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Il Fondo Monetario Internazionale in questo periodo sta richiamando gli Stati alla cooperazione internazionale per ridurre gli squilibri che si stanno accumulando nell’ambito del commercio globale.

È interessante notare come surplus e deficit si compensino, il surplus di qualcuno è necessariamente il deficit di qualcun altro, ciò che sembra buono per qualcuno può essere problematico per altri.
Il successivo grafico mostra che gli squilibri interessano principalmente le economie avanzate (Aes) e che questi sono in crescita.

Scrive il Fmi “eccessivi surplus prevalgono nel Nord Europa – in Paesi come Germania, Olanda e Svezia – e in Asia – in economie come la Cina, Corea del Sud e Singapore. Eccessivi deficit rimangono concentrati ampiamente negli Stati Uniti e Uk”. Squilibri “la cui persistenza sta alimentando le tensioni commerciali tra i paesi”, ma come si può porre rimedio? Ecco le soluzioni attraverso uno schemino elaborato dallo stesso Fondo.

I Paesi con un consistente surplus commerciale dovrebbero attuare politiche di maggior spesa e ridurre i risparmi attraverso la leva fiscale (diminuire tasse), espandere la rete sociale, incoraggiare il lavoro degli anziani, rimuovere le barriere per favorire la competizione interna. In sintesi chi ha un surplus di bilancia commerciale deve aumentare la capacità di spesa interna, far arrivare più prodotti dall’estero, stimolare le persone a risparmiare di meno e comprare di più.

I Paesi, invece, con un deficit commerciale devono fare l’inverso e quindi mettere in atto quelle riforme che costringano a comprare di meno ovvero aumentare le tasse, diminuire le pensioni e rendere più competitivo il mercato del lavoro (blocco e diminuzione salari). Vi ricorda qualcosa? Ebbene sì, sono esattamente le riforme messe in atto da Monti e successivi governi in Italia che hanno permesso di passare dall’endemico deficit degli anni 2000 all’attuale surplus di circa 50 miliardi. Ovviamente i benefici dell’export non sono per tutti e ce ne siamo ben resi conto.

“Infine, tutti i paesi dovrebbero lavorare per rilanciare gli sforzi per liberalizzare e modernizzare il sistema commerciale multilaterale, ad esempio promuovendo gli scambi di servizi, dove i guadagni derivanti dalla liberalizzazione degli scambi potrebbero essere notevoli. Tali sforzi possono avere piccoli effetti sugli eccessi di bilanciamento delle partite correnti, ma potrebbero avere grandi effetti positivi sulla produttività e sul benessere, riducendo al contempo il rischio che gli squilibri delle partite correnti inneschino risposte protezionistiche controproducenti.”
Insomma le raccomandazioni tendono a suggerire che bisogna fare “tutto quanto necessario perché nulla cambi”. Affrontare il contingente senza lasciare linee strutturali definite per il futuro. Si vuole un mondo globale che si basi sulla competizione, sui mercati aperti senza barriere e sui continui aggiustamenti strutturali a spese del cittadino che, a seconda degli umori del mercato, dovrà vedersi aumentare o diminuire le tasse e adattarsi a subire i cicli economici fatti di alternanza tra espansione e recessione.

Mi sembra, tra l’altro, davvero evidente l’ipocrisia di voler suggerire l’intervento statale in un sistema che si vuole sganciato dallo stesso, liberalizzato e neoliberista, per attuare, ovviamente, politiche a favore dei mercati. Ciò però, anche se ipocrita, è una chiara dimostrazione che lo Stato non smette mai di intervenire nella “cosa economica”, che lo ha sempre fatto e continua a farlo scegliendo a priori chi tutelare e chi invece lasciare al suo destino.
Lo Stato non è mai neutro, dunque, ma schiavo delle volontà, dei cicli e delle necessità contingenti del mercato. L’attuale sistema economico è un chiaro esempio della disfatta del cittadino sacrificato alla logica del consumo, delle multinazionali e dei poteri forti.

Ma per curare i mali degli squilibri internazionali dovuti alla competizione selvaggia e alla concorrenza sleale non si agisce iniettando nel sistema maggiore competizione e neppure cercando di spostare gli equilibri di forza che poi si trasformeranno in nuovi squilibri (cioè trasformando i deficit di oggi in surplus del futuro per avere spostati nel tempo gli stessi problemi del passato, in un gioco continuo di trasformazione dei carnefici in vittime e viceversa) ma rimettendo mano alle regole generali.
La prima regola è prendere atto che sono gli Stati a permettere tali squilibri e lo fanno rendendo legale la legge del più forte, tutelando la concorrenza sleale e facendo prevalere gli interessi di multinazionali e economia finanziaria su quelli dei cittadini. Se si vuole che il commercio internazionale sia un bene e non motivo di tensione questi va regolato, lasciando a casa l’idea che i mercati si regolano da soli o attraverso sistemi quali il Ttip, cioè sistemi in cui gli interessi dei singoli sono addirittura prevalenti sugli Stati e quindi sulle collettività.
“L’ottimo keynesiano” era l’equilibrio da perseguire prima dell’affermarsi degli squilibri. La sua idea era la pianificazione di un sistema strutturato e globale antitetico alla concorrenza pura di stampo paretiano.
Negli anni ’50 i problemi di equilibrio delle partite correnti furono affrontati e risolti in Europa grazie all’Uep, l’Unione Europea dei Pagamenti, che si rifaceva alle teorie di Keynes in materia di sistema multilaterale di scambio. Il sistema funzionava grazie ad una condivisione di fondo dei rischi del commercio secondo il principio che questi dovesse migliorare il benessere di tutti. Il sistema, quindi, doveva tendere al pareggio e doveva prevenire l’accumulazione di crediti o debiti eccessivi con misure adeguate a riportare gli scambi in equilibrio. L’Uep, secondo studiosi della prestigiosa Università Bocconi, ha reso possibile il miracolo della rinascita europea molto di più del Piano Marshall.

Keynes l’aveva proposto alla Conferenza di Bretton Woods ma la proposta fu bocciata, prevedeva che alle nazioni in deficit oltre una determinata soglia venisse consentito inizialmente di svalutare la propria valuta, poi si procedesse al controllo dei capitali in uscita, ed infine al saldo del debito con trasferimento di oro o altre riserve. In caso di superamento di tre quarti della quota, qualora considerato insostenibile, il Board avrebbe dichiarato il paese in default, limitandone l’accesso al credito.
In caso di surplus invece il paese doveva decidere per una delle seguenti misure: l’espansione del credito e della domanda nazionale, la rivalutazione nei confronti del bancor (una specie di moneta internazionale virtuale che doveva essere usata per gli scambi) della propria divisa, la riduzione di tariffe o dazi che potessero scoraggiare le importazioni, ed infine prestiti internazionali mirati.
Misure che sotto certi aspetti richiamano le raccomandazione di oggi del Fmi ma con importanti e sostanziali differenze in almeno due punti (fondamentali). Il primo è che con Keynes si parla di svalutazione delle valute nazionali (oggi considerato quasi un atto di guerra e tra l’altro impossibile in eurozona) che riequilibrava il commercio senza danneggiare i cittadini, e il secondo che si impostava a priori un sistema che avrebbe affrontato gli squilibri in anticipo, in maniera anticiclica, e non alla bisogna.
Insomma sia la situazione di squilibrio attuale delle bilance commerciali che le stesse soluzioni proposte dal Fmi dimostrano quanto sia necessario ed urgente un cambio di prospettiva che preceda eventuali catastrofi quali guerre commerciali e chiusure poco ragionate dei confini nazionali.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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