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“Zakhor” è la parola ebraica della memoria: “ricorda”, è l’ingiunzione biblica che richiama il popolo ebraico al dovere del ricordo. Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria istituita nel luglio del 2000 (legge n°211) “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Ogni anno, con il suo avvicinarsi, si ripropone la questione della memoria della Shoah e della sua trasmissione. Come ricordare? È un interrogativo sempre attuale, in particolare in quest’epoca in cui i testimoni stanno progressivamente scomparendo e in quest’Europa attraversata da pulsioni razziste e dalla violenza del terrorismo.
L’obiettivo dovrebbe essere la trasmissione di una memoria viva, consapevole, fuori da una celebrazione retorica o, peggio, incentrata sull’emotività; fuori da riti prevedibili e inamovibili: una narrazione memoriale il cui valore non sia confinato al passato, ma che abbia un significato progettuale per il futuro.
Sul numero di febbraio di “Pagine Ebraiche” la storica Anna Foa cita un’esperienza interessante portata avanti dall’Istituto Van Leer di Gerusalemme: la mostra “What is memory? Seventy Years Later” (“Cos’è la memoria? Settant’anni dopo”). Secondo Foa “Sarebbe importante se per l’anno prossimo fosse portata anche da noi, per aiutarci a ripensare la Shoah e il modo in cui la ricordiamo”.
La mostra è il punto di arrivo di tre anni di studio da parte di un comitato di cui hanno fatto parte storici, psicanalisti, artisti e tre sopravvissuti d’eccezione: gli storici Saul Friedländer e Otto Dov Kulka, e lo scrittore Aharon Applefield. A capo: la scrittrice, poeta e regista Michal Govrin. Secondo lei, “nel Giorno della Memoria c’è ovunque una sorta di malessere, le persone non sanno cosa fare”, la “forma frontale delle commemorazioni pubbliche o dei film risveglia le emozioni ma lascia muti, lo spettatore non ha forma di esprimersi, per domandarsi qual è la sua memoria”; inoltre la “memoria delle crudeltà che abbiamo oggi, dopo settant’anni, è la memoria del male, dei metodi dello sterminio. […] E la memoria della vita?”, si chiede Govrin, “la forza della resistenza spirituale messa in atto quotidianamente?”. “Serve che la memoria ci porti verso la vita e non solo verso la violenza e la morte”, afferma con forza.
Dunque, per creare “gesti di commemorazione” questo gruppo ha attinto “dalla memoria ebraica un’altra forma di memoria che non è solo verso il passato, solo la rappresentazione, sempre per necessità falsata, del passato, ma è quello che raccogliamo per il presente. Come a Pesach (la Pasqua ebraica, ndr), quando ciascuno si vede come se fosse uscito dall’Egitto ma si deve domandare cosa fosse la schiavitù, e come la memoria della schiavitù dell’Egitto ci ha spinti a creare il Sabato e le leggi sociali della giustizia”. Per questo, lei e il suo gruppo hanno dato vita a dieci eventi commemorativi sperimentali, basati sulle modalità del Seder, la cena della Pasqua ebraica. Il cuore di questi momenti di condivisione è “una grande antologia delle voci della resistenza al male, di come si mantiene l’umanità, citazioni di Primo Levi, di Stefan Zweig, di Hetty Hillesum, un grande deposito di testi che il moderatore sceglie a seconda della comunità”.
Questa esperienza sperimentale di trasmissione e commemorazione può essere ricondotta al concetto di post-memoria formulato da Marianne Hirsh e ripreso da David Bidussa nel suo “Dopo l’ultimo testimone” (Einaudi, 2009). Con questa espressione l’autrice definisce la strategia usata per reagire al trauma della Shoah da parte delle generazioni successive a quella che l’ha vissuto, consapevoli del fatto che la propria memoria è costituita da rappresentazioni degli eventi della Shoah, non dagli eventi stessi. La generazione della post-memoria, dislocando e ricontestualizzando queste immagini note a tutti, soprattutto in opere d’arte, è riuscita a evitare che la ripetizione si trasformasse in immobilità, paralisi o semplice riproposta del trauma. Attraverso queste ricontestualizzazioni le tracce del passato cambiano il proprio status: da documento e testimonianza diventano oggetto culturale. Il loro scopo diventa farci interrogare non sul nostro legame con la Shoah, ma sulle circostanze entro cui si sono costruite la nostra memoria mediata e la nostra esperienza di spettatori delle narrazioni della Shoah. Ciò che prende forma non è l’evento, ma la riflessione sull’evento e sui modi in cui è stato ricordato. Non c’è nessuna illusione di recupero, nessun traffico della memoria, ma una riflessione dolorosa sulla commemorazione, sulla perdita, l’assenza, l’invisibile reso visibile. Così, con la post-memoria e le sue elaborazioni forse è iniziata l’elaborazione di una memoria critica che trasforma la commemorazione e ci permette di ricordare il passato non tanto con vuote celebrazioni rituali, ma con riflessioni feconde per il presente e il futuro.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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