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I dialoghi della vagina, nella versione A due piazze, riprendono con un confronto fra Riccarda e Nickname: come riuscire a gestire la fine di una storia? Con l’eutanasia o come un freddo sicario che agisce senza il morso del senso di colpa?

N: Vi siete mai trovati nella veste di un killer? Si, uno che deve ammazzare qualcun altro, con il metodo e la freddezza che gli viene richiesta per non lasciare il lavoro a metà.
E al posto di una persona dovete ammazzare una storia. Una storia piena di radici, di legami intricati, che deperisce piano, un lungo malinconico addio, un’agonia lenta ma ondivaga, con questi fugaci lampi di vita passata a pugnalare le vostre euforie. Con quel groviglio nero di nuvole gonfie che vi occupa la bocca dello stomaco e vi taglia il fiato. E vorreste, con una specie di disperazione, trasformarvi in un infermiere della dolce morte, per regalare alla storia la sua eutanasia, con amorevole determinazione. Con un particolare: non avete avuto il consenso di procedere.

R: Caro Nick, il killer ammazzastorie che vorresti essere e l’angelo della buona morte che non riesci a diventare, sono entrambi nelle mani di un tiranno più forte di loro: il senso di colpa che li disarma ancora prima che agiscano. Ecco perchè la storia, già finita ma ancora in vita, va avanti: i sicari diventano loro stessi vittime impotenti e inermi.
Far finire una storia, poi, è anche rivolgere l’arma verso se stessi: si è stati in due a costruirla e a crederci, almeno per un po’. Cercare il consenso a procedere verso l’eutanasia di un rapporto, non credi sia scivolare in un’altra più greve tirannia?

N: Mi aggrappo all’idea che una storia può finire, non fallire. Il fallimento è un concetto totale, retroattivo. Travolge tutto. Mentre invece tutto finisce, anche quello che ha un senso, o almeno lo ha avuto. Passare dal senso di colpa al senso di responsabilità verso le proprie emozioni vuol dire essere presi per pazzi, per irresponsabili. Vuol dire anche essere messi su un piedistallo o tirati giù, e in entrambi i casi essere soli.

R: Accettazione, Nick, accettazione: che falliamo, finiamo, cambiamo. La responsabilità credo sia questa, vedere il limite, il finis terrae dove il cammino di quella storia deve terminare perché oltre non c’è niente e non si può andare. Ma da un’altra parte, sì.

Come vi siete posti nel chiudere una relazione? Avete agito come un killer su commissione o avete protratto un’agonia fino a subirla?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

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Riccarda Dalbuoni

È addetto stampa del Comune di Occhiobello, laureata in Lettere classiche e in scienze della comunicazione all’Università di Ferrara, mamma di Elena.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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