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Per omologia non più il sorriso ma la tristezza coinvolge le mie note di questa settimana. Una tristezza che non fa ovviamente aggio sul comportamento dei miei simili, ma sulla profonda, sostanziale incapacità di tenere a freno il proprio egoismo, la propria irrinunciabile volontà di essere il solo, l’unico, secondo una atavica propensione che ha fatto e modellato ‘l’essere così’ degli italiani.

Certo questa cifra, connaturata all’individualismo più sfrenato, ne ha fatto il popolo più ‘artistico’ del mondo. L’ha reso fondamentalmente unico. E questo da quando si è creata una coscienza dell’essere così, dalla triade assoluta, Dante Petrarca Boccaccio, ai critici di quell’atteggiamento, che lo hanno rinforzato, come Leonardo che si dichiarava “homo sanza lettere” per sprezzantemente e onnipotentemente dichiararsi con quel rifiuto, l’unico, il sommo. O il più grande di tutti, il conte Giacomo, che predicava il nulla per sapersi il migliore (vero, amico Fiorenzo Baratelli?). Allo stesso tempo l’unicità è declinata dai dittatori come elemento fondante di un popolo. Si spreca e forse in modo non corretto il termine fascismo o neonazismo, per denunciare la volontà di unicità di alcuni leader, come di termini quali sovranismo e .. ‘via col tango’ ( attenzione al modo di dire perché nel termine si annida il coronavirus, come sappiamo dall’infezione propalata dai ‘tanghéri’ – e non ‘tàngheri’ – infettatisi a vicenda all’hotel Astra di Ferrara.

Sul principio di unicità, helas!, si spiegano ma non si comprendono le discese al Sud dei ragazzi pronti a rifugiarsi nelle braccia di nonni e padri in nome della loro sfida: “io sono unico e che me frega del virus: tutte cazzate”. “Dai! Facciamo una corsa, un po’ di bicicletta, andiamo a magnà al mare”. E i vecchietti, molti, che si rispecchiano nella loro adorata prole, a seguirli sorridendo da beoti nelle imprese ginnico-turistiche degli ‘unici’.

Intendiamoci. Questo popolo ferito e incapace di unità, non di unicità, dimostra poi l’eroismo che ogni giorno vediamo esercitarsi negli ospedali, negli aiuti ai più deboli. Ieri però mentre disciplinatamente aspettavo il mio turno agli alimentari, una dama munita di mascherina, quasi imprecando, ululava contro ignari passanti che osavano avvicinarsi a 90 cm invece che a un metro. Saputo poi che in farmacia erano arrivati i gel igienizzanti, con stridii imperiosi chiedeva immediatamente che gliene mettessero da parte almeno due!!!. Le mie fruttivendole, con calma meravigliosa e sorriso incoraggiante, mi chiedono un balletto per l’uva stupenda, ma dietro di me esseri fasciati (umani?) borbottavano chiedendosi cosa erano tutte quelle cazzate. Enrico invece, amico medico meraviglioso in fila dietro di me, mi consiglia le orecchiette con i broccoli. Ho seguito il consiglio e al pomeriggio in casa confeziono, sotto l’esperta guida della moglie, stupendi cappellacci con la zucca, rimandando al domani, o forse a molto più tardi, i severi studi che mi attendono.

Il pazientissimo ‘San Lorenzo’, il mio amatissimo tecnico, mi aiuta seguendomi pazientemente al telefono ad ordinare gli ultimi tre libri di Eshkol Nevo che non ho ancora letto. E sapere che li avrò il 6 aprile mi rende più leggera la clausura. Poi, ieri notte mentre divoravo l’ultimo romanzo dello scrittore israeliano, L’ultima intervista, mi folgora una considerazione che trovo a p. 59 della traduzione italiana:  “Quando hai vent’anni e una sigaretta, un avvertimento è una mosca da scacciare con la mano”. Quindi l’avvertimento di chiusura che vien dato ai giovani di ogni continente diventa una ‘mosca da scacciare’. Si potrebbe allora concludere che al fondo di questi atteggiamenti si potrebbe essere ben innestata la paura: la paura di stare con se stessi, come è universalmente vero in tutte le giovinezze del mondo. Allora la tristezza si muta, nei più avvertiti, in necessità di portare un aiuto che, al di là di quello fisico così generosamente prestato, deve farci riavvicinare a quei giovani che hanno paura e sono tristi.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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