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Presto di mattina /
L’Assunta, varcar la soglia e uscire al sole

Presto di mattina. L’Assunta, varcar la soglia e uscire al sole

“È la morte un’aurora” (Turoldo)

Ecco si tendon le braccia le madri,
di gioia il grembo trasale all’anziana:
più del creato ora grandi parole
da quella soglia avvolgono il mondo.
Udì la voce per prima la sterile,
sentì la grazia il bimbo dal ventre:
quale mistero la carne nasconde,
cosa nascondono in seno le madri!
Udì la donna secondo natura,
il figlio invece secondo il mistero:
e tutto fuori appariva normale,
mentre la giovane prese a danzare:
con quale voce cantavi, Maria!
Gli antichi salmi parevan brillare
di luce nuova e fondere i colli,
e tutti i poveri ti odono ancora!
(D.M. TuroldoG. Ravasi, Opere e giorni del Signore, Paoline, Cinisello B. 1990, 1412).

Canto scaturito dall’incontro di Maria con la cugina Elisabetta, il Magnificat –sussulto di esultanza per il mistero nascente che le due donne portavano in grembo – lo si può leggere come lo spartito musicale/esistenziale in cui si sviluppa la storia e il distino dell’umanità, sulle note della vicenda del venire di Cristo, abbassato, umiliato nella morte, ed innalzato come uomo nella sua risurrezione. Così l’Assunzione di Maria comincia già con questo inno di esultanza, che diviene per noi un segno di sicura speranza, anticipazione e primizia, come il suo, di un compimento certo dell’umano.

L’Assunzione al cielo o la Dormitio Mariae (in greco “Koimesis” “sonno” o “dormizione”), così detta presso le chiese orientali, è la forma del suo morire. Dove, direbbe p. Turoldo “la morte è un aurora”, di più «un attimo d’aurora».

Ma la Morte è come varcar la soglia
e uscire al sole.
La Morte, atto d’amore,
ingresso all’universale Presenza…
È la Morte un attimo d’aurora.
che appena dispiega il nero involucro
della notte ai suoi piedi abbandonato…
O fratelli, Cristo si è incarnato
per uscire dalla vita
e assorbire la Morte,
per giudicare la vita da lontano
come una cosa perduta
e mettersi a cercarla.
Egli se n’è andato da Lui
per sentire la gioia del richiamo,
e gustare tutti i giorni
il Suo bacio fulminante.
Egli non ha lasciato più la carne
da quando è nato, d’allora
non ha lasciato un giorno di morire.
(Turoldo, O sensi miei… Poesie 1948-1988, Rizzoli, Milano 1997, 143-144).

Sulle labbra di Maria morente/dormiente l’ultimo sospiro, suo canto ultimo nei versi del suo cantore:

Tu hai voluto nascere, Tu hai scelto la Morte,
o Dio consorte dell’uomo.
Io vorrei morire come l’aurora
disfatta nel sole, come la notte
nell’ aurora, come la luce nella notte.
Sentire così
quanto dev’essere forte
l’abbraccio di Dio che mi ha fatto
per la mia Morte,
per questo spazio ricolmo
solo dal silenzio del Suo Verbo
risucchio di tutte le parole
(ivi, 142).

L’Assunta, donna dello sguardo dal basso

«Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,/ perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1, 47-48). La sua umiltà sta tutta nel suo sguardo dal basso. Lì comincia e da lì si è compiuta tutta la sua vita. L’umiltà, che equivale ad abbassarsi verso qualcuno, permette di assumere la vita nella sua interezza, perché apre lo sguardo sulla realtà più profonda; e poi come il seme nella terra, dalla terra si innalza, ma non più sola.

L’Assunta è allora colei che ha vissuto guardando con gli occhi della fede verso l’alto, ma senza mai distoglierli dal basso, dal soffrire umano. È colei che ha visto chiaramente anche là dove gli altri chiudevano gli occhi: l’umile storia dei poveri di Dio sotto e dentro i grandi eventi e le vicende sconvolgenti o salutari della storia e dei destini umani, e nel Figlio ne ha intravisto il riscatto, il cambio di sorte.

“Lo sguardo dal basso” è un inaspettato assist venutomi dalla lettura di alcune pagine di Resistenza e resa che raccoglie gli scritti della prigionia del pastore protestante e teologo Dietrich Bonhoeffer, scritte dal carcere di Flossenburg dove incontrò la morte per mano dei nazisti il 10 aprile 1945.

Egli scriveva: «Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi – in una parola: dei sofferenti.

Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vederla grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la riflessione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale», (Lo sguardo dal basso, in Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2002, 40).

Senza terreno sotto i piedi

Alla domanda che cosa volesse fare della sua vita, Bonhoeffer rispose: “Imparare a credere” (Lettera del 21 luglio 1994) seguendo Cristo. Perché la fede è sequela, avvia una relazione interpersonale, si connota come peregrinazione e beatitudine.

E il concilio ha evidenziato questo tratto della fede in cammino, proprio in Maria, la peregrinazione della sua fede verso il tesoro nascosto, la perla preziosa: «Così anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, soffrendo profondamente col suo Unigenito», LG 58). Peregrinazioni di madre dietro le peregrinazioni del Figlio, transito della madre nella pasqua del Figlio.

Il terreno viene a mancare sotto i piedi a chi cerca nella fede un fondamento statico. La fede non è un punto inamovibile, un bene di rifugio in cui nascondersi estraniandosi dal resto; né certezza acquisita una volta per tutte. Semmai è itineranza continua, claudicante: l’altro mi manca; è rischiare tutto in avanti nell’altro e in lui sa essere certa la meta e la dimora. Speranza concreta che assume in sé il mistero del portare l’altro, solleva chi è in basso, fa suo tutto il travaglio che comporta il passare da un’umanità divisa e lacerata in frammenti a una pluralità pienamente unita.

La fede calca il sentiero che porta dall’uomo dal cuore doppio, instabile in tutte le sue vie, all’“anthropos téleios” (Bonhoeffer), all’essere umano compiuto che affronta con animo indiviso e compassionevole le frammentazioni, gli sconvolgimenti del mondo coniugando le esigenze di una spiritualità integralmente vissuta senza rinunciare ad una fedeltà alla terra e all’umanità fianco a fianco ad esse.

Suggestiva è allora l’immagine che di questa itineranza dà Bonhoeffer: «Noi ci troviamo nella stessa situazione di chi vuole camminare su un mare di lastre di ghiaccio galleggianti. Costui non può mai fermarsi, non può mai pensare troppo a lungo al prossimo passo, altrimenti gli manca il terreno e sprofonda nell’abisso; appena ha spiccato un salto deve subito pensare al prossimo, e poi ad un altro e ad un altro ancora, sotto di lui l’abisso e davanti, egli lo sa, la terra» (Cit. in A. Gallas, Anthropos téleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana Brescia 1995, 332-333).

Attraverso la Pasqua riceviamo la forza della vita

L’assunzione di Maria è il suo “transitus”, è la sua Ascensione. l’Assunta così significa, ripresenta ed attua in lei lo stesso destino del Figlio: l’itinerario che lega insieme la risurrezione con la sua ascensione.

Annota in una lettera Bonhoeffer: «È da tempo che amo in modo particolare il periodo che intero corre tra la Pasqua e l’Ascensione. Anche qui è in gioco una grande tensione. Come possono gli uomini sopportare tensioni terrene, se non sanno nulla della tensione tra cielo e terra?» (Resistenza e resa, 356).

E alla madre dal carcere (10 aprile 1944) scrive: «È stato sempre molto importante per me il tempo che intercorre tra la Pasqua e l’Ascensione. Il nostro sguardo si dirige già a quest’ultimo evento, ma restano gli impegni, le gioie e i dolori che abbiamo su questa terra, ed è attraverso la Pasqua che riceviamo la forza della vita… preparato alle cose ultime, all’eternità, e tuttavia ben presente agli impegni, alle bellezze e alle pene di questa terra. Solo su questa strada possiamo essere, gli uni di fronte agli altri, del tutto lieti e tranquilli. Vogliamo ricevere, con le mani tese e aperte, ciò che Dio ci dona, e rallegrarcene di tutto cuore; e vogliamo rinunciare con cuore pacifico a ciò che Dio ancora non ci concede o ci toglie» (Resistenza e resa, 356).

Pasqua significa vivere partendo dalla risurrezione

E all’amico Eberhard Bethge scrive: «Pasqua? Il nostro sguardo cade più sul morire che sulla morte. Per noi è più importante come veniamo a capo del morire che non come vinciamo la morte. Socrate ha vinto il morire, Cristo ha vinto la morte. Venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte. La vittoria sul morire rientra nell’ambito delle possibilità umane, la vittoria sulla morte si chiama resurrezione.

Non è dall’ars moriendi, ma è dalla resurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore. Se un po’ di persone lo credessero veramente e si lasciassero guidare da questo nel loro agire terreno, molte cose cambierebbero. Vivere partendo dalla resurrezione: questo significa Pasqua. Non trovi anche tu che la maggior parte delle persone non sanno a partire da che cosa vivono?» (ivi, 346).

Il Magnificat è come una lettera dell’Assunta anche per noi, in cui canta la sua esperienza di fede attraverso il suo sguardo dal basso, un invito che attraversa le generazioni a fare altrettanto, una porta che apre alla speranza.

Per Bonhoeffer, quando gli giungevano le lettere, era come se si aprisse la porta della prigione. Lo scriveva così ai genitori Karl e Paula: «Il bisogno di gioia è molto grande in questa casa tanto severa, dove non si sente mai ridere – e anche il personale di guardia, con le esperienze che si fanno qui, sembra aver disimparato a farlo – e ogni fonte di gioia, interiore o esteriore, la si sfrutta sino in fondo.

Oggi è la festa dell’Ascensione, un giorno di grande gioia per quanti credono che Cristo governa il mondo e la nostra vita. Il pensiero va a voi tutti, alla Chiesa, ai riti liturgici, cui da tanto tempo sono impedito, ma anche ai molti sconosciuti che in questa casa rimuginano silenziosamente sul loro destino. Questi pensieri e altri simili in fondo costantemente mi trattengono dal dare una qualche importanza alle mie piccole privazioni. Questo sarebbe ingiusto e segno di ingratitudine» (ivi, 86).

“La terra è fatta di cielo”

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
(F. Pessoa, Una sola moltitudine, v. 1, Adephi, Milano 1979, 161).

Questi versi di Fernando Pessoa (1888-1935), uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, paragonato a Luís de Camões (1524 circa – 1580), l’Omero della poesia portoghese, mi hanno fatto riandare a quelli iniziali di p. Turoldo “Ma la Morte è come varcar la soglia/e uscire al sole”.

E ho magnificato la poesia, che anche su questo è riuscita a giocare d’anticipo, ha colto prima del sentire della mia stessa fede la stessa esperienza di quando in montagna portavo i ragazzi lungo le mulattiere in salita, restavo dietro per l’età e per non perdere nessuno.

Quando li vedevo scomparire dietro le curve, più nessuno, né il loro vociare, solo silenzio e il vento tra le foglie, mi dicevo, sono oltre la curva della strada, e mi affrettavo allora – come quella volta di Maria verso la casa di Elisabetta – e al fine li vedevo di nuovo camminare svelti, svelti sul sentiero ancor più ripido verso la cima.

E in quel tempo di assenza, di vuoto, un attimo lunghissimo, pensavo ai miei cari morti e a quelli che mi avevano preceduto nella fede, nel sacrificio e nella fedeltà alla vita e li pensavo così come loro, i ragazzi, oltre la curva della strada.

Beata poesia e il suo poeta, che precorri la fede stessa e la rallegri rincuorandola con il tuo magnificat.

Il “Magnificat” di Pessoa, una teofania

E andando ancora oltre, fiducioso bracconiere tra i versi del poeta, sono rimasto in agguato tra le pagine di Una sola moltitudine. E vagando senza meta ho udito alfine il canto del suo Magnificat. Un testo che a detta della critica va oltre, trascende la moltitudine sparpagliata dell’al di qua dell’esistenza, di ieri e dell’oggi, proteso e disteso verso il domani segretamente atteso come ombra dell’aurora (la scrittrice Dalila Pereira da Costa vi ha intravisto come una “teofania”).

Pessoa nel suo ultimo pensiero, attendendo la morte scriveva: “non so cosa porterà il domani”. Domani, “Il mondo che non vedo” – titola una sua raccolta – e che ne richiama un altro del poeta “Quando mi desterò dall’essere desto?” come se la vita fosse solo un sogno, dormitio, per poi risvegliarsi; così sembrano far pensare anche le ultime parole del suo Magnificat: “Sorridi nel sonno, anima mia!/Sorridi anima mia: sarà giorno!

 

“Magnificat” di Fernando Pessoa: testo

Quando passerà questa notte interna, l’universo,
e io, l’anima mia, avrò il mio giorno?
Quando mi desterò dall’essere desto?
Non so. Il sole brilla alto:
impossibile guardarlo.
Le stelle ammiccano fredde:
impossibile contarle.
Il cuore batte estraneo:
impossibile ascoltarlo.
Quando finirà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e potrò tornare a casa?
Dove? Come? Quando?
Gatto che mi fissi con occhi di vita, chi hai là in fondo?
Sì, sì, è lui!
Lui, come Giosuè, farà fermare il sole e io mi sveglierò;
e allora sarà giorno.
Sorridi nel sonno, anima mia!
Sorridi anima mia: sarà giorno!
(Ivi, 401).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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