Diario in pubblico. Che dire? Che fare?
Riprendo il Diario in pubblico cercando di superare la stanchezza che m’investe ogni volta che debbo affrontare ciò che mi circonda e decidendo di esporlo ancora con un minimo di fiducia o di posizione critica. L’età della saggezza non m’appartiene più ma forse va perseguita con i pochi strumenti che ti rimangono.
Partirei dalla lettura di un libro che ha avuto una storia complessa: Stefano D’Arrigo, Il compratore di anime morte, Rizzoli 2024. Chi segue per dovere o piacere la letteratura italiana conosce bene l’autore tra i più importanti narratori del Novecento soprattutto per il suo romanzo più discusso e impegnativo: Orcynus Orca di cui sarebbe troppo discuterne la qualità.
Caso assai interessante, inoltre, il recupero di questa opera che la curatrice, Siriana Sgavicchia, espone con sapienza e conoscenza nel saggio conclusivo dove s’indagano le ragioni per cui quel testo venne scritto. Soggetto per il teatro o il cinema? Racconto sulla condizione meridionale reinterpretata sulla scia del grande narratore russo? E perché non venne pubblicato, vivente l’autore.
Tutte le carte inerenti allo scrittore, donate all’Archivio Bonsanti di Firenze hanno permesso la ricostruzione di un testo affascinante che dal mio sediolino di lettore-commentatore tenterò in qualche modo di applicarlo o leggerlo in rapporto alla politica che, credo, produrrebbe molti e interessanti paralleli.
E se il trovatello Cirillo inventandosi ‘esser principe raccoglie il patrimonio delle “anime morte” ovvero il possesso di coloro che lavoravano nei campi siciliani in quanto intende vendere allo stato borbonico “le terre e le anime che ci lavorano perché approfittando di una legge mai scritta i morti possono fruttare quanto i vivi”.
E allora quante anime “morte” ci aspettano in quel ministero che si chiama della Cultura?
E allora le vicende dei vivi che diventano morti come i due ultimi detentori della presidenza di quel ministero e le “bocce” e gli Spano e i “pederasti” e perfino colui che più s’avvicina a Cirillo vale a dire Ranucci che rivela e svela, che dice e non dice, che si lecca le labbra in attesa dei terremoti mentre tutti aspettiamo le rivelazioni della domenica indicano il grado d’interesse che in questo momento la nazione ha per questi fatti-misfatti.
Riguardo e ripenso poi ai fatti d’Albania e allo scontro innegabile tra magistratura e certa politica; poi m’ingolfo nel capire cosa sta succedendo ma…invano. Nulla mi aiutano i commenti e le trasmissioni dedicate e sempre di più mi convinco che c’è un utilizzo spietato delle anime morte.
Mercoledì 16 ottobre 2024 sul Corriere della Sera a firma di Gian Antonio Stella leggo un articolo che mi commuove e mi sommuove il ricordo: “Quando i fascisti nel Polesine fucilarono 42 persone. La strage tutta italiana finita troppo presto nell’oblio”, p.25.
Ed io in quel luogo per più di 40 anni ho trascorso gran parte delle estati ricevendo dalla stessa voce dei soggetti che la vissero il senso dell’orrore e della spietatezza. Come ho raccontato in altre occasioni la famiglia di Eleonora l’amatissima sorella putativa ci apriva la casa di Villamarzana dove trascorremmo anni, e mesi e giorni felici. Per scherzare quando tornavo alle mie consuete vicende e lavori ormai l’appellativo che ricevevo era quello di “conte”.
Lì ho piantato rose e giaggioli, li ho curato limoni, lì ho studiato e fatto studiare, lì si è svolta parte importantissima della mia vita. Anzi della nostra vita: Doda, Ele ed io. Sapevo del massacro compiuto dai fascisti, del significato che aveva la via su cui sorgeva la villa: via 42 martiri. Della casa in centro al cui muro vennero sparati i giovani ricordo quale stretta al cuore mi procurava.
Ma soprattutto ricordo quelle stagioni, quei luoghi, quella famiglia a cui sempre ritorno col cuore e con la mente.
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Gianni Venturi
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