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La nuova manovra finanziaria ci dà alcuni buoni spunti per una serie di ragionamenti che possono aiutare a capire i meccanismi alla base dei fenomeni macroeconomici che regolano il benessere all’interno di una società

Nello specifico ci sono diversi aspetti in questo documento da salutare indubbiamente con soddisfazione, ad esempio l’abolizione di Equitalia, i bonus a pensionati e lavoratori in determinate fasce di età e l’APE gratuita per quei lavoratori con reddito inferiore a 1.500 euri lordi. Inoltre, la diminuzione del canone Rai e la notizia che non ci saranno tagli alla sanità, anzi ci sarà un aumento di fondi di 2 miliardi.
Fin qui tutto bene, o quasi, ma in ogni caso non scenderemo nei dettagli e non faremo l’analisi dei singoli provvedimenti. La prima considerazione che invece vogliamo fare è che quando si fa una manovra, quando si prevedono delle spese e delle entrate, un governo lo fa (o dovrebbe farlo) in base a esigenze considerate importanti e necessarie per lo sviluppo e la crescita del Paese stesso. Invece nel nostro caso l’intera manovra dovrà essere valutata da Bruxelles che ci dovrà dire se possiamo o meno spendere non in base alle esigenze degli italiani, gente reale, ma in base alle esigenze di un foglio di bilancio e di coefficienti senza logiche che ad oggi ci hanno portato alla deflazione, alla vendita delle migliori aziende all’estero, a pensioni da fame, calo di stipendi, ecc., ecc..
Bruxelles non potrà mai avere chiare le esigenze di un altro popolo, le sue caratteristiche di crescita, la sua filosofia di vita perché queste peculiarità non necessariamente possono essere rappresentate con lo schema della partita doppia, e sarà difficile anche che lo possa fare un Paese escluso a suo tempo dal limes romano (perché considerato troppo selvaggio), e quindi culturalmente agli antipodi, e che al momento ci guarda dall’alto verso il basso grazie a un surplus commerciale di qualche centinaio di miliardi.
I 27 miliardi previsti dalla manovra sembra arriveranno per circa 6 miliardi da tagli della spesa pubblica, 1 miliardo da imposte, 2 miliardi dal rientro dei capitali dall’estero, 3 miliardi da un controllo mirato sulla spesa pubblica (efficentamento) e il resto da flessibilità di bilancio cioè da un deficit (spesa maggiore delle entrate) previsto nel 2016 del 2,3% a fronte di una previsione di crescita dell’1%. Insomma viene chiaro che l’unica fonte certa sarà il maggior deficit, il resto sembra un po’ aleatorio.
Quando i soliti commentatori osservano che alcuni Paesi sono cresciuti danno il merito agli interventi strutturali, ma quasi sempre dimenticano (qualcuno volutamente immagino) di valutare tutti i fattori economici che gli ruotano intorno pur evidenti e non nascosti. La Spagna ha fatto un deficit del 10,4% nel 2012, 6,9% nel 2013; 5,9% nel 2014, 4,8% nel 2015 mentre la Francia del 4,8% nel 2012, del 4,1% nel 2013, del 3,9% nel 2014. A parte il fatto che non ci sono state le temutissime, almeno da noi italiani, sanzioni europee, sembra che in particolare la Spagna sia additata come un esempio da seguire in materia di crescita, almeno nominale. Quindi dovremmo imitarne la crescita senza imitarne le metodologie utilizzate per arrivarci!
L’evidenza è che uno Stato che vuole crescere deve spendere (fuori eurozona vedi USA, UK, Giappone), per cui fare deficit non è un’opzione ma una necessità e i numeri lo dimostrano nel caso di Spagna, Francia e anche Irlanda. Chi fa deficit cresce, mentre chi non sfora: o prende i soldi dalle esportazioni (tipo Germania) o resta al palo (Italia).
Certo, lo so, se si aumenta il deficit si aumenta pure il debito pubblico. Ma è così terribile fare debito pubblico? Guardate a proposito la tabella della ricchezza delle famiglie italiane della banca d’Italia (dati in aggregato ovviamente). Nel totale delle attività finanziarie ci troviamo anche i titoli pubblici italiani, cioè quei titoli che emessi dallo Stato per finanziare le sue attività e che fanno aumentare il suo debito pubblico diventano ricchezza per i cittadini italiani. Quelli comprati all’estero diventano ovviamente ricchezza per il Paese dove sono stati comprati. Sarà che se invece di venderli sui mercati finanziari agevolassimo l’acquisto alle famiglie italiane aumenterebbe la loro ricchezza?

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Insomma, e in sintesi, uno Stato che ha un disperato bisogno di crescere perché la sua economia annaspa (cioè quando la Caritas avverte che aumentano gli italiani che richiedono i suoi servizi, persino più degli stranieri oramai) deve spendere, cioè deve fare deficit (spendere più di quanto incassa con le tasse). E subito dopo aggiungiamo il concetto che è bene che lo Stato spenda e che non ci impoverisca con una tassazione eccessiva perché se i titoli di stato vengono comprati dagli italiani questi diventano anche un po’ la loro ricchezza (quindi finanziarsi sui mercati finanziari non è una buona idea perché si manda ricchezza all’estero sotto forma di interessi).
E come facciamo per migliorare un po’ questo sistema malato ed evitare che ad arricchirsi siano i mercati finanziari? Prima di tutto una Banca Pubblica tipo quella che avevamo prima del 1981, quando il debito pubblico non arrivava nemmeno al 50% del PIL, e che controlli per bene tutte le altre banche sul territorio (non come ha controllato la CARIFE). Inoltre, eliminazione di vincoli esterni alla spesa pubblica che non hanno nessuna logica macroeconomica.
In estrema sintesi, stare meglio o peggio per un Paese è una scelta politica. Chiaramente se sei lo Zimbawe hai qualche problema in più! Ma l’Italia è l’Italia, ha solo un problema di scelte politiche e di scarsa partecipazione dei suoi cittadini.
Se il Governo italiano decidesse di spendere quest’anno come ha speso la Spagna nel 2012 significherebbe mettere in campo circa 165 miliardi di euro. Cioè dopo avere pagato gli interessi totali sul debito (per il 2015 sono stati 68.840 miliardi), ci resterebbe ro all’incirca 90 miliardi per fare tutto quello che serve.

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Se ci fidiamo di chi sarebbe deputato a spenderli è tutto un altro discorso. Massimo Troisi diceva di voler ripartire da tre e non da zero perché aveva incamerato le prime tre certezze e così dovremmo fare noi. Non partire da quattro senza aver capito come ci si è arrivati e dopo esserci perso 1, 2 e 3!

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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