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Diario in pubblico. Ancora cronache dal ‘Laido’ 

Sabato 29 luglio un silenzio tombale cade sulla via Zanella: né frese, né martelli pneumatici, né motoseghe. Stupiti i pelosi di casa non si danno per vinti e interrogano, strofinando con il muso il vicino di casa umano o no. Che succede?

Cautamente finestre da tempo chiuse s’aprono al sole, ancor più frenetiche le spazzatrici del Lido riprendono in mano l’arma del potere, la scopa e inneggiano alla Spigolatrice di Sapri, di cui è giusto riportare il testo integrale di Mercantini:

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!/

Me ne andavo al mattino a spigolare,/ quando ho visto una barca in mezzo al mare:/
era una barca che andava a vapore;/ e alzava una bandiera tricolore;/
all’isola di Ponza s’è fermata,/ è stata un poco e poi si è ritornata;/
s’è ritornata ed è venuta a terra;/ sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra./

Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra,/ ma s’inchinaron per baciar la terra,/
ad uno ad uno li guardai nel viso;/ tutti aveano una lagrima e un sorriso./
Li disser ladri usciti dalle tane,/ ma non portaron via nemmeno un pane;/
e li sentii mandare un solo grido:/ «Siam venuti a morir pel nostro lido»./

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro/ un giovin camminava innanzi a loro./
Mi feci ardita, e, presol per la mano,/ gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»/
Guardommi e mi rispose: «O mia sorella,/ vado a morir per la mia patria bella»./
Io mi sentii tremare tutto il core,/ né potei dirgli: «V’aiuti ‘l Signore!»/

Quel giorno mi scordai di spigolare,/ e dietro a loro mi misi ad andare./
Due volte si scontrar con li gendarmi,/ e l’una e l’altra li spogliar dell’armi;/
ma quando fur della Certosa ai muri,/ s’udirono a suonar trombe e tamburi;/
e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille/ piombaro loro addosso più di mille./

Eran trecento, e non voller fuggire;/ parean tremila e vollero morire;/
ma vollero morir col ferro in mano,/ e avanti a lor correa sangue il piano:/
fin che pugnar vid’io per lor pregai;/ ma un tratto venni men, né più guardai;/
io non vedeva più fra mezzo a loro/ quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro./

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!/

L’illusione dura poco. Con un crescendo beethoveniano ritmato dal gorgheggio del capo squadra la sinfonia riprende sempre più forte fino a raggiungere l’usata acutezza di volume. Poi cominciano le spazzolature anche di colleghi maschi della terza/quarta età che s’industriano a levare ogni ago di pino che vien loro sotto la scopa. Mi guardo intorno e rimango accecato da nastri lucenti che sventolano da ogni terrazzo o da ogni balcone. Sono consigliati anche in giornali autorevoli per evitare che il terribile gabbiano scacazzi dove non deve.

Mi abbatto sconsolato nella poltrona in balcone e guardo il passeggio(!) sulla strada. E riscontro giovani seminudi con enormi code, che solo guardando il petto s’indovina a quale sesso appartengono. Camminano serissimi seguendo una guida che non è altro che lo smartphone tenuto come una reliquia. Poi signore in carne addobbatissime, che trascinano borsoni enormi tutti frangiati, seguiti o preceduti da signori, probabilmente loro compagni o sposi, che espongono sempre a mo’ di reliquia i cartoni delle pizze o delle paste.

Dal bagno giungono note di qualche canzone, mentre alla sera rigorosamente non oltre le 11:30, leziose vocette invitano ad alzare le mani seguendo l’insegnamento dei programmi televisivi più popolari. Comunque, il refrigerio dei pini allevia la banalità del luogo e m’incanto ad accarezzare con gli occhi le splendide piante fiorite che il buon Ivo, pazientemente al servizio del divoratore di fiori, conduce in giro per vivai sconsolatamente semivuoti. Benny scuote sconsolato il ricciuto orecchione e, tra una carezza e l’altra di Irina, esprime la sua decisa opposizione a così esagerato amore fluribondo.

Mi spingo sul viale a controllare il nuovo assestamento della passeggiata. Non mi esprimo, ma certo meglio dei monumenta un tempo imperanti.

E così è arrivato agosto, senza il ritornello amore mio non ti conosco… Anzi! Guardo con imbarazzo i lavori che mi aspettano e sogno… sogno antichi tempi quando i luoghi della villeggiatura erano perle preziose lucenti negli oceani.

Ma ad ognuno – ora – il suo.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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