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Diario in pubblico. Sanremo 2024: cosa pensare? Tempo, ricordi, presente

Dal punto di vista del “diversamente giovane” mi sono imposto di non nutrirmi solo nei ricordi di quel tempo in cui si viveva nel presente e in quello interagivano potentemente passato e futuro. Ora, l’attività del presente porta solo a presagire, per chi scrive questa nota, un futuro che non sai se diverrà presente.

Da qui la necessità che può apparire futile ai miei compagni d’interessi di interrogare il presente anche nelle sue pieghe apparentemente più futili o riprovevoli come, ad esempio, il Festival delle canzonette, che ti dà mostruosamente dilatato ciò che ora si persegue nel tempo politico e purtroppo anche culturale.

Appena vedo la scritta del teatro che ospita la manifestazione mi ritorna in mente il rito che il nonno imponeva per l’audience, che scaturiva rimbombando dalla grossa radio Ducati troneggiante in salotto. E silenzio! Così, sgranocchiando i dolcetti di nonna, mi imbottivo di Grazie dei fiori, Vola colomba, Papaveri e papere e anche di “piove e piove sul nostro amor”.

Crescendo, era d’obbligo per i giovani “promettenti” sdegnare le canzonette (al massimo il jazz americano) per darsi esclusivamente alla musica classica. Così, anche se di nascosto curiosavo tra i programmi radiofonici per ascoltar canzonette, lo sdegno doveva essere palese. Al massimo Mina che, stregato d’amore, ascoltavo alla Bussola del Forte dei Marmi.

Tra un noioso sproloquio del “montanaro” che sbandiera grande complicità con la Berlinguer di Carta bianca comincia la mia ‘visione’ sanremese. Come sghignazzavamo al tempo dell’adolescenza, “Mon dieu de la France che mal à la pance”.

Una vecchietta dai capelli blu e in mutande appare e canta: una voce familiare; poi esce il nome: è la Bertè! Frattanto giovanette in reggicalze e giacche da uomo sbraitano, agitando il microfono come se fossero al mercato. Sono le nuove ‘promesse’. E tutte/i, quasi, indossano occhiali da sole per nascondere cosa? Forse il loro imbarazzo.

Tutto è ambiguo. Perfino cantare Bella ciao o le promesse per i trattoristi o le note, sicuramente sincere, ma un poco sopratono dei soprusi e dei delitti. Ecco dove il Festival coincide con la politica: ambiguità anche nelle buone intenzioni.

Mi si accuserà di essere un vecchio residuo ‘sinistrato’. Può darsi. E allora chiedo alla mia parte: “siate meno ambigui, meno sanremesi, meno politicamente di tutto e di più/meno”. Occorre la semplicità delle idee che solo la cultura (quella vera) può donare o prevedere. Che il resto sia silenzio. Almeno finche il Festival non finisce.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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