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Da MOSCA – Quando si parla di Russia e di suoi souvenir, una delle prime cose che ci viene in mente è la Matrioška. A ogni amico che mi venga a trovare suggerisco di comprarne qualcuna, ma scegliendole attentamente e con cura, per evitare che finiscano in un solaio o in un cassetto sperduto della casa. Molti di noi ricorderanno quando, da bambini, vedevamo bamboline allineate sui comò delle nonne o delle anziane zie, vestite e impolverate nell’angolino un po’ kitsch. Queste bamboline, vestite diversamente a seconda del paese di origine, souvenir dei viaggi di nipoti e figlie, erano quasi sempre immancabilmente affiancate da altre figurine colorate allineate in rigoroso ordine decrescente, le Matrioške. Lucide, colorate, sorridenti, panciute, dal visetto simpatico e rubicondo.
Quante volte le abbiamo aperte, facendo leggermente scricchiolare il legno, sotto l’occhio attento della nonna che temeva di veder perso l’elemento più piccolo, mentre ruotavamo il busto alla scoperta del contenuto. Eravamo curiosi e aprivamo quel cerchio magico di figure alla ricerca di una sorpresa che c’era sempre. Un po’ delusi, arrivavamo alla fine mentre avremmo voluto che quella ricerca e continua scoperta non finissero mai, o almeno non così presto. Perché i pezzi erano dieci. Solo da grandi avremmo saputo che il numero di bambole inserite l’una nell’altra può variare da 3 a 60, e che il pezzo più grande si chiama “madre” mentre il più piccolo “seme”.
A questo punto, credo sia immediatamente chiaro il significato di questo oggetto tradizionale russo: simbolo di fertilità femminile, famiglia, generosità della terra, la Matrioška (matrëška è il diminutivo – vezzeggiativo di matrëna, diffuso nome proprio russo derivante dal latino mater, madre) è anche un modo per dominare lo spazio, perché contraddice il fatto che uno stesso luogo non possa essere occupato da più di un oggetto, e rimanda alla molteplicità dell’io.
La prima Matrioška, russa è apparsa alla fine del XIX secolo, nel podere Abramtsevo, lungo la strada che porta al monastero di san Sergio di Radoneza, in riva al fiume Vor’, a circa 60 km a nord-est di Mosca. Ci sono due versioni sulla sua origine. Una sostiene che sia nata nell’isola giapponese di Houshu, come giocattolo speciale fatto di molte parti interposte, e che sia stata portata in Russia dalla moglie di un famoso collezionista d’arte, Savva I. Mamontov (1841- 1918). L’altra ritiene, invece, che fu un monaco russo a portare per primo in Giappone l’idea di fare una bambola fuori dal comune. Ma gli artigiani russi le amarono fin da subito e iniziarono a crearle.
Fu l’artista Sergej Maljutin (1859-1937) a disegnare, per la prima volta, una bambola che raffigurava una contadinella dalla faccia rotonda e dagli occhi luminosi, con sarafan e grembiule bianco e i capelli lisci pettinati con cura e nascosti in gran parte sotto un fazzoletto a fiori dai colori vivaci. Aveva in mano un gallo nero. Da allora le decorazioni sono diventate numerosissime: fiori, animali, chiese, icone, fiabe popolari, argomenti legati alla famiglia, capi religiosi e politici.
Il vero segreto di questo oggetto sta nel legno, in genere si preferisce il tiglio per la sua tenerezza. Abbattuto l’albero, se ne toglie la corteccia lasciandone una minima parte per evitare spaccature durante l’essicazione. I tronchi sono lasciati ad asciugare per anni, facendovi liberamente circolare l’aria per evitare muffe. Gli esperti poi sanno capire il momento adatto per realizzare la bambola più piccola della serie, fino alla successiva che dovrà contenerla. Ogni bambola finita viene coperta con colla amidacea e levigata perché possa essere colorata con vernici, fino ad arrivare alle meravigliose creature che si vedono nei negozi più belli di souvenir. Il pezzo più grande può arrivare fino all’altezza dello stesso artigiano.
Dovete sceglierle con cura, perché sono tutte diverse e le fattezze più o meno delicate. Una bella matrioška di dieci pezzi ben dipinti, può costare anche parecchio, ma la sorpresa nel vederle allineate nel vostro elegante e luminoso salone sarà grande, credetemi.
Troverete la famiglia con le bamboline sale e pepe (per far risaltare l’ospitalità delle famiglie russe), il gruppo di quelle che consumano il rito del tè (se una famiglia invita qualcuno per il tè significa che vuole stringere rapporti d’amicizia più stretti con l’ospite), e quelle delle fiabe popolari(dalla gallina dalle uova d’oro a Cheburashka, personaggio di antiche leggende russe, con gli amici Gena il coccodrillo e Starukha Chapoklavak). Vi sono poi le bambole legate alle festività, alle icone e alla città, con lamine d’oro, a tempera e vernice d’argento.
Recentemente è comparsa anche la Matrioška gay con Elton John, Stephen Fry, George Michael e altri, inviata, lo scorso Natale, al Cremlino e all’ambasciata russa di Londra, dall’agenzia creativa Mother, nell’ambito della campagna “To Russia with love”, promossa dalla ONG per i diritti umani Kaleidoscope Trust in risposta alla recente legge russa contro la “propaganda omosessuale”.
Nel 2009, la moda ha portato alla ribalta questa figurina, nelle versioni di Vogue, nelle trousse di Pupa, nel profumo di Kenzo, nelle borse e gli accessori di Chanel. Muji ne ha fatto una versione nera lavagna perché grandi e piccini vi possano disegnare sopra.
Ma se volete riflettere, leggete il libro di Cristina Comencini Matrioska, dove Antonia, scultrice mutevole, invecchiata e appesantita, si abbandona alle righe di una giovane scrittrice impegnata a scrivere la sua biografia. In questo percorso, si apre e si riempie gradualmente un file, chiamato appunto Matrioška, perché Antonia assomiglia ad una bambola russa dai pomelli rossi che ne contiene altre sempre più piccole. In essa vi sono storie, mille ricordi, relazioni.
Se, invece, volete anche sorridere e intenerirvi, vedetevi l’omonimo cortometraggio animato dell’olandese-canadese Jacobus Willem (Co) Hoedeman, del 1970. Quattro minuti, disponibili in rete, di bamboline che danzano, si aprono, si chiudono e richiudono, si piegano e ripiegano, al ritmo di una piacevole musica russa, con la piccolina che rimane sempre un po’ indietro, come il brutto anatroccolo. Salvo che essa sarà sempre al centro e tutti la aiuteranno a restarvi.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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