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Presto di mattina /
Allarga lo spazio della tua tenda

Presto di mattina. Allarga lo spazio della tua tenda

Sotto questa tenda
di cielo imporrito
la terra
sloga
in un grande arco teso
e brilla poi
dissetata
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Garzanti Milano 1996, 382)

L’immagine della tenda, già presente nel periodo dell’infanzia del poeta quando abitava nel quartiere di Moharrem Bey – al limite del deserto egiziano, “in una zona a quei tempi ancora deserta, colla tenda del beduino a quattro passi da casa” – riaffiora potente nelle liriche del tempo di guerra, evocativo dell’esperienza di precarietà dei soldati, di fragilità e indigenza estrema. Accerchiato dalla quotidiana presenza della morte, con la vita costantemente appesa a un filo, la tenda diventa espressione di un riparo, di un provvisorio rifugio, ma pure della inconsistenza e caducità di una “vita d’uomo”.

Al pari di altre poesie di quel periodo, come Veglia, Soldati e Preghiera, anche Sotto questa tenda esprime l’angoscia e la perdurante precarietà dell’esistenza esposta all’imprevisto in agguato – “come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie/ – ma al contempo la capacità di trovare nell’insensatezza della guerra qualcosa di fugace, eppure non ostile: la tenda appunto, che ridesta l’attimo di un bagliore di luce nell’orrore della trincea, un resto di senso e di bello che ti fa sentire come non mai “attaccato alla vita”.

E quando avverrà il cambiamento, la fine della guerra, “quando il mio peso mi sarà leggero” vi sarà un risveglio e una preghiera: “Il naufragio concedimi Signore di quel giovane giorno al primo grido”. Il naufragio: che non è per Ungaretti un termine negativo, ma un’esperienza di rinascita in cui perdersi, e “principia in un grido”.

Non meravigli allora di trovare questo testo inserito nella raccolta intitolata Allegria – anche se il primo titolo era Allegria di naufraghi. A detta dei critici qui si intende quel che resta di senso, nel nulla che sta quando si è risucchiati nel gorgo della guerra.

La parola esprime quell’attimo fugace in cui si coglie la presenza insperata di un momento di vitalità, una momentanea via di uscita, di sospesa serenità. La tenda allora è come il legno per un naufrago: è un senso si sollievo, un respiro, un altro respiro ancora possibile, attimo di quiete tra un’onda di tempesta e la successiva.

Sotto la tenda del cielo che, perduta la plumbea durezza, appare come sporgersi di escrescenze – “cielo imporrito” scrive Ungaretti, un ribollire o tumefarsi come di legno imbevuto d’umidità – la “la terra sloga”, letteralmente cambia luogo, forma, immagine: per l’inarcarsi dell’orizzonte qualcosa brilla oltre la linea del fronte, una resistenza all’annientamento che basta a dissetare la terra.

Tenda di argilla

Precaria stabilità: così il libro della Sapienza parla della condizione umana. «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (Sap 9,14-17).

È qui presentata anche la condizione del nomade della fede, nel luogo non luogo del deserto del vivere, sul bordo tra credenza e incredulità. La tenda è vista così come il limite, ma pure come superamento, luogo in movimento verso un altrove.

Tuttavia la tenda di argilla screpolata e polverosa per la canicola, o fangosa poltiglia per le inondazioni, non è lasciata sola, né abbandonata alla deriva di sé stessa. Vita condivisa, invece, raccolta e presa con sé da Colui che si è fatto nomade con i nomadi in umanità: «Certo, non abito in una casa dal giorno che trassi i figli d’Israele dall’Egitto fino ad oggi, ma sono andato vagando in una tenda… Ho detto mai a uno dei giudici d’Israele: Perché non mi avete costruito una casa di cedro?» (2Sam 7,6-7).

Ma la Parola invece discese
a volo d’aquila sopra la preda:
lui era solo attesa e silenzio,
sotto la tenda da anni in silenzio.
E come turbine esplose la voce:
alla sua eco tremava il deserto:
pareva il grido di tutti i profeti,
voce venuta dal fondo dei secoli.
(D. M. TuroldoG. Ravasi, Opere e giorni del Signore Commento alle letture liturgiche, Cinisello Balsamo MI 1990, 975).

Allora scendesti dapprima
sole sulle grandi macerie
poi penetrasti nel seno alla Donna
indi bambino a giocare e piangere …
D’allora ti cerco negli occhi degli uomini.
in case e prigioni: qui sulla terra
nuova ha piantato la tenda
(D. M. Turoldo, O sensi miei… Poesie 1938-1988, 224)

Il segreto della tenda d’argilla

Il segreto che custodisce la tenda d’argilla è l’ospitalità, quella di un’intimità senza sponde, personale, planetaria e cosmica: «Chi sarà dunque tuo ospite, / Signore, nella tua tenda? Egli mi nasconderà / nella sua dimora quando giungeranno / i giorni della sventura; mi mette al sicuro / nel segreto della sua tenda» (Sal 27, 5).

Faccio spesso lo scambio, quasi fosse un sinonimo, tra la parola santità e ospitalità, perché la santità di Dio si è manifestata tutta nella santità ospitale di Gesù. Questi è la sua tenda tra noi (Gv 1,14) per tutti i popoli, il luogo del suo convenire ospitale. “E il Verbo si fece carne/ e venne ad abitare in mezzo a noi”. Dove il verbo “venne ad abitare” nel greco ha un singolo termine, eskénosen, che deriva della stessa radice di skéne il cui significato è appunto tenda.

Il mestiere di Paolo, l’apostolo delle genti, era quello di fabbricatore di tende skénopoios, costruttore di luoghi di ospitalità evangelica, che annunciassero e testimoniassero il segreto dell’ospitalità di Dio per l’uomo.

È stato proprio questo verbo ad aver suggerito a don Tonino Bello (1935-1993), un vescovo fatto nomade di pace sulle strade dei Balcani, questa riflessione: «Se oggi San Paolo, l’infaticabile costruttore di tende, tornasse in mezzo a noi, che cosa ci direbbe? Anzitutto, ci esorterebbe a riscoprire lo spirito della tenda, che è lo spirito del cammina, cammina.

Ci farebbe recuperare in termini più convinti lo stile di chiesa missionaria, inviata non ad “annunciarsi addosso”, ma a proclamare Cristo morto e risorto in un mondo che non lo conosce, o non lo accetta, o lo combatte o, peggio, se ne infischia. Iniziandoci ad una coscienza veramente planetaria, sniderebbe dalle nostre abitudini concettuali l’idea di una Chiesa pacifica, rannicchiata, introversa, autosufficiente, sedentaria” (Luce e vita, Testimoni nel tempo, 19 aprile 2009).

La tenda sinodale

Don Tonino ha ricordato poi che è fondamentale abitare sotto la stessa tenda, condividendo una vita in comune. E ricorda il sostantivo plurale contubernales con cui i latini indicavano i partecipanti insieme ad una tenda, come i soldati romani o i compagni di campo, i chiamati a praticare la comunione di tenda:

“Dallo stile di San Paolo è lontanissimo il desiderio di lusingarci col proverbio “l’unione fa la forza”! Il suo anelito non ha nulla a che fare né con la convulsione propagandistica né col proselitismo di chi vuole annettersi spazi o sogna scenografie di potenza. Ci parlerebbe di comunione perché la Chiesa, maturando sull’albero della Trinità che è mistero di comunione, essendo cioè icona della Santissima Trinità, agenzia periferica della Santissima Trinità, punto vendita dei beni che si producono all’interno della Santissima Trinità che sono beni di comunione… non può vivere al suo interno la sindrome della scomunica: la disgregazione delle persone, il molecolarismo dei progetti, la frantumazione degli sforzi» (ivi).

Infine don Tonino ha messo in guardia dal pericolo di isolarsi dal mondo, e rinchiudersi nella tenda. Lo stesso pensiero di Pietro sul monte Tabor quando esclamò “è bello stare qui, facciamo tre tende”, senza sapere – commenta l’evangelista – “quel che diceva”. La tenda del vangelo-chiesa-mondo invece è spazio di speranza, movimento, incontro dell’altro, poiché la speranza viene dal camminare umilmente insieme. Grazie alla tenda si può procede oltre lo schema fisso che costringe a vivere in un loop che condanna all’immobilismo la vita girando su se stessa, bucando la trama del si è sempre fatto così e impedendo che «la sequela di Cristo si riduca a intimistico sedentarismo spirituale».

Allarga la tua tenda

Il sogno e la missione di Paolo è stata quella di una chiesa come tenda sempre aperta. Luogo di intimità e di socialità per una comunità inclusiva ed estroversa insieme.

Non sorprende allora che lo stile di Paolo e la profezia di don Tonino siano state recepite nel recente sinodo ecclesiale, che nel documento di lavoro presentato alla tappa continentale – quella che ha raccolto gli orientamenti di tutte le chiese sparse nel mondo – ha posto come titolo un brano di Isaia: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti» (Is 54,2).

Ai nn. 27-28 leggiamo: «Ascoltate oggi, queste parole di Isaia ci invitano a immaginare la Chiesa come una tenda, anzi come la tenda del convegno, che accompagnava il popolo durante il cammino nel deserto: è chiamata ad allargarsi, dunque, ma anche a spostarsi…

Allargare la tenda richiede di accogliere altri al suo interno, facendo spazio alla loro diversità. Comporta quindi la disponibilità a morire a se stessi per amore, ritrovandosi nella e attraverso la relazione con Cristo e con il prossimo: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

La fecondità della Chiesa dipende dall’accettazione di questa morte, che non è però un annientamento, ma un’esperienza di svuotamento di sé per lasciarsi riempire da Cristo attraverso lo Spirito Santo, e dunque un processo attraverso il quale riceviamo in dono relazioni più ricche e legami più profondi con Dio e con l’altro».

Così il tempo della tenda nel deserto diventa il tempo della disponibilità totale all’ascolto, all’accoglienza e alla condivisione, del prendere con sé, al fine di giungere a decisioni comuni di maggiore coerenza della vita al vangelo.

«In questo percorso, le Chiese si sono rese conto che il cammino verso una maggiore inclusione – la tenda allargata – si realizza in modo graduale. Inizia con l’ascolto ed esige una più ampia e profonda conversione degli atteggiamenti e delle strutture, nonché nuovi approcci di accompagnamento pastorale e la disponibilità a riconoscere che le periferie possono essere il luogo in cui risuona un appello a convertirsi e a mettere più decisamente in pratica il Vangelo. L’ascolto richiede di riconoscere l’altro come soggetto del proprio cammino» (n. 32).

Tenda dell’amicizia fraterna tra i popoli

Nel suo viaggio in Mongolia papa Francesco ha notato la caratteristica delle tende del popolo ger, e ne ha colto il loro significato simbolico. Non sono tende chiuse ma aperte perché la finestra è posta in alto, il suo soffitto è lo spazio infinito del cielo e la porta sconfina nelle infinite pianure e deserti dell’Ordos e dei Gobi:

«Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger…

Le ger, poi grazie alla loro adattabilità agli estremi climatici, consentono di vivere in territori molto variegati… Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è…

Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto» (Discorso del 2 settembre 2023).

Una ger è un luogo di relazione poliedrica, multiforme, sconfinata, che attraversa i confini non solo tra cielo e terra ma del cuore; lo apre ad altre intimità verso i punti cardinali terresti ed esistenziali, verso il segreto delle stelle nella notte, lo stesso che abita la tenda di Dio.

Tu sei il Dio del vento e del tuono,
sei la colonna di fuoco la notte,
nube e riparo del sole nel giorno:
un Dio che ancora ci parla dal rogo!
Dio vagabondo con noi nei deserti,
che nella tenda hai voluto abitare
condividendo la sorte dei poveri
sempre in cammino avanti al tuo popolo.
(Turoldo, Opere e giorni del Signore, 586).

La tenda del “Padre nostro”

La mia tenda è la preghiera del Padre nostro, il dono di Gesù ai suoi amici, il dono della sua preghiera. Preghiera che è il dono di sé stesso al Padre e a noi. La tenda di quando pregava di notte sul monte e il Padre suo era là; là pure sotto la tenda del loro inaudito e spirante amore quando nella pianura dispiegava la sua umanità abitata dallo Spirito di Dio, ospitando poveri, esclusi, guarendo i malati, riconoscendo essere tenda di Dio quella stessa degli uomini e delle donne delle beatitudini, e rivelandolo a loro come il Padre nostro dei cieli.

Perché il Padre nostro, come la ger delle Mongolia, ha sì una finestra verso il cielo e le sue stelle, le Pleiadi. Quelle che invece brillano sotto il cielo della tenda, nel Padre nostro, sono le Beatitudini del Regno, e quando le hai imparate a memoria ti fanno uscire dalla tenda per la sua porta sempre aperta e ti guidano all’incontro con le persone. È proprio allora che le senti mormorare dentro di te e nel respiro della gente:

Abbattete i reticolati di queste
città-lager
dove ognuno è cintato
dal sospetto perfino del fratello…
Una tenda vi basti a riparo
dalle bufere,
e Dio ritorni
vagabondo
a camminare sulle strade,
a cantare con voi
i salmi del deserto.
Vi basti leggere il vostro
nome nel vento
e nel cielo azzurro:
mormorato
sotto una palma
nelle pause dei canti.
(Turoldo, O sensi miei, 572).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)