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“La poesia inizia là dove finisce l’ovvietà.”
(Wislawa Szymborska)

 

Da Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni, 2020)

XV.

nell’assenza
{indesiderata, inerte}
sparge bruciore di :: fumo :: sui pianali del pensiero

quanto di lei gli rimane nel {sogno}
di un’indecenza pagana
nel suo rituale che lo condanna all’attesa
è l’essere scabro delle mani chiuse a pugno

che dentro, nel palmo, nel centro di tutto
concentrano il suo nome-odore-lignaggio
nell’ignobiltà ostentata del peso pericardico
che grava su quel petto illuso di visioni

come se la vedesse a un orizzonte di senso perduto
sorridente, estatica
chiamare il suo nome nel vuoto.

*
ω.

alla fine lui resta in silenzio
nell’abbraccio addormentato
rimando scabro di un lembo di pelle
rabberciato {lungo i bordi} nella fame di poesia

alla fine rinuncia all’amore
si prende in carico l’infarto
l’assassinio autoindotto del cuore
in questa quieta decisione

tanto lo sa che ritornerà
il desiderio del suo {fuoco greco}
perché l’amore non serve poi a tanto
::

per scrivere necessita una rabbiosa solitudine
e un istinto meno che umano, e stanco
di ripensarsi interi
dopo la distruzione.

 

Da Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura, 2021)

ricordi d’infanzia

gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia
i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone

quante facce li osservavano da queste bianche mura
ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare

nuvole d’ebano e cenere sulle loro mani sporche
sulla rotondità perfetta e nuda della terra

rimanevo in casa a guardarli senza invidia
dallo spiraglio australe della finestra spalancata

non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero
non c’è rimasto altro che un fotogramma sbiadito

non anelavo certo al calore della sabbia
non all’asprezza infetta delle ginocchia sbucciate

desideravo alle mie spalle soltanto le carezze
che priva d’interesse mia madre non mi dava

*

veglia

dormo sulla branda tra le pareti bianche
mia madre sta morendo da sola insieme a me

tagli trasversali su cortecce di bambù
lungo le venature molli della carne

la sapida chirurgia della ferita infetta
infiamma lattiginosa le caverne del mio cuore

si sparge come sangue sulla coperta bianca
come speranze vuote, trafitte nell’assenza

le luci brulicano nell’infrarosso del cielo
invadono l’orizzonte nell’olio lunare di un pianto

io mi terrifico inerme di questo assorto silenzio
non tollero la visione dello squarcio antiestetico a lato

annullo le certezze con cui ci si infonde coraggio
in un prolasso fluente di pus e falsità

“ti voglio bene, mamma, ti voglio bene, è vero…”
ma lei già non mi sente, non è più lì con me

per questo io ora so bene che per ricominciare
bisogna talvolta usare la bieca parola fine

 

Da Taccuino della cura (Terra d’Ulivi Edizioni 2021)

«ricordamelo tu, se proprio vuoi, chi sono
la nudità dell’essere invoca l’apparire
il vuoto dello specchio mi assiste incuriosito
mentre distillo in pianto le mie perplessità
cos’è la {nostalgia}, necrosi di un istante
pellicola di sangue ormai rappreso
membrana che si stacca rilassata tra le dita
dal cavo delle mani, dal morso dei {ricordi}
che cosa è la sostanza di un riconoscimento
e quanto può far {male} nel male fatto a un altro
per quanto ci risulti scartandone il pacchetto
ricordamelo tu che cos’è un dono
e nonostante il sole che circoscrive il volto
sebbene il suo calore ci riconosca vivi
rimane solo il {gelo} che di umano non ha nulla
e il taglio del cordone nella culla
l’attesa che rimargini {ferite} troppo antiche
nella clausura asfittica di un atrio d’ospedale»

φ

respirare il folle abbaglio dei colori
di un {tramonto} dentro una livida siccità
le luci si rivoltano nell’amplesso di un {istante}
stanche nuvole nel cielo come botti affastellate
si dipingono un dettaglio e poi sgretolano via
la farina intemperante di una vita ritrovata
dentatura marzapane di un {demiurgo} addormentato

 

Inedito

A Maria Laura

Avvolta mentre dormi nel sudario del mio abbraccio
Sei la pelle che non sfioro
La bocca che non bacio
La testa che non tocco
(se il mio sfiorarti solo ti facesse trasalire…)
ma nella compulsione inaspettata
che indulge alle carezze sulle spalle
la tua pelle impalpabile di miele
mi abbarbica all’attesa del risveglio:
e quando tu spalanchi figurale
nell’oro senza prezzo dei tuoi occhi
la voglia di baciarmi con il sale
che brilla lungo i bordi delle labbra
sei la resurrezione di ogni senso
che subito nel corpo incalza e preme
sei la Sandgirl che getta via la sabbia
e si licenzia dal suo pio mestiere:
conduci nell’onirico il mio giorno
sei la diuturna estasi del sogno.

Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è musicista, poetessa, prosatrice, critica letteraria e saggista. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli ultimi ricordiamo il saggio critico Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno, Acireale 2020; la curatela su G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020; la raccolta di monologhi filosofici Opus Metamorphicum, A&B Editrice 2021; la trilogia poetica Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020, finalista al Premio Montano 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra d’Ulivi 2021. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Collabora con Poesia Del Nostro Tempo, Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto e col festival Bologna In Lettere. Ha diretto per molti anni Critica Impura e Poesia Ultracontemporanea. Il suo blog personale è disartrofonie. Vive e lavora a Cesena.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]

Cover: Carlo_Erba,: Le_trottole_del_sobborgo,_che_vanno,_1915.

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Pierluigi Guerrini

Pier Luigi Guerrini è nato in una terra di confine e nel suo DNA ha molte affinità romagnole. Sperimenta percorsi poetici dalla metà degli anni ’70. Ha lavorato nelle professioni d’aiuto. La politica e l’impegno sono amori non ancora sopiti. E’ presidente della Associazione Culturale Ultimo Rosso. Dal 2020 cura su Periscopio la rubrica di poesia “Parole a capo”.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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