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Domenica 21 dicembre, nei pressi del Museo Archeologico a Palazzo di Ludovico il Moro, un trambusto di macchine e biciclette rendeva la via animata, una via di solito tranquilla e regale come i palazzi e le chiese che l’attorniano. Era annunciato il Concerto di Natale voluto dalla Sovrintendenza per i beni archeologici dell’Emilia Romagna dalla Direzione regionale per i Beni culturali dell’Emilia Romagna, ma soprattutto dall’appassionato lavoro di Caterina Cornelio direttrice del Museo.

Come al solito, l’organizzazione era affidata a Bal’Danza la benemerita associazione che con il suo lavoro ci porta fuori dalle mura cittadine. Ma il concerto annunciato si preannuncia come uno “scandalo”. E’ la “Misa a Buenos Aires” (Misa Tango) di Martin Palmeri, anticipata da quattro Milonghe di Astor Piazzolla di carattere sacro.
Ma come? La musica e le voci più sensuali e laiche del nostro tempo vengono accoppiate alla perfezione della parola sacra? L’audacia della proposta si fonde e si confonde nell’aria, con l’’aura’ dell’immenso e perfetto salone del palazzo rinascimentale ornato da imponenti crateri spinetici che esaltano divinità altre. Non cristiane: ombre di un’esigenza che affonda le sue radici nella pretesa umana di andare oltre il contingente e di riaffermare con la bellezza l’origine divina della nostra umanità.
E questo concerto ben si conforma alla volontà di papa Francesco venuto dalla fine del mondo, quella “finis terrae” da cui emergono i fantasmi dell’Ulisse dantesco e dei tanti eroi che osarono mettersi in gioco per portare al mondo una prova del divino, di testimoniarne la bellezza come attributo di Dio. Ben lo comprese Montale in “Verso Finistere” rivolgendosi alla sua donna “Forse non ho altra prova/ che Dio mi vede e che le tue pupille/ d’acquamarina guardano per lui”. Così il premio Nobel argentino Jorge Luis Borges, l’Omero cieco della tradizione tanghera, colui che al tango affida il senso di un carattere nazionale che ha fatto degli argentini un popolo, scrive nel suo poema “El Tango”: “Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi, il barrio amato, la madre, pene e allegria, odore di bordelli e di attaccabrighe.”
E per i settant’anni del Papa migliaia di argentini l’hanno festeggiato tra via della Conciliazione e Piazza San Pietro ballando il tango. Il tango, scrive ancora Borges “trasgredisce e lì sta la sua attrattiva. In questa sensazione di libertà che accende tutti i tipi d’emozione”.

La “Misa a Buenos Aires” è recente. Composta tra il 1995 e il ’96 da Martin Palmeri, accosta in modo assai originale lo stile del tango al testo sacro latino.
Entrano prima i musicisti: Cristina Bilotti al pianoforte, Roberto Rubini al contrabasso, Massimiliano Pitocco al bandoneon, quella particolare forma di fisarmonica di legno tipica della tradizione argentina. Poi le voci del coro precedute dal direttore Stefano Sintoni. Si chiamano Ludus Vocalis e sono una recente formazione ravennate costituitasi in Associazione corale nel 2006. Tutte le donne portano una rosa rossa, chi al collo fermata da un nastro di velluto chi tra i capelli o sulla spalla. Tra gli uomini s’intravvedono ragazzi africani e asiatici.
Il contrabbassista si sistema su uno sgabello alto e il suo strumento esibisce una fiera testa di leone in legno; la pianista accarezza il pianoforte e il suonatore di bandoneon si accoccola su uno sgabellino ai piedi dei coristi e appoggia lo strumento alle gambe ordinatamente e disciplinatamente serrate. Poi ecco diffondersi le note inconfondibili del tango. Il suonatore di bandoneon – che si rivela poi essere professore di fisarmonica all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, una delle rarissime cattedre di questo strumento – si concentra. Come un bambino, il labbro inferiore è stretto tra i denti nell’intensità di rendere il suono e all’unisono le gambe scattano a sottolineare e rendere più profondo il grido del bandoneon.

Così si diffondono nel silenzio stupefatto le parole del Kyrie, del Gloria, del Credo, del Sanctus-Benedictus fino all’Agnus dei e si raggiunge così quella “sensazione di libertà che accende tutti i tipi d’emozione” di cui poetava Borges.
Si dimenticano così rancori e barriere, invidie e umori neri. La “Melencolia” düreriana lascia il posto all’infinita libertà dello spirito, al coraggio di sentirsi finalmente uomini. Non importa se la musica non sia una vetta musicale; importa che una voce, la voce del popolo, di un popolo esprima questa ansia di assoluto, accompagnando come una carezza le parole divine che escono dalle voci maschie di chi sa quali gauchos mentre la voce del soprano, Elena Sereni, invoca fino a spengersi in un sussurro la pace invocata e continuamente negata.

Che straordinario spettacolo! Resta di fronte a questa libertà di pensiero un unico rammarico. Perché ancora oggi nelle chiese non si può eseguire musica profana e solo musica sacra.

Non è tutta la musica sacra?

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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