura dell’eclissi della sinistra, perché lo scollamento fra istituzioni e cittadini ne contraddice i valori fondanti: se non c’è condivisione e coinvolgimento della base, se anziché ampliare si riducono i luoghi di confronto e si delegano le scelte a soggetti sempre più distanti e sempre meno controllabili, si svilisce il concetto di democrazia partecipativa che è linfa e baluardo della sinistra.
Vogliamo approfondire questo ragionamento, contiamo di farlo anche con l’ausilio della tua intelligenza. (s.g.)

La ‘Buona Scuola’ e lo sciopero delle parole

Lo confesso: a volte, organizzo scioperi all’interno della classe. Lo so che sarebbe meglio non farlo ma, al presentarsi di certe condizioni, credo sia proprio necessario. Infatti, durante la conversazione che precede la scrittura di un testo, mi accorgo che diversi bambini ripetono spesso le parole “bello“, “buono“, “bravo” per descrivere un oggetto, una persona, una situazione, mentre io vorrei che si sforzassero nella ricerca di sinonimi più precisi.
Così, dopo averli ascoltati, improvvisamente mi alzo in piedi e, con tono deciso, annuncio che:
“È proclamato uno sciopero delle seguenti parole: bello, buono, bravo e dei loro rispettivi femminili.
Le condizioni di lavoro a cui sono sottoposte queste tre parole non sono più sostenibili.
È in atto infatti un grave sfruttamento di questi vocaboli che potrebbe portare inevitabilmente ad una omologazione dei testi e ad un appiattimento semantico.
Lottiamo tutti insieme per la ricerca delle parole giuste.“
Ormai i bambini mi conoscono e capiscono che, quando scherzo, lo faccio seriamente; per cui il messaggio gli arriva e ne tengono conto nei loro testi scritti.
Purtroppo non riesco a far così con i politici di professione: pensate che ne esistono di quelli che abusano dell’aggettivo “Buona” per definire “Buona Scuola” il loro strano miscuglio di proposte.
Riassumo brevemente i contenuti della “Buona Scuola” dal punto di vista di un “sindacalista delle parole“:
– la (quasi certa) condanna da parte della Corte di giustizia europea ad assumere docenti precari è propagandata come la più grande assunzione di massa;
– la competizione fra le scuole e l’introduzione degli “scatti di competenza” al personale esaspereranno i conflitti nella scuola senza migliorare la didattica;
– il far pagare ai privati (soprattutto alle famiglie) i costi della scuola pubblica servirà a recuperare soldi pubblici per finanziare le scuole private;
– le parole: inglese, informatica, impresa, che erano le tre parole-chiave del ministro Letizia Moratti (del governo Berlusconi), sono le stesse del ministro Giannini (del governo Renzi);
– nonostante si alluda all’importanza dell’inglese, della musica, dell’educazione motoria, un bambino o una bambina, alla fine dei cinque anni della scuola primaria, avrà effettuato meno ore di queste discipline rispetto a quelle che attualmente sono previste;
– “Fondata sul Lavoro“, che è il titolo di un capitolo della “Buona Scuola” di Matteo Renzi, ha un soggetto sottinteso, al fine di confondere e lasciar intendere che la scuola debba essere subordinata alla formazione di lavoratori e non, prima di tutto, all’istruzione ed alla formazione di cittadini.
Insomma io penso che, per rendere più chiara la definizione della “Buona Scuola”, ci sarebbe bisogno di sostituire quel “Buona” oppure di aggiungere qualche altro vocabolo per spiegarla meglio.

Dopo aver letto e studiato attentamente la proposta di Matteo Renzi ed averci riflettuto, ho deciso di fare le mie proposte. Sono indeciso fra queste tre:
“Buondì Scuola” (per una scuola sponsorizzata e ricoperta di glassa);
“Buona Suola” (per una scuola deteriore e collocata al giusto livello);
“Affondata sul Lavoro” (per una scuola precaria e dipendente dagli imprenditori).

Dopo aver letto le proposte di Confindustria per la scuola ed aver verificato le moltissime analogie con la proposte di Renzi, l’ultima mi sembra essere quella più precisa.

Lopez: tanti brani per Mina, Vanoni, Mia Martini e ancora la voglia di sognare

Le canzoni di Luigi Lopez hanno arricchito per oltre vent’anni la scena musicale italiana, sino ad arrivare ai successi americani. Con Carla Vistarini ha scritto numerose canzoni, tra cui, “La voglia di sognare”, storica hit di Ornella Vanoni del 1974, “La nevicata del ’56” interpretata da Mia Martini, “La notte dei pensieri” per Michele Zarrillo e “Mondo” per Riccardo Fogli, primo di una lunga serie di pezzi scritti per il cantante dopo la sua uscita dai Pooh. Tra i riconoscimenti ottenuti: il premio per la migliore canzone straniera alla 8ª edizione del World popular song festival of Tokyo, con “Ritratto di donna” interpretato da Mia Martini e il 1º Primo premio assoluto alla 13ª edizione dello stesso festival (1982), con il brano “Where Did We Go Wrong”. Lopez è noto al grande pubblico anche per avere scritto e interpretato “Pinocchio perché no?”, sigla delle nuove avventure di Pinocchio, l’edizione italiana del cartone animato giapponese ispirato all’omonimo burattino di Collodi.

Quarant’anni di carriera, una vita dedicata alla musica, come hai iniziato?

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Luigi Lopez durante il tour 2014

Nel 1965 ero il “chitarrista elettrico” degli Shocks, il mio gruppo. In una magica serata ci esibimmo al Titan Club di Roma, come band di supporto dei mitici Gun. Alla fine della performance, vennero nel mio camerino a congratularsi nientemeno che Gianni Boncompagni e i Rokes, con Shel Shapiro in testa. Avevo fatto una buona impressione e fu Gianni a propormi di scrivere canzoni, aiutandomi con i suoi preziosi consigli. È cominciata così, poi arrivò il mio primo contratto di esclusiva con l’Apollo Records di Edoardo Vianello, che m’introdusse professionalmente nel grande mondo della Rca Italiana.

Per tanti anni Carla Vistarini ha scritto i testi delle tue musiche …
Quando cominciai ad avere credibilità come compositore, la convinsi a scrivere il testo di una mia musica. Le sue poesie mi commuovevano, perché non provare, mi chiedevo? Non fu facile farla accettare dai miei collaboratori, dai vari produttori ma bastò la sua “Mi sei entrata nel cuore”, cantata dagli Showmen, a farla entrare di diritto nella grande famiglia dei parolieri italiani.

Sei uno dei pochi autori che hanno scritto canzoni per Mina e Ornella Vanoni, una bella soddisfazione?
Due grandi antagoniste? O due insuperabili contendenti? Beh, comunque entrambe nel mio “libro dei record”. Ancora non saprei dire chi di queste due immense interpreti sia la mia preferita; me le tengo strette, strettissime nell’album delle mie soddisfazioni più preziose. Brani quali “Ancora dolcemente”, “Mi piace tanto la gente”, “La voglia di sognare”, come potrei mai decidere per l’una o per l’altra? Impossibile!

“Delfini”, in altre parole l’incontro con Domenico Modugno e Franco Migliacci, che ricordo hai della vostra collaborazione?
Modugno, Domenico, Mimmo, chiamiamolo come più ci piace, il grande “Mr. Volare” aveva davvero le ali. Durante la registrazione non volle che sulla sua voce fosse messo nessuno dei tecnologici effetti che avrebbero potuto aiutare la sua performance. Straordinario e insuperato maestro.

“Here I go again”, interpretata da Julie Anthony, ha vinto dischi d’oro in giro per il mondo, così come “Another chapter” eseguita da John Rowles …
Si tratta di ennesimi regali della mia fortunata avventura americana. Ero in vacanza a Londra, davanti a Buckingham Palace, intento ad ammirare il cambio della guardia, quando alle mie spalle sentii qualcuno intonare un’inconfondibile melodia, c’era una ragazza con le guance punteggiate di lentiggini, che canticchiava la mia “Here I go again”, in quei giorni al top delle classifiche in Australia.

Al World popular song festival di Tokyo hai vinto con “Where did we go wrong”…
Nel 1982 rappresentavo gli Usa e vinsi il primo premio, il “Golden grand prize”, con la mia canzone “Where did we go wrong” eseguita da Anne Bertucci, con i versi di Nat Kipner (primo produttore dei Bee Gees e straordinario autore) e l’arrangiamento di Jimmie Haskell (arrangiò “If you leave me now” dei Chicago).

“La nevicata del ‘56” fu eseguita per la prima volta al Cenacolo della Rca italiana?

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Compone insieme a Carla Vistarini “La nevicata del ‘56”, portata al successo da Mia Martini

“La nevicata del ’56” fu scritta non meno di 35 anni fa con la collaborazione di Fabio Massimo Cantini. Non potevo immaginare che Carla Vistarini ponesse su quelle nostre semplici note, una vera e propria “poesia”, un affresco di Roma, evocativo di un evento indimenticabile, che la canzone ha contribuito a fissare per sempre nell’immaginario e nei ricordi di tanti italiani. Fu Gabriella Ferri (era il 1975 o giù di lì …) ad ascoltare per prima la nostra canzone. Con la mia chitarra e un’indicibile emozione la eseguii seduto al centro di una stanza del Cenacolo, il piccolo “ateneo musicale” voluto dalla Rca, per favorire gli incontri e gli scambi di idee fra gli “emergenti” della cosiddetta “scuola romana”. Gabriella Ferri era accompagnata dal suo produttore Piero Pintucci, invitata espressamente per ascoltare quella che le era stata annunciata come la canzone “perfetta”, per proseguire la serie dei suoi successi legati a Roma. Ricordo come fosse ieri il silenzio che si creò durante l’ascolto, e alla fine Gabriella mi abbracciò commossa: aveva gli occhi bagnati di lacrime. Contrariamente alle attese, la nostra canzone rimase nel cassetto per oltre quindici anni, fino ai giorni che precedettero la partecipazione di Mia Martini al Festival di Sanremo 1990, dove conquistò il meritatissimo premio della critica.

Luigi Lopez oggi?
Con mio figlio Riccardo è nata un’intesa musicale assai promettente, lo scorso anno la nostra canzone “Sailor”, cantata da Riccardo, ha scalato le classifiche di tutte le radio web, staremo a vedere …

La foto in evidenza, scattata a Manciano (Grosseto), è di Giuseppe Barbagallo e Carlo Paoletti

IL FATTO
Diritti violati: Afrim piantonato all’ospedale senza essere in arresto, ora rischia l’espulsione

Non c’è pace in casa Bejzaku, Giuba è tornata da poco, ha ottenuto l’asilo politico, ma suo marito Afrim, agli arresti domiciliari da nove mesi nella loro abitazione di Berra, dove vivono con quattro dei cinque figli ancora minorenni, rischia di essere rimpatriato in Kosovo. “La scarcerazione è prevista l’11 di novembre, se non mi concederanno l’asilo richiesto circa un mese fa, l’epilogo potrebbe essere davvero disastroso per la mia famiglia – racconta – Mi hanno già destinato al Cie di Milano e poi mi spediranno in Kosovo, mia terra d’origine dove non ho più un parente. Siamo tutti in Italia, ci abito dal 1985, ho comprato l’abitazione dove risiedo, i miei figli sono nati e vanno a scuola qui”. La sua è una lotta contro le lancette dell’orologio, tra una settimana potrebbe ritrovarsi dietro le sbarre del Cie (Centro di identificazione e espulsione) di Milano, ultima stazione prima di tornare in Kosovo. “Se la risposta non arriverà in tempo o sarà negativa o tutte e due le cose, mi sarà impedito di mettere piede in Italia per 10 anni, così dice la legge”, spiega.

La prospettiva non lo entusiasma di certo, per quanto rom, apolide, la sua vita è ormai nel Basso ferrarese. Nel bene e nel male. “Fino a due anni fa non ho avuto problemi con il permesso di soggiorno, lavoravo con incarichi rinnovati di volta in volta, poi mi sono ritrovato a spasso – continua – automaticamente sono diventato un clandestino”. Nell’arco di un breve tempo ha totalizzato un paio di espulsioni, racconta, ed è cominciata una battaglia a colpi di ricorsi per opporsi ai provvedimenti di legge. E’ stato un susseguirsi di perquisizioni, controlli, foto segnaletiche arricchite, racconta, da una “gita” al Cie di Roma. “Non mi hanno trattenuto a causa di un problema di salute certificato, così dopo poche ore sono rientrato in città insieme ai carabinieri”, spiega.
Due uomini, un’auto e diverse ore per un’andata e ritorno a vuoto a Fiumicino. Una telefonata avrebbe potuto evitare il piccolo ma sostanziale dispendio di soldi pubblici e di tempo improduttivo per il personale delle forze di pubblica sicurezza? Chissà, ancora una volta comunque gli evidenti limiti della “Bossi-Fini” e della sua applicazione riverberano sulle tasche del contribuente. La missione si è rivelata più o meno inutile e si incastona nella complicata questione migratoria, che dovrebbe esser valutata con diversi pesi e misure a seconda dei casi incontrati. Ma siamo ancora all’anno zero e le emergenze finiscono con l’inghiottire vecchi e nuovi problemi dell’accoglienza.

Non tutte le storie sono uguali, ricorda Afrim ripercorrendo la sua e, soprattutto, quanto è accaduto dopo aver lasciato il Cie romano. “Sembrava mi dovessero lasciare in stazione con 30 euro in tasca, li avrei dovuti usare per tornare, erano meno della metà del costo del biglietto. Un’assurdità – prosegue – A un certo punto c’è stato un contrordine, mi hanno portato a Copparo in guardiola, doveva essere l’anticamera di un espatrio diretto deciso dall’Ufficio Immigrazione di Ferrara”. Nella notte le condizioni di salute di Afrim si sono fatte critiche. “Perdevo sangue, a quel punto hanno chiamato l’ambulanza. L’infermiera, dopo aver chiesto cosa fosse successo, disse subito che si trattava di una sceneggiata, lo fece senza neppure attendere la diagnosi di un medico – continua – Fui ricoverato per quattro giorni a Cona. Quella prima notte, in attesa delle visite di routine, ho dovuto sopportare le battute di chi in ospedale attribuiva l’emorragia all’aver ingoiato dei palloncini pieni di droga. Furono gli stessi carabinieri a difendermi, a spiegare che non ero in stato di arresto e la droga non c’entrava nulla. Umanamente parlando è stato un approccio orribile”. Era l’inizio di novembre del 2013, quella notte, ricorda, quattro militari dell’Arma piantonarono la sua stanza per poi scomparire alle 11 del mattino. “E’ difficile dimenticare – conclude – non si pretende solidarietà, ma almeno il rispetto della persona. Certe cose, soprattutto quando si tratta di illazioni, non possono essere taciute e hanno il sapore di un dichiarato razzismo”.

Foto di Ippolita Franciosi

Quel supplemento dell’anima che serve alla politica e al Paese

Tanto tempo fa mi fu chiesto di scrivere un pezzo su Giorgio La Pira, avendolo studiato come tra i padri costituenti, ed oggi mi sento spinto a richiamarlo anche perché il nostro Presidente del Consiglio su La Pira ci ha scritto la sua tesi di laurea.
Sappiamo tutti che stiamo vivendo un periodo complesso e complicato e che gli ultimi anni non ci hanno aiutato ad uscire dalle nostre criticità. Un Paese ancora bloccato sulle sue contraddizioni,  chiamato ad un “cambiare verso“ in un percorso che però si mostra pieno di resistenze, in cui poteri e lobby trasversali impediscono quel necessario processo di ammodernamento. L’Italia, e l’Europa a cui siamo fortemente legati, non potrà più continuare a farsi trascinare nella palude degli eterni conflitti.
Se questo è, e non appare solo in superficie, serve un supplemento dell’anima, e cioè serve entrare dentro ai problemi, inserirsi nel tessuto sociale, quello vero, che vive la dura quotidianità famigliare; occorre capire e coglierne i sentimenti, le passioni, i dolori, le tribolazioni, ma anche le speranze di nuove generazioni che si sentono lontane ed abbandonate. Ricordare chi sta ai confini della convivenza civile o chi ci può cadere, chi ha sì il lavoro ma precario, frammentato, turbato e quasi senza una visione. Oggi serve capire queste condizioni difficili del vissuto e insieme riportarle alla dignità della persona umana.
Consigliare a Matteo Renzi di rileggersi la sua tesi di laurea, potrebbe forse rinvigorire il suo pensiero e rafforzarne le motivazioni, per condurci finalmente fuori dal guado. Ciò non impedisce di essere severi e severissimi con i privilegi, la corruzione, quelle governance diffuse e moltiplicate, piene di intrallazzi, di costi impropri, di continue diseconomie e di carsiche minacce a tagliare i servizi, che si possono e si debbono evitare rimodellando le organizzazioni e riallocando le risorse.
C’è un passaggio storico tra La Pira e Mattei su una difficoltà aziendale a Firenze che potrà essere di aiuto, un esempio; ma anche tanti altri aspetti che forse si ritrovano in quella accennata tesi di laurea.
Lasciamo questa proposta e questa possibilità al nostro Presidente e forse, partendo da qui, quel cambiare verso troverebbe un sentimento che a volte la politica dimentica con estrema facilità; ciò dovrebbe servire anche per gli altri interlocutori che spingendo troppo non aiutano ad uscire dal guado dove ci siamo fermati per troppo tempo.

“Polo museale regionale, una discussione sul nulla”

di Ranieri Varese

L’essere cittadino ferrarese, senza alcuna altra qualifica, è, spero, titolo sufficiente per intervenire sul tema della mozione presentata da ‘Forza Italia’ e approvata nel Consiglio Comunale del 3 novembre. I giornali quotidiani di Ferrara hanno tutti dato notizia della richiesta, avanzata alla regione Emilia-Romagna, del riconoscimento di Ferrara come sede di ‘polo museale regionale’. In realtà sia nel testo approvato che nel dibattito non si è mai parlato di musei ma solo di sviluppo turistico e tutto si è concluso, con prevedibile banalità, in una richiesta di fondi così da potere organizzare due esposizioni all’anno, invece di una.

Mi chiedo in primo luogo cosa significa ‘polo museale regionale’: nessuno degli intervenuti ha specificato una formula che non fa riferimento ad un assetto legislativo, regionale o nazionale. Esistono i ‘poli museali’, basti pensare a Firenze o a Venezia, ma si tratta di forme organizzative interne alla Amministrazione dello Stato e non comprendono altri enti.

A Ferrara esistono musei diocesani, statali, universitari e civici. La formula è inapplicabile; è invece applicabile e istituibile il ‘sistema musei’ il quale, secondo la legislazione regionale, può comprendere, e nelle città dove esiste come Modena, Ravenna, Rimini comprende, istituti di diverse amministrazioni.
Il risultato è economia di scala, programmazione concordata, progetti comuni sia per quanto riguarda la tutela che la valorizzazione. Ritorno economico, per quanto possibile.
I finanziamenti regionali privilegiano questa formula che consente risultati molto più incisivi; Ferrara non ha saputo o non ha voluto muoversi in questa direzione: chi ha fatto tale scelta doveva mettere in conto il costo del muoversi in controtendenza rispetto alle scelte regionali.

La mozione che si richiama ai musei non parla, incoerentemente, del loro rapporto con le mostre, a Ferrara inesistente. Affida la salvifica ‘seconda esposizione’ a ‘Ferrara Arte’ che è responsabile, nel bene e nel male, della situazione attuale la quale così può essere sintetizzata: calo generalizzato dei visitatori ai musei e alle mostre, compreso il Castello; modesto numero dei pernottamenti; inadeguata sede espositiva; scarsa attenzione delle amministrazioni proprietarie verso i problemi dei musei, aggravati dai postumi non risolti del terremoto; modestia e limitatezza delle offerte che non siano quelle espositive a loro volta non eccezionali a causa non solo di difetti di progettazione ma anche del venir meno del sostegno bancario; assenza di strumenti di promozione e di conoscenza.
Tutti problemi che le associazioni cittadine avevano insieme analizzato ed indicato nel convegno Musei a Ferrara: problemi e prospettive del novembre 2011 i cui atti sono stati pubblicati nel novembre 2012. Gli interrogativi e i suggerimenti sono ancora attuali.
Non esiste la contrapposizione ‘mostre e musei’ se non nella attività di chi privilegia l’uno o l’altro. La proposta, ampiamente motivata e documentata, delle associazioni era la creazione di una sinergia che invitasse il visitatore delle esposizioni a percorrere la città per conoscerne il ricco e affascinante patrimonio di storia, costituito da edifici monumentali, chiese, spazi verdi, musei.

La materia esiste visto che Ferrara è stata dichiarata, dall’Unesco, ‘patrimonio della umanità’; esistono le competenze, l’Università ha il compito di crearle, ove siano assenti. Esistono i problemi e, in molti, la volontà di risolverli.
Confesso un, lieve, senso di smarrimento di fronte alla non conoscenza e alla superficialità dimostrata, congiuntamente, senza distinzione, da chi ha votato un documento nel migliore dei casi insignificante.

LA RIFLESSIONE
La democrazia e il principio di maggioranza

Se circolasse più cultura nel dibattito politico e istituzionale in corso, forse riusciremmo ad evitare un eccesso di personalizzazione che lo contraddistingue. I leader contano. I consensi sono decisivi. Ma è importante capire la concezione che guida i capi e chi li segue. Intanto una misura igienica potrebbe essere non farsi impressionare dalle legittime e semplificate propagande agitate dagli attori politici in campo.
Andiamo alla sostanza. Faccio solo un esempio. A dispetto dei classici della liberal-democrazia (Tocqueville, Stuart Mill…) che avevano ben chiaro il problema, oggi sta imperando un’equazione semplice e pericolosa: democrazia uguale a principio di maggioranza. Vediamo le obiezioni di due studiosi liberali del nostro tempo. J. Habermas scrive: “La regola della maggioranza, considerata esclusivamente come regola di maggioranza, è sciocca perché essa non è mai soltanto una regola di maggioranza. La cosa importante e decisiva sono i mezzi attraverso cui una maggioranza riesce infine a essere maggioranza. Il bisogno essenziale, in altri termini, è migliorare i metodi e le condizioni di ciò che è informazione, dibattito, discussione e convincimento.” (“Fatti e norme” Guerini e Associati). In uno dei classici sulla democrazia del nostro tempo (“La democrazia e i suoi critici” Editori Riuniti), l’americano Robert Dahl immaginando alla maniera platonica un dialogo tra ‘Maggioritario’ e ‘Critico’, segnala come una delle obiezioni più forti contro la regola della maggioranza sia proprio la sua “neutralità rispetto al merito delle questioni”.
Delineata la cornice teorica, proviamo a verificare se ci dice qualcosa circa il modo in cui si sta svolgendo il dibattito pubblico nel nostro paese. Se chi governa (il paese o un partito…) manifesta insofferenza verso le minoranze; si rifiuta di trattare e mediare; abusa del ricorso ai decreti legge e al voto di fiducia; invita chi non condivide la posizione della maggioranza ad adeguarsi nel voto parlamentare, o ad andarsene dal partito; come possiamo giudicare tutto ciò? Grande innovazione? Un cambia-verso? Penso che stiamo da troppo tempo ristagnando dentro una palude che non ci consente neanche di intravedere quale è il vero e complesso cimento che ci aspetta: far evolvere la classica democrazia rappresentativa verso una convivenza virtuosa con la democrazia partecipativa e deliberativa. Il nuovo orizzonte è una democrazia come forma sociale e non solo come fatto istituzionale e politico. Le parole chiave del nuovo lessico democratico dovrebbero essere: società della conoscenza, apprendimento continuo, cittadinanza attiva e informata.

Fiorenzo Baratelli, direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

LA SEGNALAZIONE
Tass, la memoria sempre accesa. Crowdfunding per l’archivio web dell’opera di Stefano Tassinari

“Vorremmo realizzare un sito che raccolga l’opera di Stefano Tassinari: le testimonianze sonore, video, fotografiche e testuali della sua vita e del suo impegno”.
Così amici e compagni dello scrittore scomparso nel maggio di due anni fa annunciano l’intenzione di creare un archivio della memoria che renda accessibili a chiunque i materiali partoriti dall’intelletto creativo del celebre Tass. Tra loro Luca Gavagna, Stefania De Salvador, Agostino Giordano, i componenti dell’Itc Teatro dell’Argine, Stefano Massari, Wu Ming 1.

stefano-tassinari“I materiali saranno organizzati in modo da consentire l’accesso ai documenti per categorie e per data. Abbiamo pensato di utilizzare una piattaforma di raccolta fondi (crowdfunding) per rendere possibile a tutti di sostenere il progetto. La piattaforma prescelta è www.produzionidalbasso.com, una organizzazione attiva da molti anni che ci consente di raccogliere i fondi senza trattenere alcuna percentuale per sé. il periodo in cui il progetto è disponibile alla raccolta è di quattro mesi e scadrà il 6 gennaio 2015. Il sito www.stefanotassinari.it è già stato acquisito ed attivo. Dobbiamo popolarlo di tutti i materiali che in gran parte sono raccolti e conservati in attesa di utilizzo. Cerchiamo di raccogliere 2.450,00 euro per progettare e realizzare il sito, effettuare la standardizzazione dei materiali, acquistare uno spazio Vimeo per ospitare i filmati, pagare dominio e spazio web per almeno 4 anni”.

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Stefano Tassinari con Francesco Guccini

Giovedì sera all’Itc di San Lazzaro, in occasione della proiezione di “Tass”, il film-documentario di Stefano Massari, sono stati raccolti per la causa 125 euro. “Abbiamo superato la metà del budget previsto per la realizzazione del sito www.stefanotassinari.it. Ora siamo a 1.344,00 euro. Con un colpo di coda ce la possiamo fare”. I sostenitori finora sono 44. E restano due mesi di tempo per contribuire. Ferraraitalia lo farà e invita i propri lettori a sostenere questo progetto

Di Stefano Tassinari sulla pagina del crowdfunding vengono riportate le significative note biografiche presenti su Wikipedia, la libera enciclopedia del web. Nato a Ferrara il 24 dicembre 1955, morto a Bentivoglio l’8 maggio 2012, è stato scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano. Ha pubblicato diversi romanzi e suoi racconti sono presenti in una decina di antologie, pubblicate in Italia e in alcuni Paesi stranieri.
Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, è stato ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali “La parola immaginata” e “Ritagli di tempo” (Itc Teatro di San Lazzaro). È stato autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia.
stefano-tassinariHa curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri – scrive ancora il sito – collaborando con attori e registi (tra gli altri: Leo Gullotta, Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Silvano Piccardi, Antonio Catania, Matteo Belli, Ivano Marescotti, Laura Curino e Renato Carpentieri), musicisti (tra gli altri: Paolo Fresu, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Casa del vento, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi (tra gli altri: Mario Dondero, Giovanni Giovannetti, Tano D’Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri).
Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione comunista, fondatore e animatore del circolo Prc “Victor Jara” di Bologna. È scomparso nel 2012 all’età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni.

stefano-tassinariNella pagina che esorta alla sottoscrizione a sostegno del sito stefanotassinari.it è presente anche il ricordo che Wu Ming 1 ha dedicato a Stefano Tassinari sotto il titolo “Una vita…”, un intervento pubblicato dalla Nuova Rivista Letteraria numero 6, dell’ottobre 2012, edizioni Alegre, che proprio Tassinari fondò e diresse sino all’ultimo.
“Nei mesi scorsi – scrive Wu Ming 1 – abbiamo udito e letto tanti aggettivi, come mani che cercano di afferrare un mulinello d’acqua. Forse potranno raccogliere gli oggetti che il mulinello aveva attratto e faceva vorticare (un barattolo, l’ochetta di plastica di un bimbo, il berretto di un pescatore), ma il mulinello stesso no, non si può stringere tra le dita.
Stefano era «poliedrico», ovvero simile a un solido che presenta più facce piane poligonali. Stefano era «eclettico», colui che sceglie, che fa una cernita e mette insieme oggetti diversi. Stefano era «versatile», quindi in grado di cambiare direzione. Mah. È vero che un vocabolo non è la sua etimologia – altrimenti dovremmo chiamare «denaro» (che sta per dieci) solo i biglietti da dieci euro e le monete da dieci centesimi – ma quando un vocabolo è abusato e diventa cliché, allora perde forza immaginifica, e quando viene pronunciato suona debole e spossato, come stesse per cadere all’indietro, per riaccasciarsi sulla propria origine. E così, «poliedrico» evoca la geometria: punti e linee, lati diritti, angoli appuntiti. «Eclettico» fa pensare a uno che pesca di qua e di là. «Versatile» richiama una banderuola agitata dai venti.
Nessuno di questi attributi può rendere l’idea dell’attività molteplice di Stefano come scrittore giornalista drammaturgo autore e conduttore radiofonico e televisivo organizzatore di festival rassegne e presentazioni di libri promotore di iniziative viaggiatore militante politico intellettuale marxista commentatore sportivo. Ho tolto le virgole perché non c’era separazione tra questi aspetti del suo fare, né spaziale né temporale. Noi stiamo cercando di ricostruire e mappare questo concatenamento esteso un’intera vita, senza la pretesa di afferrare il vortice, ma ponendo attenzione agli oggetti che il vortice aveva raccolto – eklektos, appunto: se diciamo che a essere eclettico non è l’individuo ma il concatenamento stesso, allora il termine suona meno stereotipato – e fatto ruotare insieme. Questo numero speciale di Letteraria è un primissimo sguardo d’insieme, al quale seguirà un lungo (e prevedibilmente accidentato) lavoro di composizione di un archivio.

I promotori del progetto spiegando, per chi non ha dimestichezza con Paypal ed è interessato a sostenere il progetto, che si può fare anche un normale bonifico in conto corrente a Luca Gavagna: “Provvederò io a versarlo sul conto Paypal dedicato”.

Il conto (intestato a Luca Gavagna presso Cassa di Risparmio di Ferrara) è
IBAN: IT36Z0615513001000000005383
descrizione/causale: sito Stefano Tassinari

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L’EVENTO
In scena il Giappone di Mishima, un prisma dai Colori proibiti

È molto difficile fare una sintesi della figura e dell’opera intellettuale di Yukio Mishima (1925-1970). Fra i massimi esponenti della letteratura giapponese contemporanea, più volte candidato al premio Nobel per la Letteratura, in Europa spesso travisato e tacciato di fascismo, in realtà interprete di una personale visione del nazionalismo nipponico, che si concentrava sul culto per l’Imperatore come ideale astratto, incarnazione dell’essenza del Giappone tradizionale. Alberto Moravia lo ha definito un “conservatore decadente”.

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Yukio Mishima

Alle spalle Kimitake Hiraoka, questo è il suo vero nome, aveva una biografia complicata, come lo è la storia del Giappone nel secondo dopoguerra, sempre sul filo tra innovazione e tradizione, apertura e conservazione culturale. Le tensioni che vive ed esprime attraverso la sua opera e il suo attivismo politico lo porteranno all’estremo gesto del suicidio rituale: il seppuku, che in Occidente abbiamo da sempre erroneamente definito harakiri. Il Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara ha deciso di commissionare uno spettacolo che su questa figura intellettuale ambivalente e complessa, affidandolo alla compagnia Dulcamara e a Sayoko Onishi, grande interprete di New Butoh. La scelta di questa danza, creata da Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno in Giappone all’indomani della Seconda Guerra mondiale, non è un caso: il butoh è nato proprio con la messa in scena di un romanzo di Mishima e in comune hanno la natura provocatoria e una costante e quasi maniacale ricerca estetica. Alla vigilia del debutto in prima nazionale sul palco estense all’interno del ciclo Focus Japan, abbiamo incontrato Sayoko Onishi in una delle pause delle prove.

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Sayoko Onishi

Da dove è nato il titolo Mishima, l’angelo del nulla?
“Mishima era un vero artista: non solo scrittore di romanzi, ma anche drammaturgo e poeta, inoltre attore e regista. Angelo del nulla perché questa figura di grande spessore, che trasmette l’immagine di uomo potente, quando si analizzano meglio la sua vita e le sue opere si rivela una persona molto sensibile e fragile, che cela un grande amore. Quest’espressione vuole sottolineare soprattutto il fatto che non si riesce mai a cogliere fino in fondo la sua identità: nella sua vita ha tante facce, quella dell’artista e quella dell’ideologo nazionalista di estrema destra, quella del padre e del marito, quella dell’omosessuale. In lui si ritrovano tanti mondi separati, ognuno dei quali è a sé stante, un po’ assurdo, e non coglie interamente la realtà di Mishima: non si sa a quale di questi mondi appartiene, non si sa dove sta veramente”
Mishima è uno dei maggiori autori nipponici contemporanei, forse quello più conosciuto in Occidente, e allo stesso tempo è un personaggio complesso e contraddittorio, a tratti ambivalente, e spesso la sua opera è travisata e strumentalizzata. Come avete lavorato su questa figura?
Per lo spettacolo siamo partiti dai due estremi della sua opera: il suo primo romanzo, quello più autobiografico, Confessioni di una maschera e La decomposizione dell’angelo (pubblicato in Italia anche con il titolo di Lo specchio degli inganni, ndr), l’ultimo della tetralogia Il mare della fertilità. Da questi due lavori abbiamo tratto la maggiore ispirazione, ma in realtà tutte le sue opere, la sua intera biografia, dall’infanzia difficile con la figura opprimente della nonna e quella autoritaria del padre fino al gesto estremo del seppuku (suicidio rituale tramite sventramento, ndr), danno forma allo spettacolo. Affrontare una figura così complessa e contraddittoria non è stato facile, soprattutto per me che devo essere Mishima: ho dovuto intraprendere un viaggio che mi permettesse di interpretare un uomo, soprattutto un uomo come lui, nello stesso tempo fragile e energico, con una sensibilità e un lato femminile molto sviluppati, ma fedele ai valori tradizionali militaristi della società giapponese. Attraverso vari quadri narrativi tentiamo di esplorare tutti questi volti di Mishima, fino alla sua elevazione spirituale dopo il seppuku.

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Yukio Mishima

La rappresentazione di una delle opere di Mishima, ‘Colori proibiti’, viene considerata l’atto di nascita del Butoh. C’è quindi un legame intrinseco fra quest’autore e questa forma di danza…
Mishima frequentava molto i fondatori dell’arte butoh e questi a loro volta erano molto influenzati dalle sue riflessioni e dalla sua opera. Il maestro Yoshito Ono, il figlio di Kazuo Ohno uno dei fondatori della danza butoh, mi ha raccontato che questo rapporto non è iniziato nel migliore dei modi: Mishima non sapeva che la pièce era ispirata al suo Colori proibiti, ne è venuto a conoscenza solo poco prima della messa in scena e ha deciso di assistere, infastidito perché nessuno aveva chiesto il suo permesso. Vedendo lo spettacolo però si è molto emozionato e poi da lì è nato questo rapporto di confronto e influsso reciproco
Sayoko, lei è una delle più importanti esponenti del cosiddetto New Butoh, può spiegarci meglio come si è evoluta questa forma di danza?
Nel tempo ci sono state molte contaminazioni culturali, anche perché in origine i danzatori butoh erano solo giapponesi, mentre ora non più, inevitabilmente la loro cultura entra in gioco nel loro modo di interpretare questa danza. Io stessa vivo fuori dal Giappone da molti anni e dal 2000 abito a Palermo, dove ho avuto una grande crescita artistica. Non c’è più lo stereotipo del butoh, ma come dice il maestro Yoshito il butoh è avanguardia quindi non si deve fermare, deve essere in continuo sviluppo
Ormai da un po’ di anni ha eletto come patria d’adozione la Sicilia, perché questa scelta? Quali sono le differenze e, se ne esistono, le similitudini fra le sue due ‘case’?
Sono arrivata in Sicilia a Palermo perché invitata come coreografa e insegnante dell’Associazione Siciliana Danza, per la quale ormai ho creato ormai diversi lavori con danzatori e attori. La differenza più evidente è che i siciliani sono molto più espansivi e irruenti, noi giapponesi al contrario siamo più riservati, tranquilli, persino troppo formali forse. In comune però abbiamo questa grande intensità delle emozioni che non riveliamo mai fino in fondo e nei miei laboratori di butoh è come se questa intensità accumulata dentro quasi esplodesse.

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Sayoko Onishi

Sayoko Onishi ha cominciato lo studio del butoh a Hokkaido con Ipei Yamada all’interno della compagnia Hoppoh-butoh-ha. La sua formazione comprende inoltre la danza classica e contemporanea, il tai chi e il Chigong. Collaboratrice di Yoshito Ohno, nel 2000 ha dato inizio alla sua carriera artistica in Europa con il trasferimento a Palermo, che le ha permesso di collaborare con l’associazione siciliana ‘Danza’, mentre da coreografa ha cooperato con la Deutsche Oper di Berlino e si è esibita da solista in importanti teatri internazionali.

LA PROVOCAZIONE
Cambiamenti climatici, letale indifferenza

Troppo spesso di fonte a certe informazioni sui cambiamenti climatici e sulle gravità ambientali il nostro atteggiamento è distante e passivo. Sembra che non ci interessi o quantomeno che non siamo in grado di comprendere quale potrebbe essere il nostro ruolo e quale sia la nostra responsabilità. Perché questa indifferenza? Forse la dimensione del problema che riteniamo troppo distante da noi? Forse la situazione presentata appare senza soluzione? Forse la gravità è cosi elevata che ci rende impotenti? Eppure non è cosi. Abbiamo, tutti, più responsabilità e più possibilità di reagire. Vorrei fare un esempio citando alcuni dati.
Esperti ci hanno ricordato alcune questioni importanti:
1. la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica e di altri gas con simile effetto – detti “gas serra” – è aumentata; le emissioni di gas serra dipendono dalle attività produttive e merceologiche umane; la temperatura media della Terra tende ad aumentare. E’ difficile negare che l’aumento della produzione e dei consumi fa aumentare la massa di anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera ogni anno; il solo consumo di circa 10 miliardi di tonnellate all’anno, complessivamente, di carbone, petrolio e gas naturale, comporta una immissione nell’atmosfera di circa 25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. L’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera è la causa dei mutamenti climatici dannosi all’economia, alla salute e alla vita.
2. la prossima guerra sarà quella del clima. Le maggiori città europee potrebbero essere sommerse dall’aumento del livello dei mari. La previsione più rilevante è che il riscaldamento farà scogliere i ghiacci artici, diluendo la salinità dell’Atlantico. Di conseguenza, si interromperà la corrente del Golfo, quella corrente mite che parte dal golfo del Messico per lambire Inghilterra, Irlanda e Mare del Nord. Violente tempeste abbatteranno le barriere costiere rendendo inabitabile gran parte dell’Olanda. Città come l’Aja verranno sommerse dalle acque e dovranno essere abbandonate. Entro venti anni il Nord Europa diverrebbe siberiano, e la popolazione si trasferirebbe più a Sud. Gli iceberg arriverebbero al largo del Portogallo. Disordini e conflitti interni lacereranno l’India, il Sud Africa e l’Indonesia. Aree ricche come gli Stati Uniti e l’Europa diventeranno fortezze e alzeranno il ponte levatoio per impedire l’afflusso di milioni di profughi da terre sommerse dalle acque o regioni incapaci di produrre raccolti. Giappone, Corea del Sud e Germania si doteranno di capacità nucleari al pari di Iran, Egitto, Corea del Nord mentre Cina, India e Pakistan saranno tentati di usare la bomba.
3. le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto i più alti livelli “in 800 mila anni”, “resta poco tempo” per riuscire a mantenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi centigradi: è la sintesi del rapporto del Gruppo di esperti sul clima dell’Onu (Ipcc). Le emissioni mondiali di gas serra devono essere ridotte dal 40 al 70% tra il 2010 e il 2050 e sparire dal 2100, ha spiegato il Gruppo intergovernativo di esperti sul clima (Ipcc) nella più completa valutazione del cambiamento climatico dal 2007 ad oggi. La temperatura media della superficie della Terra e degli Oceani ha acquistato 0,85°C tra il 1880 e il 2012, hanno aggiunto gli esperti dell’Ipcc riuniti a Copenaghen.
La terza notizia è di ieri. “L’azione contro il cambiamento climatico può contribuire alla prosperità economica, ad un migliore stato di salute e a città più vivibili”: lo ha detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. La prima è tratta da un vecchio libro di Giorgio Nebbia “Nessi tra i cambiamenti climatici e l’economia”. La seconda è tratta dal rapporto del Department of Defence (in siglia, DoD) americano e risale a oltre venti anni fa.
Faremmo bene a preoccuparci un poco di più e a trovare la soluzione, partendo dal nostro comportamento. Oggi, non domani.

Un liceo esclusivo contro l’esclusione

Ne hanno scritto quest’estate Le Monde e il Guardian, rilanciata in settembre dalla rivista Internazionale, la notizia per noi della Città della Conoscenza è di quelle golose. Una storia tipo il “Principe e il povero” di Mark Twain, una storia di solidarietà tra condizioni sociali opposte, una storia di riscatti.
La reggia è il prestigioso, esclusivo liceo Buffon nel quindicesimo arrondissement di Parigi, gli attori i suoi studenti e i giovani di cui l’associazione Impulsion 75 si prende cura, per riconciliarli con se stessi, con la famiglia, con la società. L’obiettivo è quello di contrastare gli effetti della dispersione scolastica e di combattere l’emarginazione sociale. Qualcosa che tocca la carne viva del nostro Paese, col suo 17,6% di drop out che ci colloca nelle retrovie delle classifiche Ocse, con circa 70 miliardi di costo all’anno, pari al 4% del Pil.
Il problema investe soprattutto il Sud Italia, con punte del 35% nella sola Sardegna e Sicilia, con Caltanissetta che totalizza il 41,7% di dispersione al termine del quinquennio delle superiori.
Negli ultimi 15 anni, il 31,9% degli studenti delle superiori non ha portato a compimento il suo percorso di studi, ben uno su 3. Giovani tra i 15 e i 24 anni che per effetto della rigidità del nostro sistema scolastico, si affacciano alla vita già perdenti, destinati ad essere cittadini a metà, neppure precari del lavoro, ma precari della vita.

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Il preside con alcuni dei ragazzi

L’esperienza che nasce dall’incontro tra il liceo Buffon di Parigi e l’associazione Impulsion 75 sta a dimostrare che anche la scuola può mostrare il suo volto migliore, che tante sono le strade che si possono percorrere per recuperare tutte quelle ragazze e quei ragazzi che la scuola non ha saputo trattenere e che la chiave di tutto è la fiducia, avere fiducia nei giovani, offrire loro possibilità e alternative, essere in grado di incontrare i loro bisogni che sono soprattutto di essere accettati e ascoltati.
E così il liceo Buffon ha fatto, aprendo le sue aule e i suoi laboratori a questi giovani, spesso etichettati come ‘difficili’, mettendo a disposizione i suoi insegnanti e i suoi studenti. Ha accolto i ragazzi e le ragazze dell’associazione Impulsion 75. Più di 150 giovani, alcuni dei quali con precedenti penali, che hanno ricominciato a sperare, frequentando un corso di cinque settimane per recuperare autostima e costruirsi una prospettiva di impiego.

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Laboratori di teatro

Mentre loro frequentano queste “classi preparatorie per l’occupazione e il futuro”, i loro colleghi, più fortunati, studiano nelle aule vicine per prepararsi ad entrare nelle università francesi. Ma l’incontro ha creato solidarietà e aiuto reciproco, una sorta di ‘cooperative learning’ sui generis, del tutto originale, una presa in carico dei loro compagni arrabbiati contro tutto e tutti, offrendo loro amicizia, aiuto, consigli e, perché no, l’esempio che si può anche non odiare la scuola.
Hanno iniziato in palestra con il tirare di pugni, un modo per conoscersi e per non temersi, per costruire quelle amicizie che solo i ragazzi sanno impalcare. Sì perché, tra le altre cose, il progetto di Impulsion 75 prevede questo.
Il programma organizzato dal liceo Buffon e Impression 75 dura cinque settimane e comprende sport, corsi di teatro, seminari che vanno dall’autostima al diritto, dalla salute all’impresa.

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Allenamenti di pugilato al Liceo Buffon

È proprio la possibilità di fare sport che spesso convince questi ragazzi ad accettare l’offerta di Impulsion 75, a tentare di recuperare un vivere regolare e ordinato delle loro giornate. Alle 9,30 si inizia con il pugilato o uno sport di squadra. Due mattine alla settimana c’è l’improvvisazione teatrale. Durante la pausa pranzo i ragazzi siedono con gli altri studenti e con gli insegnanti del liceo Buffon che li sostengono e li incoraggiano a progredire.
Nel programma di recupero di Impulsion 75 c’è pure il gioco, è il Parigi express che si svolge in giro per la città per imparare a relazionarsi correttamente con gli altri. Ogni mercoledì si visita una grande azienda e qui ci si ferma a mangiare. Alla fine dello stage di cinque settimane, le ragazze e i ragazzi perfezionano il loro progetto professionale, girano un video di presentazione di sé, si allenano a sostenere i colloqui di lavoro, impersonando loro il ruolo dei reclutatori, mentre i candidati sono interpretati dai loro compagni studenti del liceo Buffon.
I risultati sono impressionanti. Nel 2013 l’86% dei ragazzi coinvolti nel programma ha trovato un lavoro o ha frequentato un corso di formazione.
Seimila euro è il costo per ragazzo di questo progetto, finanziato per metà dal pubblico, stato, enti locali, Unione europea e per metà con fondi privati. Ben poca cosa, se si pensa che i francesi hanno calcolato in 230.000 euro nell’arco di una vita il costo di ogni ragazzo che abbandona la scuola. In Francia sono 140.000 ogni anno, da noi oltre 180.000.
Il nostro Paese che ha una splendida storia di inclusione e di integrazione nella scuola, ancora stenta a far fronte all’emergenza della dispersione scolastica. Le timide proposte di questo governo di aprire le scuole per corsi di recupero pomeridiani fanno sorridere di fronte alla portata di una esperienza come quella qui raccontata.
La scuola di tutti non può escludere nessuno. Se accade, è difficile che possa essere colpa solo di chi ancora sta crescendo, e non, prevalentemente, di chi, adulto, è già cresciuto.
Per questo una scuola è davvero aperta solo se sa mettersi a disposizione piena delle necessità di quanti ha escluso.

Per saperne di più leggi il servizio su Le Monde  [vedi] e visita il sito di Impulsione75 [vedi] in lingua francese.

Arzèstula, attraversare l’utero della terra e rinascere

Dal Parco della Chiusa all’ex-autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 26-27 novembre (terza parte) by Wu Ming 1

3.SEGUE – Gli alberi caduti sono molti e chiudono i sentieri con fusti fradici, scivolosi. Tocca scavalcarli, scalarli, le suole troppo infangate per fare attrito, così cado, due, tre volte, e quando riprendo il cammino affondo fino alle caviglie. Sono costretta a piccole deviazioni per pulirmi le suole su rocce e sterpi. Alla mia destra scorre il Reno, possente, non lo vedo ma sento il rombo, di là dalla striscia di bosco della golena, oltre le barriere di ontani e salici e i grovigli di canneti.
Finalmente arrivo al ponte, passerella d’acciaio uguale a come l’ho lasciata. La infilo di buon passo e lì mi appare, il fiume, e mi commuove, azzurro come uno stereotipo ma diverso da ogni altra cosa, il fiume. Scende dall’Appennino e attraversa la grande pianura, percorso inverso al mio.
Dall’altra parte mi attendono le vecchie colline di ghiaia della Sapaba, oggi colline e basta, coperte di piante, verdi da ferire gli occhi. Me le lascio alle spalle camminando più svelta, una frenesia improvvisa mi muove le gambe, via il cappuccio, via la sciarpa, sono quasi a casa, a casa! Un tempo qui c’era un campo nomadi, ma oggi quasi tutta Italia è campo nomadi, e forse buona parte del mondo, ma io sono a casa. Giro verso destra, imbocco un ultimo sentiero ed eccolo. Il Cantagallo.

La mia famiglia mi accoglie festante. Manco da quaranta giorni, da quando decisi di scendere nei miei luoghi, tornare all’origine, far chiarezza nella mente e nel corpo. Da settimane registravo interferenze nelle visioni, provocate dalle ondate di calore, vampate che mi arrembavano da dentro. Le sentivo nel petto, le sentivo alla nuca. Arrivavo al rituale stanca, dopo nottate insonni, infastidita da pisciate urticanti e dall’attrito dei polpastrelli su mucose asciutte, innervosita da ogni cosa. A volte scoppiavo a piangere durante il racconto e contagiavo gli altri, tutto si inceppava. L’ingresso nella nuova età turbava la mia funzione, la menopausa mi obbligava ad affrontare il futuro spicciolo, a chiedermi che sarebbe stato di me e del mio posto nel mondo. Addio definitivo alla fertilità: un contraccolpo anche per me, infertile da sempre per capriccio dell’utero. Dovevo fermarmi, ritrarmi, ritrarmi e ripensare tutto, ricordare tutto, lontana da qui, innestata in un altro tempo. E scuotere il corpo, metterlo alla prova.
– Stasera celebriamo! Si mangia, si beve e si fa l’amore! – annuncia Nita. E’ bello rivederla. Quaranta giorni fa, nel salutarmi, la sua voce era rotta e disforica. Oggi squilla come i telefoni di quand’ero bimba. Nita ha venticinque anni, io ne sto per compiere cinquantadue. Siamo il vice e il versa. Mentre ero via, lo so, è stata lei a dirigere il rituale, a vedere, ad avviare il racconto. Ho fiducia, so che ha lavorato bene. Le ho insegnato
molto di quello che so.
Molto, sì, ma non tutto. Io stessa non so di sapere molte cose, dunque non sono in grado di insegnarle.
Io vedo, e molto di più non saprei dire.
Io sono la veggente del Cantagallo, la donna che guida questa famiglia, che vede e racconta i futuri remoti. Ho attraversato la mia crisi nella Crisi, e sono tornata dove sto meglio, per vivere con quelli che amo, invecchiare con quelli che amo, e un giorno morire con quelli che amo al mio fianco.
Eccoli, ridono, mi abbracciano e baciano. Gli abbracci di chi ha un solo arto mi inteneriscono, sono sghembi, ricordano la posa di un danzatore di sirtaki.
Eccoli, i miei piccoli, con le loro malattie, le loro forze, le loro speranze. Saluto Antioco, che ha la sindrome di Capgras. Se mi guardasse in volto non mi riconoscerebbe, gli apparirei come un’estranea che mi somiglia, manichino di carne con le mie fattezze. Per volermi bene, per volere bene a chiunque, deve chiudere gli occhi, perché la voce, quella, rimane vera. Abbassa le palpebre, mi ascolta e sorride.
Saluto Ileana, che ha la sindrome di Fregoli. Non mi guarda nemmeno, si muove con gli occhi umidi verso Nita, la abbraccia emozionata e la saluta… chiamandola col mio nome. Nita non la corregge, io nemmeno. Va bene anche così.
Saluto Ezio, che è quasi cieco ma non lo sa, si rifiuta di saperlo. Ha la sindrome di Anton. Mantiene lo sguardo spento puntato sul mio naso, forse il mio viso è solo una macchia pallida, e forse nemmeno quella, ma Ezio è felice di rivedermi e dice: “Hai un’espressione radiosa, il viaggio ti ha proprio fatto bene!” Saluto Demetra, Tiziano e Lizebet, che non soffrono di alcuna sindrome. Saluto Edo, Yassin, Pablo e Natzuko. Saluto i bimbi che mi si aggrappano alle gambe. Saluto i cani e le capre, saluto col pensiero ogni animale e ogni pianta nella nostra orbita, intorno a questo mondo di profughi splendenti, questa nazione messa insieme in un vecchio autogrill, a cavallo di un’autostrada sgombra, dove suscita meraviglia il raro passaggio di veicoli a motore. Quest’autogrill che può ancora funzionare come tale, perché diamo ristoro e riparo ai viandanti, perché viandanti lo siamo stati tutti, prima di arrivare qui da vicino o da lontano.
Reietti. Reietti che ogni mattina afferrano il futuro per la coda e fanno sci d’acqua sul presente, lieti di esserci, pronti ad affrontare il giorno, ad allevare e coltivare, insegnare ed educare, partire per esplorare, tornare per raccontare.

Notte fonda, la luna è un filo curvo e non c’è ombra di nubi. Guardo l’A1 dalla lunga vetrata che la sormonta. Ogni pietra, ogni lastra, ogni chiodo e vite del Cantagallo potrebbe narrare un milione di storie.
Qui, nel 1972, i dipendenti entrarono in sciopero improvviso e spontaneo, per non dover fare il pieno e servire il caffè a un politico di allora, Giorgio Almirante. Ne nacque una canzone popolare, forse una delle ultime, ancora la ricordo: “Arrivato che fu al Cantagallo / ha di fronte un bel ristorante / meno male, pensava Almirante: / cosi almeno potremo mangiar. / Tutti fermi, le braccia incrociate, / non si muove nessun cameriere. / Niente
pranzo per camicie nere, / a digiuno dovranno restar.”
Oggi sembra un mito dell’Età del Bronzo.
– Chi era Al Mirante? – mi ha chiesto Nita un pomeriggio d’estate.
– Era il capo dei fascisti.
– E chi erano i fašisti?
Qui, la notte di Capodanno del 2002, fu battuto il primo scontrino nella nuova valuta, l’euro. Ne scrissero i giornali. Il cittadino detentore del primato si chiamava Lorenzo. Il suo acquisto: una confezione di chewing-gum pieni d’aspartame.
Ricordi della Seconda Età del Cancro.
– Cos’era lo spartame? – mi ha chiesto Pablo una sera d’autunno.
– Una cosa dolce che faceva molto male alla salute, ma tutti la
mangiavano e bevevano.
– E perché, se faceva male?
Qui, nel 2006, un camionista gridò di avere indosso una cintura esplosiva e seminò il panico nel ristorante. Esigeva che la polizia gli sparasse, altrimenti avrebbe fatto saltare l’edificio. Desiderava essere ucciso. Il Cantagallo fu evacuato e le autorità chiusero il tratto di A1 da Casalecchio a Sasso Marconi. Fu il caos in mezza
Italia. Dopo un’ora di trattativa, la polizia convinse l’uomo ad arrendersi. Sotto il giaccone aveva un cuscino, il filo del detonatore era il caricabatteria del cellulare. Disse che aveva problemi lavorativi, era sfruttato e la sua famiglia stava andando in pezzi.

La mia invece no. Dopo la festa, c’è ancora musica suonata in qualche stanza. Qualcuno si aggira discutendo, altri ronfano, rassicurati, avvinghiati l’uno all’altro nei sacchi a pelo.
Salgo sul tetto, dove abbiamo costruito la specola. E’ una notte ideale per vedere gli astri. Notti così son meno rare di una volta, la Crisi ha reso tersa la volta celeste, non ti senti più sul fondo di un bicchiere d’orzata fluorescente.
Non tocco il telescopio. Si vede a occhio nudo l’ammasso delle Pleiadi, figlie di Atlante e Pleione.
Quando ti perdi tra acqua e terra, fissa il cielo notturno, frugalo in cerca di segreti. Lo spazio profondo sarà là per attirarti, supplizio di Tantalo fatto di vuoto.
Dopo, calerai di nuovo lo sguardo, rinfrancata, conscia del tuo baricentro.
Ho attraversato l’utero della terra, ho visto il rompersi delle acque e sono rinata.
Di nuovo al mondo, di nuovo al mio posto.
Per me.
E per gli altri.

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Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]