La lucida follia di Donald Trump: pericolosa ma perdente
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La lucida follia di Donald Trump: pericolosa ma perdente.
Sembra stia prendendo piede una lettura per cui il presidente Trump sia imprevedibile, contradditorio, indeciso, alla fin fine persino pazzo. Oppure “Taco” (Trump always chickens out), un acronimo diffuso da un editorialista del Financial Times, che sembra abbia fatto infuriare il presidente USA, e che viene usato per indicare chi si ritira all’ultimo momento. Così parecchi commentatori sembrano interpretare le oscillazioni nelle scelte di Trump, che un giorno annuncia un certo livello di dazi e il giorno dopo li annulla, oppure dice che vuole negoziare con l’Iran e il giorno dopo procede ad un irresponsabile atto di guerra.
Mi permetto di vederla in modo diverso. A me pare, invece, che, come afferma Polonio nell’Amleto di Shakespeare, “ci sia del metodo nella sua follia”.
Detto in altri termini, Trump introduce una rottura profonda nel paradigma del sistema del panorama politico americano e della presunta supremazia occidentale nel mondo, e lo fa scientemente.
Questa rottura emerge non solo nei confronti delle impostazioni politiche dei democratici americani, ma anche rispetto a quella che era la politica tradizionale del conservatorismo dei Repubblicani statunitensi.
Sul piano internazionale, siamo di fronte ad un superamento dell’idea degli USA come gendarme del mondo per assicurarne la stabilità, approccio che anche nel passato metteva in conto la possibilità di interventi militari preventivi se giudicati finalizzati ad affermare quella prospettiva.
L’idea di fondo, ancora peggiore, che guida la politica trumpiana è quella di un’unilateralismo di carattere imperiale e mercantilista, che significa mettere al primo posto gli interessi nazionali ( il Make America Great Again) e ragionare unicamente in termini di rapporti di forza economico-militari. Non si può che vedere così la suggestione della politica dei dazi o quella relativa agli interventi militari o, ancora, quella di pretendere l’aumento selle spese militari alla cifra folle del 5% sul PIL per gli stati europei.
Sul piano interno e degli assetti istituzionali poi, assistiamo al venir avanti di una logica per cui esiste solo l’autorità del presidente.
Il Congresso degli Stati Uniti è marginalizzato (non viene interpellato neanche sugli atti di guerra, come nel caso degli attacchi alle centrali nucleari iraniane), il potere giudiziario considerato un intralcio di cui non tenere conto e le forze armate sottoposte ad un comando personale.
Non a caso, tutto ciò si porta dietro una svolta repressiva senza precedenti, sia rivolta nei confronti degli immigrati sia, più in generale, rispetto a tutti i dissenzienti, a partire dalle Università, viste come luogo principe che li produrrebbe. E che si vuole diffondere all’insieme della società: da poco è stata costruita un’ app prodotta da Iceraid, società privata che si propone di affiancare l’Immigration and Customs Enforcement di emanazione governativa nel segnalare gli immigrati irregolari o sospetti a fronte di una retribuzione in criptovalute per gli utenti che svolgono questo “servizio”.
Persino un attento politologo di ispirazione liberaldemocratica come Sergio Fabbrini arriva a concludere che siamo in presenza di una vera e propria autocrazia, di una “repubblica illiberale dove conta solo il presidente”. Parole un po’ forbite e un po’ contorte per non esplicitare che la presidenza Trump, ormai, si avvia a costituire un regime dittatoriale, di ripristino della figura del Sovrano, come giustamente ha evidenziato il significativo movimento di protesta popolare in atto negli Stati Uniti, che si è battezzato “No kings Protests”.
Sul piano delle politiche economiche e sociali, tutto ciò si traduce in una spinta fortissima alla crescita delle disuguaglianze, come si nota bene nell’ultima legge di bilancio approvata. Lì non solo ritroviamo una classica ed estremizzata impostazione della destra volta alla riduzione delle tasse per i redditi medio-alti e al contemporaneo taglio alla spesa sociale, ma viene sancita, con un massiccio intervento di smantellamento dell’intervento e del personale pubblico, una nuova grande alleanza tra Esecutivo decisionista e il complesso monopolista industrial- militare-informativo, che sta operando una rivoluzione privatizzatrice che ha pochi precedenti. Affidando al secondo i nuovi settori emergenti, dallo spazio alla sicurezza, dall’innovazione tecnologica all’intelligenza artificiale, fino a delineare quasi una nuova forma di governo, di un nuovo intreccio tra politica ed economia che vorrebbe prefigurare il futuro del mondo.
Questo “vasto programma”, questa nuova rivoluzione conservatrice, però, non può funzionare e ho idea che il tempo si incaricherà di dimostrarlo.
Gli Stati Uniti non sono più da tempo l’unica superpotenza mondiale, né il cosiddetto Occidente può invocare una sua primazia nel mondo: per dirla in sintesi, basta pensare che il PIL a parità di potere di acquisto dei Brics, i Paesi guidati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, rappresentano il 41,4% del PIL mondiale, mentre quello dei Paesi del G7 vale meno del 30% (nel 1990 tale valore era del 52%).
Ancor più, gli Stati Uniti soffrono di un deficit pubblico e di un indebitamento con l’estero ( il primo superiore a 1,900 miliardi di $, pari al 6,3% del PIL, il secondo arrivato a più di 26.000 miliardi di $) strutturali e crescenti, che vengono ulteriormente aggravati dalle ultime scelte di bilancio pubblico. A partire dal 2024, la spesa per interessi è risultata pari al 3,1% del pil, quindi superiore a quella per la difesa che è pari al 3%: 881 miliardi di spesa per interessi contro 850 miliardi di dollari di spese militari, entrambe superiori a quelle per l’istruzione.
Nel futuro la situazione peggiorerà: secondo le ultime proiezioni fa sì, del Congressional Budget Office (l’agenzia federale che fornisce i numeri sul bilancio statunitense), nel 2035, la spesa per interessi sarà il 70% in più rispetto alle spese militari: 1.783 contro 1.053 miliardi.
Il peso dei pesanti “deficit gemelli” fa sì, peraltro, che il dollaro progressivamente venga sempre meno riconosciuta come moneta di riferimento per tutti gli scambi commerciali e, di fatto, moneta che governa il mondo. Dentro il mondo dei Brics si levano voci importanti rispetto alla possibilità di mettere in discussione la signoria del dollaro e pensare ad altre alternative per regolare gli interscambi commerciali. Tendenze che è facile pensare possano rafforzarsi nel momento in cui l’imposizione dei dazi diventa inevitabilmente foriera di guerra commerciale.
Accanto al depotenziamento del ruolo di primato economico, le scelte di unilateralismo nei rapporti internazionali determina, com’è purtroppo sotto gli occhi di tutti, in particolare nelle vicende di Gaza e del Medio Oriente, la messa da parte del diritto internazionale e il ricorso alla guerra come strumento normale di regolazione dei conflitti. Ma, anche qui, in una realtà multipolare come quella del mondo di oggi, ciò non porterà a nessun nuovo ordine o equilibrio.
Il punto di fondo, dunque, è che le scelte trumpiane sono destinate a creare non una nuova egemonia, né l’affermazione di un dominio imperiale, ma un grande disordine mondiale sistemico e, che diventa il terreno fertile per la terza guerra mondiale, condotta a pezzi o in modo più diretto. I tentennamenti e le apparenti giravolte di Trump stanno dentro quest’orizzonte, di chi vorrebbe affermare un nuovo dominio di un’unica superpotenza e l’impossibilità di realizzarla in un mondo che strutturalmente non lo consente più.
Qui sta la grande pericolosità della deriva trumpiana e anche la necessità di fermarla.
Sarebbe bene che l’Europa si rendesse conto di questo dato di realtà e non mettesse la testa sotto la sabbia, come sta facendo, e, invece, ragionasse sul fatto di relazionarsi con altri soggetti statuali che avversano l’unilateralismo di Trump. Potendo avvalersi anche del dispiegarsi di un grande movimento di massa europeo contro il riarmo e le guerre, che sta iniziando a delinearsi e di cui abbiamo grande necessità.
Cover: Donald Trump – FILE PHOTO: U.S. President Donald Trump speaks, as he signs executive orders and proclamations in the Oval Office at the White House in Washington, D.C., U.S., April 9, 2025. REUTERS/Nathan Howard/File Photo
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Corrado Oddi
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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